Mkhitaryan: “Quel che successe con Mourinho resta a Manchester. Scudetto? Fate i conti con la Roma” (90min 31.07.21)

C’è stato un momento in cui Henrikh Mkhitaryan sembrava lontano dalla Roma, dopo l’arrivo di José Mourinho e la proposta di rinnovo di contratto presentata da Tiago Pinto. Ma alla fine, per la gioia di tutti, l’attaccante armeno ha deciso di restare nella Capitale nonostante la corte di diverse squadre (tra cui il Milan) per restare al centro del progetto targato Mourinho. Del rapporto col tecnico, in particolare, Mkhitaryan ha parlato in un’intervista esclusiva rilasciata al Corriere dello Sport direttamente dal ritiro portoghese in Algarve.

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Tensioni nel Caucaso: l’Armenia vuole i Russi lungo il confine (L’opinione 30.07.21)

Sale la tensione nel Caucasomercoledì 28 luglio tre soldati armeni sono morti e due azeri sono rimasti feriti in uno scontro a fuoco lungo il confine. È l’incidente più sanguinoso dalla guerra dell’anno scorso, durata sei settimane, in cui le truppe di Baku sono riuscite ad occupare parte del Nagorno Karabakh, Repubblica indipendente abitata in maggioranza da armeni (e sostenuta da Erevan), ma reclamata dall’Azerbaijan.

I due Paesi si sono accusati reciprocamente di aver aperto il fuoco per primi, quindi non è ben chiaro chi abbia rotto la tregua. Nello specifico, Erevan ha dichiarato che gli azeri hanno aperto il fuoco contro le postazioni armene a Gegharkunik, mentre Baku sostiene che gli armeni abbiano attaccato con mitragliatricilancia-granate e bombe a mano un villaggio nella regione di Kelbajar. La Russia, che mantiene una forza di pace in Nagorno Karabakh, è intervenuta ed è riuscita a mediare un cessate il fuoco, accettato da entrambe le parti, anche se l’esercito azero continua ad accusare gli armeni di bombardare le sue postazioni.

Nell’ultimo conflitto, l’esercito di Baku ha dimostrato la sua superiorità, bombardando con droni di fabbricazione turca e israeliana le retrovie e le postazioni fortificate armene, ed è probabile che un nuovo conflitto armato arriderebbe sempre agli azeri. Il mantenimento della tregua è nell’interesse dell’Armenia: proprio per questo il primo ministro Nikol Pashinyan ha avanzato una proposta che potrebbe sbilanciare i già delicati equilibri della regione. Ovvero lo schieramento di truppe russe lungo tutto il confine tra i due Stati.

“Data la situazione attuale – ha dichiarato ieri Pashinyan durante una riunione del Governo – penso che abbia senso considerare la possibilità di schierare avamposti di guardie russe lungo tutto il confine armeno-azero”. Il suo staff, ha aggiunto, si sta preparando per discutere della proposta con Mosca, e che la sua attuazione avrebbe permesso la demarcazione e delimitazione del confine senza il rischio di scontri armati. Il Cremlino ha affermato di essere in contatto con entrambi gli Stati, ma si è rifiutato di commentare la proposta di Pashinyan.

La situazione tra Armenia e Azerbaijan è attentamente monitorata: è d’interesse internazionale sventare qualunque minaccia agli oleodotti di Baku ed evitare il coinvolgimento diretto delle due potenze regionali, Turchia e Russia. Il primo ministro armeno, però, sembra curarsi poco degli equilibri dell’area e del futuro della sua Nazione. Una massiccia presenza delle truppe di Mosca sicuramente scatenerebbe una dura risposta di Ankara, che pretenderebbe il diritto di schierare anche i propri soldati nell’area, per non perdere la propria influenza politico-militare. A quel punto, i due Paesi caucasici, già militarmente e (in parte) economicamente dipendenti dai loro potenti alleati, diverrebbero poco più di Stati-fantoccio, strangolati dalla morsa degli eserciti dei garanti della loro integrità territoriale.

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Armenia e Azerbaijan: appetiti, interessi e scontro sulla provincia di Syunik (Osservatorio Balcani e Caucaso 30.07.21)

La provincia armena di Syunik è al centro di nuove tensioni tra Armenia e Azerbaijan: la sua posizione strategica stimola appetiti e rivendicazioni contrastanti, creando nuove tensioni tra Yerevan e Baku dopo il conflitto armato in Nagorno Karabakh

30/07/2021 –  Marilisa Lorusso

La crisi intorno all’area di Syunik è iniziata con il contenzioso transfrontaliero del 12 maggio. Si inserisce nel quadro di problemi di demarcazione di confine che recentemente hanno anche causato un ritorno alle armi. Il cessate-il-fuoco è minacciato da questioni irrisolte, e gli incidenti di scambio di fuoco che causano feriti e morti – tre armeni solo nella giornata del 28 luglio – sono ormai più frequenti lungo il confine armeno-azero che nell’area contesa del Nagorno-Karabakh. La delimitazione del confine è divenuta una crisi a sé stante, e all’interno di questo quadro Syunik ha una posizione particolare.

 

Il fronte meridionale

Syunik si insinua fra la exclave azera del Nakhchivan e le aree tornate sotto il controllo azero con l’ultima guerra. Inizialmente le tensioni hanno riguardato il lato est, dove il confine non è delimitato. Da fine maggio la sicurezza è andata deteriorandosi anche lungo il confine con il Nakhchivan, da sud, Syunik, fino alla zona di Ararat e sono iniziati una serie di incidenti non sempre confermati da ambo le parti. In genere è il ministero della Difesa dell’Azerbaijan che lamenta più provocazioni da parte armena. In alcuni casi invece gli episodi di violazione del cessate-il-fuoco sono confermati da entrambe le parti. È il caso dei numerosi incidenti segnalati nella seconda metà di luglio intorno a Yeraskh, dove il 20 luglio un militare azero e un civile armeno sono rimasti feriti.

Syunik è insomma presa, letteralmente, fra due fuochi, per via dei confini. Ma anche il suo nome e l’uso che si intende fare del suo territorio sono fonte di grande tensione.

 

Rivendicazioni storiche

Per l’Azerbaijan Syunik è lo Zangezur occidentale. Così lo ha definito anche recentemente in un discorso ufficiale  il Presidente Ilham Aliev, indicandolo come storica terra dell’Azerbaijan, dove gli azeri dovranno tornare a vivere. Gli armeni, ovviamente, vedono queste rivendicazioni storiche come fumo negli occhi, e temono che i presidi militari che gli azeri hanno creato in aree di confine a demarcazione ancora non concordata non siano altro che il preludio di una nuova aggressione azera.

Non sono solo parole, per quanto la retorica incendiaria sia un problema tangibile nella risoluzione del conflitto. A marzo una delegazione della Turchia ha presenziato ai lavori di inaugurazione del cosiddetto “corridoio di Zangezur”, e a maggio – durante la visita del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture turco Adil Karaismailoğlu in Azerbaijan – il presidente Erdoğan ha ribadito l’importanza del progetto, che la Turchia inserisce nella Nuova Via della Seta  . Molto diversa la posizione armena, che non accetta che Syunik sia solo un corridoio, uno spazio passivo di transito fra Turchia e Azerbaijan, ma sostiene che debbano riaprire tutte le vie di comunicazione e che i territori che ne saranno attraversati debbano essere protagonisti per trarne quanto più benessere possibile.

 

Fra tensioni e interessi

La questione butta la benzina sul fuoco, in un quadro in cui la sfiducia reciproca continua ad aumentare, e proporzionalmente alla sfiducia i motivi di contesa e rancore. Oltre al recente conflitto – con tutte le ferite che questo ha comportato – rimangono le questioni dei prigionieri di guerra, dei campi minati, dei processi ai prigionieri che sono in corso, dei confini da demarcare, degli spostamenti di militari non concordati e dei successivi, conseguenti, nuovi scontri.

A causa di questa sfiducia e del peggioramento del quadro della sicurezza è stata sospesa una parte sostanziosa degli accordi che hanno messo fine ai combattimenti. Oltre all’accordo trilaterale del 9-10 novembre 2020, c’è quello dell’11 gennaio che ha previsto la creazione di un gruppo di lavoro trilaterale incaricato di concordare l’apertura delle vie di comunicazione e di tutte le infrastrutture che dovrebbero comportare una fitta rete di trasporti e scambi regionali. Gli incontri del gruppo si tengono sia in formato di tecnici, sia in una dimensione politica a livello di vice-premier russo, armeno e azero. Il vice-premier russo ha recentemente cercato di sollecitare un nuovo impulso al lavoro del gruppo trilaterale  , le cui attività si sono interrotte a causa degli scontri di inizio giugno. Non sono solo la Russia e la Turchia a premere in questo senso. Anche l’Iran è sceso energicamente in campo per quella che gli pare un’inattesa e tempestiva opportunità per ridurre il proprio isolamento, incrementare le proprie esportazioni e far ripartire l’economia per un paese che ha subito in modo pesante l’impatto della pandemia.

Intorno a Syunik, insomma, pullulano vasti interessi, e la regione armena può diventare uno snodo pivotale nelle direzioni nord-sud ed est-ovest.

 

La pace avvelenata

L’Azerbaijan preme in questo senso e si dichiara disposto a trasformare questa seconda fase post-bellica in una pace duratura. Questa proposta per l’Armenia appare però come un frutto avvelenato: firmare la pace vuol dire riconoscere reciprocamente l’integrità territoriale e i confini, che potrebbe voler dire per l’Armenia mettere fine alle dispute di confine e facilitare l’opera di demarcazione, ma allo stesso tempo mettere una pietra tombale sulla questione del Nagorno Karabakh, riconoscendolo de jure parte dell’integrità territoriale azera. La pace quindi per l’Armenia arriva dopo la definizione dello status del Karabakh. Per l’Azerbaijan lo status è stato invece deciso con la guerra. Come già ricordato, per Aliyev la questione dell’indipendenza/autonomia del Karabakh non esiste più. Esiste un presidio militare temporaneo russo, in attesa che la popolazione locale accetti di venire riannessa all’interno dello stato azerbaijano. Il 7 luglio è nata per decreto la zona economica Karabakh-Zangezur orientale, e questa è l’unica peculiarità amministrativa che Baku vuole concedere all’area secessionista.

Inutile dire che per l’Armenia questa è una non opzione. Di pace il primo ministro armeno Pashinyan non vuole sentire parlare fino al ritiro dei militari azeri – stimati un migliaio – che dal cessate-il-fuoco ad oggi si sono insediati in aree che l’Armenia considera proprie, e fino a quando non si sarà trovata una soluzione politica per lo status del Karabakh. L’Armenia ne insegue ancora la secessione, l’Azerbaijan dice che non esiste più.

Se possibile, le posizioni sono ancora più lontane e incompatibili di prima della guerra. E come uno scoglio fra onde contrastanti sta Syunik, esposto alle bramosie di chi ha fretta di cominciare a costruire anche là dove ancora non si è bonificato.

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Tre soldati armeni uccisi in scontri di confine con le forze azere (Euronews e altri 28.07.21)

Tre soldati armeni sono stati uccisi in uno scontro con le forze azere al confine, il più letale dalla fine della guerra dello scorso anno nel Nagorno-Karabakh.

A darne notizia è stato il ministero della Difesa armeno, che in una nota rende noto come anche altri due soldati sono rimasti feriti.

In una dichiarazione rilasciata alle 09:20 ora locale (07:20 CET), il Ministero ha aggiunto che “i combattimenti continuano”.

Il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha affermato che anche due dei suoi soldati sono rimasti feriti negli scontri, ma che “non c’è pericolo per la loro vita”.

Entrambi i paesi si sono accusati l’un l’altro per la riacutizzazione della tensione lungo il confine.

Yerevan e Baku hanno combattuto una micidiale guerra di 44 giorni in autunno, ultimo capitolo del lungo conflitto in Nagorno-Karabakh, che si è concluso a novembre con una tregua mediata dalla Russia.

Le tensioni tra i due paesi nella regione stanno ribollendo dalla fine di una guerra negli anni ’90 e l’escalation di violenza dello scorso anno è stata la più mortale degli ultimi due decenni. Più di 5.000 persone hanno perso la vita e decine di migliaia sono state sfollate.

L’accordo di pace mediato da Mosca ha visto l’Armenia costretta a cedere un territorio significativo all’Azerbaigian.

Entrambi i paesi si sono ripetutamente accusati a vicenda di aver violato i termini dell’accordo da quando è entrato in vigore il 10 novembre.

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Armenia, tre soldati uccisi in uno scontro al confine con le truppe azere (Sputniknews 28.07.21)


Scontri a fuoco al confine, risale la tensione nel Nagorno-Karabakh (Insiderover 28.07.21)


Armenia-Azerbaigian, sale di nuovo la tensione: scontri a fuoco al confine (Ilprimatonazionale 28.07.21)


Nagorno-Karabakh, nuovi scontri Armenia-Azerbaigian: 3 morti e 4 feriti (Cronachedi 28.07.21)

GLI 80 ANNI DEL MAESTRO RICCARDO MUTI, LA MUSICA COME MISSIONE (Famigliacristiana 28.07.21)

Il grande direttore d’orchestra, nato a Napoli il 28 luglio 1941, ha annunciato di voler festeggiare il compleanno in famiglia. E’ reduce da una tournée in Armenia e dall’Arena di Verona. Domani sarà al Quirinale: in diretta su Rai 1, alle 20.30 per il G20 della cultura, la “Sinfonia dal nuovo mondo di Dvorak”. Ripubblichiamo un’ampia intervista realizzata nel 2020

“Adda passa ‘a nuttata”, sospira Riccardo Muti mentre cita Eduardo De Filippo per commentare questa fase in cui, causa Covid, la vita musicale  e culturale si è rallentata. “In realtà”, racconta il maestro, “non mi sono del tutto fermato. Ancora non posso dirigere a Chicago, perché le orchestre americane stanno ferme, però ho diretto al  Ravenna Festival, a Paestum, a Salisburgo tre concerti con i Wiener Philarmoniker e il 3 ottobre ho avuto l’onore di dirigere al Quirinale l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini per le celebrazioni dedicate a Dante Alighieri”. Questi concerti sono raggi di luce nella “nuttata”, ma resta la preoccupazione. “Questo virus”, prosegue Muti, “uccide le persone, l’economia e anche la cultura. Mi fa pensare a una riflessione di Cassiodoro citata dal cardinale Ravasi: una delle più grandi punizioni per l’umanità è restare senza musica”.

Il virus ha ritardato anche l’uscita del libro “Le sette parole di Cristo” in cui Muti dialoga con il filosofo Massimo Cacciari. Pubblicato da Il Mulino, il testo fa parte della collana “Icone: pensare per immagini”. L’immagine ispiratrice è quella di un capolavoro di Masaccio (1401-1428) , la “Crocifissione” esposta nel Museo di Capodimonte, a Napoli. Nel loro dialogo Muti e Cacciari riflettono sul dipinto e sulla composizione di Franz Joseph Haydn (1732-1809) intitolata “Sette ultime parole del nostro Redentore in croce”, che sembra dare un suono a quella immagine.

Maestro, come è nata la sua conoscenza con Cacciari?

“Ho conosciuto Massimo quando ricevetti una laurea honoris causa dalla Università San Raffaele di Milano, dove lui insegna, poi è venuto spesso al Festival di Ravenna. Cacciari è una persona straordinaria, un filosofo che cerca sempre la verità in ogni cosa. La sua è una mente superiore e io ho cercato di mettermi alla sua altezza in un dialogo dove siamo  riusciti a trovare un punto di contatto fra la filosofia, arte dei concetti, e la musica, arte dei suoni. Abbiamo trovato molte consonanze fra il capolavoro di Masaccio e quello di Haydn, espressioni straordinarie di una umanità, creatività e spiritualità con una tendenza irrefrenabile verso l’alto”.

Che cosa la colpisce nel dipinto di Masaccio?

“Le diverse espressioni del dolore che troviamo nei quattro personaggi. La Madre raccolta in un angolo con le mani giunte. Giovanni in un atteggiamento di grande tenerezza. La  Maddalena che sembra irrompere nel dipinto con il suo manto porpora, la chioma dorata le braccia alzate verso il crocifisso. Cristo spogliato della sua divinità, raffigurato come un uomo che soffre. Sono quattro figure unite dalla sofferenza”.

Haydn che suono dà a questa sofferenza?

“L’ immenso capolavoro di Haydn parte con una introduzione musicale, seguono le varie sonate ispirate da una frase di Cristo in croce, infine c’è un terremoto che in due minuti chiude in maniera tempestosa la composizione. Ogni parola di Cristo ispira la fantasia compositiva di Haydn a creare una situazione sonora che non descrive, ma evoca lo stato d’animo di una persona sul punto di morire in maniera così atroce”.

Lei spiega che eseguire questa musica rappresenta una esperienza interiore molto forte.

“Sì, ho eseguito molte volte questa composizione, una volta anche presso la tomba di Haydn. L’ho incisa tre volte con i Wiener Philarmoniker, i Berliner Philarmoniker  e con l’Orchestra della Scala., Spesso ho chiesto a un sacerdote di introdurre brevemente ogni sezione dell’opera di Haydn. L’ho fatto anche con il cardinale Ravasi e con gli arcivescovi di Chicago e Ravenna, ogni volta è stato interessante ascoltare la spiegazione del significato profondo delle parole di Cristo”.

Dialogando con  Cacciari lei dice che esiste un’armonia dell’universo, come la spiega?

“Sì, ho sempre pensato che l’universo abbia un suo suono che noi non possiamo cogliere, non è possibile che l’universo sia completamente muto”.

Chi o che cosa muove il tutto?

“Chiamiamolo Dio, natura, creato, ma immagino questo movimento che genera suoni. E ho sempre pensato che un musicista come Mozart ha potuto scrivere una musica così sublime proprio perché attraversato da questi raggi sonori. L’esistenza di Mozart è una prova dell’esistenza di Dio”.

Lei nel libro lascia in sospeso una domanda: la musica del Paradiso è quella di Mozart?

“Lo penso e ne ho parlato anche con il papa emerito Ratzinger, che sono andato a trovare tempo fa con mia moglie. Nella sua breve vita Mozart ha espresso in musica l’anima dell’uomo in tutti i suoi aspetti  con un livello di bellezza che raggiunge la perfezione assoluta. Lui non ha mai scritto nulla che risulti accademico o di routine, Mozart si è sempre posto al livello del sublime. Come è stato possibile? Non è qualcosa di umano. Pensiamo all’ Ave Verum Corpus, quella musica l’ha scritta una mano guidata da Dio”.

Nella sua formazione contano moltissimo le musiche delle bande che accompagnavano le processioni, che ricordi ha?

“ Sì, da ragazzo a Molfetta seguivo le processioni del Venerdì e del Sabato Santo che partivano dalla chiesa di Santo Stefano, accompagnate dal suono della banda. Erano processioni molto composte e silenziose, con le statue che ondeggiavano seguendo il passo cadenzato di chi le sorreggeva. La musica accompagnava questo incedere con delle marce funebri dal carattere fortemente lirico e appassionato. Quelle marce funebri sono state il mio primo cibo musicale  e ringrazio quelle bande, un patrimonio della cultura popolare che sarebbe un peccato abbandonare o lasciar morire”.

Citando un suo grande collega, Carlos Kleiber, lei dice che certe musiche sono così belle che non andrebbero eseguite. Come è possibile?

“Sì, il mio amico Kleiber diceva che ci sono  musiche talmente sublimi e inarrivabili che è meglio lasciarle sulla carta, lasciando che prendano vita nella nostra mente senza farle passare nell’elemento limitante di uno strumento o dell’interprete, che non può essere perfetto, perché ciò sprecherebbe la bellezza e la purezza della musica. La trovo  una straordinaria intuizione e penso che le Sette ultime parole del nostro Redentore in croce di  Haydn sia una di quelle composizioni che Kleiber avrebbe considerato intoccabili”.

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Chiara Picchi: «Dall’Armenia approdo al concerto dal Quirinale» (Giornaledibrescia 28.07.21)

«Quando, nella sala del Teatro Nazionale di Erevan, capitale dell’Armenia, sono svanite nell’aria le ultime note che chiedevano pace e invocavano insistentemente Dio, Padre Nostro e di tutti gli esseri viventi, mille spettatori si sono fermati, in un istante di commosso silenzio. Poi è esplosa una interminabile standing ovation».

Così la flautista di Padenghe, Chiara Picchi, primo flauto dell’Orchestra “Cherubini” diretta da Riccardo Muti, racconta il finale di «Purgatorio», brano del maggiore compositore vivente armeno, l’82enne Tigran Mansurian, eseguito il 4 luglio scorso nel «Paese delle pietre urlanti», per «Le vie dell’amicizia», progetto che dal 1997 visita luoghi-simbolo della storia antica e contemporanea, in un programma di collaborazione, dialogo e solidarietà fra i popoli attraverso la musica.

Laura Ephrikian ha presentato il suo nuovo libro dove narra la storia del nonno, armeno, fuggito dalla Turchia (Lanazione 28.07.21)

di Roberto Oligeri

Un’autentico anfiteatro creato da Madre Natura, sotto la Chiesa parrocchiale, nato grazie all’intuizione di Padre Dario Ravera e che ha preso forma grazie al Cmune a alle associazioni di volontariato del territorio, è stato inaugurato sabato scorso a Comano. “Il merito è della Polisportiva San Giorgio, di Mario Strano della Pubblica assistenza Croce Azzurra, e della Pro Loco Castello – dicono all’unisono il sindaco Antonio Maffei e il suo vice Francesco Fedele – che hanno concretizzato l’idea, il sogno di Padre Dario, nel passato parroco della Valle del Taverone”. E per l’occasione, in un tramonto con luci smaglianti e struggenti armonie musicali, Laura Ephrikian, attrice di teatro, cinema e tv, ha presentato il suo nuovo libro “Una Famiglia Armena“. Nel testo Laura parla del passato della sua famiglia: il nonno, che fugge dalla follia fratricida del Genocidio Armeno nel 1915-1916. Il racconto si intreccia con la storia d’amore a cui dà vita con la giovane donna conosciuta in Italia, che diverrà poi sua moglie e l’ amata nonna della scrittrice. “Si,mi riferisco al popolo armeno che si distingue per capacità e cultura-racconta la Ephrikian- che oltre un secolo fa, fu sterminato al 70%: 1.500.000 persone di tutte le età furono uccise nei modi più brutali, anche deportandole e abbandonandole nel deserto facendole morire di fame e sete. L’Armenia, è un paese bellissimo dove il cristianesimo è radicato grazie alla fede ferrea dei suoi abitanti e vorrei che per noi l’Armenia, non fosse solo una parola nell’atlante geografico ma una nazione di cui ricordare la storia tragica, accaduta dopo lo scoppio della Grande Guerra. Nella Turchia odierna, e siamo nel 2021 – ricorda Laura – tutt’ora è proibito menzionare il termine genocidio armeno: si rischia il carcere. E non c’è stata una nazione che abbia zittito Erdogan”.

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Maria Pia Latorre recensisce La compagnia del melograno, di Piero Fabris (Corrierepl.it 26.07.21)

In questi giorni sta girando nei salotti letterari pugliesi, La compagnia del melograno, romanzo ibrido, a cavallo tra giallo, romanzo storico, fantastoria, fantapolitica, utopia e romanzo d’avventura. Tutti generi questi, che Piero Fabris, artista poliedrico che spazia dalla pittura alla poesia  alla saggistica alla letteratura, riesce a padroneggiare sapientemente e con grande maestria.

Sin dalle prime battute il romanzo cattura l’attenzione del lettore, avvicinandolo alla vita dei protagonisti; la giornalista Sophie Armenio alle prese con un intricato mistero legato al poeta armeno e naturalizzato italiano Hrand Nazariantz, vissuto in Italia dal 1913 al 1962,  anno della sua morte.

Sophie si trascina stancamente in una storia d’amore ormai alla fine, in cui l’impenetrabile Niko non riesce ad attirare su di sé le attenzioni dell’amata, completamente assorbita dalla sua carriera in ascesa. Forte e determinata, Sophie non esita a spostarsi lungo tutta l’Italia, da Venezia a Napoli a Firenze, a caccia di indizi e prove, per chiarire i numerosi enigmi legati all’intellettuale armeno che si fanno sempre più fitti, e ritrovare un prezioso manoscritto di cui si erano completamente perse le tracce.

Nel corso delle  sue ricerche  la vivace Sophie s’imbatte nel misterioso professor Biagio Armenise e nell’eccentrico collega Gregorio Taddeo, con i quali, suo malgrado, intreccerà il cammino e le indagini.

Già di per sé, nell’architettura della trama, il romanzo è avvincente, dal ritmo incalzante, con una scrittura rapida e ritmata nelle pagine d’azione, ma che si fa precisa e suggestiva nelle descrizioni  – e qui la maestria del pittore Fabris la fa da padrone, riuscendo a imprimere pennellate paesaggistiche spettacolari per luminosità ed effetto visivo – ; scrittura che si fa distesa e intimista nelle pagine introspettive e di scavo dei personaggi, ma l’ubi consistam dell’opera è nell’elevazione a vera e propria prosa poetica nei svariati momenti in cui vengono accarezzati temi cogenti legati al mondo dell’arte, all’urgenza culturale cosmopolita e all’afflato poetico solidale, temi che per il poliedrico Piero Fabris sono fibre vitali che ogni giorno allena ad una maggior sensibilità espressiva.

Ci sono voluti anni di ricerca, ammette l’Autore, per arrivare alla stesura definitiva de La compagnia del melograno, che già nel titolo richiama un emblema fondamentale della cultura armena, la pianta del melograno, che reca in sé ampia simbologia che va dalla fertilità e abbondanza, alla sofferenza, al principio dell’universalità  di cui tutto il libro è intriso, poiché grande è l’amore di Piero Fabris verso la comunità armena pugliese e ancor più grande il suo attaccamento al massimo poeta armeno di tutti i tempi, quel Hrand Nazariantz che ha fatto della sua vita il tempio della Poesia.

E ne  La compagnia del melograno alita forte il vento della purezza, dell’idealità, dei valori della fratellanza universale, temi cari al Hrand del Manifesto graalico, là dove l’arte è stata da lui considerata come “una grande pietà” e la poesia una “concezione di vita”, ma anche “religione d’amore”; là dove il poeta deve offrire “l’immagine di una idea di verità e di bellezza, una speranza di liberazione sopra le rovine, il più dolce abbraccio alle armonie del creato”.

Come non rabbrividire dinanzi a simili dichiarazioni? Senza dubbio vale l’“omnia preclara rara”, e che l’eccelso sia rarità è acclarato, e tra le pagine di questo libro se ne ha piena consapevolezza.

Talmente coerente e sincero, non solo nella sua dichiarazione d’intenti, ma in tutto il suo svolgersi,  La compagnia del melograno, in linea con la poetica di Piero Fabris, rende sentito ed efficace tributo alle numerose personalità della cultura pugliese e armena che, nel corso dei secoli, sono state vivo fermento per la nostra terra.

La compagnia del melograno è un romanzo che si consiglia vivamente non solo propriamente per l’incantevole diletto della lettura, ma perché apre ad importanti approfondimenti della cultura armena e ai  suoi intensi rapporti con la cultura italiana.

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Un Tigran nelle mani (DiarioFvg 26.07.21)

GRADO – Antico e moderno, passatista e futurista, a pastello e a pennarello, conservatore e progressista, a tratti fluorescente a volte a carboncino, religioso e laico, in jeans e in doppiopetto, rock e lento come lo avrebbe presentato Adriano Celentano in un suo celebre programma prima serata mamma RAI un po’ di anni fa. Ed ancora – a rincarare – classico, jazz e popolare: così dopo la scomparsa di Chahnourh Varinag Aznavourian, per gli amici Charles Aznavour, Tigran Hamasyan è anche diventato ambasciatore musicale del popolo armeno in tutto il mondo.

Luna piena, antizanzare come se non ci fosse un domani, anticipata dal misticismo dei mongoli Huun-Huur-Tu, la asian-night di Grado Jazz si rivelerà di esito trionfale. Sin dalle prime battute si intuisce come l’ascolto di TH sia decisamente sconsigliato a colui che adoperasse una macchina col cambio automatico, dacché gli sarebbe incomprensibile apprezzare la libidine che si prova nello scalare, nell’accelerare, nello sgasare, sfrizionare prima seconda terza quarta terza seconda to be continued, senza sconfinare nel débrayer.

Un andamento liturgico che un istante dopo è diventato prog. Messa ortodossa mixata con Heart of the sunrise: per info citofonare Yes! Stacchi vertiginosi, poi vocalizzi massima auge Metheny Group in salsa sufi, attico NYC con mostra fotografica della periferia disagiata di Erevan, mondanità esoterica, incensi di Dior. Il Tigran è una locomotiva che corre sparata sul simbolico binario a ritroso che da Occidente punta verso Oriente a bordo di un Orient Express 4.0, ma che una volta arrivata al bivio forse sceglierà come meta Dubai piuttosto che il Caucaso.

Tigran solo is the best! Nei momenti in cui concede ristoro ai suoi compagni di viaggio, meri gregari, esprime il massimo della propria creatività. Loop fischiettato nostalgia Raindrops-keep-fallin’-on-my-head, armonizzazioni, spensieratezza di un mondo che non c’è più o che forse ci sarà (insomma, non è quello attuale), intimo, nostalgico, moderno flaneur da città, plenilunio all’occhiello con il giusto equilibrio.

«Questo qui ha le mani d’oro!» si sente mormorare tra gli addetti ai lavori di Euritmica, gente che qualche centinaio di concerti (in verità sono molti ma molti di più) li ha sentiti, visti, organizzati, vissuti. Nessun dubbio sulla mani, indiscutibilmente da esporre @ Tiffany’s. Ma, il cuore? Interrogativo da svelarsi nel prosieguo della sua carriera, classe 1987, hai voglia! E finalone acid, tanto per non farsi mancar nulla. Successo clamoroso!

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NAGORNO-KARABAKH: Serie infinita di scontri tra Armenia e Azerbaigian(Eastjournal 26.07.21)

A quasi nove mesi dal cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaigian dopo la seconda guerra del Nagorno-Karabakh, continuano gli scontri tra i due Paesi. Nel pomeriggio di venerdì 23 luglio, a seguito di spari al confine, un soldato azero è stato ucciso, mentre tre soldati armeni sono rimasti feriti, anche se non sono in pericolo di vita.

Tre giorni prima, il 20 luglio, uno scontro a fuoco è andato avanti diverse ore al confine tra l’Armenia e l’exclave azera del Nachicevan, a soli 60 km da Erevan, questa volta senza vittime. Una vittima invece c’è stata il 14 luglio, quando ulteriori scontri avevano provocato la morte di un soldato armeno, mentre il lato azero ha annunciato non meglio precisate perdite.

Questi sono solo gli ultimi tra gli scontri minori verificatisi tra i due paesi caucasici negli ultimi mesi, e la tensione non accenna a diminuire. La reazione dei governi armeno e azero, per ognuno di questi scontri, è stata piuttosto prevedibile: ognuna delle due parti rifiuta di prendere responsabilità, sostenendo di aver agito soltanto in risposta a un attacco da parte del nemico.

Possibili cambiamenti nel governo armeno

Intanto, dal lato armeno, il ministro della Difesa ad interim Vagharshak Harutiunian, che aveva ricevuto l’incarico dopo la tregua dello scorso novembre, ha presentato le sue dimissioni dopo gli scontri del 20 luglio. Harutiunian non ha esposto pubblicamente le motivazioni della sua scelta.

E, sempre nel governo armeno, RFE/RL segnala la nomina dell’ex segretario del Consiglio di Sicurezza armeno Armen Grigorian a vice-ministro degli Affari Esteri. Grigorian, uno degli esponenti di spicco della rivoluzione del 2018, è noto per le sue posizioni pro-Occidente e ha di recente criticato apertamente l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO), l’alleanza difensiva guidata dalla Russia di cui l’Armenia fa parte.

Grigorian aveva infatti incolpato il presidente del CSTO di aver minimizzato l’ennesimo scontro tra azeri e armeni il 3 luglio scorso, definendolo un “incidente sul confine” quando per Grigorian si trattava di un tentativo di occupare territorio armeno da parte dell’Azerbaigian.

Uno status quo potenzialmente esplosivo

Secondo RFE/RL, la nomina di Grigorian potrebbe significare un cambio di direzione nella politica estera armena, solitamente filorussa. Ma la dipendenza di Erevan da Mosca è ancora enorme e l’Armenia starebbe negoziando con la Russia per spostare alcuni militari russi dalla base di Gyumri all’altro lato del Paese, vicino al confine con l’Azerbaigian. Sembra quindi improbabile che l’Armenia possa permettersi di orientare la sua politica estera verso l’Occidente nel prossimo futuro.

Così come sembra improbabile che Armenia e Azerbaigian rispettino il cessate il fuoco nella sua totalità. Lo scambio di 15 prigionieri di guerra armeni per una mappa delle mine lasciate da Erevan nei territori ora in mano a Baku potrebbe sembrare un passo avanti, ma è stato prontamente seguito da un passo indietro.

Il 23 luglio, dopo gli scontri, l’Azerbaigian ha infatti condannato a sei anni di prigione 13 soldati armeni, accusandoli di aver attraversato il confine armati illegalmente; l’Armenia non ha commentato l’arresto, ma in casi simili aveva in precedenza sostenuto che i soldati siano da considerare come prigionieri di guerra e non criminali comuni.

A quasi un anno dall’inizio della guerra in Nagorno-Karabakh, la situazione è ancora esplosiva e la normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Azerbaigian sembra più lontana che mai.

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