Russia – Azerbaijan, tensioni vecchie e nuove (Osservatorio Balcani e Caucaso 18.09.25)

Più si accentua la conflittualità tra Mosca e Baku, più quest’ultima si allinea all’Ucraina, fornendo aiuti, donazioni e rifornimenti energetici. In risposta, si registra una serie di operazioni russe mirate contro obiettivi legati all’Azerbaijan in territorio ucraino

18/09/2025 –  Marilisa Lorusso

Al recente vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), il presidente azero Ilham Aliyev e il presidente russo Vladimir Putin si sono limitati a una stretta di mano senza alcun incontro bilaterale. Un gesto che riflette le tensioni attuali tra Baku e Mosca.

L’agenzia di stampa azera APA ha pubblicato un articolo secondo cui la Russia avrebbe giocato un ruolo decisivo – insieme all’India – nel bloccare la candidatura dell’Azerbaijan a membro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).

Secondo fonti diplomatiche, Mosca avrebbe lasciato a Nuova Delhi il ruolo di primo piano, pur orchestrando il processo dietro le quinte: un gesto percepito non solo come un affronto a Baku, ma anche come una mancanza di rispetto verso la Cina, che invece sosteneva apertamente l’adesione azera.

Intanto in Russia continuano gli arresti di cittadini azeri e l’atmosfera tesa è legata non solo a frizioni geopolitiche più ampie, ma anche ancora alle conseguenze dell’incidente aereo della compagnia Azerbaijan Airlines (AZAL) il 25 dicembre 2024, e alle narrazioni divergenti su responsabilità e compensazioni.

Il 4 settembre, il ministero degli Esteri russo ha diffuso un comunicato dai toni molto duri, respingendo quelle che ha definito “speculazioni ciniche” dei media riguardo a presunti mancati pagamenti assicurativi.

Mosca ha sottolineato che, dal febbraio 2025, la compagnia assicurativa russa AlfaStrakhovanie ha avviato i pagamenti legati all’incidente. Secondo il ministero, la compagnia aerea ha già ricevuto il valore assicurativo totale dell’aeromobile, mentre i risarcimenti per la maggior parte dei passeggeri e delle loro famiglie — pari finora a 358,4 milioni di rubli — sono stati completati o sono in corso.

La nota ha descritto le critiche dei media come disinformazione deliberata volta a manipolare l’opinione pubblica, invitando a fare affidamento solo su “fonti verificate” e comunicati ufficiali.

Baku ha replicato il giorno successivo accusando Mosca di ingannare l’opinione pubblica, confondendo i risarcimenti assicurativi con la richiesta azera di un indennizzo statale da parte della Russia per l’abbattimento del velivolo.

Il ministero ha ribadito che i pagamenti assicurativi previsti dal contratto di AZAL erano già stati effettuati nei sei mesi precedenti e costituivano un obbligo commerciale, non una responsabilità sovrana. Baku ha inoltre richiamato episodi di violenza etnica contro azeri in Russia e attività ostili di agenzie statali russe come ulteriori fattori di tensione.

Attacchi russi a infrastrutture azere in Ucraina

Nel corso del mese di agosto 2025, la Federazione Russa ha intensificato una serie di operazioni mirate contro obiettivi legati all’Azerbaijan in territorio ucraino.

Il primo episodio documentato risale al 6 agosto, quando un’infrastruttura del gas situata nella regione di Odessa, nei pressi del confine ucraino–romeno, è stata colpita da un attacco missilistico russo.

Secondo il ministero dell’Energia ucraino, la struttura fungeva da snodo fondamentale del gasdotto Trans-Balcano, collegando i terminal di gas naturale liquefatto (GNL) greci ai depositi di stoccaggio ucraini. Tale condotta trasportava anche volumi di prova di gas azero, evidenziando la crescente rilevanza di Baku nel sistema energetico regionale.

A distanza di pochi giorni altri due obiettivi collegati a compagnie statali azere sono stati presi di mira. L’agenzia di stampa ufficiale Azertac ha riferito che il presidente azero Ilham Aliyev e l’omologo ucraino Volodymyr Zelenskyi hanno discusso degli attacchi russi, che avevano colpito un deposito della compagnia SOCAR e nuovamente una stazione di compressione del gas. Entrambi i leader hanno denunciato i raid come deliberati.

I raid si sono ripetuti. Droni russi hanno colpito un deposito di carburante sempre gestito da SOCAR nella regione di Odessa. Il governatore locale Oleh Kiper ha parlato di un incendio in una struttura energetica, mentre i media governativi azeri hanno confermato che il sito fosse legato a SOCAR.

Zelenskyi ha dichiarato che l’attacco al deposito SOCAR fosse stato “deliberato” e finalizzato a colpire non solo l’Ucraina, ma anche le relazioni energetiche tra Kyiv e Baku. Lo stesso giorno, il deputato azero Rasim Musabeyov ha invitato il proprio governo a valutare l’invio di armi a Kyiv per rispondere in maniera proporzionata alle azioni russe.

Parallelamente il Servizio federale di sicurezza russo (FSB) ha annunciato di aver arrestato al confine con l’Azerbaijan un cittadino azero accusato di lavorare per i servizi di sicurezza ucraini. Le accuse riguardano il tentativo di contrabbandare materiali sensibili legati al complesso militare-industriale russo.

Baku non si intimorisce

Nonostante la crescente pressione esercitata da Mosca, Ucraina e Azerbaijan hanno continuato ad approfondire i propri legami, trasformando gli attacchi in un catalizzatore di cooperazione.

Il dialogo tra i presidenti Zelenskyi e Aliyev nella prima decade di agosto si è rivelato centrale. Oltre a condannare i raid contro le infrastrutture SOCAR e contro la stazione di compressione, i due leader hanno ribadito che la cooperazione non sarebbe stata ostacolata.

In segno di solidarietà, Aliyev ha annunciato lo stanziamento di 2 milioni di dollari per l’acquisto e la spedizione di apparecchiature elettriche ucraine, finanziamento incluso nel bilancio statale 2025 dell’Azerbaijan.

A metà mese i media russi hanno riportato che Baku stava considerando di rimuovere l’embargo sulle forniture di armi a Kyiv, ipotesi giudicata da Mosca un rischio per la “risoluzione pacifica” del conflitto. Nonostante le caute smentite, tali speculazioni hanno indicato come l’Azerbaijan stia valutando un ruolo più assertivo a sostegno dell’Ucraina.

Il ministro degli Esteri azero Jeyhun Bayramov ha avuto un colloquio con il suo omologo ucraino Andrii Sybiha. La conversazione ha toccato un ampio spettro di temi, dalle relazioni economiche alla cooperazione nei trasporti, fino alla dimensione umanitaria. È stata inoltre occasione per ribadire il sostegno di Kyiv al processo di pace tra Armenia e Azerbaijan, confermando la volontà di legare le rispettive agende regionali. Iniziative diplomatiche hanno consolidato l’intesa bilaterale.

L’attenzione comune si concentra su tre priorità, quali l’energia, per rafforzare la diversificazione dei flussi verso l’Ucraina, con l’Azerbaijan come attore chiave nel gas caucasico. La politica estera prevede un coordinamento nelle organizzazioni internazionali e sostegno reciproco sui dossier regionali. C’è inoltre un dossier umanitario con programmi di aiuto diretto, come dimostrato dalla donazione annunciata da Aliyev.

Questa traiettoria cooperativa dimostra che gli attacchi russi non hanno né isolato né intimorito Baku, bensì hanno accelerato una convergenza con Kyiv, con implicazioni strategiche sia per il conflitto ucraino sia per gli equilibri nel Caucaso meridionale.

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Genocidio, cosa significa: origine e storia del termine (AdnKronos 17.09.25)

Il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin porta avanti la sua battaglia per il riconoscimento del crimine ancora senza nome prima ancora dell’avanzata dei nazisti in Europa

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17 settembre 2025 | 13.54
LETTURA: 6 minuti

E’ stato l’ebreo polacco Raphael Lemkin, sconvolto dal massacro degli armeni nell’impero ottomano, a dedicare la sua vita, sin dall’inizio degli anni Venti del Novecento, prima ancora che i nazisti lo costringessero a fuggire negli Stati Uniti, al riconoscimento del ”crimine senza nome”, come lo aveva descritto Wiston Churchill nel discorso del 24 agosto del 1941 di denuncia del progetto dei nazisti per la distruzione degli ebrei.

Fu solo dopo una lunga riflessione che Raphael Lemkin coniò il termine “genocidio” che venne accolto dalla comunità internazionale dopo molti anni ancora. Nel dicembre del 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite riunita a Parigi approva l’introduzione della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, entrata in vigore nel gennaio del 1951, ratificata in Italia già nel 1952, negli Stati Uniti solo nel febbraio del 1986.

La lotta di Raphael Lemkin per il riconoscimento del termine

La storia di Raphael Lemkin e quella del termine genocidio inizia quando, studente di filologia a Leopoli legge dell’assassinio a Berlino, il 14 marzo del 1921, di Talaat Pascià l’ex ministro degli interni turco responsabile del massacro degli armeni, da parte di un sopravvissuto, Sogomon Tehlirian. ‘E’ reato per Tehlirian uccidere un uomo, ma non lo è per il suo oppressore uccidere più di un milione di uomini? Questo è quanto di più incoerente possa esistere”, cominciò subito a chiedere, inascoltato, Lemkin, prima di trasferirsi alla facoltà di legge, per diventare giurista e dedicarsi a tempo pieno alla questione dell’impunità di cui godevano i responsabili di assassini di massa.

Nel 1933, pubblico ministero per il Tribunale distrettuale di Varsavia, Lemkin presenta in una conferenza a Madrid il suo primo progetto per punire le pratiche di ”barbarie” e ”vandalismo”, vale a dire la distruzione di gruppi di persone e di un patrimonio culturale, “l’essenza di quello che avrebbe poi definito genocidio” – come scrive Gariwo, la fondazione che opera per far conoscere e promuovere le storie di chi ha scelto il Bene, anche nei momenti più bui della storia – e di una legge che protegga i Paesi e le minoranze, un pensiero che il giurista inizia a maturare nei boschi in cui si rifugia dopo che i tedeschi bombardano il treno su cui era fuggito da Varsavia pochi giorni dopo l’invasione della Polonia da parte della Wermacht.

Una volta arrivato in America, Lemkin, che aveva denunciato ben prima del settembre del 1939 che l’Europa stava andando incontro a una catastrofe, porta avanti un’altra battaglia, per sollecitare l’intervento degli Stati Uniti, bloccare i nazisti e salvare le vite di milioni di civili innocenti.

L’ispirazione dalle memorie di George Eastman e il suo ‘Kodak’

La sua formazione di filologo lo porta a capire l’importanza di scegliere con cura il termine con cui connotare lo sterminio di massa, ma anche la deportazione di massa e lo sfruttamento economico, la morte progressiva per inedia e la soppressione della cultura di un popolo e della sua trasmissione. Legge, con particolare attenzione le memorie di George Eastman, e di come coniò il termine ‘Kodak’ per dare nome alla sua nuova macchina fotografica, un termine che non poteva essere usato in altri contesti, esattamente come quello che cercava lui. Che era interessato pero’ anche a una parola che fosse capace anche di raggelare il sangue, come ha ricostruito Samantha Power nel suo libro sulla storia dei genocidi “Voci dall’inferno” pubblicato nel 2002.

Da che deriva l’espressione genocidio

Fu così che nel 1946 Lemkin associò alla radice ”geno” in greco significa razza, tribu’, con il suffisso ‘cidio”, dal tema del verbo latino tagliare, uccidere. Il primo ad accettare il nuovo termine fu il Webster’s. Nel 1953 fu introdotto nell’Enciclopedia Larousse. L’Oxford English Dictionary lo fece nel 1955.

”Sembra incoerente con i nostri concetti di civiltà stabilire che vendere una droga a un individuo sia una questione di interesse mondiale, mentre gasare milioni di essere umani è un problema di esclusivo interesse interno” aveva scritto in una lettera inviata al New York Times, una delle moltissime missive che scrisse negli anni a quotidiani, governi, parlamenti, Presidenti, incluso Roosvelt. “Sembra anche incoerente con la nostra filosofia di vita che il rapimento di una donna a fini di prostituzione sia un crimine internazionale mentre la sterilizzazione di milioni di donne resta un affare di stato interno allo stato in questione”.

Chi era Raphael Lemkin

Lemkin è nato il 24 novembre dl 1900 a Wolkowysk, oggi in Bielorussia allora nell’impero russo. E’ la madre, pittrice, linguista e studiosa di filosofia, a istruirlo, dal momento che agli ebrei è vietato studiare nelle città russe. Durante la prima guerra mondiale i Lemkin sono costretti a sotterrare libri e oggetti di valore e si nascondono in una foresta. Sopravvive, studia. Impara a parlare nove lingue, e riesce a leggerne 14. Dopo la laurea in legge e il brillante inizio di carriera come procuratore, viene costretto a dimettersi, accusato di voler fare gli interessi solo degli ebrei e non di tutti i polacchi con la sua proposta per l’introduzione dei crimini di guerra di barbarie e vandalismo.

Arriva negli Stati Uniti nel 1941. I nazisti sono responsabili della morte di 49 suoi parenti. Scrive il libro ‘Axis Rule’ in cui, in 712 pagine che avrebbero dovuto nelle sue intenzioni essere rivolto a tutti, raccoglie tutte le leggi anti semite in vigore nei 19 Paesi, occupati dalla Germania, e in cui per la prima volta compare il termine di genocidio.

Dopo il processo di Norimberga, opera con tutte le sue energie per fare approvare la Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio all’Onu, “accampandosi ogni giorno tra i corridoi della sede alla ricerca di funzionari da convincere”. Insiste nel sottolineare che il genocidio può avvenire anche in contesti di pace e non è associato esclusivamente allo sterminio fisico. Muore a 59 anni a New York il 28 agosto del 1959 “senza amici, senza un soldo e solo”.

Gli articoli della Convenzione

La Convenzione è composta da 19 articoli, il primo dei quali “conferma che il genocidio, che sia commesso in tempo di pace o in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale”. Genocidio significa, spiega il secondo articolo della Convenzione, il compimento di almeno una delle seguenti azioni “con l’intento di distruggere, in parte o nel tutto, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”: l’uccisione di membri del gruppo, lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo, il trasferimento forzato di minorenni da un gruppo a un altro.

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Mostra “Ohannés Gurekian. Modernità Futura / Future Modernity” – (Treviso Today 17.09.25)

QuandoDal 18/09/2025 al 28/09/2025Orario non disponibile
PrezzoGratis
Altre informazioni
’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Treviso presenta la mostra “Ohannés Gurekian. Modernità Futura / Future Modernity”, ospitata al Palazzo dei Trecento dal 18 al 28 settembre 2025.

L’esposizione ripercorre la figura di Ohannés Gurekian (1902–1984), ingegnere e architetto di origini armene che ha intrecciato la sua biografia con la città di Asolo, le valli agordine e le Dolomiti. Una personalità singolare nel panorama dell’architettura moderna italiana, capace di integrare progettazione architettonica, cultura costruttiva locale, ingegneria idraulica e attenzione al paesaggio montano.

Il percorso espositivo propone un dialogo tra i materiali d’archivio e una ricerca fotografica contemporanea. Cinque fotografi – Mattia Balsamini, Marco Cappelletti, Allegra Martin, Silvia Possamai e Pietro Savorelli – hanno indagato alcune delle opere di Gurekian, offrendo uno sguardo nuovo e personale, a tratti poetico e fortemente legato alla natura.

La mostra si inserisce in una riflessione critica sul tema del recupero del moderno, ponendo l’attenzione sulla possibilità di rileggere e conservare l’architettura del Novecento come risorsa fondamentale per il progetto contemporaneo, con particolare riferimento alla sostenibilità, al rapporto con il contesto, alla qualità costruttiva e alla tutela del patrimonio. La mostra si propone, inoltre, di intercettare studenti e giovani progettisti (architettura, design, arti visive), stimolando una riflessione critica e contemporanea sull’eredità dell’architettura moderna attraverso il linguaggio fotografico e la rilettura dei temi di contesto e identità. Allo stesso tempo, vuole trasmettere un messaggio più ampio e condiviso, che invita tutti i visitatori a riscoprire il valore della tradizione moderna come spunto per un progetto sostenibile e consapevole del nostro presente e futuro.

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Profilo biografico
Discendente di due importanti famiglie armene, Ohannés Gurekian nacque nel 1902 a Costantinopoli e si trasferì con la famiglia a Roma nel 1907. Studiò al Collegio Armeno Moorat Raphaël di Venezia e si laureò in Ingegneria Civile e Idraulica all’Università di Padova, partecipando negli anni giovanili ai movimenti per l’indipendenza armena. Dopo gli studi lavorò a Torino nello studio di Ballatore di Rosana e successivamente si stabilì a Frassené, nel Bellunese, dove avviò la sua attività professionale e coltivò la passione per l’alpinismo, diventando socio del CAI di Agordo, di cui fu presidente dal 1933 al 1946. Tra le sue imprese alpinistiche, l’apertura di una via sulla Torre Sattler e l’ascensione della Torre Armena, da lui così battezzata in ricordo delle origini.

Fu promotore dello sviluppo turistico di Frassené, dove nel 1930 fondò la prima Pro Loco italiana, e contribuì alla costruzione di rifugi alpini come il Cesare Tomé al Passo Duran. Come ingegnere si impegnò nella salvaguardia dell’architettura tradizionale alpina, opponendosi a modelli estranei e realizzando, nel dopoguerra, progetti gratuiti per la ricostruzione dei centri distrutti, come a Caviola. Frequentò corsi di Architettura a Losanna senza completare il titolo e si dedicò a urbanistica ed edilizia pubblica. Morì ad Asolo nel 1984.

L’inaugurazione della mostra è prevista per giovedì 18 settembre alle ore 17.00, con visita guidata e a seguire ARCH_Talk alle ore 17.45.


Mostra “Ohannés Gurekian. Modernità Futura / Future Modernity”
https://www.trevisotoday.it/eventi/mostra-ohannes-gurekian-2025.html
© TrevisoToday

Caucaso, la commissaria Marta Kos visita Azerbaigian e Armenia (Eunews 17.09.25)

Bruxelles – L’Ue cerca di tenersi stretto il Caucaso meridionale, provando a puntellare la sua presenza in quell’angolo di mondo, da sempre considerato dalla Russia come propria zona di interesse e oggi più strategico che mai. La commissaria all’Allargamento Marta Kos ha cominciato oggi (17 settembre) un viaggio di quattro giorni che la porterà a visitare Azerbaigian e Armenia, nel tentativo di rinsaldare i legami coi due Paesi mentre sembra avvicinarsi la firma di uno storico accordo di pace tra Baku e Yerevan.

Kos arriverà stasera nella capitale azera, dove domani incontrerà il capo di Stato Ilham Aliyev ed alcuni membri di punta dell’esecutivo. I colloqui si incentreranno soprattutto sugli interessi economici comuni, con buona pace delle preoccupazioni per le sistematiche violazioni dei diritti umani nel Paese, governato in maniera autoritaria dal presidente 63enne.

Ma gli affari sono affari, soprattutto in tempi di dazi. Così si parlerà in primis delle forniture energetiche verso il Vecchio continente (Baku è grande produttrice di petrolio e gas naturale, lo stesso che arriva in Puglia attraverso il Tap), ma anche dei grandi progetti infrastrutturali in questo crocevia strategico tra Europa, Medio Oriente ed Asia Centrale, come da copione in base alla nuova strategia Ue per il Mar Nero.

La commissaria si recherà poi presso la cittadina di Aghdam, dove sono ancora in corso le attività di sminamento iniziate dopo la conclusione del decennale conflitto nel Nagorno-Karabakh, scoppiato nel 1992 e terminato nel settembre 2023 con la resa dei separatisti armeni. Venerdì (19 settembre) partirà dunque alla volta dell’Armenia, dove vedrà il presidente Vahagn Khachaturyan, il premier Nikol Pashinyan e alcuni ministri. Anche qui ribadirà la volontà dell’esecutivo comunitario di approfondire la cooperazione bilaterale, mettendo al centro gli scambi commerciali e la connettività regionale.

Il tour caucasico di Kos non arriva in un momento qualunque. Coincide al contrario con una fase cruciale del processo di normalizzazione tra Armenia e Azerbaigian, avviato ormai da tempo ma accelerato vistosamente nell’ultimo anno. Dopo oltre 30 anni di guerra, le due repubbliche hanno deciso di mettere mano all’arsenale diplomatico e stanno lentamente progredendo verso la stipula di un accordo che, se concluso, potrebbe finalmente portare stabilità all’intera regione.

Ilham Aliyev Donald Trump Nikol Pashinyan
Da sinistra: il presidente azero Ilham Aliyev, quello statunitense Donald Trump e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan (foto: Andrew Caballero-Reynolds/Afp)

La mediazione statunitense ha impresso una svolta potenzialmente decisiva alla vicenda. Lo scorso 8 agosto Donald Trump ha ospitato Aliyev e Pashinyan alla Casa Bianca: dal trilaterale è emersa una dichiarazione congiunta in sette punti che ha costituito la base su cui, qualche giorno dopo, Baku e Yerevan hanno tratteggiato una bozza di trattato di pace in 27 articoli, modellata sul testo concordato lo scorso marzo.

Il documento tocca le principali questioni al centro della decennale contesa tra i due Paesi. A partire dal corridoio di Zangezur, un passaggio terrestre voluto dall’Azerbaigian per collegarsi alla propria exclave del Nachichevan, incastonata tra Armenia, Iran e Turchia. Il tracciato dell’opera, che verrà realizzata con la partecipazione delle imprese a stelle e strisce (alle quali spetteranno i diritti di sviluppo esclusivi per 99 anni), correrà lungo il confine armeno-iraniano ed è stata ribattezzata Trump Route for International Peace and Prosperity, cioè letteralmente “Strada di Trump per la pace e la prosperità internazionali”, acronimo Tripp.

Nell’agenda pesa la gestione del post-conflitto nell’ex enclave armena. Baku non intende firmare il trattato finché Yerevan non rimuoverà dalla propria Costituzione alcuni riferimenti alla riunificazione del Nagorno-Karabakh col territorio nazionale. L’Armenia sta riscrivendo la sua Carta fondamentale, ma le modifiche andranno approvate da un referendum popolare, che potrebbe venir convocato solo nel 2027 (il prossimo giugno si terranno le elezioni politiche). Rimane poi la doppia questione dei prigionieri armeni nelle carceri azere e degli sfollati del Nagorno-Karabakh.

Oltre che sul piano economico, tuttavia, il progresso nelle trattative bilaterali è estremamente rilevante dal punto di vista geopolitico e strategico. Da un lato, l’accordo (per quanto provvisorio) certifica la perdita di centralità della Federazione, ora che la guerra in Ucraina le impedisce di intervenire in un’area che ha tradizionalmente considerato la sua diretta sfera d’influenza.

Ursula von der Leyen Nikol Pashinyan António Costa
Da sinistra: la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente del Consiglio europeo António Costa (foto: Consiglio europeo)

Seppur per ragioni diverse, tanto Baku quando Yerevan si stanno progressivamente allontanando da Mosca per diversificare la propria politica estera e le rispettive reti di alleanze. Se l’Azerbaigian mira a stringere ancora di più il rapporto con la Turchia, l’Armenia sta muovendo i primi passi verso una lenta integrazione con l’Ue.

A marzo il Parlamento armeno ha impegnato il governo a richiedere formalmente lo status di Paese candidato. Bruxelles, che ha sempre incoraggiato gli sforzi di riconciliazione con Baku, collabora già con Yerevan in diversi ambiti – dall’assistenza finanziaria alla missione civile Euma (che potrebbe venire smantellata proprio in virtù del futuro trattato, dove si proibisce la presenza di truppe straniere lungo il confine) – e i vertici comunitari si sono recentemente complimentati per i progressi compiuti in tal senso dal piccolo Stato caucasico.

Nel suo peregrinare per la regione, la commissaria Kos si terrà invece alla larga dalla Georgia, l’unico Paese dell’area ufficialmente candidato all’ingresso nel club a dodici stelle. In realtà, qui il percorso di adesione è congelato da tempo a causa dell’autoritarismo crescente del governo – che conculca le libertà dei cittadini e reprime brutalmente il dissenso – e allo scivolamento di Tbilisi verso l’orbita del Cremlino.

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Armenia: amb. Ferranti con vice primo ministro armeno, Khachatryan (Giornale Diplomatico 17.09.25)

GD – Jerevan, 17 set. 25 – L’ambasciatore italiano in Armenia, Alessandro Ferranti, è stato ricevuto dal vice primo ministro armeno, Tigran Khachatryan.
L’incontro ha rappresentato un’importante occasione di confronto in merito allo stato della cooperazione su temi di interesse comune e sulle prospettive di rafforzamento del rapporto tra Italia e Armenia, con particolare attenzione al settore culturale e tecnologico.
Il vicepremier Khachatryan ha espresso apprezzamento per l’attuale dinamica delle relazioni bilaterali, sottolineando in particolare l’intensificazione degli scambi commerciali ed economici tra i due Paesi ed esprimendo fiducia in una loro ulteriore espansione.

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Amb. Ferranti vede Presidente Comitato Anticorruzione Armenia

“Sognando l’Armenia” il 21 settembre 2025 (PadovaOggi 17.09.25)

DoveVilla Draghi

Via Enrico Fermi, 1

Montegrotto Terme

QuandoDal 21/09/2025 al 21/09/202517
PrezzoGratis
Altre informazioniSito web associazionevilladraghi.org

Sognando l’Armenia è un progetto musicale nato dalla collaborazione tra il musicista e flautista Veneto Giuseppe Dal Bianco e la cantante danzatrice musicista armena Sona G. HakoByan.  Lo spettacolo in forma di concerto, ha l’intento di far conoscere al pubblico italiano la musica tradizionale armena, eseguita con strumenti originali, con la danza e il canto. Nello stesso tempo, desidera rendere omaggio alla memoria dell’immensa tragedia che ha colpito il popolo armeno nel 1915, il genocidio degli Armeni, di cui quest’anno ricorrono i 110 anni.

Musiche e danze armene con:

– Sona G. Hakobyan – canto, danza e bloul
– Giuseppe Dal Bianco – duduk e flauto

Introduce il prof. Pier Paolo Faggi “Armenia: ieri e oggi”.


“Sognando l’Armenia” il 21 settembre 2025
https://www.padovaoggi.it/eventi/sognando-armenia-associazione-villa-draghi-21-settembre-2025.html
© PadovaOggi

Il seducente miraggio della salvezza europea dell’Armenia (Marx21 17.09.25)

Nel marzo 2025, il parlamento armeno ha approvato con 64 voti una storica legge che sancisce l’adesione all’UE, un momento che il primo ministro Nikol Pashinyan ha salutato come “l’inizio del processo di integrazione europea dell’Armenia”. La scena era stata accuratamente coreografata: bandiere europee, retorica altisonante sui valori democratici e promesse di salvezza dalla dipendenza post-sovietica.

Tuttavia, i numeri dietro questa messinscena teatrale rivelano una storia completamente diversa. Mentre Pashinyan proclamava il “destino europeo” dell’Armenia nel suo discorso al Parlamento europeo del 2023, il commercio dell’Armenia con l’UE è diminuito del 14,1%, arrivando a rappresentare solo il 7,5% del commercio totale. Nel frattempo, il commercio con l’EAEU, dominato dalla Russia, è aumentato del 68,3%, arrivando a rappresentare il 42% dell’attività economica dell’Armenia.

Il pacchetto di aiuti europei da 270 milioni di euro, propagandato come prova dell’impegno di Bruxelles, rappresenta meno dell’1% del PIL dell’Armenia distribuito su quattro anni. Questo è il prezzo che l’Europa paga per l’anima geopolitica di una nazione: spiccioli mascherati da partenariato strategico.

La leadership armena ha venduto al proprio popolo un sogno seducente di prosperità e sicurezza europee. Sette anni dopo, il miraggio si sta dissolvendo nella dura realtà.

Il grande tradimento: quando gli alleati diventano nemici

La distruzione sistematica delle alleanze tradizionali dell’Armenia si è svolta con precisione chirurgica. Nel febbraio 2024, Pashinyan ha annunciato che l’Armenia aveva “congelato” la sua partecipazione alla CSTO, l’alleanza militare che aveva garantito la sicurezza armena per decenni. A dicembre, ha dichiarato che l’Armenia aveva superato “il punto di non ritorno”.

L’incendio diplomatico ha subito un’accelerazione. L’Armenia ha espulso le guardie di frontiera russe dall’aeroporto di Zvartnots nel marzo 2024, poi dal strategico checkpoint di Agarak con l’Iran a dicembre. Il Paese ha smesso di pagare i contributi al bilancio della CSTO, mettendo di fatto in bancarotta la propria garanzia di sicurezza.

I sondaggi di opinione pubblica hanno catturato l’odio artificiale: la fiducia dell’Armenia nella Russia è crollata dal 93% nel 2019 al solo 31% nel 2024, il più ripido riallineamento geopolitico nella storia post-sovietica. Tuttavia, la Russia fornisce ancora l’87,5% del gas dell’Armenia e controlla l’intera rete di distribuzione.

L’Armenia ha rotto le sue precedenti alleanze, ma è rimasta dipendente da coloro che da tempo garantivano la sua sicurezza e il suo approvvigionamento energetico. La risposta di Mosca è stata misurata: i funzionari hanno parlato della necessità di “rivalutare le relazioni” e di esplorare nuovi modelli di cooperazione.

100.000 fantasmi: la silenziosa testimonianza dell’Europa alla pulizia etnica

Il 19 settembre 2023 è diventato il banco di prova decisivo dell’impegno dell’Europa a proteggere l’Armenia. Mentre le forze azere lanciavano la loro offensiva finale contro il Nagorno-Karabakh, le istituzioni europee hanno affrontato la loro prima vera crisi da quando avevano promesso all’Armenia partnership e sicurezza.

Il risultato è stato un silenzio catastrofico. Nel giro di una settimana, 100.400 persone di etnia armena, pari al 99% della popolazione della regione, sono fuggite dalla loro patria ancestrale. La missione dell’Unione Europea in Armenia, di stanza a pochi chilometri di distanza con un budget di 44 milioni di euro e 209 osservatori, ha documentato l’esodo ma non è riuscita a impedire una sola deportazione.

La risposta dell’Europa ha rivelato la vacuità delle sue promesse in materia di sicurezza. L’UE ha stanziato 12 milioni di euro in aiuti umanitari, circa 120 euro per rifugiato, mentre 196.000 persone avevano bisogno di assistenza. Il Parlamento europeo ha approvato risoluzioni che condannavano l’“uso ingiustificato della forza” da parte dell’Azerbaigian, ma le parole si sono rivelate inutili contro i carri armati.

La cosa più grave è stata la tempistica: questa pulizia etnica si è verificata proprio quando l’Armenia aveva abbandonato le sue tradizionali garanzie di sicurezza a favore della protezione europea. Bruxelles aveva incoraggiato il divorzio, ma si è rivelata un guardiano assente quando è scoppiata la crisi.

Lo Stato ostaggio: l’isolamento mascherato da indipendenza

La mossa europea dell’Armenia non ha portato alla liberazione, ma all’accerchiamento. Il Paese che un tempo era in equilibrio tra potenze rivali si trova ora circondato da vicini sempre più ostili, che sfruttano la vulnerabilità strategica di Yerevan.

L’accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian dell’agosto 2025 ha sintetizzato questo isolamento: l’Armenia ha concesso agli Stati Uniti i diritti esclusivi di sviluppo di un corridoio di transito attraverso il suo territorio sovrano, la “Trump Route for International Peace and Prosperity” (Strada Trump per la pace e la prosperità internazionale). Questo contratto di locazione di 99 anni della provincia di Syunik non rappresenta un atto diplomatico, ma una capitolazione sotto pressione.

La Turchia, nonostante l’apertura senza precedenti di Pashinyan, mantiene la chiusura delle frontiere e rafforza i legami militari con l’Azerbaigian. La Dichiarazione di Shusha del 2021 ha formalizzato questo asse, creando miliardi di aiuti militari turchi che l’assistenza europea non può eguagliare.

Persino l’Iran, l’ultimo partner regionale dell’Armenia, ha rifiutato il progetto del corridoio, minacciando di bloccarlo “con o senza la Russia”. Teheran considera destabilizzante il pivot occidentale dell’Armenia, preferendo la prevedibile disfunzione dell’equilibrio regionale alle rotte di transito gestite dagli americani.

L’Armenia ha scambiato l’autonomia strategica con le promesse occidentali, solo per scoprire che l’isolamento si maschera male da indipendenza.

L’illusione da 270 milioni di euro: gli spiccioli dell’Europa per l’anima di una nazione

Le promesse economiche europee si sono dissolte sotto il vaglio matematico. Il fatturato del commercio esterodell’Armenia è crollato del 52,9% all’inizio del 2025, mettendo a nudo la fragilità di un’economia costruita su miraggi europei piuttosto che su basi sostenibili.

Gli 10 milioni di euro di aiuti militari del Fondo europeo per la pace, salutati come una svolta storica, servono ad acquistare tendopoli e attrezzature mediche. Il bilancio della difesa dell’Azerbaigian, pari a 5 miliardi di dollari, fa impallidire questo gesto simbolico con un rapporto di 350 a 1. Nel frattempo, l’Armenia ha firmato contratti disperati per la fornitura di armi con l’India per un valore di 1,5 miliardi di dollari, alla ricerca di alternative di sicurezza reali che l’Europa non è in grado di fornire.

Il crollo delle rimesse racconta la vera storia: i trasferimenti dai lavoratori armeni all’estero, prevalentemente in Russia, sono diminuiti drasticamente nel 2024 a causa del “fattore Russia”. Queste rimesse, che costituiscono oltre il 14% del PIL, rappresentano l’effettiva ancora di salvezza economica dell’Armenia, non le sovvenzioni europee distribuite su più anni.

Anche la diversificazione energetica rimane fittizia: l’Armenia importa l’87,5% del suo gas naturale dalla Russia attraverso gasdotti che l’Europa non può sostituire. La Banca Mondiale prevede un rallentamento della crescita dell’Armenia al 4,6% entro il 2026, poiché l’alternativa europea non riesce a concretizzarsi in una trasformazione economica sostenibile.

Punto di non ritorno: la Repubblica orfana

Sette anni dopo aver proclamato il suo destino europeo, l’Armenia si trova ad affrontare la dura realtà delle aspettative deluse. Il referendum sull’adesione all’UE ha ottenuto solo il 49% dei consensi, con il 31% che ha rifiutato di partecipare: un’apatia notevole nei confronti della presunta salvezza geopolitica dell’Armenia.

L’Armenia si trova di fronte all’impossibilità matematica di aderire contemporaneamente all’EAEU e all’UE, intrappolata in scelte binarie che eliminano la flessibilità strategica. Il dialogo sulla liberalizzazione dei visti, avviato in pompa magna, rimane in fase preliminare, mentre i confini dell’Armenia con la Turchia e l’Azerbaigian rimangono chiusi.

L’errore fondamentale del Paese è stato quello di perseguire l’allineamento ideologico piuttosto che la diversificazione pragmatica. L’Armenia ha abbandonato la diplomazia multivettoriale, l’attento equilibrio che ha sostenuto le piccole nazioni nel corso della storia, per la seducente promessa dell’integrazione occidentale, che si è rivelata strutturalmente incompatibile con la realtà geografica ed economica dell’Armenia.

La rivoluzione di Pashinyan prometteva la liberazione dai vincoli. Invece, ha prodotto un orfano strategico: una nazione politicamente isolata, economicamente dipendente dai partner che aveva alienato e territorialmente vulnerabile ai vicini che non può scoraggiare. L’Armenia ha scoperto che le buone intenzioni non possono sostituire la logica geografica e che gli accordi di partenariato non possono sostituire le garanzie di sicurezza.

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Crisi Baku-Mosca: facciamo il punto (EastJournal 16.09.25)

Ci eravamo già occupati, alcuni mesi fa, della crisi tra la Federazione Russa e l’Azerbaigian, nata in seguito allo schianto dell’aereo di Azerbaijan Airlines diretto a Grozny. Oggi, alla luce degli sviluppi più recenti, è il momento di fare il punto sulla situazione.

Sviluppi recenti

Innanzitutto, la notizia del rafforzamento della presenza militare russa in Armenia attraverso la base militare di Gyumri ha avuto ampia risonanza. La base – più conosciuta come la 102ª base militare – è la più grande installazione russa nella regione, istituita nel 1995 operativa fino al 2044. La Direzione principale dell’intelligence ucraina (HURha pubblicato un telegramma dell’attuale capo di stato maggiore del Distretto Militare Meridionale della Russia contenente l’ordine di “rafforzare” la base di Gyumri attraverso “ulteriori assunzioni di personale”.

Nonostante il rapporto ucraino, la portavoce del Ministero degli Esteri armeno ha smentito, affermando che: “In risposta a certi rapporti fabbricati che circolano sui media, la Repubblica d’Armenia ribadisce la propria posizione di principio, secondo cui il territorio della Repubblica d’Armenia non può essere utilizzato da Paesi terzi per compiere azioni militari contro nessuno degli Stati vicini.” Alcuni hanno interpretato la notizia come conseguenza delle relazioni tese tra Russia e Armenia, mentre altri l’hanno vista come una mossa volta a scoraggiare l’Azerbaigian con la minaccia di una potenziale escalation militare attraverso il territorio armeno.

A luglio, il presidente azero Ilham Aliyev ha annunciato che il Paese è pronto a intentare cause presso tribunali internazionali contro la Russia in merito allo schianto dell’aereo di Azerbaijan Airlines del 25 dicembre 2024.

Più recentemente, invece, secondo il media azero Minval, il capo della diaspora azera nella regione di Ivanovo in Russia è stato costretto a ritirare la propria candidatura alle elezioni municipali a causa di “una vasta campagna di denigrazione […] su basi etniche.” Episodio che, a detta di Baku, si inserisce nella scia delle numerose azioni e discriminazioni contro cittadini azeri in Russia.

Inoltre, come già menzionato in un precedente articolo, a seguito delle tensioni politiche tra Baku e Mosca, Aliyev ha ribadito il proprio sostegno all’Ucraina e ai legami economici e politici reciproci. Gli sviluppi in territorio ucraino hanno ulteriormente aggravato le relazioni con la Russia. In agosto, droni russi hanno colpito un deposito petrolifero nell’oblast di Odessa appartenente alla compagnia statale azera SOCAR, ferendo quattro dipendenti.

In seguito a tale evento, Zelensky e Aliyev hanno avuto una conversazione telefonica in cui hanno congiuntamente condannato i recenti attacchi e riaffermato la volontà di portare avanti la cooperazione energetica tra Ucraina e Azerbaigian. Zelensky ha sottolineato come gli attacchi siano diretti non solo contro le infrastrutture, ma anche contro la collaborazione bilaterale, mentre Aliyev ha garantito che i rapporti proseguiranno. I due Paesi intrattengono da anni legami stretti in ambito energetico e commerciale: Kyiv importa petrolio e gas da Baku, e la compagnia SOCAR ha ampliato i propri investimenti nelle infrastrutture ucraine. Prima dell’invasione russa del 2022, l’Azerbaigian aveva fornito anche equipaggiamenti militari, tra cui droni e veicoli blindati; dall’inizio della guerra, tuttavia, ha mantenuto una politica di non invio di armi, limitandosi a fornire assistenza umanitaria all’Ucraina sotto forma di attrezzature energetiche, sostegno finanziario e infrastrutturale, per un valore superiore ai 40 milioni di dollari.

Pochi giorni fa, l’8 settembre, il Servizio di Sicurezza Federale russo (FSB) ha dichiarato di aver arrestato un cittadino azero accusato di preparare un attentato contro edifici delle forze dell’ordine nello Stavropol’ su incarico dell’Ucraina.

Parallelamente, la Russia ha arrestato un uomo – di nazionalità ignota – e già ricercato dall’Azerbaigian per motivi legati al terrorismo. RIA Novosti ha aggiunto che le forze dell’ordine russe hanno ricevuto informazioni sul sospettato attraverso “canali di comunicazione urgenti contenenti una richiesta per la sua detenzione” e che Baku sembra intenzionata a richiedere l’estradizione. Questo mostra in qualche modo la prosecuzione delle relazioni in determinate circostanze.

Relazioni politiche vs economiche

Le relazioni economiche infatti continuano. Dal lato russo è stato dichiarato che i rapporti si stanno sviluppando positivamente sul piano economico e che i due Paesi sono in costante contatto. La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha confermato questo orientamento, aggiungendo che la liberazione di 13 cittadini russi potrebbe rappresentare un passo importante verso la normalizzazione dei rapporti tra Mosca e Baku.

Lo stesso presidente russo, citato da Interfax, ha affermato che, nonostante i problemi esistenti tra Mosca e Baku, “i rapporti fondamentali tra Azerbaigian e Russia e l’interesse reciproco per il loro sviluppo metteranno infine ogni cosa al suo posto.” Ad esempio, le esportazioni russe di gas verso l’Azerbaigian hanno raggiunto i 141,6 milioni di metri cubi nel 2024.

Sviluppi regionali

Nell’ultimo mese hanno avuto luogo importanti sviluppi riguardanti il Caucaso meridionale e quindi anche il ruolo di Mosca nella regione.

L’8 agosto 2025, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev – insieme a Donald Trump – hanno firmato l’“Accordo sull’instaurazione della pace e delle relazioni interstatali tra la Repubblica d’Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian” come preludio di un possibile accordo di pace duraturo. L’accordo prevede che le parti rinuncino a ogni rivendicazione territoriale, si astengano dall’uso della forza e si impegnino a rispettare il diritto internazionale. Punto fondamentale è lo sviluppo e la costruzione del TRIPP (Trump Route for International Peace and Prosperity), di cui gli Stati Uniti hanno ottenuto i diritti esclusivi per i prossimi 99 anni. Si tratta di un corridoio commerciale che collegherà l’Azerbaigian e l’exclave del Nakhchivan attraverso la regione armena Syunik. Ciò dovrebbe operare da deterrente da un’ulteriore invasione azera in territorio armeno.

L’accordo è dunque avvenuto senza la presenza di Mosca e ha portato alla dissoluzione del Minsk Group dell’OSCE – di cui la Federazione Russa era parte integrante –, che era stato il principale organo di mediazione tra Azerbaigian e Armenia durante il conflitto del Nagorno-Karabakh.

Per Mosca si tratta di una fase delicata, in cui cerca di preservare la propria presenza e il proprio controllo nella regione, ma che deve essere riconsiderata alla luce della crescente influenza dell’Azerbaigian e dell’Occidente. Una dinamica resa ancora più evidente dal (più o meno) progressivo avvicinamento tra Armenia e Azerbaigian e dal tentativo di normalizzare i rapporti tra Armenia e Turchia, processi che riducono il peso di Mosca nello scenario regionale. La crisi tra Baku e Mosca appare dunque come il sintomo di una più ampia rinegoziazione dei ruoli e delle sfere d’influenza nel Caucaso.

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La coltivatrice armena che ha mollato il lavoro fisso per fare agricoltura bio vicino Viterbo (Cibotodau 16.09.25)

Orto di Gelso è una piccolissima realtà agricola a Nepi, vicino Viterbo. Avviata dall’armena Hasmik Ghazaryan, che dopo aver lavorato nelle istituzioni internazionali oggi coltiva asparagi, fragole e frutta in regime biologico

Ameno di un’ora da Roma, a Nepi in provincia di Viterbo e in una zona collinare perfettamente collocata, tra boschi e coltivazioni, c’è una piccola azienda agricola seguita con attenzione artigianale. Si chiama Orto di Gelso e non è una tenuta di famiglia né una proprietà ereditata: è un campo cercato, scelto e avviato da sola, metro per metro, da Hasmik Ghazaryan, nata in Armenia, ma cresciuta nella Capitale. Niente grandi macchinari, niente serre né chimica nei campi: solo file ordinate di asparagi, una distesa compatta di fragole, alberi da frutto ancora giovani e un casale antico che aspetta di essere risistemato.

 

Hasmik Ghazaryan nell'orto
Hasmik Ghazaryan nell’orto

 

La storia di Hasmik Ghazaryan

Dietro la sua storia c’è un percorso che parte da molto lontano. “Sono nata in Armenia e cresciuta a Roma, dove sono arrivata qui con la mia famiglia all’età di sei anni. Dopo una laurea in filosofia, ha lavorato per oltre dieci anni in un’istituzione internazionale. Poi, una decisione radicale: lasciare un impiego stabile e strutturato per costruire qualcosa da zero, nella terra”, racconta. “Lavoravo in ufficio, ero soddisfatta ma pensavo all’agricoltura. Non avevo ancora un progetto chiaro, ma sapevo che volevo fare qualcosa di mio”. A 35 anni prende una decisione definitiva: cerca un terreno, non troppo lontano da Roma, da poter coltivare secondo principi sostenibili. Il terreno lo trova dopo molte ricerche: poco più di un ettaro e mezzo, soleggiato, in una zona con una lunga vocazione agricola. Non è terra facile né già pronta: manca l’acqua, le strutture sono minime, ma c’è una asparagiaia piantata da qualche anno e la possibilità concreta di iniziare.

 

L'Orto di Gelso
L’Orto di Gelso

 

Dagli asparagi alle fragole: il lavoro biologico e rigenerativi di Orto di Gelso

“Ho iniziato nel 2020, nel pieno del Covid. All’inizio facevo cassette di ortaggi per la consegna a domicilio, poi ho capito che dovevo concentrarmi su poche coltivazioni. Fare tutto da sola è complesso: ho scelto colture annuali più gestibili e con una buona resa”. Le due colture principali oggi sono asparagi e fragole. Gli asparagi sono piante longeve, che non richiedono semine continue e, se ben gestiti, resistono anche a condizioni difficili. “Per 4 anni non ho avuto acqua, irrigavo con serbatoi di emergenza. Gli asparagi tenevano, le fragole invece erano poche, ma di un gusto incredibile. L’acqua scarsa le concentrava”, ci spiega. Nel tempo, ha piantato quattromila fragole, affiancato un piccolo frutteto e innestato degli ulivi intercalati alle file di asparagi. “L’asparagiaia ha ancora qualche anno di produttività. Quando finirà, spero che gli ulivi siano già entrati in produzione. È un investimento lento, ma necessario”. L’orto iniziale, molto più esteso, oggi è stato ridimensionato a scala familiare.

 

Uno dei prodotti dell'orto
Uno dei prodotti dell’orto

Hasmik segue un metodo basato sull’osservazione e la cura del suolo. “In autunno le piante si seccano. Alcuni le tagliano subito, io le lascio come copertura naturale, per proteggere il terreno. Le taglio a fine inverno. Non uso concimi né trattamenti”. La sua agricoltura è completamente biologica e rigenerativa e il lavoro l’ha appreso da autodidatta: “Libri, ricerca, tentativi e confronti. Un aiuto importante arriva dalla Rete Agroecologica Microfarm Italia, una comunità di piccole aziende agricole che si supportano tra loro. Sono tutte realtà non convenzionali, che coltivano poco ma con grande attenzione. Qualunque domanda tu abbia, c’è sempre qualcuno pronto a rispondere”.

 

Hasmik Ghazaryan
Hasmik Ghazaryan

La vendita dei prodotti agricoli e progetti futuri

Nel 2024, dopo quattro anni dedicati interamente al campo, Hasmki prende un’altra decisione: rientrare temporaneamente al lavoro, accettando una consulenza. “Avevo bisogno di un’altra entrata. Continuo a seguire tutto, ma con l’aiuto di alcuni dipendenti stagionali riesco a reggere i mesi di punta e la produttività è aumentata”. La raccolta si concentra tra aprile e giugno, quando fragole e asparagi arrivano insieme. Oltre alla parte agricola, c’è un piccolo sogno in costruzione: ristrutturare il casale abbandonato nel terreno e avviare un progetto di agricampeggio, vista la presenza di un rudere che ha bisogno di fondi per essere ristrutturato. “È tutto ancora in fase di presentazione, ma vorrei che diventasse un luogo dove le persone possano fermarsi, vivere la campagna con semplicità, e magari partecipare alla raccolta”. Un modo per valorizzare la terra e garantire un reddito non solo agricolo.

 

Il team di Orto di Gelso
Il team di Orto di Gelso

 

Tutto quello che produce viene venduto direttamente a piccoli negozi di Roma, botteghe di quartiere, pastifici artigianali e ristoranti: “Collaboro con realtà che riconoscono il valore di questo lavoro. Non cerco quantità, ma relazioni. Ed è un modo per rimanere legata alla città anche da lontano”.


Storia dell’azienda agricola Orto di Gelso a Nepi
https://www.cibotoday.it/storie/agricoltura/orto-di-gelso-agricoltura-biologica-nepi-lazio.html
© CiboToday

L’udienza del Papa a Sua Santità Karekin II, Patriarca supremo e Catholicos di tutti gli Armeni (OR e altri 16.09.25)

Stamane, martedì 16 settembre, Leone XIV ha ricevuto a Castel Gandolfo il Patriarca supremo e Catholicos di tutti gli armeni Karekin II. L’incontro è avvenuto presso Villa Barberini, dove il Pontefice si trova da ieri sera


Il catholicos degli armeni Karekin II in udienza da Leone XIV: focus sulla pace

Il Papa ha ricevuto questa mattina il patriarca a Castel Gandolfo. Karekin II ha invitato il Pontefice a visitare l’Armenia; ribadita, poi, la necessità della pace. È il quarto Papa che il catholicos incontra, sin dalla prima udienza con Giovanni Paolo II nel 2000, a cui sono seguite le udienze con Benedetto XVI e con Francesco. Oggi pure l’incontro con i cardinali Koch e de Mendonça e la tappa a Santa Maria Maggiore, con la preghiera alla tomba di Papa Francesco

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

È il primo incontro con Leone XIV, il quarto con un Pontefice sin dalla sua elezione avvenuta venticinque anni fa. Karekin II, catholicos di tutti gli armeni, è stato ricevuto dal Papa questa mattina, 16 settembre. L’udienza si è svolta a Villa Barberini, la residenza papale a Castel Gandolfo, dove Leone si è recato da ieri sera. Un incontro avvenuto in “un clima fraterno e cordiale, durante il quale sono state discusse diverse questioni ecclesiali e il patriarca armeno ha posto l’accento sulla sorte degli armeni dell’Artsakh”, come spiega in un colloquio telefonico con la redazione armena di Radio Vaticana – Vatican News il rappresentante della Chiesa Apostolica Armena di Etchmiadzin presso la Santa Sede, l’arcivescovo Khajag Barsamian.

Il patriarca ha rivolto al Papa l’invito a visitare l’Armenia – spiega ancora Barsamian – ed entrambi hanno ribadito la necessità della pace. Una pace basata sulla giustizia, come ha sottolineato Karekin II.

Gli incontri con i capi Dicastero e la visita alla tomba di Papa Francesco

Insieme al catholicos erano presenti tutti i membri della delegazione che lo hanno accompagnato in questa tappa a Roma. Tutti si sono poi trasferiti in Vaticano, dove il patriarca ha incontrato il cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. Nel programma della giornata, anche una visita a Santa Maria Maggiore: nella Basilica papale, Karekin II ha voluto rendere omaggio a Papa Francesco, con il quale aveva instaurato un rapporto di dialogo e amicizia, pregando dinanzi alla sua tomba. Ha poi sostato dinanzi all’icona della Salus Populi Romani.

La Dichiarazione firmata con Giovanni Paolo II

Quello di oggi in Vaticano che segna, dunque, il primo incontro tra Papa Leone XIV Karekin II, la cui prima visita a Roma risale al 9 e 10 novembre del 2000, quando, allora neo eletto catholicos di tutti gli armeni, fu ospite di San Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000.  Durante quella visita, sulla scia della dichiarazione firmata da San Paolo VI e Sua Santità Vasken I il 12 maggio 1970, fu siglata una Dichiarazione Congiunta: un passo del cammino, ancora in corso, per ristabilire la piena comunione tra le due Chiese.

“Noi confessiamo insieme la nostra fede in Dio Trino e nel solo Signore Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, diventato uomo per la nostra salvezza. Noi crediamo anche nella Chiesa Una, Cattolica, Apostolica e Santa. La Chiesa, quale Corpo di Cristo, è infatti una e unica. Questa è la nostra fede comune, basata sugli insegnamenti degli Apostoli e dei Padri della Chiesa”, recitava la Dichiarazione. “Continuiamo a pregare per la comunione piena e visibile tra di noi”, si legge nel testo, in cui si ribadisce la “missione comune”, ovvero “insegnare la fede apostolica e testimoniare l’amore di Cristo per ogni essere umano, specialmente per coloro che vivono in circostanze difficili”.

Durante quella visita, Giovanni Paolo II consegno a Karekin le reliquie di San Gregorio l’Illuminatore. Un anno dopo, dal 25 al 27 settembre 2001, il Pontefice polacco volle visitare l’Armenia e celebrare il 1700° anniversario della dichiarazione del Cristianesimo come religione di Stato. Fu il primo Papa a toccare la terra armena. E le reliquie di San Gregorio furono consegnate anche al patriarca della Grande Casa di Cilicia degli Armeni, Aram I, e all’allora patriarca armeno cattolico, Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX Tarmouni.

Gli incontri con Benedetto XVI e Francesco

Karekin II tornò in Vaticano dal 6 al 9 maggio 2008, su invito di Benedetto XVI, per partecipare ad una celebrazione ecumenica presieduta dal Papa. Poi di nuovo il 12 aprile del 2015, quando il Pontefice regnante era Francesco che volle il capo della Chiesa Armena della sede di Etchmidazin al suo fianco durante la Messa celebrata nella Basilica di San Pietro in memoria dei martiri armeni del 1915. Durante quella celebrazione, Papa Francesco proclamò San Gregorio di Narek dottore della Chiesa Universale. Un momento di grande significato per tutta la Chiesa armena.

Sul solco di Wojtyla, anche Bergoglio si recò dal 24 al 26 giugno 2016 in Armenia. Il “primo Paese cristiano” – come recitava il motto del viaggio apostolico – che il Papa argentino volle onorare nel 2018, quando nei Giardini Vaticani inaugurò una statua di San Gregorio di Narek. Karekin II era presente quel giorno, insieme anche all’allora presidente della Repubblica di Armenia, Serzh Sargsyan.

Lo stesso anno, ma ad ottobre, Karekin II visitò nuovamente Papa Francesco e incontrò numerosi esponenti della Curia Romana. Un altro incontro si è svolto nel settembre 2020 e in quell’occasione il catholicos aveva presentato al Papa la situazione creatasi a seguito delle operazioni militari contro l’Artsakh. Sottolineava quindi l’importanza degli appelli del Pontefice per porre fine al conflitto e per il ristabilimento della pace.

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Leone XIV invitato in Armenia da Karekin II, tra i temi dell’incontro la violenta crisi tra la Chiesa armena e il premier Pashinyan (Il Messaggero)

Papa Leone XIV ha incontrato il Catholicos armeno Karekin II (Aci Stampa)

“Pace fondata sulla giustizia”: l’incontro tra Papa Leone e il Catholicos degli armeni Karekin II (AciStampa)

Papa Leone XIV ha incontrato Karekin II (Lavocedelpopolo)

Il Patriarca Armeno invita Papa Leone XIV a visitare l’Armenia: l’incontro a Castel Gandolfo (Ewtn)


Leone XIV riceve Karekin II: tracciato un cammino comune di fraternità (In Terris)