Sono stato in Armenia che ha vissuto il genocidio. Un popolo che aderì, primo al mondo, al cristianesimo. Ora 5 milioni vivono all’estero (Trucioli 11.09.25)

Sono stato in Armenia: volevo conoscere un luogo lontano carico di storia, volevo conoscere – per quanto possibile – un popolo che mi ha affascinato. Sono tornato carico di emozioni, di incontri, di immagini di luoghi antichi, di una realtà mite. L’Armenia che ha subito un genocidio dimenticato dai più e che resiste come può.

La Stele, di 44 Metri: un obelisco di cemento armato che rappresenta la memoria e la lotta del popolo armeno, con una fessura al centro che permette di vedere la Fiamma Perenne (Fiamma dell’Immortalità), che arde in eterno in onore delle vittime (Foto di Andrea De Lotto)
Il maestro di scuola Andrea De Lotto ha contribuito a organizzare “Lo sbarco”, la nave dei diritti da Barcellona a Genova

Negli ultimi anni abbiamo imparato questa parola: Nagorno-Karabakh. Ma è solo stando lì che ho capito tra chi fosse conteso questo territorio, come è andata e soprattutto come è finita. Gli Armeni, non dotati probabilmente di un potente esercito e soprattutto con pochi “santi in paradiso”, hanno dovuto lasciare quel territorio all’Azerbaijan (una dittatura bella e buona), e più di 100mila armeni hanno dovuto lasciare le loro case e rifugiarsi in Armenia. Qualcuno nel mondo ha battuto ciglio per quello che è successo? No.

Quell’Azerbaijan dove, a Baku, da tutto il mondo sono andati per la COOP 29 per poi scoprire (ma davvero a posteriori?) che i padroni di casa sono grandi produttori di fonti inquinanti di energia e il Paese è stato governato per decenni da un uomo che poi ha lasciato l’incarico al figlio. L’opposizione è silenziata.

Così l’Armenia si trova schiacciata tra Turchia ed Azerbaijan, storiche alleate, che se la papperebbero in un boccone e chissà che prima o poi non lo facciano.

Anche gli Armeni sopravvivono solo grazie ad un’enorme diaspora sparsa nel mondo, ma legata a quel fazzoletto di terra, quello che è rimasto di un territorio che era ben più vasto.

E poi c’è la storia: il genocidio degli armeni è troppo poco conosciuto. Si parla di tre milioni di morti tra il 1915 e il1923, in seguito alla decisione del governo ottomano di far piazza pulita di questi mercanti e artigiani, accusati di essere in combutta con i russi. Vennero uccisi o deportati, a piedi, in condizioni tali da lasciare una scia di morti lungo quelle centinaia di chilometri: uomini, donne, anziani, bambini.

Il governo turco in questi 100 anni non ha mai ammesso le sue responsabilità, e nessuno in Europa le ha pretese nè le pretende. Gli Armeni vennero lasciati soli, e in fondo lo sono ancora.

Tornando all’oggi, ho visitato il museo di Erevan sul genocidio armeno: impressionante. Ma ciò che mi ha colpito solo le brevi sintesi di vari genocidi compiuti nella storia che vi sono alla fine: Americhe, Germania, Ruanda, Cambogia e Namibia compresi. Ovvero, dicono: il “nostro genocidio” non è stato l’unico. Nella storia ve ne sono stati diversi.

Ho conosciuto tra gli altri una famiglia armena, sono stato a casa loro. Ad un certo punto è uscita da una stanza la nonna, di oltre 90 anni, con in mano una preziosa scatolina: mi ha subito mostrato con orgoglio la medaglia ricevuta per essere sopravvissuta all’assedio di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale. Lei e migliaia di altri bambini vennero messi al sicuro, andò in Armenia e lì è rimasta tutta la vita. Una volta dagli assedi c’era una via d’uscita, e i bambini venivano messi in salvo. Ci dice qualcosa oggi?

Infine, in Armenia ho conosciuto un popolo mite, nella capitale c’è una grande energia e una spinta in avanti, malgrado un paio di anni fa abbiano perso una guerra e abbiano dovuto accogliere (loro che sono 3 milioni) oltre 100mila profughi armeni. Ma in tutti questi anni, abbiamo mai detto “Con quello che hanno subito gli Armeni…” “Si stanno difendendo e dobbiamo aiutarli!”?

Non lo abbiamo mai detto, e in questi 100 anni non sono stati certo trattati bene. Eppure credo di non aver mai respirato un’aria più pacifica come a Gyumri, la seconda città armena. Nessuno nel mondo ha realizzato musei sulla loro storia, ben pochi la leggono sui libri o la ricordano nella Giornata della Memoria.

Sono il popolo che aderì, primo al mondo, al cristianesimo. Si sono mai sognati di fare uno stato “confessionale”?

Un amico armeno, gran conoscitore della lingua e della cultura italiana, sogna di venire in Italia a visitarla, un giorno, perché non c’è mai stato: ai cittadini armeni è praticamente impossibile avere il visto. Come mai non abbiamo il minimo scrupolo di coscienza verso questo popolo?

Si sono mai sognati gli Armeni di “farsi spazio” intorno (persero gran parte del loro territorio storico e più di 5 milioni di Armeni vivono fuori dal Paese) a suon di bombardamenti?

No. Punto.

Chi ha subito un genocidio, dovrebbe sapere cosa significhi e si dovrebbe solo augurare che non succeda mai più nel mondo.

Andrea De Lotto

Nato nel 1965, milanese, maestro elementare, psicomotricista, da tanti anni attivista: durante la Pantera, nel coordinamento genitori nidi e materne di Milano “Chiedo Asilo”, contro le guerre; è stato maestro popolare in El Salvador nel 1992, alla fine della lunga guerra civile. Ha vissuto con la sua famiglia 2 anni a San Paolo (Brasile) e 10 a Barcellona dove ha partecipato a numerose lotte. Nel 2010 ha contribuito a organizzare “Lo sbarco”, la nave dei diritti da Barcellona a Genova. Dal 2013 ha seguito ovunque la lotta di liberazione di Leonard Peltier, nativo dell’American Indian Movement, ingiustamente in carcere negli USA dal 1976 fino al 2025, quando, ad 80 anni, ha potuto finalmente tornare a casa.  Vive e lavora a Milano insegnando, in una scuola statale, italiano agli immigrati. 

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Il “Grande Male” l’Olocausto degli Armeni (Civico20 11.09.25)

I veri genocidi sono altra cosa

 

In queste settimane i media fanno abbondante uso del termine “genocidio” per quello che sta succedendo a Gaza, ma i veri genocidi sono altra cosa, a cominciare da quello armeno all’inizio del Novecento, nel 1915, in Turchia con lo scopo di “liberarla” della presenza armena. In questa estate ho preso in esame un libretto edito nel 2006 dalle edizioni Angelo Guerini e Associati S.p.A., “Metz Yeghern. Breve storia del genocidio degli armeni” di Claude Mutafian. E’ un opuscolo pubblicato dal Comitè pour la Commemoration du 24 april 1915, sotto l’alto patronato della Chiesa armena.

Il testo si legge agevolmente, si tratta soltanto di 79 pagine con alcune foto e soprattutto con 2 cartine che documentano la pulizia etnica che ha colpito la popolazione armena. Il testo presentato da Mario Nordio sostiene che il genocidio non ha motivazioni religiose, così come quello voluto da Hitler per il popolo ebraico. Una prima domanda che il testo pone è perché? Cerca di rispondere alla complessità della materia, l’autore, che intende operare per fare giustizia a un popolo che è stato praticamente sacrificato, da chi sapeva e non ha fatto niente. E’ stato l’ONU a definire nel 1948 il massacro degli armeni come genocidio, perché si è trattato di un massacro di massa con una volontà sistematica e pianificata da parte dei dirigenti turchi.

Le due domande che ci si pone: perché e i che modo è stato fatto. Ben presto se ne aggiunge una terza: come si spiega che alla fine del XX° secolo questa tragedia, che ha cancellato dalle carte il nome di un popolo intero, non sia ancora registrata dalla Storia? A queste tre domande il testo di Mutafien cerca di dare una risposta. Al massacro degli Armeni dedica un capitolo del suo libro un giornalista inglese, Robert Fisk, corrispondente del quotidiano The Indipendent, definendolo “il primo olocausto” a pagina 385. Il corposo volume di ben 1180 pagine, pubblicato da Il Saggiatore nel 2006, (riedito nel 2023) ha per titolo, “Cronache Mediorientali”. Fisk, uno dei più celebri corrispondenti di guerra al mondo, racconta cento anni di scontri, occupazioni, trasformazioni in Medio Oriente e in tutto il bacino del Mediterraneo.

Protagonisti sono le popolazioni del Medio Oriente a partire dall’Afghanistan, l’Iran, la Palestina e poi tutti i fronti mediorientali. Nell’introduzione Fisk scrive che esistono i Buoni, “i Brutti e i Cattivi, i vincitori, i vinti. Naturalmente tra questi, i nomi eccellenti che circolano nelle pagine del libro sono Bin Laden, Saddam Husseini, Khomeni, Yasser Arafat, Hassan Nasrallah, Hafez Assad, lo Scià di Persia Reza Pahlevi, George Bush, Mikail Kalasnikov, l’inventore del famoso fucile automatico più famoso del mondo. Interessante la storia descritta su Haj Amin (Il Gran Mufti di Gerusalemme) che ha collaborato con i nazisti. Il testo inevitabilmente è corredato da una serie di cartine geografiche. Fisk da buon giornalista sa raccontare e sa coinvolgere il lettore.

Ma torniamo agli Armeni, Fisk inizia il suo racconto, partendo dalla collina di Morgada nel deserto orientale della Siria, qui c’è un fiume, l’Habur. In questo luogo la fotografa Isabel Ellsen ha documentato una scena macabra: crani ovunque, scheletri interi, ossa dappertutto. “In questo piccolo macello furono assassinati forse 50.000 armeni; ci vollero un paio di minuti perché Ellsen e io ci rendessimo pienamente conto di stare in mezzo di una fossa comune”. Praticamente Morgada, come altri migliaia di villaggi in quella che era l’Armenia turca, “sono l’Auschwitz del popolo armeno, il luogo del primo, dimenticato, olocausto della storia”.

Il confronto con Auschwitz è tutt’altro che forzato. “Il terrore turco contro il popolo armeno – scrive Fisk – fu il tentativo di distruggere un’intera razza. Morirono quasi un milione e mezzo di armeni”. I Turchi cercano di giustificare il loro delitto, dicendo che si è trattato di “reinsediamento” della popolazione armena, come fecero più trdi i tedeschi con gli ebrei in Europa. Fisk porta dei documenti come prova: il 15 settembre 1915 il ministro degli Interni Taldat Pasha telegrafa al prefetto di Aleppo. In questa telefonata si affermava che il Governo turco decise di eliminare completamente le suddette persone residenti in Turchia. Devono cessare di esistere, senza riguardo alcuno per età o sesso, né scrupoli di coscienza.

Sono le stesse parole di Himmler nel 1941 rivolte agli assassini delle SS. Fisk fa parlare ancora quei pochi superstiti dello sterminio, Boghos Dakessian sa tutto sulla collina di Morgada: “I Turchi portarono qui intere famiglie per sterminarle. Andò avanti per giorni. Li legarono insieme a file, uomini, bambini, donne, quasi tutti stremati dalla fame e dalle malattie, molti nudi. Poi li spingevano nel fiume e sparavano a uno di loro. Il peso del morto trascinava a fondo gli altri, che annegavano. Costava meno. Bastava una sola cartuccia”. E’ lo stesso metodo che poi userenno i titini comunisti con gli italiani scaraventati nelle foibe.

Ma anche con gli annegamenti dei vandeani durante la Rivoluzione francese. Sorvolo sugli altri racconti. “La storia del genocidio degli armeni è una sequela di orrori perpetrati da soldati e poliziotti turchi entusiasti di aver avuto l’ordine di sterminare un popolo cristiano del Medio Oriente”. La Turchia accusava gli armeni di stare con i nemici degli Alleati nella Prima Guerra mondiale. Prendendo il potere i Giovani Turchi, la situazione politica muta. Questi erano un movimento nazionalista, razzista, panturco, votato alla creazione di una nazione musulmana. Per questo i turchi si accanirono contro gli armeni con la stessa furia con cui, vent’anni dopo, i tedeschi si sarebbero accaniti contro gli ebrei.

Il 24 aprile si decisi di arrestare e assassinare tutti i principali intellettuali armeni di Costantinopoli e poi la totale e sistematica eliminazione del popolo armeno. Ci sono racconti raccapriccianti di Fisk riportati nel libro, come quello della gola di Kemakh a Mayremi, dove i soldati curdi della Brigata di Cavalleria turca macellarano più di 20.000 donne e bambini. A Bitlis i turchi annegarono nel fiume Tigri più di 900 donne. Il massacro di Erzinjam fu tale che il corso del fiume Eufrate deviò per un centinaio di metri a causa di una barriera formata dalle migliaia di cadaveri. Fisk riesce a documentare l’esistenza di diversi campi di sterminio in Siria, in pratica piccole Auschwitz. In una grotta fu individuata una tomba dove trovarono la morte oltre cinquemila armeni, col metodo del fumo tossico proveniente dal fuoco acceso all’imboccatura della grotta.

E’ la prima camera a gas del Novecento. Fisk è convinto che ci sono molte analogie tra il genocidio armeno e quello ebraico. Ci sono studiosi armeni che hanno fatto la mappa dettagliata della persecuzione, in particolare dell’uso delle linee ferroviarie. I diplomatici americani furono i primi a documentare l’olocausto armeno. A cominciare da Leslie Davis., che ci ha lasciato uno spaventoso resoconto dei suoi viaggi nelle terre della morte. Ci furono anche tedeschi tra i testimoni dei massacri. Furono i primi a vedere con i loro occhi i primi carri bestiame per la deportazione di esseri umani, come quelli poi utilizzati da nazisti con gli ebrei. Fisk documenta senza risparmiarsi le crudeltà degli eccidi dei turchi ma anche da parte dei macellai curdi.

I sopravvissuti all’olocausto ormai sono morti, ma i loro figli ne raccolgono le storie. Tuttavia, Fisk ricorda che il primo a raccontare il genocidio degli Armeni fu Winston Churchill. Non esiste nessun dubbio che questo crimine fu pianificato ed eseguito per motivi politici. Tra gli studi più approfonditi Fisk individua quello dell’armeno Vahakn Dadrian che riporta il Rapporto dettagliato di un tedesco von Scheubner Richter, tra l’altro, un ispiratore del Nazismo. Descriveva i metodi dei turchi, come intrappolare gli armeni, il ricorso alle bande di criminali. Non sappiamo se Hitler sapesse dell’olocausto armeno tramite il suo amico von Scheubner. Fisk dà conto anche dei vari tribunali che furono poi istituiti per punire i responsabili di questi orrendi crimini. “Ma ai Tribunali turchi – scrive Fisk – mancò la volontà politica di andare avanti”. Anche perché gli alleati occidentali, non avevano interesse a farlo. Si preferì silenziare il genocidio pianificato degli armeni.

L’ultima parte del capitolo si occupa degli altri massacri che hanno caratterizzato il Novecento prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il mondo pullula di genocidi, grandi e piccoli. Interessante quello avvenuto tra il 1930 e il 1933 in Ucraina, morirono 11 milioni di persone nella “fame del terrore”. Non c’è solo quello ebraico, ma ci sono altri olocausti con la “O” maiuscola che meritano essere ricordati. Quando Giovanni Paolo II accennò al genocidio degli armeni, preludio degli orrori in a venire, un giornale turco lo vilipese in prima pagina con un titolo: “Il Papa da demenza senile”.

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Strano processo di pace in Turchia: tra nuove carceri speciali e distruzione di cimiteri curdi e armeni (Osservatore repressioni 10.09.25)

Mentre se pur a fatica procedono i colloqui per una “soluzione politica” del conflitto turco-curdo, Ankara costruisce altre carceri speciali e demolisce i cimiteri dei combattenti curdi

di Gianni Sartori

Sicuramente i curdi avranno dei buoni motivi per proseguire nelle trattative per una soluzione politica del conflitto con la Turchia (v. il disarmo e la dissoluzione del PKK). Ma visto da qui l’impressione è che la volontà di superamento sia da una parte sola.

Nonostante (come in tutte le situazioni analoghe, dall’Irlanda al Sudafrica…) la questione della liberazione dei prigionieri politici (e di quelli gravemente ammalati in primis) sia sempre stata una priorità irrinunciabile (“una pietra angolare”), Ankara sembra procedere in direzione contraria.

Mentre alcuni media turchi evocano l’improbabile “impegno del governo per stabilire un cambiamento legislativo nel quadro del processo di pace tra Abdullah Öcalan e il potere turco per risolvere la questione curda con mezzi pacifici”, è di questi giorni una notizia preoccupante.

Il potere turco ha avviato la costruzione di un nuovo carcere di alta sicurezza (l’ennesimo) nella città di Ewran (Yeşilova, provincia curda di Muş). I lavori, avviati in sordina, proseguono alacremente e coprono già oltre quattro ettari di terreno.

Per Metin Güllü, esponente dell’Associazione degli avvocati per la libertà (ÖHD): “La costruzione di questo carcere non va nella direzione del processo di pace”.

Siamo con tutta evidenza di fronte a un esempio da manuale di “negoziati asimmetrici”. Come quando – e pare sia il caso attuale dei curdi – le due parti non si equivalgono a livello di potere, mezzi, autorità.

Per cui la parte più potente pone sul tavolo i propri interessi mentre quella più debole si muove con difficoltà (talvolta solo per garantirsi la sopravvivenza). Quindi alla fine a prevalere saranno non la verità e la giustizia, ma semplicemente la volontà di dominio e la legge del più forte.

Ma reprimere non basta evidentemente. Prima vanno estirpate anche le radici. Risaliva al 6 agosto la notizia che il cimitero di Herekol (dove erano sepolti una sessantina di membri del PKK caduti nella lotta di liberazione) è stato completamente raso al suolo con le ruspe. Ignota al momento la sorte dei resti dei combattenti.

È almeno dal 2013 (quando Ankara interruppe arbitrariamente un precedente processo di pace) che i corpi dei curdi morti in battaglia (“martiri” per il loro popolo) sono di fatto un obiettivo di quella che possiamo definire “guerra psicologica”. I cimiteri vengono bombardati o in alternativa spianati con i bulldozer (o entrambe le cose). Lasciando soltanto macerie e  rendendopoi l’area interdetta alle famiglie per diversi anni.

Il cimitero di Herekol, costruito nel 2014 nella regione di Çemê Karê (distretto di Pervari a Siirt) e conosciuto come cimitero dei martiri di Şehîd Azîme e Şehîd Resul Goyî), era già stato bombardato in passato (oltre che danneggiato dall’alluvione del 2017). Ora si presenta come un’area piatta e deserta dove i familiari dei caduti si aggirano sbigottiti, rinvenendo soltanto qualche frammento delle 63 lapidi. Abbattuto anche il muro in pietra perimetrale, mentre si parla della prossima installazione di un posto di osservazione militare (una “torre”).

A tal proposito qualcuno ha voluto ricordare le affermazioni risalenti al 1993 di Abdullah Öcalan: “Se noi dimentichiamo i martiri, anche solo per un minuto, diventiamo più traditoti dei traditori. I nostri martiri sono l’onore del nostro popolo”.

Sempre in questi giorni (notizia dell’agenzia Welat) un evento simile ha interessato l’antico cimitero armeno del villaggio di Akori ai piedi del monte Gilidax (Ağrı) nel distretto di Idir. Numerose ossa umane emerse dalle tombe in rovina sono state – disordinatamente e poco rispettosamente – ammucchiate e abbandonate in mezzo alle lapidi. Tra le varie ipotesi, quella di visitatori occasionali (vandali?) o di “cercatori di tesori”. Ma è anche possibile che si tratti di un gesto intenzionalmente ostile nei confronti dell’identità armena

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In Armenia si apre la stagione autunnale a bordo di una mongolfiera (Travelwxpo 10.09.25)

Dall’11 al 15 ottobre arriva il ‘Discover Armenia from the Sky‘ International Balloon Festival: 20 mongolfiere provenienti da tutto il mondo si raduneranno in Piazza della Repubblica a Yerevan e in altre località dell’Armenia, per poi colorare il cielo di colori vibranti.

A fare da sfondo i meravigliosi paesaggi autunnali dell’Armenia, che si fanno ancora più suggestivi nei mesi di ottobre e novembre: in questo periodo è più facile ammirare il tramonto sul monte Ararat che sovrasta Yerevan e i dintorni. Per chi vuole spingersi oltre, il parapendio nella regione di Tavush, sul lago Sevan e sul bacino artificiale di Azat, regala prospettive uniche sui contrasti cromatici della stagione.

I paesaggi armeni offrono uno spettacolo di luci e colori cangianti anche a chi rimane sulla terra ferma: il Parco Nazionale di Dilijan invita a percorrere sentieri immersi nei boschi, con viste spettacolari sui laghi di Parz e Gosh. La regione di Lori è un’altra zona popolare per chi ama immergersi nei boschi dai colori autunnali; il Dendropark di Stepanavan ospita oltre 500 specie vegetali, ciascuna con una propria gamma di colori durante la stagione autunnale. Gli itinerari on the road verso Jermuk, la località termale più importante dell’Armenia, svelano cascate, valli e angoli incontaminati, ideali per chi desidera immergersi in paesaggi naturali.

Altri eventi d’autunno

Ad arricchire l’offerta l’Areni Wine Festival sabato 4 ottobre, per celebrare le eccellenze enologiche armene nella regione vitivinicola di Areni, che non a caso ospita la più antica cantina del mondo, risalente a 6100 anni fa. È l’occasione per immergersi nella vita del paese, incontrando produttori locali e appassionati tra degustazioni, musica e tradizioni popolari.

Sabato 4 ottobre si svolge anche la Maratona di Yerevan, per chi vuole cimentarsi in una corsa attraverso le vie della città.

Clima gradevole, paesaggi che mutano come un quadro vivente ed eventi che celebrano vino, cultura e tradizioni fanno dell’autunno in Armenia un’esperienza da ricordare.

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Diciassette secoli di storia dietro alla crisi politico-religiosa di Erevan (Asianews 09.09.25)

L’opposizione del katholikos Karekin II alla politica del premier Pašinyan sugli accordi con l’Azerbaigian è solo l’ultimo capitolo di una “concorrenza” che affonda le sue radici nelle origini stesse di quello che fu il primo Stato cristiano al mondo. E il Karabakh, che la Chiesa non vuole cedere definitivamente, negli anni della dominazione sovietica fu un simbolo della difesa della propria identità.

Erevan (AsiaNews) – La situazione in Armenia, sul crinale della possibile pace con l’Azerbaigian e delle alleanze con gli altri Paesi della regione (compresi Turchia e Iran), è difficile da comprendere per chi non conosce le contraddizioni interne del Paese. Il premier Nikol Pašinyan, fautore della politica di apertura e compromesso tra Oriente e Occidente, ha un livello di consenso piuttosto basso, ma i suoi oppositori politici, tra cui diversi ex-presidenti, sono ancora meno quotati nell’opinione pubblica armena. L’unica vera alternativa a tutta la politica del Paese sembra essere la Chiesa Apostolica, con in testa il patriarca-katholikos Karekin II, affiancato dall’oligarca russo-armeno Samvel Karapetyan, difensore della Chiesa stessa e degli interessi di Mosca, in una sorta di nuova concorrenza tra trono e altare.

Lo storico e teologo armeno di origini russe Vladimir Petunts, che tiene corsi di cultura armena all’università di Erevan, ha commentato questi eventi su Novaja Gazeta, presentandosi come un “figlio fedele della Chiesa Apostolica”, senza per questo sentirsi affiliato alle strutture che hanno proclamato la “lotta santa” contro il governo. Quello che stupisce è la grande religiosità degli armeni, che si affidano alla Chiesa più che alle strutture politiche, e Petunts ricorda che “esiste un’enorme diaspora armena in tanti Paesi del mondo, con diversi atteggiamenti nei confronti della Chiesa e della religione, ma per tutti la Chiesa Apostolica rimane il simbolo dell’identità armena”. L’Armenia è in effetti il primo Stato cristiano della storia, avendo proclamato la Chiesa di Stato qualche decennio prima dello stesso imperatore Costantino.

Prima dell’avvento dei bolscevichi, la storia armena si divideva in due grandi periodi: fino al XIV secolo, con il proprio Stato indipendente, e quindi fino al 1918, quando era sottomesso agli ottomani e ad altre dominazioni. All’inizio i primi patriarchi venivano scelti esclusivamente tra i discendenti diretti del battezzatore degli armeni, Gregorio l’Illuminatore, fino al quarto successore, il katholikos Iiusik, che per aver criticato il re fu pestato a morte, trasferendo il titolo patriarcale a un membro di un’altra stirpe. In seguito il re Aršak II ristabilì la dinastia ecclesiastica originaria con il katholikos Nerses I, amico e scudiero del monarca. L’alternanza e i conflitti tra Stato e Chiesa si sono succeduti nei secoli con varie motivazioni, comprese quelle della difesa o della cessione dei territori agli imperi confinanti, da quello bizantino a quello russo, come avvenuto in questi anni per il Nagorno Karabakh.

Spesso il patriarca veniva imposto dal re al concilio locale dei vescovi, finché l’Armenia è finita sotto gli ottomani, e in parte sotto i persiani. A inizio del Settecento la rivolta del principe David-bek permise agli armeni di riprendersi parte dei territori, tra cui proprio quelli oggi contesi all’Azerbaigian, il Karabakh e il Nakhičevan. Per alcuni anni gli armeni rimasero liberi dall’oppressione persiana, con due diversi katholikos contrapposti: quello di Ečmjadzin, la sede principale in periferia di Erevan, il patriarca Astvatsatur, che era contrario alla rivolta, mentre quello nella sede di Gandzasar nel Karabakh, Esaj, aveva benedetto le truppe di David-bek. In ogni caso gli armeni hanno dovuto cercare compromessi con tutti i potenti vicini, turchi, iraniani e russi, affidandosi spesso alle personalità ecclesiastiche per le mediazioni.

L’impero russo era comunque diffidente nei confronti della Chiesa armena, a cui nel 1836 venne affibbiato dallo zar Nicola I il titolo di “Chiesa Armena Gregoriana”, escludendo il termine “Apostolica” che faceva ombra all’Ortodossia, da cui gli armeni si erano separati ancora al tempo del Concilio di Calcedonia del 451. Anche sotto i sovietici, gli armeni rimasero la repubblica socialista meno “russificata”, difendendo la propria identità proprio grazie alla Chiesa, che non si voleva sottomettere alla propaganda ateista.

Gli armeni hanno sempre conservato tre dimensioni della propria devozione: le chiese, che vennero in gran parte chiuse e distrutte dai sovietici, i matury, le cappelline sparse anche sulle montagne, e soprattutto i kačkary, le stele di pietra con l’immagine della croce, che venivano erette dove non arrivavano neanche i trattori per abbatterle. Uno dei luoghi dove questi segni della tradizione religiosa e nazionale si erano più conservati era proprio l’Artsakh, nome armeno del Karabakh, che la Chiesa oggi non si rassegna a cedere definitivamente, nonostante le sconfitte militari, e per questo è nato un nuovo conflitto con il potere civile. Il premier Pašinyan non fa che ripetere che “bisogna costruire una nuova Armenia, non sognare quella del passato”, ma i patriarchi, i vescovi e i fedeli della Chiesa Apostolica non vogliono “abbandonare le proprie origini”.

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Alla scoperta dello storico teatro di Yerevan. Il simbolo della musica in Armenia (Atribune 09.09.25)

Sognare e costruire una città, anzi, la capitale di uno Stato, partendo da zero. È questa l’impresa che nel 1924 fu affidata all’architetto Alexander Tamanian: ridisegnare Yerevan, destinata a diventare la nuova capitale della Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia. Il suo progetto nasceva dall’ambizione di trasformare una città storicamente marginale in un moderno centro politico e culturale. Ispirato al modello delle città giardino e alle teorie urbanistiche neoclassiche, il progetto si fondava su un impianto geometrico di assi radiali e anelli concentrici, pensati per accompagnare in modo armonico e centralizzato l’espansione urbana. Tamanian immaginò una città costruita interamente nel tipico tufo rosa delle montagne armene, con edifici di pari altezza distribuiti in modo discendente lungo le colline, così che da ogni punto fosse visibile il monte Ararat. Un luogo simbolo identitario dell’Armenia, insieme fonte di orgoglio nazionale, memoria di tragedia (quelle terre, oggi parte della Turchia, furono sottratte con uno dei peggiori genocidi del Novecento) e speranza irredentista.

Il sogno (infranto) dell’architetto Alexander Tamanian per Yerevan

Chi oggi, alla ricerca di quel sogno, salisse in cima alla monumentale scalinata di Cascade e guardasse Yerevan dall’alto, ci metterebbe poco a scoprire che di quella visione restano solo frammenti: lo sviluppo disordinato seguito alla caduta dell’URSS, spinto da logiche speculative ed economiche, ha trasformato l’espansione urbana in un insieme caotico e grigio. Eppure, nel cuore della città, qualcosa resiste. La Piazza della Repubblica (in armeno Hanrapetut’yan hraparak), cuore pulsante della capitale, continua a rappresentare uno degli spazi più iconici dell’Armenia moderna. Intorno a essa si ergono maestosi edifici in tufo rosa e crema: il Palazzo del Governo, la Banca Centrale, il Ministero degli Affari Esteri, l’Hotel Marriott Armenia e, soprattutto, il Museo di Storia dell’Armenia con la Galleria Nazionale, custode di una delle collezioni artistiche più significative del Paese.

Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan, esterno
Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan, esterno

Una macchina architettonica per la cultura: il progetto del Teatro di Yerevan

Ma il centro ideale del sogno armeno resta il Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto intitolato ad Alexander Spendiaryan, che Tamanian aveva immaginato — non a caso — come cuore simbolico della sua visione urbana. La costruzione dell’edificio iniziò nel 1930; fu inaugurato ufficialmente nel gennaio 1933 con l’opera Almast di Spendiarian, e venne completato nella sua forma definitiva solo nel 1953, sotto la direzione del figlio dell’architetto, Gevorg Tamanian. Il Teatro dell’Opera di Yerevan si sviluppa su una pianta ellittica che richiama le forme della basilica e dell’anfiteatro romano. La struttura è simmetrica ma non chiusa: la facciata principale, curvilinea, è aperta verso la Piazza della Libertà, creando un rapporto diretto con lo spazio pubblico. L’edificio è diviso in due ali autonome ma connesse: una destinata alla musica sinfonica, l’altra all’opera e al balletto. Entrambe le sale, collocate su lati opposti, condividono un grande foyer semicircolare e un atrio a colonne che funge da punto di snodo.

Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan, interni
Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan, interni

Storia e architettura del Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan

La sala filarmonica, oggi dedicata ad Aram Khachaturian, ospita oltre 1.400 spettatori; quella operistica può accogliere circa 1.200 persone. I volumi si articolano in una serie di spazi concentrici che combinano estetica monumentale e funzionalità acustica. L’uso del tufo rosa e del basalto grigio, materiali locali impiegati in contrasto cromatico, richiama la tradizione costruttiva armena, mentre gli elementi decorativi classici – colonne doriche, archi ciechi, nicchie, rilievi ornamentali – traducono in linguaggio locale i codici dell’architettura Beaux-Arts. L’estetica dell’edificio riflette l’ambizione ideologica del tempo: fondere l’eredità nazionale con la monumentalità socialista. La grande vetrata curvilinea del foyer, orientata a sud, si affaccia sul monte Ararat, diventando una quinta visiva e simbolica. Le proporzioni dell’intero complesso sono pensate per garantire continuità tra l’architettura e la natura, tra l’interno e l’esterno, tra la città e la cultura. Il progetto del teatro vinse la medaglia d’oro alla sezione architettura dell’Esposizione Universale di Parigi del 1937.

Da Spendiarian a Khachaturian: una lingua musicale per l’Armenia

La fondazione dell’Armenian National Philharmonic Orchestra risale al 1925: esattamente un secolo fa. Nata come ensemble del Conservatorio di Yerevan, fu diretta inizialmente da Arshak Adamian e poi da Alexander Spendiarian, il quale contribuì alla costruzione di un’identità musicale nazionale ispirandosi alle leggende e ai canti popolari armeni. La sua opera Almast, rappresentata per l’inaugurazione del teatro nel 1933, fu il primo esempio di dramma lirico in lingua armena. A consolidare la centralità del teatro nella vita culturale armena fu Aram Khachaturian, autore di sinfonie, concerti e soprattutto di celebri balletti. La sua musica fondeva armonia occidentale e melismi orientali, in uno stile riconoscibile e potente. Visto il suo enorme successo anche fuori dall’Unione Sovietica, non sorprende che negli Anni Cinquanta fu deciso di intitolargli la sala da concerti principale del teatro; oggi una sua statua troneggia fuori dall’ingresso principale.

Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan, interni
Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto di Yerevan, interni

Gayane: il balletto epico della nuova Armenia

Con la stessa ciclicità con cui si possono sentire i valzer di Strauss a Vienna o l’Aida all’Arena di Verona, nel teatro armeno viene rappresentato il balletto del 1942 Gayane, in cui è contenuto quello che forse è il più celebre pezzo di musica classica armena: La danza delle spade. Quest’opera originariamente raccontava la storia di una giovane contadina armena di un kolchoz ai piedi del monte Ararat, che, dopo aver scoperto l’intenzione di suo marito di tradire lo Stato e passare al nemico, lo denuncia: metafora del fatto che, nonostante il dolore personale, il dovere verso la collettività prevale. Oggi, invece, la versione che va in scena ha abbandonato ogni valore ideologico, riducendosi a una blanda storia d’amore tra due giovani sventurati con un terzo, malvagio pretendente nel mezzo, e con l’amore che alla fine vince su tutto. Proprio come per il sogno architettonico di Tamanian, anche l’opera di Khachaturian ha sacrificato sull’altare della modernità una parte della sua anima, ma sopravvivono, per fortuna, anche dietro la banalità, la bellezza dei corpi in movimento e l’armonia delle note. La partitura alterna sezioni liriche e trionfali, con una forte presenza di danze etniche ispirate ai repertori curdi, caucasici e armeni.

Yerevan oggi e il centenario dell’Armenian National Philharmonic Orchestra

Dopo l’indipendenza dell’Armenia nel 1991, il teatro ha attraversato fasi alterne, ma ha continuato a svolgere un ruolo centrale nella vita culturale di Yerevan. Restaurato nel 2001, il Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto è oggi sede della Filarmonica; ospita stagioni liriche, festival internazionali, spettacoli di danza e conferenze. L’anniversario della Filarmonica diventa occasione per interrogarsi non solo sul passato, ma su cosa significhi oggi, in Armenia, costruire un’identità attraverso la musica, l’architettura e la città.

Federico Silvio Bellanca

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Attorno alla parola “genocidio” c’è sempre stata molta conflittualità (Factanews 08 09 25)

Il termine genocidio nasce in ambito giuridico, ma nel tempo si è caricato di significati politici, etici e ideologici. Oggi il suo impiego divide sulla guerra a Gaza, dove le violenze e le dichiarazioni dei leader israeliani, che stanno bombardando la Striscia dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco a Israele di Hamas, si intrecciano con il dibattito sull’intento genocidario. Allo stesso tempo, governi e media ne hanno spesso manipolato l’uso, come nel caso del cosiddetto “genocidio dei bianchi” in Sudafrica, o evitato la definizione per ragioni diplomatiche, come nel caso del genocidio armeno.

Cos’è un genocidio

Per quanto il termine genocidio abbia una definizione precisa nel diritto internazionale, il suo significato si è espanso in modo più ampio e meno tecnico, assumendo non solo un valore giuridico, ma anche storico, etico e politico. Il dibattito sul suo utilizzo spesso è polarizzato, inquinato dalla propaganda, e quindi risulta più complesso tracciare una linea tra ciò che corrisponde a questo termine tecnico e ciò che non lo è.

Secondo la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidiofirmata dalle Nazioni Unite nel 1948, il termine genocidio indica il compimento delle azioni volte a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Ciò può avvenire attraverso l’uccisione o il danneggiamento fisico e mentale dei suoi membri, l’imposizione di condizioni di vita tali da condurre alla loro eliminazione fisica, l’impedimento delle nascite oppure la sottrazione forzata di bambine e bambini per trasferirli in un altro gruppo. Tra i genocidi storicamente riconosciuti vi sono lo sterminio dei Ovaherero e dei Nama in Namibia da parte della Germania (1904-1908), il genocidio armeno nell’Impero ottomano (1915-1916), l’Olocausto contro la popolazione ebraica in Europa (1941-1945) e il genocidio dei Tutsi in Ruanda (1994).

La componente più dibattuta dell’uso del termine non è tanto la constatazione delle violenze elencate, ma l’intenzione genocidaria. Alla luce dei fatti, come si dimostra che dietro questi atti ci sia proprio la volontà di cancellare un popolo? Questo è l’interrogativo su cui il mondo giuridico, giornalistico e politico dibattono per definire una serie di eventi un genocidio, accertarne le ragioni e le implicazioni. Il genocidio, infatti, è un crimine internazionale e il suo divieto è vincolante per tutti gli Stati, indipendentemente dal fatto che abbiano ratificato o meno la Convenzione del 1948.

Fino al 1998 erano i tribunali nazionali a stabilire se una serie di azioni potesse o meno rientrare nella definizione di genocidio, oggi a farlo è la Corte penale Internazionale. Parallelamente, dichiarazioni e risoluzioni di organismi statali o internazionale, come l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, contribuiscono a consolidare il riconoscimento pubblico e diplomatico di un genocidio, pur senza avere lo stesso valore giuridico.

L’abuso del termine genocidio

La nozione di intento genocidario deriva dall’elaborazione del giurista Raphael Lemkin nel volume “Axis Rule in Occupied Europe” (1944), su cui si basa la Convenzione ONU del 1948. L’obiettivo era quello di impedire l’uso esponenziale del termine nei tribunali e nella società civile e quindi svuotarlo di significato e di conseguenze legali. Come nel caso del cosiddetto “genocidio dei bianchi” in Sudafrica.

Il mito del genocidio dei bianchi nasce in realtà negli Stati Uniti, dove affonda le radici nella galassia suprematista. I primi riferimenti risalgono agli anni Settanta, con articoli su riviste neonaziste che accusavano le campagne di controllo delle nascite di mirare a ridurre solo la popolazione bianca. Nei decenni successivi l’ossessione per un’ipotetica scomparsa o sostituzione della “razza bianca” si consolida, finché in Sudafrica non viene costruito un caso-simbolo.

Qui gli omicidi nelle aree rurali, che colpiscono indistintamente persone bianche e nere, vengono reinterpretati come prova di un presunto piano per sterminare gli agricoltori afrikaner, cioè la minoranza bianca sudafricana che discende dai coloni olandesi. L’eco della teoria è arrivata fino dentro la Casa Bianca. Donald Trump ha rilanciato frequentemente sui social media la narrativa del white genocide in Sudafrica e parallelamente Grok, il chatbot di intelligenza artificiale di Elon Musk, ha diffuso informazioni inesatte sull’argomento su X. In realtà – come hanno mostrato indagini indipendenti e rapporti ufficiali – gli omicidi nelle fattorie rientrano nella violenza generalizzata che affligge il Paese, senza alcun intento genocidario verso un gruppo specifico.

I genocidi negati

L’adozione del termine genocidio non è mai solo giuridica, ma anche politica, e comporta ripercussioni significative: riconoscere un genocidio porta con sé pesanti conseguenze diplomatiche e militari. Per questo, in passato, la definizione è stata evitata o per quanto possibile rimandata. È il caso del genocidio armeno: per decenni molti Stati hanno scelto di non definirlo come tale, nonostante l’evidenza storica, per non incrinare i rapporti diplomatici ed economici con la Turchia.

Il genocidio armeno avvenne tra il 1915 e il 1923, quando il governo dei Giovani Turchi decise di eliminare la presenza armena dall’Anatolia. Le marce della morte e le condizioni disumane portarono alla morte di circa un milione e mezzo di persone, pari a due terzi della comunità armena dell’impero. Oltre alle uccisioni, furono confiscati i beni e forzatamente convertiti alla fede islamica i bambini. Con la fondazione della Repubblica turca, il generale Mustafa Kemal, detto Atatürk cioè Padre dei Turchi, completò l’opera di espulsione e negazione, tentando di occultare il genocidio e impedendo ogni forma di risarcimento.

Solo in tempi recenti il genocidio armeno ha ottenuto un riconoscimento formale da parte di diversi Stati. Negli Stati Uniti è stato il presidente Joe Biden nel 2021 a definire apertamente genocidio le deportazioni e i massacri del popolo armeno. Una scelta maturata dopo decenni di pressioni da parte delle comunità della diaspora e delle organizzazioni per i diritti umani. Nel 2019 una risoluzione della Camera dei Deputati italiana aveva chiesto al governo di riconoscere ufficialmente il genocidio armeno.

Diverso è invece il caso degli uiguri, minoranza musulmana turcofona che vive nello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, oggetto di una campagna di internamento e repressione da parte del governo cinese. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2018, oltre un milione di persone sarebbero state rinchiuse in strutture che Pechino definisce centri di formazione professionale, ma che di fatto funzionano come luoghi di detenzione e lavoro forzato, con l’obiettivo di snaturare l’identità culturale e religiosa della comunità. Le indagini documentano anche un sistema di controllo delle nascite che comprende sterilizzazioni forzate, aborti imposti e l’uso obbligatorio di dispositivi contraccettivi.

Di fronte a queste violazioni, il Parlamento europeo ha affermato già nel 2020 l’eventualità di essere di fronte a un genocidio. Di seguito, USA, Regno Unito e Canada hanno accusato ufficialmente la Cina di genocidio, imponendo sanzioni coordinate. La Cina ha respinto tutte le accuse, definendole bugie. Nel 2022 l’ONU ha pubblicato un rapporto che, sulla base di documenti ufficiali e delle testimonianze di ex detenuti, conferma gravi violazioni dei diritti umani, come la detenzione arbitraria diffusa e pratiche riconducibili a crimini contro l’umanità. Tuttavia, pur evidenziando la gravità della situazione, il documento non ha utilizzato il termine “genocidio”, che resta quindi oggetto di disputa sul piano giuridico e politico.

Negli ultimi anni si è registrata inoltre un’ondata crescente di negazionismo rispetto ai genocidi già storicamente accertati. Secondo una rilevazione Eurispes pubblicata nel 2024, il 14,1 per cento degli italiani ritiene che la Shoah non sia mai avvenuta, mentre il 15,9 per cento pensa che le vittime siano state molte meno di quanto sostenuto. Si tratta di percentuali in crescita rispetto al 2020, quando i negazionisti erano il 15,6 per cento, e soprattutto rispetto al 2004, quando erano il 2,7 per cento. Inoltre sminuiva la portata della tragedia dell’Olocausto il 16,1 per cento degli intervistati nel 2020 e l’11,1 per cento nel 2004.

A Gaza è in corso un genocidio?

Secondo il ministero della Salute palestinese, gestito da Hamas, sono più di 62mila le vittime dei bombardamenti israeliani degli ultimi due anni. Diverse fonti indipendenti, però, indicano che questi dati sono sottostimati e il conteggio delle vittime per morte violenta e non violenta può essere più ampio, fino a 80mila. Come valutato dal Centro satellitare delle Nazioni Unite, quasi l’80 per cento degli edifici a Gaza è stato raso al suolo e la distruzione di attrezzature di sollevamento ha ostacolato la ricerca di migliaia di persone sepolte sotto le macerie. A Gaza è inoltre in corso una grave carestia, accertata dalla Integrated Food Security Phase Classification (IPC), uno strumento elaborato da 21 organizzazioni tra cui le Nazioni Unite e ONG internazionali.

Questi dati corrispondono ai primi tre indicatori della definizione di genocidio secondo la Convenzione del 1948. Inoltre l’ente delle Nazioni Unite OHCHR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani) ha associato all’ultimo punto gli attacchi alle strutture sanitarie riproduttive, ai reparti di maternità e alla principale clinica per la fertilità in vitro di Gaza.

Resta da dimostrare se Israele agisca con intenti genocidari per distruggere la popolazione palestinese. Il metodo tradizionale richiede il ritrovamento di documenti e prove in cui ci sia traccia di un piano di sterminio. È il caso del genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994 e che ha portato a 800mila vittime. La propaganda si è dipanata tramite i giornali e la radio così da diffondere fake news e ostilità nei confronti della popolazione Tutsi, ma a mettere nero su bianco l’intento genocidario fu la Definizione e identificazione del nemico, il documento frutto del confronto tra il generale Juvénal Habyarimana e una commissione di alti ufficiali.

Lo stesso avvenne con l’Olocausto durante il nazifascismo. Le prove documentali raccolte dopo i fatti rendono inattacabile l’accusa di genocidio. Nel caso del massacro di Srebrenica – che portò alla morte di 8mila ragazzi e uomini bosgnacchi – l’accusa di genocidio venne però formulata anche in assenza di una chiara pianificazione documentata. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dedusse l’intento genocidario dalla gravità e dallo svolgimento degli eventi e dalle dichiarazioni pubbliche dei responsabili.

Nel caso di Gaza, le affermazioni pubbliche dei membri del governo israeliano sono d’impatto. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che «Gaza sarà completamente distrutta» grazie agli interventi israeliani. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha usato le parole: «Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza». Il presidente israeliano Isaac Herzog ha affermato: «Combatteremo e gli spezzeremo la spina dorsale». Poco dopo l’attacco del 7 ottobre condotto da Hamas, invece, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva esortato le truppe di terra che stavano per entrare a Gaza a «ricordare ciò che Amalek vi ha fatto», facendo riferimento a un antico nemico degli israeliti, contro il quale la tradizione ebraica impone una guerra senza esclusione di colpi.

Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato agli abitanti di Gaza: «Questo è l’ultimo avvertimento. […] Restituite tutti gli ostaggi e rimuovete Hamas, e vi saranno presentate altre opzioni, tra cui il trasferimento in altre parti del mondo per chi lo desidera. L’alternativa è la distruzione e la devastazione totali». Secondo gli esperti di diritto Julian Fernandez e Olivier de Frouville questo messaggio esprime l’intento genocidario di Israele. «Ci sono pochi casi così chiari come questo. Di solito l’intento genocida viene nascosto o minimizzato» afferma Rafaëlle Maison, docente dell’Università Paris-Saclay. Inoltre secondo la giurista Paola Gaeta, docente al Graduate Institute di Ginevra, «Israele non può non sapere che a causa del modo in cui sta conducendo questa guerra non sarà più possibile una vita palestinese a Gaza».

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, nel suo rapporto “Anatomy of a Genocide”, conclude che «la natura schiacciante e la portata dell’attacco israeliano a Gaza e le condizioni di vita distruttive che ha inflitto rivelano l’intento di distruggere fisicamente i palestinesi come gruppo. […] Gli atti di genocidio sono stati approvati e hanno avuto effetto a seguito di dichiarazioni di intenti genocidi emesse da alti funzionari militari e governativi».

Il 31 agosto l’Associazione internazionale degli studiosi del genocidio (IAGS) ha approvato una risoluzione secondo cui le azioni dell’attuale governo Netanyahu rispondono ai criteri legali per essere descritte come genocidio. Israele ha poi respinto le conclusioni dell’IAGS, sostenendo che la risoluzione si basa su «menzogne di Hamas» e su ricerche inadeguate. Il ministero degli Esteri ha definito il documento «un imbarazzo per la professione legale» e un portavoce ha dichiarato che è Israele ad essere vittima di un genocidio.

Ad oggi non c’è comunque accordo nel riconoscimento di un intento genocidario dietro le violenze in corso a Gaza dal punto di vista giuridico. Ad esempio Muriel Ubéda-Saillard, docente di diritto pubblico all’Università di Lille, ha sottolineato che «le violazioni in questione devono essere attribuibili esclusivamente alle autorità israeliane e non alle azioni di Hamas».

Inoltre Yann Jurovics, docente dell’Università Paris-Saclay ed esperto di diritto per i Tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, sottolinea che «la parola “genocidio” è spesso oggetto di manipolazione politica e vittimistica, come se si trattasse di affermare una qualità della sofferenza, mentre il diritto internazionale non fa distinzioni nella gravità dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del crimine di genocidio». Per questo pone degli interrogativi: «Le dichiarazioni rilasciate da membri del governo israeliano impegnano lo Stato? Sono inviti al genocidio? Hanno dato luogo a ordini? È possibile stabilire un collegamento tra le dichiarazioni e le azioni compiute sul campo?».

Anche Giorgio Sacerdoti, docente dell’università Bocconi di Milano ed esponente della comunità ebraica italiana, mette in dubbio il legame tra le dichiarazioni dei politici israeliani e l’ideazione di un piano di sterminio. L’intento genocidario non sarebbe deducibile e questo non sarebbe nemmeno la causa delle condizioni di vita disastrose a Gaza, provocate invece dal mero conflitto militare.

Attualmente la Corte Internazionale di Giustizia sta esaminando un caso presentato nel 2023 dal Sudafrica che accusa Israele di genocidio. La Corte non si è ancora pronunciata in merito e Israele ha tempo fino a gennaio 2026 per presentare la propria difesa.

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Armenia: amb. Ferrari a V Biennale Internazionale della Stampa (Giornale Diplomatico 05.09.25)

GD – Jerevan, 5 set. 25 – L’ambasciatore d’Italia in Armenia, Alessandro Ferranti, ha partecipato alla conferenza stampa ufficiale di presentazione della “Quinta Biennale Internazionale della Stampa, Jerevan 2025”, al Centro Culturale “HayArt” di Jerevan. All’evento hanno preso parte anche alti esponenti delle autorità locali e rappresentanti del Corpo Diplomatico.
La Biennale, giunta alla sua quinta edizione, sarà aperta al pubblico fino a febbraio 2026, con una serie di seminari e l’esposizione di un totale di 423 opere di 213 artisti provenienti da 48 Paesi.
Nell’ambito della Biennale, sostenuta anche dall’Ambasciata d’Italia in Armenia, si terrà inoltre il Secondo Simposio Internazionale sulla Stampa Artistica, intitolato “Dalla stampa al pixel: arte, intelligenza artificiale e industria”, il quale vedrà l’intervento di tre partecipanti dall’Italia.

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Non ti scordar di me: storia e oblio del Genocidio Armeno (Korazym 04.05.25)

Il libro di Vittorio Robiati Bendaud Non ti scordar di me. Storia e oblio del Genocidio Armeno (Edizioni Liberilibri, Macerata 2025, Pagg. XXVIII-180 – € 18), preceduto da un Saggio introduttivo di Paolo Mieli (pp. I-XVIII), esce in occasione del 110° anniversario dell’eccidio che portò, da parte dell’impero Ottomano (Stato turco musulmano durato dal 1300 al 1922), all’assassinio di un milione e mezzo di innocenti. Una vicenda che, purtroppo, molti cercano ancora di nascondere o minimizzare e, pertanto, ben venga l’accurato racconto e la documentata analisi della storia e delle cause di questa colossale tragedia ad opera di Robiati Bendaud, che è saggista e filosofo oltre che Rabbino discendente di italiani e di ebrei di Libia.

L’Autore ha il merito in questo lavoro di mostrare la bruciante attualità del genocidio armeno che, infatti, come ribadisce Mieli nella sua prefazione, è «tuttora in essere» nonostante un «negazionismo, magistralmente perseguito e realizzato» soprattutto dall’attuale Presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan. Un negazionismo che è «parte costitutiva, anzi “essenziale” del processo genocidario» aggiunge l’ex direttore del Corriere della sera (dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009) e, oltretutto, che «ha permesso, ai nostri giorni, il riattivarsi di politiche belliche contro gli armeni».

Il Metz Yeghérn, o Grande Male, consumatosi fra il 1915 e il 1921 e finalizzato all’annientamento della popolazione armena, è stato definito il “peccato originale del Novecento”. Da allora fino ai nostri giorni, la Repubblica di Turchia, erede diretta dell’Impero ottomano, non è stata sanzionata né punita, come invece è accaduto alla Germania alla fine della Prima guerra mondiale, né tantomeno obbligata a fare i conti con il proprio crimine contro l’umanità, com’è avvenuto in seguito alla caduta del nazionalsocialismo.

Gli armeni sono tuttora sotto l’attacco di Ankara e di Baku (capitali della Turchia e Azerbaijan), vittime di pulizia etnica e di etnocidio nei territori dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) nel silenzio quasi totale del “mondo libero”. Funzionale alle antiche e nuove politiche antiarmene è appunto l’inquietante e profondamente ingiusto negazionismo del Metz Yeghérn che dura incredibilmente da oltre un secolo. Tale negazionismo, “di Stato” in Turchia e in Azerbaijan, trova ora insidiosa sponda anche in Occidente grazie a politici, giornalisti e intellettuali compiacenti e a finanziamenti a dipartimenti accademici sui quali l’Autore accende finalmente una luce rischiaratrice.

L’uscita del libro ha costituito un’occasione preziosa di ritorno di approfondimento, da parte del mondo politico-istituzionale italiano, su questa pagina drammatica del Novecento, contribuendo a riportare al centro dell’attenzione la memoria del genocidio armeno. Un importante incontro-dibattito di presentazione del volume di Robiati Bendaud, infatti, si è tenuto il 7 maggio 2025 alla Camera dei deputati con la partecipazione, fra gli altri, del Presidente della Camera Lorenzo Fontana, del Ministro della Giustizia Carlo Nordio e dei deputati Chiara Gribaudo (Pd), Giulio Centemero (Lega) e Maurizio Lupi (Noi con l’Italia-USEI). All’evento ha preso parte anche l’ambasciatore armeno in Italia, Vladimir Karapetyan, il quale fra l’altro ha espresso profonda gratitudine per il sostegno italiano e per l’approvazione parlamentare, nel 2019, della mozione sul riconoscimento del genocidio del suo popolo. Il video integrale della presentazione è stato quindi pubblicato sul sito istituzionale della Camera dei deputabile ed è raggiungibile al link: https://webtv.camera.it/.

Vittorio Robiati Bendaud, studioso cresciuto alla scuola del rabbino e storico italiano Giuseppe Laras (1935-2017), è da anni impegnato a livello internazionale nel dialogo ebraico-cristiano. Autore del saggio La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islam, con Nota introduttiva di Antonia Arslan (Guerini e Associati, Milano 2018), ha già scritto per Liberilibri il saggio Il viaggio e l’ardimento. Nove avventure di viaggio, fra le Marche e la Terrasanta, emblemi della diaspora ebraica (Introduzione di Vittorio Sgarbi, 2020) e l’Introduzione al volume I diritti dell’uomo contro il popolo di Jean-Louis Harouel (2019).

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Il primo passo verso la pace nasce tra i banchi (Famigliacristiana 04.09.25)

Alla World House, lo studentato internazionale di Rondine Cittadella della Pace, giovani da Paesi in guerra imparano a vivere insieme. «Con Samir, il mio nemico azero, è iniziata la nostra trasformazione», racconta Elina, armena

Con l’inizio della scuola alle porte, cresce l’attesa e anche le domande: che cosa serve davvero ai ragazzi di oggi per diventare adulti consapevoli, capaci di affrontare un mondo complesso? In Toscana, nel borgo medievale di Rondine, esiste un luogo unico al mondo che da venticinque anni cerca una risposta: la Cittadella della Pace.

Dal 2015, il Quarto Anno Rondine permette agli studenti dei licei italiani di vivere un anno scolastico diverso, riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione come sperimentazione di innovazione didattica. Non è soltanto un modo per studiare in un contesto internazionale, ma soprattutto un’occasione per crescere: un anno dentro un’esperienza che unisce formazione, vita comunitaria e confronto interculturale.

La World House: vivere con il “nemico”

Il cuore di Rondine è la World House, lo studentato internazionale dove giovani provenienti da Paesi in guerra o divisi da odi storici vivono insieme per due anni. Qui si applica il Metodo Rondine, che trasforma il conflitto in una risorsa educativa. La convivenza quotidiana, il confronto costante e il dialogo con chi è stato indicato come “nemico” diventano strumenti per superare stereotipi e paure.

Non si tratta di una teoria astratta: Rondine mette letteralmente fianco a fianco ragazzi armeni e azeri, israeliani e palestinesi, russi e ucraini. Nonostante il peso delle ferite, la quotidianità condivisa apre varchi inattesi. Come raccontano gli educatori, non è la cancellazione del conflitto, ma la sua trasformazione in un’occasione di crescita e di riconciliazione.

 

 

La storia di Elina

A Rondine questa rivoluzione ha un volto concreto, quello di Elina, giovane armena che ha terminato a giugno il suo percorso alla World House. «Quando ho incontrato Samir, il mio ‘nemico’ azero a Rondine – ricorda – ho capito che avevamo attraversato lo stesso inferno. La prima volta che ci siamo parlati, è iniziata la nostra trasformazione».

Oggi Elina dedica la sua vita a costruire percorsi di dialogo tra comunità divise dalla guerra. La sua storia è la prova vivente che l’incontro è più forte dell’odio, che i muri possono cadere e che i giovani, se sostenuti, possono diventare ponti di pace.

Ogni ragazzo della World House riceve una borsa di studio completa. Senza il Fondo di Solidarietà, senza i donatori e i partner che credono in questa visione, esperienze come quella di Elina non sarebbero possibili.

Con l’inizio dell’anno scolastico, mentre milioni di studenti varcano le aule, vale la pena ricordare che altrove ci sono giovani che, grazie a Rondine, stanno imparando a trasformare ferite e conflitti in speranza per il futuro. Ma perché tutto questo continui, c’è bisogno di noi.

Fare una donazione significa diventare parte di quella trasformazione che ha cambiato la vita di Elina. Significa scegliere di credere che la pace è possibile, e che può cominciare da un piccolo passo: il tuo.  Sostieni il primo passo possibile

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