Artsakh, dopo un mese di isolamento la crisi umanitaria «è gravissima» (Tempi 13.01.23)

«Siamo in piena crisi umanitaria, l’obiettivo è costringerci a lasciare la nostra terra, ma noi armeni dell’Artsakh siamo intenzionati a combattere per i nostri diritti». Così Ruben Vardanyan, ministro di Stato dell’Artsakh, ha dichiarato in una conferenza stampa organizzata ieri a Stepanakert a un mese dall’inizio del blocco del Corridoio di Lachin da parte dell’Azerbaigian. Impedendo il transito lungo l’unica strada che collega i 120 mila armeni del Nagorno-Karabakh all’Armenia, Baku sta di fatto impendendo l’arrivo in Artsakh di cibo, benzina e medicine, oltre che di tutto ciò che è necessario alle imprese per lavorare.

«Centinaia di bambini senza medicine»

Il risultato è una crisi senza precedenti su tutti i fronti. Gravissima la situazione sanitaria: tutti i pazienti sottoposti a cure mediche specialistiche in Armenia (dalla dialisi alla chemioterapia) non hanno più accesso ai trattamenti. Nell’ultimo mese la Croce rossa internazionale ha trasferito 16 pazienti dall’Artsakh all’Armenia perché in fin di vita, ma non può fare di più.

Le 50 operazioni chirurgiche che in media ogni mese venivano fatte nelle cliniche dell’Artsakh sono state sospese «perché dobbiamo preservare i medicinali per i casi di emergenza», ha spiegato Mher Musryelyan, direttore esecutivo del centro medico di Stepanakert. «Abbiamo centinaia di bambini con problemi cronici che non possono più curarsi. Ci sono macchinari fuori uso perché necessitano manutenzione, ma non ci arrivano più i pezzi di ricambio. Tanti medici erano in Armenia quando è iniziato il blocco e non possono tornare indietro: così non abbiamo abbastanza personale nelle nostre cliniche».

«Scaffali nei supermercati vuoti»

Dopo un mese di blocco è grave anche la crisi alimentare: verdura e frutta fresca sono introvabili, le patate un lusso, l’agricoltura è ferma e il cibo razionato. Ai residenti in Artsakh sono state distribuite tessere annonarie perché le scorte possano durare il più a lungo possibile, «ma gli scaffali nei supermercati sono ormai vuoti», ha spiegato Gegham Stepanyan, responsabile della difesa dei diritti umani in Artsakh.

Preoccupa anche la situazione economica del paese, illustrata da Mesrop Arakelyan, consigliere del ministro di Stato. Prima dell’inizio del blocco, il governo dell’Artsakh aveva approvato il budget statale per il 2023, prevedendo 50 miliardi di dram di entrate. «Ma è chiaro che non raggiungeremo mai quella soglia a causa del blocco», ha affermato. «Molte aziende non possono più produrre, quindi avremo meno entrate dalle tasse e c’è anche un problema riguardante le famiglie, visto che l’interruzione della produzione ha già causato mille licenziamenti».

Genitori in Armenia, figli in Artsakh

Il problema più drammatico, tuttavia, è quello riguardante le famiglie. Sono al momento bloccati in Armenia circa 1.000 armeni del Nagorno-Karabakh, i quali non possono tornare indietro. Tra questi ci sono 270 bambini. Inoltre, duemila tra stranieri e cittadini dell’Armenia sono al contrario bloccati nel Nagorno-Karabakh senza la possibilità di tornare alle loro case. Particolarmente drammatici i casi di genitori fermi in Armenia da un mese che non possono tornare dai figli piccoli, i quali vengono accuditi dai vicini e dai servizi sociali.

«Parliamo ogni giorno con queste famiglie e soprattutto con i bambini», ha illustrato la situazione Eleonora Ayanesyan, parlamentare dell’Artsakh. «Ci occupiamo di loro per soddisfare innanzitutto i bisogni materiali, ma il problema più grave è rappresentato dal disagio psicologico, specialmente dei bambini. Tanti di loro cominciano a essere depressi. È una situazione drammatica».

«120 mila armeni hanno diritto a vivere»

«Siamo di fronte a una colossale violazione dei diritti umani. Questi appena descritti sono crimini contro l’umanità e la comunità internazionale deve intervenire perché l’Azerbaigian rispetti il diritto alla vita di 120 mila armeni. Non si può permettere a Baku di affamare un intero popolo», ha denunciato il difensore dei diritti umani dell’Artsakh.

Nelle ultime settimane si sono espressi pubblicamente per la riapertura del Corridoio: il segretario generale delle Nazioni Unite, papa Francesco, il Parlamento europeo, l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Usaid e molte organizzazioni per i diritti umani, tra le quali Human Rights Watch, Freedom House, Unicef e Genocide Watch. Ma non è cambiato nulla.

Le strade sono solo tre, ha spiegato il ministro di Stato Vardanyan: «O veniamo occupati dall’Azerbaigian e ci sottomettiamo alle loro leggi o diventiamo profughi e abbandoniamo le nostre case, oppure ci battiamo per il nostro diritto a vivere nella nostra terra. Questa terza per noi è l’unica opzione percorribile. Siamo ovviamente aperti al dialogo con Baku, ma finora non hanno voluto ascoltare ragioni». Poche ore dopo la fine della conferenza stampa, l’Azerbaigian ha tagliato la connessione a internet in tutto il Nagorno-Karabakh.

@LeoneGrotti

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Incontro con l’Armenia #3 – Il patrimonio culturale in guerra (Laricerca 13.01.23)

Terzo e ultimo incontro con Marco Ruffilli, per un approfondimento sui rischi che corrono il patrimonio culturale materiale e quello immateriale armeno nei conflitti.
Chiesa della Santa Madre di Dio. Yerevan, 1936 – fonte: Wikipedia.

Sono molti i rischi che corre il patrimonio culturale di un paese coinvolto in un conflitto, e non soltanto a causa dell’impiego delle armi. I monumenti e gli edifici di valore storico-artistico possono essere danneggiati o distrutti; i siti archeologici trasformati in campi di battaglia e postazioni militari o abbandonati agli scavi clandestini; le biblioteche e i musei saccheggiati; le opere d’arte e gli oggetti trafugati.

Gli edifici possono versare in uno stato di abbandono per mesi o per anni o essere utilizzati in modo improprio, come spesso accade agli immobili destinati al culto. Dopo l’occupazione cinese furono distrutti i templi del Tibet; negli anni Sessanta, in Albania, chiese, moschee e monasteri vennero demoliti o convertiti in palestre, stalle e sale da ballo; in Cambogia, negli anni Settanta, sotto il regime dei Khmer Rossi, i monumenti di Angkor furono trasformati in porcili e depositi.

Attraverso l’attacco al patrimonio culturale si esprime la volontà di aggiungere alla distruzione materiale anche la distruzione morale del nemico. E non parliamo soltanto del patrimonio culturale materiale, ma anche di quello immateriale, rappresentato da tradizioni culturali, espressioni orali, consuetudini sociali, conoscenze e competenze anche di tipo artigianale, che può andare disperso o perduto, con gravi conseguenze per le comunità locali.

Fra tutte le guerre che affliggono il mondo ce ne sono alcune di cui si parla pochissimo. È il caso, ad esempio, dell’Armenia. Dopo i primi due articoli (Incontro con l’Armenia #1 – I rapporti con l’Italia e Incontro con l’Armenia #2 – L’arte armena), riprendiamo il discorso interrotto con Marco Ruffilli, storico dell’arte e studioso di temi armeni, per scoprire qualcosa in più sulla situazione del patrimonio culturale armeno nel corso dei conflitti.

Cimitero di Giulfa – fonte: Ragmamoul.net.

D: Quali rischi ha corso il patrimonio artistico armeno nell’ultimo secolo?

R: Ha subìto danni enormi, per ragioni molto diverse tra loro. La prima, l’eradicazione della memoria armena in Turchia dopo il Genocidio del 1915. Uno storico armeno francese, Raymond Kévorkian, ha riferito il numero di chiese, monasteri e scuole registrate dal Patriarcato armeno di Istanbul: in totale si trattava di circa 5000 monumenti. Di tutto questo oggi rimane in funzione qualche chiesa. Gli altri edifici o sono stati direttamente distrutti, o sono stati riutilizzati in modo da snaturarne l’identità, per esempio trasformandoli in moschee, come a Develi, o a Kayseri, dove la chiesa della Santa Madre di Dio è stata usata fino a non molto tempo fa come centro sportivo. Altri sono stati lasciati volutamente in uno stato di abbandono che li ha condannati alla rovina totale. Operazione per la quale è stata introdotta la nozione di “genocidio culturale”, che appare appropriata, perché la cancellazione di un popolo, dopo la scomparsa delle persone, deve passare necessariamente per la distruzione dei segni materiali superstiti.

Nella madrepatria, del resto, circostanze completamente diverse hanno recato comunque gravi danni al patrimonio monumentale, come la trasformazione di Yerevan in epoca sovietica. A parte il completo stravolgimento urbanistico della città, già in sé discutibile, molti edifici storici furono eliminati. Le chiese, ma anche le moschee e i bazar: per esempio la chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Yerevan fu atterrata nel 1931 e poi sostituita dal Cinema Mosca. Nel 1936, durante la demolizione della chiesa della Santissima Madre di Dio, emerse una chiesetta del XIII secolo, nota come Kathoghike, inclusa nella struttura maggiore. Si levarono allora le proteste e il piccolo edificio fu preservato.

Aggiungi a tutto questo i problemi, comuni a ogni nazione – Italia compresa – dell’ordinaria e costosa conservazione del patrimonio artistico, dei restauri non sempre adeguati, delle indebite sostituzioni edilizie recenti.

Poi c’è il caso drammatico, che merita attenzione propria, del Nakhichevan.

D: Exclave azera tra Armenia, Turchia e Iran.

R: Sì, esattamente. Nella determinazione dei confini tra Armenia e Azerbaigian in epoca sovietica, il Nakhichevan finì col passare sotto completo controllo azero, e lì rimase anche dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Da allora cominciò naturalmente il declino dei monumenti armeni, ma gli episodi più gravi sono abbastanza recenti. Le indagini satellitari dell’American Association for the Advancement of Science e del Caucasus Heritage Watch hanno ormai dimostrato che il 98% dei siti armeni del Nakhichevan è stato distrutto. Quanto stava accadendo, del resto, era noto, ma le autorità azere hanno sempre negato l’accesso a osservatori indipendenti: si possono leggere sull’argomento alcuni ottimi articoli-inchiesta del sito Hyperallergic.com, specializzato nel giornalismo d’arte. Un caso già ben documentato in precedenza era quello del cimitero di Giulfa, una località prossima al confine iraniano, dove la grande distesa di khachkar (manufatto tipico del mondo armeno di cui abbiamo parlato nel corso della seconda intervista) e pietre tombali è stata rasa al suolo tra il 1998 e il 2005: ne abbiamo le prove fotografiche, grazie ad alcuni scatti realizzati di là dal confine, in Iran. C’è però un uomo cui dobbiamo la documentazione sistematica dei monumenti del Nakhichevan: Argam Ayvazyan. Fin da ragazzo, sostenendo in proprio tutte le spese, e anche con serio rischio personale, ha fotografato i siti monumentali della regione, a larga prevalenza armeni. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ha così fornito una documentazione completa di una novantina di chiese, oltre a migliaia e migliaia di khachkar e pietre tombali oggi in larga misura scomparsi. È dal lavoro di Ayvazyan che hanno mosso i loro passi anche i recenti lavori di geolocalizzazione. A questo studioso, ai suoi articoli e libri, fondati sulle sue campagne di documentazione, dovremo in futuro l’unica conoscenza possibile dell’architettura e dell’arte armena del Nakhichevan.

Distruzione del cimitero di Giulfa – fonte: Allinet.

D: Anche nell’ultima guerra si registrano danneggiamenti?

R: Sì, il caso simbolico è quello della cattedrale ottocentesca del Salvatore a Shushi, vittima di un bombardamento che ne ha sfondato la copertura, e ora oggetto di ambigui “restauri” da parte azera. Oltre a questo, però, desta preoccupazione la sorte di tutti monumenti armeni che si trovano nelle aree passate sotto il controllo azero. Il precedente del Nakhichevan induce questi timori. L’attenzione oggi è un po’ più alta, e si avvale delle tecniche di monitoraggio di cui dicevo, così che le denunce possano almeno essere tempestive, il che non significa che producano effetti. Del resto potrebbero oggi essere utilizzate strategie più sofisticate di cancellazione culturale: per esempio, invece di abbattere le chiese, abraderne le tracce più vistosamente armene, come le iscrizioni (alfabeto e lingua non sono equivocabili), e attribuire poi la costruzione di questi monumenti a un passato in cui gli armeni non compaiano più. La politica culturale azera tende a ricondurre questi monumenti, palesemente armeni, a un passato “albano”, costruendo su questo antico popolo del Caucaso meridionale, gli Albàni, un’identità nazionale. Dei due monasteri più famosi dell’Artsakh, quello di Gandzasar è rimasto in territorio armeno, mentre l’altro, Dadivank, è oggi sotto la protezione del contingente russo. Naturalmente però il rischio è grande per molti altri monumenti di minore notorietà, e perciò ancora più vulnerabili. Oltre all’Artsakh, bisogna poi aggiungere che il “corridoio” tra Azerbaigian e Nakhichevan preteso dalle autorità azere, il cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, nell’estremo sud della Repubblica d’Armenia, se realizzato metterebbe a rischio, per esempio, il patrimonio artistico della città di Meghri, con le sue chiese affrescate. Sono cose che naturalmente si aggiungono al danno già inferto direttamente alle persone, che hanno dovuto abbandonare case e villaggi perduti. L’attacco al territorio della stessa Repubblica d’Armenia e il blocco del Corridoio di Lachin che sta sequestrando gli abitanti dell’Artsakh aprono ulteriori, gravi, scenari di fronte alla sostanziale indifferenza del mondo.

Tornando al patrimonio, la preoccupazione degli Armeni nasce ancora una volta dal silenzio che ricopre questi rischi. A differenza dell’Isis, che ostentava le sue distruzioni come un mezzo di terrore e un’affermazione di dominio, queste attività di cancellazione culturale avvengono perlopiù di nascosto o con poca pubblicità, così che poi il fatto compiuto sia accettato come irreparabile e cada nell’oblio.

Cattedrale del Salvatore “Ghazanchetsots”, XIX secolo, dopo il bombardamento – fonte: Vaticannews.

D: E a proposito del patrimonio immateriale?

R: C’è sicuramente un patrimonio immateriale da promuovere. Per esempio la musica del duduk, strumento tipico della tradizione armena. Si tratta di un flauto di legno d’albicocco ad ancia doppia, dal suono dolce e arcano, misterioso. È uno strumento che ha avuto un grande successo anche in Occidente nella composizione di colonne sonore, ma che va ascoltato soprattutto cercando di entrare nella sensibilità di chi nei secoli ha sentito nel duduk il suono dell’anima armena. Oppure alcune forme di danza, come il kochari e la yarkhushta.

C’è poi il caso della lingua armena occidentale. L’armeno moderno si divide in due varianti, l’orientale, parlato nel Caucaso e in Iran, e l’occidentale, già lingua degli armeni dell’Impero ottomano, oggi parlato nella comunità ancora presente a Istanbul e nella diaspora. Mentre la prima variante non corre pericolo, perché è la lingua ordinaria di alcuni milioni di persone, la seconda è conosciuta perlopiù da armeni che vivono, ormai da generazioni, in molti luoghi diversi del mondo, e che parlano perciò anzitutto la lingua dei paesi d’arrivo. Diluendosi il suo uso col passare delle generazioni, l’armeno occidentale rischia perciò di scomparire. Anche le lingue, per varie ragioni, corrono rischi di estinzione come le specie animali. L’armeno occidentale è insegnato in alcune università e in vari altri corsi, ma è importante soprattutto il fatto che le comunità armene lo coltivino e lo tengano in vita.

Elena Franchi

È storica dell’arte, giornalista e membro di commissioni dell’International Council of Museums (ICOM).
Candidata nel 2009 all’Emmy Award, sezione “Research”, per il documentario americano “The Rape of Europa” (2006), dal 2017 al 2019 ha partecipato al progetto europeo “Transfer of Cultural Objects in the Alpe Adria Region in the 20th Century”.
Fra le sue pubblicazioni: “I viaggi dell’Assunta. La protezione del patrimonio artistico veneziano durante i conflitti mondiali”, Pisa, 2010; “Arte in assetto di guerra. Protezione e distruzione del patrimonio artistico a Pisa durante la Seconda guerra mondiale”, Pisa, 2006; il manuale scolastico “Educazione civica per l’arte. Il patrimonio culturale come bene dell’umanità”, Loescher-D’Anna, Torino 2021.
Ambiti di ricerca principali: protezione del patrimonio culturale nei conflitti (dalle guerre mondiali alle aree di crisi contemporanee); tutela e educazione al patrimonio; storia della divulgazione e della didattica della storia dell’arte; musei della scuola.

L’ossessione azera di costruirsi un passato che non ha (Korazym 13.01.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 13.01.2023 – Vik van Brantegem] – Dopo alcuni brevi cenni storici sulle origini armene, condividiamo un commento sulle dichiarazioni del dittatore dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, in riferimento alla sue pretese sulla capitale della Repubblica di Armenia, Yerevan, e i suoi riferimenti a un’esistenza illusoria di un Azerbajgian occidentale, un’utopia che esiste solo nel suo sogno megalomane delirante, xenofobo e razzista di un Caucaso e di un Medio Oriente senza Armenia e senza Armeni.

Il commento a firma di Carlos Boyadjian è stato pubblicato sul Diario Armenia, un giornale fondato a pochi anni dal genocidio subito dal popolo armeno per mano dell’Impero Turco-Ottomano. In un contesto globale estremamente compromesso, un gruppo di profughi armeni, riuscì con grande sacrificio a fare un giornale che non servisse solo per diffondere informazioni ma anche per preservare la cultura e le tradizioni armene, oltre a svolgere un ruolo sociale estremamente importante. Il Diario Armenia vide la luce per la prima volta il 24 aprile 1931 e da allora non ha smesso di realizzare tutti e ciascuno degli obiettivi che i suoi fondatori gli hanno imposto.

La storia dell’Armenia, ovvero del territorio abitato dalle popolazioni armene, affonda le sue radici nell’epoca preistorica. Il nome originario armeno per questa regione era Hayq, divenuto più tardi Hayastan (Հայաստան in armeno), denominazione attuale del Paese, traducibile come “la terra di Haik”, termine composto dal nome “Haik” e dal suffisso sanscrito -stan (terra), che è tipico anche in persiano per indicare un territorio. Secondo la leggenda e la tradizione armena, Haik, progenitore di tutti gli Armeni, era un discendente di Noè (essendo figlio di Togarmah, che era nato da Gomer, a sua volta nato dal figlio di Noè, Yafet) e, in base alla tradizione cristiana, antenato di tutti gli Armeni. Haik si stabilì ai piedi del monte Ararat, cima centrale e più alta dell’Altopiano Armeno, sacra per gli Armeni in quanto considerata il luogo dove si posò l’arca di Noè dopo il diluvio universale. Successivamente Haik partì per assistere alla costruzione della Torre di Babele e, ritornato dalla Mesopotamia, sconfisse il Re assiro Nimrod presso il lago di Van, nell’Armenia occidentale, l’attuale Turchia. Il diffuso termine Armenia fu dato alla regione dai popoli confinanti per indicare la tribù più potente presente nel territorio (gli Armeni, appunto) e che dimorava in quelle terre. Il nome Armenia si dice derivi da Armenak o Aram (un discendente di Haik e, secondo la tradizione armena, un altro grande “padre della patria”, un grande condottiero del popolo armeno). Fonti precristiane riportano invece la derivazione dal termine Nairi (cioè “terra dei fiumi”) che è l’antico nome della regione montuosa del Paese e che è usato sia da alcuni storici greci sia dall’iscrizione di Behistun, ritrovata in Iran e risalente al 521 a.C. Gli archeologi si riferiscono alla cultura Shulaveri-Shomu del Transcaucaso centrale, comprendente la moderna Armenia, come una delle prime culture preistoriche conosciute nella regione, databile – grazie al C14 – intorno al 6000-4000 a.C. Tuttavia, una tomba scoperta recentemente è databile al 9000 a.C.

Nel I secolo a.C., durante il regno di Tigran II di Armenia detto il Grande (95-58/55 a.C.), l’Armenia costituiva un impero regionale che si estendeva dalle coste del mar Nero al mar Caspio e a quelle del Mediterraneo, ma nel 66 a.C. venne sconfitta dai Romani guidati da Pompeo. Da quella data fu per secoli una delle poste in gioco prima fra Romani e Parti e poi fra Bizantini e Sasanidi. Nel 301 l’Armenia fu il primo stato al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di Stato, precedendo così di alcuni decenni l’Impero romano, dove anzi missionari armeni si recarono a diffondere il cristianesimo: in particolare, ricerche del 2019 portano a ritenere San Mercuriale, primo vescovo di Forlì, proprio di origine armena. Con Gregorio Illuminatore fu istituita la Chiesa Apostolica Armena, che si separò dalle altre chiese cristiane dopo il Concilio di Calcedonia del 451. Con il succedersi delle dinastie e delle occupazioni di parti, romani, arabi (dal 645), mongoli e persiani, lo stato armeno fu notevolmente indebolito.

Armenia circa 50 d.C.
Armenia circa 300 d.C.
Caucaso circa 1060 d.C.

L’ossessione azera di costruirsi un passato che non ha
di Carlos Boyadjian

Diario Armenia, 11 gennaio 2023
(Nostra traduzione italiana dallo spagnolo)

Il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, è un degno discepolo del leader nazista Joseph Goebbels, cultore della menzogna a fini politici. Validità della falsità storica come politica dello Stato nel regime di Baku.

Se Lionel Messi fosse armeno, sicuramente farebbe a Ilham Aliyev, l’autocratico Presidente dell’Azerbajgian, l’inconfondibile gesto con le dita della mano, indicando letteralmente di stare zitto o meglio qualcos’altro, come direbbero nel quartiere. Lo stesso gesto che ha dovuto subire il tecnico neerlandese Louis Van Gaal, dopo i rigori che hanno regalato all’Argentina il passaggio per le semifinali del Mondiale di Qatar 2022.

La risposta al dittatore azero sarebbe giustificata dalle sue dichiarazioni sulla capitale armena Yerevan e dai suoi riferimenti a un’esistenza illusoria di un Azerbajgian occidentale, un’utopia che esiste solo nel sogno megalomane delirante, xenofobo e razzista di un Caucaso e di un Medio Oriente senza Armenia e senza Armeni.

Ma andiamo per ordine. Per quasi dieci anni, ma molto di più da quando la coalizione terroristica turco-azerbajgiana ha lanciato un attacco armato su larga scala contro l’Artsakh nel settembre 2020, che si è concluso con una guerra di 44 giorni, più di 5.000 Armeni uccisi e l’occupazione da parte delle forze armate azerbajgiane di 70 % del territorio dell’Artsakh.

Aliyev insiste che “Erivan” – come chiama la capitale dell’Armenia – e le regioni di Syunik e Gegharkunik sono “territori ancestrali dell’Azerbajgian” e che li recupererà.

Nel suo delirio incontrollabile, Aliyev costruisce un racconto fantasioso, a cui in seguito crederà lui stesso. In verità, gran parte della retorica bellicosa di Baku risponde a una politica statale in Turchia e Azerbajgian, in cui è comune rinominare città e regioni con nomi simili a quelli degli armeni ma con un certo sapore “turco”.

Credendo che chiamare Yerevan Erivan, Nakhchivan Nakhichevan, Shushi Shusha e tutta l’Armenia Zangezur occidentale o Azerbajgian occidentale trasformi semplicemente questi siti in “territori ancestrali azeri”, Aliyev mostra solo accenni della sua matrice di pensiero delirante.

Questa politica non è qualcosa di nuovo nella regione. Già la Repubblica di Turchia e Mustafa Kemal Atatürk faceva appello alla manovra di rinominare le città per far “scomparire” dalle mappe le vestigia dell’esistenza armena in tutta l’Armenia storica dopo il genocidio del 1915-23. Per questo furono assassinati e deportati nei deserti del sud-est del Paese 1,5 milioni di Armeni che, a più di un secolo di distanza, attendono ancora giustizia e gravano sulle coscienze di intere generazioni di Turchi.

Nel caso dell’Azerbajgian e della retorica guerrafondaia e antidemocratica di Aliyev, è anche peggio. Un Paese e uno Stato apparso sulla faccia della Terra nel 1918, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, vuole “appropriarsi” dell’antica cultura armena, presente in quei territori da più di 4.500 anni. Matematica pura, un secolo contro 45 secoli. Chi è ancestrale e chi è l’invasore?

Pertanto, gli Azeri cercano di collegare il loro passato con quello dell’Albania caucasica. Ma niente di tutto ciò regge, se non nella mente malata di Aliyev e nell’apparato di propaganda di Baku.

Gli Aghvan o Albanesi caucasici (per differenziarli dagli Albanesi balcanici) regnarono tra il IV e il III secolo a.C. nel Daghestan meridionale e nell’Armenia orientale, nell’attuale Artsakh e parte dell’Azerbajgian.

Nel II secolo a.C. furono conquistate da Tigran il Grande (anno 66 a.C.), compresa la regione di Utik , situata sulle rive dei fiumi Kura e Artsaj, che era la decima provincia del regno armeno. Fino ad ora, gli antenati degli Azeri hanno abitato le steppe dell’Asia centrale a migliaia di chilometri di distanza, formando le orde dei popoli turchi di quella regione.

Con la sconfitta di Tigran il Grande per mano dei Romani, l’Armenia perse molti di questi territori, di cui gli Albanesi approfittarono per riprendersi. Nel IV secolo d.C. gli Albanesi furono cristianizzati e gran parte della popolazione assimilata dagli Armeni, potenza regionale.

Nel VII secolo l’espansione degli Arabi trasformò la regione in un califfato, e successivamente i Selgiuchidi e altri popoli turchi arrivarono nell’XI secolo per imporsi sulle civiltà esistenti ed estendere il loro dominio.

Un fatto interessante è che, secondo gli storici armeni Movsés Jorenatsi e Koryun , discepolo di Mesrob Mashtóts, fu proprio questo monaco armeno a inventare l’alfabeto degli Aghvan o Albanesi caucasici. L’obiettivo della sua creazione era che questa Chiesa cristiana avesse la scrittura, ma né la Chiesa albanese né la lingua sopravvissero all’arrivo dell’Islam nella regione.

Ogni tentativo di trovare un collegamento diretto tra gli Albanesi caucasici e gli attuali Azeri è solo un tentativo di appropriazione di un passato in cui non ci sono vasi comunicanti.

Ma la verità è che fin dalla creazione del primo stato azero nel maggio 1918 – prima di allora non c’era mai stato uno stato di Azerbajgian – le risorse umane e materiali dello Stato hanno finanziato il lavoro di storici e politici per “costruire” un passato che avrebbe permettere di dire loro, che quelli sono i loro territori ancestrali.

Parallelamente, la città di Yerevan fu fondata come Erepuni dal Re di Urartu Arkishtí I nell’anno 782 a.C. per avere una fortezza e una cittadella contro gli attacchi dal Caucaso settentrionale. Infatti, fino ad oggi è possibile visitare le rovine di Erepuni alla periferia di Yerevan.

La retorica azera sostiene che non c’è alcuna relazione tra Erepuni e Yerevan, in un rozzo tentativo di dire che “Erivan” è una città azera ancestrale, solo perché la chiamano così.

È come se gli Armeni affermassero che “Hunastan” è territorio armeno solo perché è il nome armeno della Grecia, o che i Giorgiani “cercano di appropriarsi del nostro Vrazdan”. Che Yerevan sia una città ancestrale dell’Azerbajgian esiste solo nella mente malata del Presidente Aliyev e in coloro che credono nella menzogna ufficiale. “Mentite, mentite, qualcosa resterà”, resa celebre dal Ministro della Propaganda nazista, Joseph Goebbels, fa effetto [frase falsamente attribuita a Goebbels, in realtà è una variante di una frase di Voltaire, nella Lettera a Thiriot del 21 ottobre 1736: “Mentite, amici miei, mentite. Qualcosa resterà sempre”. V.v.B.].

Per questo motivo, è necessario che sia il governo armeno che tutte le comunità della diaspora si facciano avanti per rispondere a ogni falsità storica del regime di Baku, in modo che la fallacia venga smascherata.

Il nome Yerevan è stato utilizzato dal VII secolo a.C. sotto la dominazione persiana, già nell’antichità fu contesa da Romani, persiani e parti (non dagli Azeri), passando tra il 1513 e il 1737 per successive dominazioni musulmane e persiane.

Nel 1604 sotto il potere di Shah Abbas (Abbas il Grande) gran parte della popolazione armena fu deportata in Persia, momento in cui la popolazione di Yerevan divenne per l’80% musulmana e per il 20% armena. Successivamente Yerevan fu la capitale del Khanato di Yerevan, durante l’impero persiano.

Con il consolidamento dell’Impero russo e il trionfo sui Persiani nel 1827, ebbe luogo una divisione dell’impero zarista in governatorati. Il discorso azero sostiene che l’Artsakh faceva parte del Governatorato di Elizavetpol ed è quindi un “territorio ancestrale azero”. Niente è più lontano dalla realtà.

Come abbiamo visto, la storia dell’Artsakh risale al II secolo. Il Khanato di Karabakh entrò a far parte del Governatorato di Elizavetpol nel 1868, ma sotto il dominio imperiale russo, non dell’Azerbajgian, che, come già affermato, non esisteva come stato indipendente fino al XX secolo inoltrato, nel maggio 1918.

Nella loro urgenza di inventare un passato – che l’Azerbajgian e il suo Presidente Ilham Aliyev non hanno – dispongono di una creatività a prova di proiettile, ma puntano sempre sull’Armenia e sugli Armeni.

A questo punto il dittatore azero farebbe bene a incanalare il suo complesso di inferiorità verso gli Armeni, ricordando che si può fregare una parte del popolo per un po’, ma non si può fregare tutti per sempre. In conclusione: “Studente Aliyev, nella storia hai un 1. Studia meglio e torna a marzo”.

Foto di copertina: il Regno di Armenia nel suo massimo splendore, tra il 95 ed il 66 a.C., al tempo della Dinastia Artasside.

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Trentatreesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Ci avviciniamo drammaticamente ad una terza guerra nel Caucaso meridionale (Korazym 13.01.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 13.01.2023 – Vik van Brantegem] – Si intensifica il blocco criminale azero del Corridoio di Berdzor (Lachin). Tutto il traffico (di persone e merce) da e per la parte ancora libera della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh rimane interrotto dal 12 dicembre 2022. Passano solo veicoli del contingente di pace russi e del CICR. La #StradaDellaVita, lungo il segmento di Shushi dell’autostrada interstatale Stepanakert-Goris, è chiuso da sedicenti “eco-attivisti” organizzati e pagati dal regime autoritario dell’Azerbajgian, sostenuti dalla polizia azera e sotto l’occhio vigile delle forze armate azere.

Inoltre, l’Azerbajgian da quattro giorni non consente l’esecuzione di lavori di riparazione dell’unica linea ad alta tensione che alimentava l’Artsakh dall’Armenia. Poi, ieri vicino al blocco l’Azerbaigian ha tagliato il cavo in fibra ottica che fornisce internet all’Artsakh dall’Armenia. Non c’è più Internet via cavo e la telefonia mobile funziona male con forti disturbi. L’Azerbajgian sta attivamente distruggendo l’infrastruttura civile dell’Artsakh.

Il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan ha scritto in un post su Twitter: «Pure durante l’assedio di Leningrado, c’era una strada della vita che rimaneva aperta. Il blocco non è un sarcofago di Chernobyl. Colpisce cibo, nutrizione e carburante dove gravi carenze stanno avendo un impatto sulla vita di tutti».

«33 anni fa, il 13 gennaio, furono organizzati dall’Azerbajgian sovietico a Baku i pogrom della popolazione armena. Più di 200.000 abitanti armeni sono stati costretti a lasciare Baku. 33 anni dopo l’Azerbajgian ora vuole gli Armeni dell’Artsakh lascino la loro patria. Lo scopo è sempre lo stesso» (Tatevik Hayrapetyan).

Un riassunto della situazione attuale in e intorno all’Artsakh/Nagorno-Karabakh
a cura del Nagorno Karabakh Observer

Il territorio di ciò che resta de facto dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh dopo la guerra del 2020, e ancor di più lo scorso mese, è senza dubbio una delle aree più internazionalmente isolate del mondo. Con una popolazione di etnia armena post-2020 di circa 120.000 persone, all’interno di quello che l’Azerbajgian considera il suo territorio sovrano dopo la caduta dell’Unione Sovietica (aderendo ai confini interni creati dalle autorità sovietiche). L’Artsakh, tuttavia, è rimasta al di fuori di qualsiasi giurisdizione politica, militare e amministrativa azera dall’inizio del 1990, come territorio de facto (o si potrebbe dire stato non riconosciuto) con un proprio governo (ministeri, corpo amministrativo, forze armate locali, ecc.) facendo eco a quello di qualsiasi altro stato sovrano. Nonostante questa separazione, gli Armeni dell’Artsakh detengono passaporti armeni.

Avendo una popolazione di etnia armena, l’Artsakh ha naturalmente cercato la protezione dell’Armenia fin dagli anni ’90. Fino allo sconvolgimento politico in Armenia del 2018, la dottrina militare e estera armena aveva impresso in essa la sicurezza fisica della popolazione armena dell’Artsakh.

Tutto ciò si sarebbe concluso con la nuova leadership in Armenia a partire dal 2018, che ha cercato di prendere le distanze come unico garante dell’Artsakh, a favore dell’avanzamento di un’agenda di pace con l’Azerbajgian e la Turchia. La guerra del 2020 in Artsakh ha evidenziato questo disimpegno e ha aperto la strada a importanti conquiste militari azere nel sud dell’Artsakh e al trasferimento di territori precedentemente sotto il controllo dell’Artsakh (Lachin, Aghdam e Kelbajar) alle autorità azere.

Dalla guerra del 2020 l’esercito azero ha intensificato la sua presenza nei territori di nuova acquisizione (trasferiti o acquisiti militarmente), con nuove basi, installazioni e posizioni militari, alcune all’interno dell’Armenia vera e propria (istituite durante le incursioni del 2021 e del 2022).

Con la guerra del 2020 fermata dalla mediazione russa, la Federazione Russa ha dispiegato circa 2000 forze di mantenimento della pace all’interno di ciò che restava de facto dell’Artsakh per scoraggiare qualsiasi ulteriore scontro su larga scala, e che attualmente sono l’unico garante della sicurezza fisica degli armeni etnici in Artsakh.

Con l’attuale leadership politica dell’Armenia in declino in termini diplomatici e militari, soprattutto dopo la guerra del 2020, le autorità di Yerevan hanno cercato di ridurre al minimo qualsiasi piano relativo alla sicurezza riguardante l’Artsakh, dando l’impressione che “il problema ora spetta alla Russia”.

Nell’attuale contesto geopolitico con l’Occidente concentrato sulla crisi ucraina per contrastare la Russia, quest’ultima impegnata nella propria campagna militare, con minori risorse militari, politiche e diplomatiche da dispiegare verso i propri assetti in Artsakh, si è assistito alla crescita di un leadership a Baku lo scorso anno, il cui Presidente Aliyev ha recentemente affermato che l’Armenia stessa è “l’Azerbajgian occidentale” e la capitale Yerevan è una storica città azera.

Un Azerbajgian, sostenuto dalla Turchia, che cerca di aumentare la sua presenza nel Caucaso, l’Artsakh/Nagorno-Karabakh e la sua popolazione rimanente di 120.000 (dai 160.000 prima della guerra del 2020) sono a rischio di un grande esodo irreversibile in quello che alcuni esperti suggeriscono potrebbe essere un caso di pulizia etnica, con una presenza internazionale pressoché assente e 2000 forze di mantenimento della pace russe senza capacità di combattimento su larga scala. Il blocco del 12 dicembre 2022 da parte delle autorità azere, l’interruzione della fornitura di gas, i blackout elettrici e ora l’interruzione di Internet hanno quasi isolato il territorio in termini di commercio, medicina, comunicazioni e transito dal mondo esterno, suggerendo molto più di un semplice blocco eco-attivista come riportato dalle autorità azere.

In un articolo Si avvicina la terza guerra del Karabakh a firma di Vladimir Rozanskij da Mosca, pubblicato su Asia News il 12 gennaio 2023 [QUI] si legge che «il contingente di pace dei russi non è più in grado di evitare scontri tra Erevan e Baku per la regione separatista filo-armena. Mosca vorrebbe sostituire il premier armeno Pashinyan con un proprio oligarca. Il Cremlino sembra sempre più debole nel Caucaso, un effetto della guerra in Ucraina. Le recenti manifestazioni di protesta di fronte a una base militare russa a Gyumri, in Armenia, sono un segnale che si sta avvicinando un’altra fase di conflitto aperto nel Nagorno-Karabakh, conteso da Erevan e Baku. Il rischio è una “terza guerra” dopo quella degli anni 1992-1994 e quella dei 44 giorni del 2020, come sostengono molti osservatori, armeni e azeri, e quelli neutrali. (…) Il premier armeno Pashinyan, del resto, è un personaggio poco gradito al Cremlino, che lo considera “un estraneo”, e lo sopporta soltanto “per scaricare su di lui tutti gli effetti negativi delle tensioni caucasiche”. Secondo la maggioranza dei commentatori della politica nella regione, Mosca starebbe preparando un’alternativa al primo ministro di Erevan: si parla di Ruben Vardanyan, oligarca miliardario russo con cittadinanza armena, ministro della repubblica separatista dell’Artsakh, il Nagorno-Karabakh armeno. Vardanyan è una figura molto popolare in Armenia, grazie anche alle tante iniziative umanitarie e assistenziali da lui ispirate e organizzate. (…) Finora la Russia, pur sostenendo formalmente l’Armenia, ha sempre concordato sulla necessità di assegnare una parte del territorio conteso all’Azerbajgian, per mantenere entrambi i Paesi nella sua sfera d’influenza. Se la debolezza di Mosca riportasse il panorama caucasico a quello di 30 anni fa, questo influirebbe sulla capacità dei Russi di imporsi in tutto lo spazio ex-sovietico di Oriente e Occidente, già duramente messa alla prova dal tragico conflitto in Ucraina. Putin deve decidere ora se punire gli Armeni per le sempre più frequenti manifestazioni anti-russe, sostenendo il cambio al potere e liquidando il “rivoluzionario del popolo” Pashinyan, ma cercando allo stesso tempo di non inimicarsi l’opinione della maggioranza della popolazione del Paese. La terza guerra del Karabakh potrebbe alla fine diventare inevitabile, quando le relazioni interne ed esterne ormai vengono affidate solo alle armi».

Pashinyan espelle la Russia a scapito della sicurezza armena
Yerevan è in procinto di sabotare l’ombrello di sicurezza dell’Armenia, stendendo il tappeto rosso per l’immersione nel blocco turco

di Alison Tahmizian Meuse [*]
Armenian Weekly, 11 gennaio 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Martedì 10 gennaio [nella sua prima conferenza stampa in persona in oltre due anni], il Primo Ministro, Nikol Pashinyan, ha annunciato di aver rifiutato di ospitare esercitazioni di mantenimento della pace dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) in Armenia, rifiutando esplicitamente il sostegno russo non solo all’Artsakh, ma alla stessa Repubblica di Armenia.

“La presenza militare della Federazione Russa non solo non garantisce la sicurezza della Repubblica di Armenia, ma crea anche una minaccia alla sua sicurezza”, ha detto a un gruppo di giornalisti scelti con cura.

Ha precisato che il suo governo “ha informato per iscritto il quartier generale congiunto della OTSC, che non riteniamo opportuno tenere tali esercitazioni militari nella Repubblica di Armenia in questa situazione. Quelle esercitazioni militari non avranno luogo quest’anno”, ha detto Pashinyan.

La conferenza stampa è avvenuta il giorno dopo che i manifestanti allineati con Pashinyan hanno tentato di circondare la base militare russa di Gyumri, la sentinella al confine con l’ostile Turchia, chiedendo l’espulsione della Russia.

È stato l’ultimo passo di un modello di sabotaggio, iniziato con l’incarcerazione da parte di Pashinyan nel 2018 del rispettato rappresentante nella OTSC dell’Armenia, il Generale Yuri Khachadurov, per affermazioni false, successivamente respinte; lo sfortunato rigetto degli avvertimenti dell’OTSC su un imminente attacco azero; e il rifiuto di esercitazioni militari preventive nel settembre 2020. Lo scorso autunno, l’Armenia ha nuovamente rifiutato di partecipare alle esercitazioni dell’OTSC e Pashinyan ha concluso l’anno dando spettacolo pubblico di rifiuto di un pacchetto di sostegno militare negli ultimi minuti di un vertice a cui ha partecipato il Presidente russo Vladimir Putin.

Il Ministero della Difesa russo ha annunciato che unità delle forze di terra russe prenderanno parte a un’esercitazione di mantenimento della pace dell’OTSC che si terrà in Armenia, secondo il sito web del Ministero della Difesa russo.

L’ultimo rifiuto di Pashinyan di un’esercitazione militare mirata esplicitamente a rafforzare la capacità di mantenimento della pace e l’interoperabilità dell’OTSC, e che avrebbe portato le truppe di terra russe a contrastare il rafforzamento turco ai confini dell’Armenia, arriva mentre la missione di mantenimento della pace della Russia nella Repubblica di Artsakh è sottoposta a pressioni senza precedenti da parte di Baku e ora Yerevan. Pashinyan, parallelamente al suo consolidamento su tutte le leve chiave del potere, vale a dire magistratura e polizia, ha abbandonato anche il sostegno verbale al diritto all’autodeterminazione dell’Artsakh, regalando a Erdogan e Aliyev nuova leva diplomatica per chiedere la fine del protettorato russo, eliminare Artsakh come repubblica autonoma, e poi continuare con la campagna in corso per separare l’Armenia dai suoi polmoni vitali verso il mondo esterno attraverso la Georgia e l’Iran.

Le forze di mantenimento della pace russe di stanza sulle precarie pianure sotto la città fortezza occupata di Shushi, sono attualmente bloccate in una situazione di stallo durata un mese con le forze azere sull’arteria che collega l’Artsakh all’Armenia. Baku ha strategicamente proposto personale disarmato che si atteggia da eco-attivisti come patina del suo blocco, controllando efficacemente la narrativa dei media e precludendo l’uso della forza per la loro rimozione. Mentre il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan, ha chiesto il rafforzamento del mandato delle forze di pace e l’aumento numerico, il governo di Pashinyan ha fatto il contrario, lavorando per convincere il pubblico armeno e la diaspora armena che la sottomissione dell’Artsakh all’Azerbajgian è nel migliore interesse della nazione.

Nonostante l’incapacità dell’Azerbajgian di onorare il suo obbligo fondamentale di restituire i prigionieri di guerra armeni dopo la guerra del 2020, Pashinyan ha accelerato le condizioni per soddisfare le richieste di Aliyev, che ora si estendono alla rivendicazione della capitale Yerevan. Il governo di Pashinyan ha ritirato l’esercito armeno dall’Artsakh a luglio e poi ad agosto ha imposto la cessione del Corridoio di Berdzor – il cordone ombelicale delle infrastrutture del gas, dell’elettricità, dell’idroelettrico e delle telecomunicazioni tra l’Armenia e l’Artsakh, lasciando le forze di difesa locali dell’Artsakh e le duemila uomini del contingente russo come unica forza all’interno di un cappio di truppe turche e azere, vulnerabili ai blocchi delle comunicazioni.

Le pianificate esercitazioni di mantenimento della pace dell’OTSC, rese note dal Ministero della Difesa russo il primo giorno del nuovo anno, rafforzerebbero logicamente la missione di mantenimento della pace in Artsakh e invierebbero un messaggio di sfida ad Ankara e Baku in seguito alle esercitazioni congiunte turco-azere che hanno visto la Turchia mantenere le sue forze minacciosamente stazionate sul posto, come è stato fatto prima dell’aggressione del 2020.

Martedì Pashinyan ha di fatto respinto il sostegno militare che per mesi ha affermato di chiedere al principale alleato dell’Armenia.

La minaccia per l’Armenia oggi non è inferiore a quella per l’Artsakh. Delle tre potenze regionali che hanno un impatto sull’Armenia – Russia, Iran e Turchia, il secondo esercito più grande della NATO – solo una mira alla distruzione dell’Armenia come nazione sovrana.

Con l’alleanza NATO guidata dagli Stati Uniti bloccata in una lotta prolungata e profonda contro la Russia in Ucraina, non ci sarà alcuna difesa occidentale dell’Armenia contro la Turchia, Pashinyan che consegnerà l’Artsakh e espellerà le truppe russe da Gyumri cambierà la situazione, ma lascerà solo l’Armenia esponenzialmente più vulnerabile.

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato l’anno scorso – quando l’Iran ha tenuto esercitazioni militari lungo il fiume Arax al confine con le aree dell’Artsakh occupate dagli Azeri e a sostegno dell’integrità territoriale dell’Armenia – che Washington era fermamente a sostegno dell’Azerbajgian.

Il governo di Pashinyan, corteggiando la Turchia e l’Azerbajgian ed evitando gli alleati naturali dell’Armenia, invita a troncare l’Armenia e apre la strada al genocidio.

Quegli Armeni che desiderano vedere la patria sicura devono comprendere che l’unico intervento occidentale non sarà la salvezza dalla Francia o dall’America, ma l’invasione attraverso il membro più orientale della NATO: la Turchia. La continua espulsione della Russia significa genocidio.

[*] Alison Tahmizian Meuse è una giornalista veterana del Medio Oriente, avendo lavorato negli ultimi dieci anni come corrispondente per AFP, NPR e Asia Times. Attualmente vive tra l’Armenia e l’Artsakh.

Pro memoria

«Il blocco del Corridoio di Lachin è una atto di guerra contro gli Armeni dell’Artsakh». Lo ha scritto il Vicedirettore del prestigioso quotidiano francese Le Figaro, Jean-Christophe Busson, in un post sul suo account Twitter.

La bandiera russa continua a sventolare con le forze di mantenimento della pace russe che presidiano le postazioni nel Corridoio… il blocco. Ciò significa che i 120.000 cittadini Armeni Cristiani (tra cui 30.000 bambini e 20.000 anziani) dell’Artsakh sotto assedio vengono tenuti in ostaggi, con mancanza di cibo, carburante, medicine e altri beni di prima necessità. Le uniche merci che arrivano attraverso il blocco, vengono portate con i camion del contingente di mantenimento della pace della Federazione Russa, ovviamente non in quantità necessaria.

Ora siamo a un punto in cui la comunità internazionale deve agire e forzare l’apertura del Corridoio, o riconoscere che nulla è realmente cambiato dai massacri di Rwanda e Srebrenica, e che nel vicinato orientale dell’Unione Europea si può lasciar morire di fame e di freddo un’intera popolazione nel XXI secolo.

Consigliamo la lettura di Haut-Karabagh: Géopolitique d’un conflit sans fin (Géostratégiques, 2013, pp.35-74 [QUI] https://shs.hal.science/halshs-00794575) di Gérard-François Dumont, Professore alla Sorbonne, Presidente della rivista Population & Avenir, Vicepresidente dell’Académie de géopolitique de Paris.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI].

A Thiene torna la scrittrice Antonia Arslan con Il destino di Aghavnì (Vicenzareport 13.01.23)

Già ospite nell’ottobre scorso a Thiene in un evento molto partecipato, Antonia Arslan torna nella nostra città giovedì 19 gennaio 2023 ore 18.00 per presentare nella Sala Consiliare del Municipio il suo nuovo romanzo Il destino di Aghavnì.

Commenta l’assessora alla Cultura e alla Biblioteca, Ludovica Sartoreassessora alla Cultura e alla Biblioteca, Ludovica Sartore 

«Si è felicemente instaurato un legame tra la scrittrice, che viene a Thiene per la seconda volta in pochi mesi e dove comunque era già stata negli anni scorsi, e la nostra Città e che rimanda all’attenzione che Thiene ha sempre avuto nei confronti del popolo Armeno. Ricordo, per esempio, recentemente lo spettacolo “Novella Veneziana” di Costan Zarian, una delle voci più significative della cultura armena, in scena al Comunale nello scorso settembre su proposta dell’associazione di volontariato “Il Melograno for disabled armenian children”. Il destino di Aghavnì è un libro davvero molto bello che, nella tragicità del racconto, nel finale si apre alla speranza. Invito la cittadinanza ad intervenire e a non mancare a questo appuntamento in cui la Cultura e l’impegno civile hanno il volto di una donna che conquista anche per la dolcezza e la serenità che sa infondere, nonostante le vicende di cui scrive».

Il romanzo è ambientato nella primavera del 1915,

quando in una piccola città dell’Anatolia una ragazza di 23 anni, Aghavnì, esce di casa con il marito e i due figli piccoli senza farvi ritorno.

L’autrice è stata ispirata nel raccontare Il destino di Aghavnì da una vecchia fotografia di famiglia, ritrovata a casa di un cugino in America. Ha scoperto così la vicenda perduta di questa ragazza scomparsa e da qui è venuta l’ispirazione pe scrivere un racconto avventuroso di dolore e coraggio, di morte e di rinascita.

Racconta l’Arslan:

«Questa storia non è ‘vera’, ma è molto verosimile. Circa 4 anni fa ho conosciuto un mio cugino che vive a Manchester, New Hampshire. Mi ha mostrato carte e foto di famiglia, fra cui una foto – del 1912 – di 3 sorelle di mio nonno, sorridenti e con vestiti uguali. Due le conoscevo, della terza mi disse: ‘Questa è Aghavnì’, la sorella scomparsa’. Non sapevo che fosse esistita! Quella foto ha lavorato dentro di me per tutto questo tempo, finché lo scorso agosto il personaggio e la sua storia – simile a tante altre storie femminili di quei terribili anni – ha preso forza e consistenza. Il coraggio e lo spirito indomito delle donne armene sono uno dei cardini su cui ruota questo romanzo breve».

Il libro è stato pubblicato dalle edizioni Ares nel novembre del 2022.  L’autrice dopo la presentazione sarà a disposizione per firmare eventuali copie

L’ingresso nella sala del Consiglio Comunale è gratuito e aperto alla cittadinanza.

Antonia Arslan è nata a Padova, da padre armeno e madre italiana. Ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. È stata autrice di saggi e romanzi sul genocidio degli armeni in Anatolia nel 1915, tra cui il famosissimo La masseria delle allodole. Il quale ha vinto il Premio Stresa di narrativa, il Premio dei Lettori di Lucca, è stato finalista del Premio Campiello. Tre anni dopo è stato portato sul grande schermo dai fratelli Taviani. Altre sue opere sono La strada di Smirne (2009), Il libro di Mush (2012-2022) e La bellezza sia con te (2020).

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L’apocalisse di fuoco e odio che ha distrutto Smirne (Domani 13.01.23)

  • A partire dal gennaio 1915, si abbatte sulle minoranze cristiane dell’impero (armeni, greci, siriaci) la scure della persecuzione e del genocidio, che prende diverse forme, ma ha un unico scopo finale: eliminare o allontanare forzosamente, e per sempre, i cittadini appartenenti a etnie non turche.
  • Responsabile di tutto questo fu il Comitato Unione e Progresso, il partito dei Giovani turchi, giunto al potere a Costantinopoli – esautorando il sultano – nel 1908.
  • Pochissimo gli storici si sono occupati del concreto svolgersi di quelle giornate di fuoco e di fiamme, ritmate dagli incendi che devastarono la città, la “perla del Mediterraneo”.

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Si avvicina la terza guerra del Karabakh (Asianews 12.01.23)

Il contingente di pace dei russi non è più in grado di evitare scontri tra Erevan e Baku per la regione separatista filo-armena. Mosca vorrebbe sostituire il premier armeno Pašinyan con un proprio oligarca. Il Cremlino sembra sempre più debole nel Caucaso, un effetto della guerra in Ucraina.

Mosca (AsiaNews) – Le recenti manifestazioni di protesta di fronte a una base militare russa a Gyumri, in Armenia, sono un segnale che si sta avvicinando un’altra fase di conflitto aperto nel Nagorno-Karabakh, conteso da Erevan e Baku. Il rischio è una “terza guerra” dopo quella degli anni 1992-1994 e quella dei 44 giorni del 2020, come sostengono molti osservatori, armeni e azeri, e quelli neutrali.

Come scrive Guseinbala Salimov su Zerkalo.az, “è ormai evidente che il contingente di pace dei russi non è in grado di svolgere la sua missione”. Le parti in realtà non sono pronte all’escalation militare mentre è in corso il conflitto in Ucraina, e la Russia considera il Karabakh “come l’11° dito della mano”. L’Armenia “non si vuole calmare”, osserva il politologo azero, e “continua a organizzare provocazioni”, come appunto quella di Gyumri. Ereven  cercherebbe in questo modo di riequilibrare la politica della Russia con l’influsso dell’Occidente, soprattutto degli Usa e della Francia.

Il premier armeno Pašinyan, del resto, è un personaggio poco gradito al Cremlino, che lo considera “un estraneo”, e lo sopporta soltanto “per scaricare su di lui tutti gli effetti negativi delle tensioni caucasiche”. Secondo la maggioranza dei commentatori della politica nella regione, Mosca starebbe preparando un’alternativa al primo ministro di Erevan: si parla di Ruben Vardanyan, oligarca miliardario russo con cittadinanza armena, ministro della repubblica separatista dell’Artsakh, il Nagorno-Karabakh armeno. Vardanyan è una figura molto popolare in Armenia, grazie anche alle tante iniziative umanitarie e assistenziali da lui ispirate e organizzate.

Anche in Azerbaigian la situazione non è certo tranquilla, considerando anche il fronte ideologico aperto con l’Iran per il riconoscimento del cosiddetto “Azerbaigian meridionale” da comporre con quello “occidentale” legato al conflitto con l’Armenia, e al controllo del corridoio di Zangezur (Lachin per gli armeni). Il riesplodere del conflitto armeno comporterebbe non soltanto un cumulo di nuove vittime da una parte e dall’altra, ma potrebbe scuotere la Russia dall’apparente torpore, per rifarsi nel Caucaso delle delusioni ucraine. Finora Baku è riuscita a tranquillizzare Mosca, ma “a tutto c’è un limite”.

Finora la Russia, pur sostenendo formalmente l’Armenia, ha sempre concordato sulla necessità di assegnare una parte del territorio conteso all’Azerbaigian, per mantenere entrambi i Paesi nella sua sfera d’influenza. Se la debolezza di Mosca riportasse il panorama caucasico a quello di 30 anni fa, questo influirebbe sulla capacità dei russi di imporsi in tutto lo spazio ex-sovietico di Oriente e Occidente, già duramente messa alla prova dal tragico conflitto in Ucraina.

Putin deve decidere ora se punire gli armeni per le sempre più frequenti manifestazioni anti-russe, sostenendo il cambio al potere e liquidando il “rivoluzionario del popolo” Pašinyan, ma cercando allo stesso tempo di non inimicarsi l’opinione della maggioranza della popolazione del Paese. La terza guerra del Karabakh potrebbe alla fine diventare inevitabile, quando le relazioni interne ed esterne ormai vengono affidate solo alle armi.

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L’Armenia contro Putin: “La presenza militare russa minaccia il nostro paese” (Globalist 12.01.23)

Ora chissà se l’Armenia se la rischia: il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha messo in dubbio la presenza militare della Russia in Armenia ultimo segno di una crescente spaccatura tra Erevan e Mosca. Da un lato la guerra in Ucraina che ha riflessi negativi sugli alleati della Russia e dall’altro il fatto che l’Armenia ha giustificato insufficienti gli aiuti russi nella guerra del Nagorno-Karabah che ha visto l’Azerbaigian riconquistare parte dei territori contesi grazie all’abito militare turco.

Insomma l’Armenia teme che nei rapporti ambigui e spartitori tra Putin ed Erdogan in Siria e Libia l’Armenia possa essere stata considerata una pedina sacrificabile dal Cremlino.

Durante la sua prima conferenza stampa di persona dalla guerra dell’Artsakh (Nagorno-Karabah, ndr) del 2020, Pashinyan ha affermato che l’Azerbaigian giustifica la sua aggressione contro gli armeni, compreso il blocco in corso dell’Artsakh, indicando le strette relazioni dell’Armenia con la Russia. L’Azerbaigian ha avvertito i suoi partner occidentali che l’Armenia e la Russia potrebbero lanciare congiuntamente un’aggressione militare contro l’Azerbaigian, secondo Pashinyan.

Il primo ministro ha definito queste affermazioni “assurde”, ma ha affermato che potrebbero essere considerate credibili in Occidente occidentali alla luce della guerra in corso in Ucraina e dell’aggressione russa a Kiev.

Richiamiamo l’attenzione dei nostri partner russi su questo fatto, notando che la loro mancanza di risposta significa che la presenza militare della Russia in Armenia non solo non garantisce la sicurezza dell’Armenia ma, al contrario, crea minacce alla sicurezza dell’Armenia”, ha detto Pashinyan.

Il primo ministro armeno ha criticato la forza di pace russa in Artsakh per non aver posto fine al blocco. Ha definito la missione un “testimone silenzioso dello spopolamento della regione del Nagorno-Karabakh, che sta diventando sempre più visibile”.

Durante il briefing del 10 gennaio, Pashinyan ha anche criticato l’inazione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva in risposta all’aggressione azera. Ha dichiarato che l’Armenia non ospiterà le esercitazioni militari del CSTO nel 2023, nonostante l’annuncio contrario fatto dalla Russia una settimana prima.

Il ministero della Difesa russo aveva annunciato che quest’anno la CSTO, un blocco militare a guida russa, avrebbe tenuto il suo addestramento annuale per il mantenimento della pace in Armenia. Pashinyan ha affermato che l’Armenia aveva informato lo staff congiunto della CSTO di aver rifiutato le esercitazioni.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che la Russia non era stata informata della decisione dell’Armenia prima della conferenza stampa di Pashinyan.

“In ogni caso, l’Armenia è un nostro alleato molto stretto e continueremo il dialogo, comprese le questioni che sono molto complicate al momento”, ha detto Peskov ai media russi.

Pashinyan ha affermato che condurre le esercitazioni in Armenia sarebbe “inappropriato”. Ha criticato la CSTO per non aver fornito assistenza militare all’Armenia.

“Chiediamo che specifichino la zona di responsabilità della CSTO”, ha detto Pashinyan. “L’assenza della loro risposta rappresenta per noi un problema fondamentale”.

L’articolo 4 della carta CSTO stabilisce che un attacco a un membro sarà trattato come un attacco a tutti. L’Armenia ha fatto appello alla CSTO in seguito agli attacchi al confine dell’Azerbaigian a settembre. A novembre, la CSTO ha offerto quelle che il segretario generale Stanislav Zas ha definito “misure per assistere l’Armenia in questa difficile situazione”.

Pashinyan ha rifiutato l’offerta poiché non includeva una dichiarazione esplicita di condanna dell’aggressione azera. Zas in seguito ha affermato che le misure includevano “assistenza tecnico-militare”, senza specificare cosa ciò comportasse.

L’Artsakh (il Nagorgno-Kharabajh) è sotto blocco da parte dell’Azerbaigian dal 12 dicembre. Manifestanti azeri sponsorizzati dal governo che si spacciano per attivisti ambientalisti hanno chiuso il Corridoio Lachin, l’unica via che collega l’Artsakh con l’Armenia e il mondo esterno. Artsakh ora affronta una crisi umanitaria a causa della grave carenza di cibo, medicine e altri beni di prima necessità.

Il Corridoio Lachin viene normalmente utilizzato per trasportare ogni giorno 400 tonnellate di cibo e medicinali dall’Armenia all’Artsakh. Il governo ha attinto alle sue riserve alimentari strategiche da quando i negozi di alimentari hanno finito il cibo. Secondo il governo dell’Artsakh, il blocco ha impedito il trasferimento di 12.000 tonnellate di beni di prima necessità nell’Artsakh.

Le autorità dell’Artsakh hanno istituito un sistema di razionamento alimentare per preservare le scorte alimentari. Le famiglie riceveranno buoni per l’acquisto di quantità limitate di cibo dalle riserve statali. A partire dal 20 gennaio i residenti potranno acquistare un chilogrammo di pasta, grano saraceno, riso e zucchero e un litro di olio da cucina al mese utilizzando i coupon. Le scuole primarie e gli asili sono chiusi dal 9 gennaio a causa di scorte alimentari insufficienti.

Anche la fornitura di energia elettrica di Artsakh è stata interrotta. Il 9 gennaio si è verificato un incidente sulla linea elettrica ad alta tensione che fornisce l’approvvigionamento elettrico dell’Artsakh dall’Armenia, secondo il governo dell’Artsakh. L’incidente è avvenuto nei pressi della città di Lachin, passata sotto il controllo dell’Azerbaigian la scorsa estate. Una situazione per la quale l’Armenia considera la Russia corresponsabile visto che non ha fornito aiuti serie e visti i sospetti di un gioco di sponda con Erdogan.

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L’Armenia ora diffida della Russia: paura per il “patto caucasico” tra Putin e Erdogan

Quanto il conflitto tra grandi Potenze sta influenzando l’incombente crisi del Caucaso (Lindro 12.01.23)

blocco del Nagorno-Karabakh – una regione montuosa riconosciuta a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, ma sotto l’effettivo controllo armeno da tre decenni – sta entrando nella sua quarta settimana. I rapporti evidenziano la rapida diminuzione della fornitura di medicine, generi alimentari e altri beni essenziali senza apparentemente alcuna risoluzione in vista. Preoccupata per la sua guerra in Ucraina, la Russia, arbitro storico della regione, si è mostrata riluttante o incapace di porre fine alla crisi in corso.

Gli eco-attivisti azeri hanno bloccato per quasi un mese il Corridoio Lachin, l’unica strada che collega il Nagorno-Karabakh con l’Armenia vera e propria . Chiedono lo stop a quelle che sostengono essere pratiche minerarie illegali sul territorio dell’Azerbaigian, così come il trasferimento di armi (in particolare mine) attraverso il corridoio.

Funzionari della capitale de facto della regione, Stepanakert, hanno invitato esperti internazionali a ispezionare le miniere, che dicono stiano operando “ secondo i migliori standard ”, e hanno respinto le affermazioni di Baku secondo cui la strada viene utilizzata per il trasporto di armi. Tuttavia, l’Azerbaigian continua a insistere sulla questione dei trasferimenti di armi sulla scena internazionale .

Questi problemi rischiano di riaccendere la guerra tra Armenia e Azerbaigian, con conseguenze potenzialmente disastrose per la stabilità regionale poiché una Russia indebolita potrebbe non essere più in grado di mantenere la pace.

 

Il Ministero degli Affari Esteri dell’Armenia ha recentemente avvertito che “il pericolo della malnutrizione è tangibile” per i 120.000 armeni della regione. Dato che ogni giorno 400 tonnellate di rifornimenti essenziali arrivavano in Nagorno-Karabakh attraverso il corridoio, il perdurare del blocco rischia di provocare una grave crisi umanitaria con il passaggio di pochi convogli della Croce Rossa per emergenze mediche. L’unico mezzo di trasporto alternativo per il Nagorno-Karabakh è un aeroporto situato appena fuori Stepanakert, ma attualmente viene utilizzato esclusivamente per il rifornimento e la rotazione delle forze di mantenimento della pace russe.

Inoltre, l’aeroporto, teatro di una protesta armena alla fine del mese scorso, è fuori uso civile da decenni e Baku ha minacciato di rispondere con forza al suo potenziale utilizzo aggiuntivo, dato che si trova all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Azerbaigian.

L’ Unione Europea e gli Stati Uniti hanno invitato l’Azerbaigian a garantire libertà e sicurezza di movimento lungo il corridoio dall’inizio del blocco il 12 dicembre. Tuttavia, gli appelli non sono stati sostenuti da alcuna reale pressione sull’Azerbaigian e sembrano non aver avuto alcun effetto sul processo decisionale di Baku. Nel frattempo, la Turchia , il più fedele sostenitore e fornitore di armi dell’Azerbaigian, è sbocciata come mediatore di potere globale dall’inizio della guerra in Ucraina.

Pur rifiutando di far rispettare le sanzioni occidentali contro la Russia e avendo svolto un ruolo di primo piano (insieme alle Nazioni Unite) nella realizzazione dell’accordo sull’esportazione di grano lo scorso anno tra Kiev e Mosca, Ankara si è resa indispensabile per il Cremlino per certi aspetti. Sembra che l’Azerbaigian stia usando la nuova influenza del suo alleato, così come la sua importanza significativamente aumentata nella fornitura di gas all’Europa , per spingere i suoi interessi nel Caucaso meridionale.

Con i gruppi armeni della diaspora e alcune organizzazioni internazionali non governative per i diritti umani , tra cui Genocide Watch e The Lemkin Institute for Genocide Prevention, avendo firmato una lettera che espone il serio potenziale di pulizia etnica che attualmente devono affrontare gli abitanti del Nagorno-Karabakh a causa della azioni, gli armeni della regione sono preoccupati per la loro sopravvivenza.

In una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il mese scorso, gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, hanno assunto una posizione forte e hanno chiesto l’apertura del corridoio e la fine del blocco. Mentre una dichiarazione del Consiglio doveva essere rilasciata dopo l’incontro, non si è mai concretizzata, a seguito di una rottura diplomatica che ha coinvolto le due parti, Francia e Russia. In ogni caso, una crisi umanitaria in Nagorno-Karabakh porrebbe, come minimo, un serio problema politico per i governi americano e francese, date le comunità armene numerose e politicamente influenti in entrambi i paesi.

Tuttavia, Washington ha la capacità di influenzare la situazione in modo più deciso. Dovrebbe esercitare una maggiore pressione diplomatica sull’Azerbaigian rispetto a quanto ha fatto finora per aprire immediatamente il corridoio, coordinandosi anche con Yerevan e Mosca per garantire che le preoccupazioni di Baku siano affrontate entro i limiti dell’accordo di cessate il fuoco del novembre 2020. Un interesse chiave sia di Baku che di Ankara è la creazione di un cosiddetto Corridoio Zangezeur , che collegherebbe l’exclave azerbaigiana di Nakhchivan (che confina con la Turchia) con l’Azerbaigian continentale, creando così un collegamento diretto tra i due paesi, uno scenario fortemente osteggiato da Iran e Armenia .

Proprio quale forza controllerebbe una tale via di trasporto, che attraverserebbe la regione meridionale armena di Syunik, è emersa come punto di contesa nei negoziati successivi all’accordo di cessate il fuoco. Nel frattempo, l’Azerbaigian ha dimostrato la sua disponibilità ad esercitare pressioni militari per accelerare i negoziati. Data questa situazione, Washington dovrebbe incoraggiare ulteriori negoziati per far avanzare la pace regionale e ridurre le tensioni attraverso una soluzione diplomatica accettabile per tutte le parti coinvolte.

Inoltre, Washington dovrebbe ricercare ulteriori azioni presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per risolvere la crisi del corridoio di Lachin in un quadro internazionale. Tuttavia, se tali azioni diplomatiche non dovessero dare frutti, Washington potrebbe sostenere un ponte aereo umanitario per consegnare i rifornimenti di cui ha disperatamente bisogno al Nagorno-Karabakh.

Sebbene esistano limitazioni su quale pressione Washington può esercitare e quali stringhe può tirare per risolvere la situazione, esiste un chiaro bisogno per l’amministrazione Biden di agire in modo più deciso in modo da impedire che la carestia di massa, o peggio, si dispieghi nel Caucaso meridionale.

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Venezia-Armenia, dal 12 gennaio volo diretto di Wizz Air (La Nuova 12.01.23)

Wizz Air, terza compagnia aerea in Italia, ha inaugurato giovedì 12 gennaio il suo primo volo dall’aeroporto Marco Polo di Venezia all’aeroporto Zvartnots di Yerevan, in Armenia. La nuova rotta ultra-low-cost rafforza ulteriormente la presenza di Wizz Air nella sua base veneziana. La rotta sarà servita da voli a cadenza bisettimanale, il giovedì e sabato. I biglietti per la nuova rotta sono già disponibili sul sito di Wizz Air e tramite l’app WIZZ. Venezia è collegata, quindi, con l’elegante capitale dell’Armenia e sperimentare la bellezza e la storia della “Città Rosa”. Viaggiando con Wizz Air, i passeggeri potranno usufruire delle tariffe incredibilmente basse della compagnia e di un’esperienza di volo completamente personalizzabile. Oltre a questo, Wizz Air offre ai viaggiatori un’elevata flessibilità attraverso il servizio WIZZ Flex. Aggiungendolo alla loro prenotazione i passeggeri hanno un ulteriore livello di protezione e possono scegliere di viaggiare in una data diversa o verso una destinazione diversa, oltre ad avere la possibilità di cancellare il loro volo fino a 3 ore prima della partenza senza alcuna tassa e ottenere il 100% della tariffa originale immediatamente rimborsato in credito aereo.

Numerosi i commenti.

Tamara Nikiforova, Corporate Communications Manager di Wizz Air, ha dichiarato: «Wizz Air continua a impegnarsi per offrire ai suoi passeggeri nuove rotte interessanti e opportunità di viaggio a basso costo per esplorare l’Europa e oltre. Siamo felicissimi della nostra partnership di successo con l’Aeroporto Internazionale Marco Polo di Venezia, col Gruppo SAVE e l’Aeroporto Internazionale Zvartnots di Yerevan, che ha portato al nuovo collegamento tra Italia e Armenia. Siamo entusiasti di questa nuova aggiunta al network di rotte dalla base di Venezia e non vediamo l’ora di accogliere i passeggeri italiani e armeni a bordo della nostra giovane ed efficiente flotta, volando tra queste due città con incredibili attrazioni da visitare».

Camillo Bozzolo, Direttore Sviluppo Aviation Gruppo SAVE: «Nel 2023 Wizz Air rafforza la sua presenza nella base di Venezia, espandendo ulteriormente il portafoglio di offerta. Yerevan è la prima di una rosa di destinazioni di medio-lungo raggio che la compagnia andrà ad inaugurare la prossima primavera. Questo collegamento diretto è un’importante opportunità non solo per la comunità armena, presenza forte del nostro territorio che sta accogliendo con entusiasmo la notizia del volo, ma anche per i collegamenti legati al segmento business e lo sviluppo leisure».

Elisa De Berti, Vice Presidente Regione Veneto: «Il nuovo collegamento su Yerevan di Wizz Air consolida ulteriormente il ruolo strategico dell’aeroporto di Venezia e le relazioni economiche e culturali tra Veneto e Armenia, a conferma come la rete infrastrutturale della nostra Regione costituisca un importante hub che collega il Nord Est al resto d’Europa. Cogliamo con entusiasmo questo nuovo volo che andrà ad arricchire lo storico rapporto di amicizia e di collaborazione tra la città lagunare e l’Armenia».

Sergey Avetisyan, General Manager di Zvartnots International Airport: «L’inaugurazione della nuova rotta Venezia-Yerevan è un’ottima notizia per i viaggiatori, poiché entrambe le destinazioni hanno qualcosa da offrire letteralmente per tutti. Crediamo che questi nuovi voli rafforzeranno le connessioni culturali ed economiche tra le due città. Non vediamo l’ora di vedere una maggiore diversità in termini di destinazioni. Ci congratuliamo con i nostri colleghi e auguriamo loro un volo sicuro».

Sisian Boghossian, Capo del Comitato per il Turismo del Ministero dell’Economia della Repubblica d’Armenia, ha aggiunto: «Siamo estremamente felici di avere una nuova rotta che collega Yerevan, in Armenia, a Venezia, in Italia, con Wizz Air. Questo nuovo volo diretto permetterà ai visitatori di raggiungere la destinazione desiderata in modo rapido, comodo e conveniente. L’Armenia è pronta ad accogliere un maggior numero di ospiti dall’Italia, in particolare da Venezia, per scoprire tutte le gemme nascoste che abbiamo da offrire. Siamo certi che questo nuovo volo invoglierà i visitatori a esplorare e scoprire l’Armenia, il Sentiero Nascosto».

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Wizz Air, inaugurato oggi il volo Venezia-Yerevan