“Il chicco acre della melagrana”: tra Roma e il Medioriente, nell’autobiografia di Giorgio Kevork Orfalian, 70 anni di storia armena ed europea (Vivereroma 28.12.20)

Leggere questo “Chicco acre della melagrana”, autobiografia di Giorgio Kevork Orfalian, importante esponente della Comunità armena di Roma (Caravaggio, Edizioni Divina follia, collana “Ararat”, scritta con supervisione di Letizia Leonardi, giornalista professionista esperta di storia e cultura armene) significa fare una cavalcata in 70 anni di storia dell’Armenia, del Vicino oriente e dell’Europa.

Ma la narrazione parte da prima, da quell’incredibile decennio 1910-’20 che vede, soprattutto, lo tsunami della Grande guerra: che, nell’Impero Ottomano, significa l’inizio del ”Medz Yeghern”, quel genocidio del popolo armeno che durerà, tra alterne vicende, sino ai primi anni’ 20.

Giorgio Kevork Orfalian nasce nel 1950 a Tripoli di Libia, figlio di Dikran Orfalian, armeno (di origini in parte anche palestinesi) che ha combattuto, come carrista, nella mitica VIII Armata britannica nel ’42-’43, e da Harshaluis Devruscian, di famiglia armena che, in passato, ha vissuto direttamente il dramma del “Medz Yeghern”, con una pazzesca “anabasi”, da deportati, da Aleppo sino a Tripoli. Andato, a 13 anni, a studiare al Collegio armeno “Moorat Raphael” di Venezia, gestito dai severi padri melchitaristi, Giorgio si diploma nel 1969; e come in un film, arriva in aereo a Fiumicino, per prendere il volo per Tripoli, proprio il 1 settembre 1969. Cioè quando, a Tripoli, il colonnello Gheddafi ha trionfato nel golpe, d’impronta nasserista e panaraba, contro il vecchio (e troppo filoccidentale) re Idris I. Bloccato a Roma, il giovane è costretto a una lunga “gavetta” esistenziale e lavorativa: salendo gradualmente la scala sociale grazie a uno spiccato senso pratico-economico e a un pizzico di fortuna. Seguirà, sempre entro l’anno e parallelamente ai lavori piu’ disparati (da benzinaio a venditore di bibite allo stadio), l’iscrizione alla “Sapienza” (prima a Medicina, poi a Psicologia). E’ il 1972, quando al giovane Giorgio capita addirittura d’incontrare – per un possibile provino cinematografico – Pier Paolo Pasolini, alla ricerca di comparse per il suo prossimo film (“I racconti di Canterbury”?).

Nel frattempo, oltre a pensare a un lavoro migliore (come rappresentante di commercio per la Libia nel settore calzature), Orfalian non dimentica la causa del suo Paese (a quell’epoca, non ancora Stato indipendente, ma Repubblica armena membro dell‘Unione Sovietica). Sempre nei primi annì ’70, a Roma, ha modo d’incontrare e intervistare Armin Tehophil Wegner, l’intellettuale tedesco che nel 1915, trovandosi, come militare paramedico, nell’Impero ottomano, aveva avuto modo d’assistere al massacro degli armeni, documentandolo segretamente con storiche fotografie. Da Wegner, giornalista e scrittore controcorrente, nel Primo dopoguerra autore delle prime denunce ufficiali del genocidio armeno (tra i 200.000 e 1.800.000 morti, secondo le stime correnti), che morirà poi, temporaneamente dimenticato dalla Germania, sempre a Roma nel 1978, Giorgio ha in regalo proprio alcune di quelle storiche foto. E’ un genocidio, questo degli armeni, che i turchi tuttora si ostinano a negare, attribuendo tale strage a una guerra civile nel caos del primo conflitto mondiale, accompagnata da carestia e malattie.

Ma il momento in cui Orfalian entra piu’ direttamente (e drammaticamente) a contatto con la storia del’900 è nel 1977 – ’78. Quando un maledetto errore del quotidiano “Il Tempo”, ripreso purtroppo da altre testate estere, soprattutto turche (un articolo citante Giorgio e altri connazionali viventi a Roma come pericolosi terroristi indipendentisti armeni) mette in moto un meccanismo infernale. In cui lui incappa quando, nell’estate del ’77, per leggerezza decide di andare in vacanza in Iran passando proprio da Grecia… e Turchia. Quel che gli accade in seguito, è esattamente identico alla vicenda di Bill Hayes, il ragazzo americano la cui storia (1970, pochi anni prima) è nota a tutto il mondo grazie al cult.-movie di Alan Parker “Fuga di mezzanotte”: il fermo alla frontiera turca, l’arresto, l’incubo della detenzione in un carcere turco, senza alcuna possibilità di comunicare, per lungo tempo, con la sua famiglia, fra torture fisiche e psicologiche e condizioni igieniche inimmaginabili. Una discesa agli inferi che per il giovane professionista armeno si interromperà solo a fine aprile del ’78, con l’assoluzione (ma solo per insufficienza di prove) dalla gravissima accusa di attentato alla sicurezza dello Stato turco.

Seguiranno il ritorno a Roma, la ripresa del lavoro (con importanti iniziative commerciali, stavolta in proprio da imprenditore, un po’ in tutto il Vicino oriente, anche durante la Guerra del Golfo del 1991), due matrimoni. E la partecipazione come volontario, insieme al leader indipendentista armeno Monte Melkonian (che morirà poi nel 1993), alla prima guerra tra Armenia (dal ’91 indipendente, col crollo dell‘URSS) e Azerbaigian per l’indipendenza del Nagorno-Karabakh, o, meglio, Artsakh. L’enclave armena (abitata quasi totalmente da armeni) nel territorio azero, da sempre in lotta per l’indipendenza dall’ Azerbaigian, per il cui destino, dal 1992, si combatte un interminabile conflitto armeno-azero, tra Yerevan e Stepanakert, da un lato, e Baku’ dall’altro (sino al terzo conflitto, iniziato a settembre 2020 e interrotto, a novembre scorso, dal temporaneo accordo di pace raggiunto grazie alla mediazione russa). A maggio 1992, Kevork Orfalian è tra i combattenti che strappano agli azeri Shushi, unica città dell’Artsakh con forte presenza azera.

Una vita che, senza esagerare, si presterebbe – come lo stesso Autore confessa di desiderare in chiusura del libro – ad essere tradotta in un film.

La “pistola fumante” del genocidio armeno (ilbolive.unipd.it 27.12.20)

Ha detto una volta a Il Bo Live Antonia Arslan che “il genocidio continua ancora perché non è mai stato riconosciuto da chi l’ha perpetrato. (…) Ai sopravvissuti non è concesso neppure di affidarsi all’oblio, non possono riconciliarsi e perdonare perché nessuno ha chiesto loro scusa”. Ancora oggi parlare di genocidio degli armeni e degli assiri in Turchia può comportare l’ostracismo civile e intellettuale, la prigione (in base al famigerato art. 301 del codice penale) o perfino la vita. Per questo è particolarmente prezioso un libro come quello dello storico turco Taner Akçam, appena tradotto in italiano da Guerini e Associati nella collana curata dalla stessa Arslan: Killing orders. I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno.

Tema del volume è la dimostrazione dell’autenticità dei documenti che attesterebbero il diretto coinvolgimento nei massacri di Talat Pasha, uno dei triumviri che di fatto ressero l’Impero ottomano durante la grande guerra e grande architetto della turchizzazione dell’Anatolia con le conseguenti efferate pulizie etniche. Alcuni dei suoi ordini, in seguito distrutti o occultati dallo Stato turco, furono raccolti da un burocrate, Efendi Naim, che all’epoca lavorava all’ufficio per la deportazione di Aleppo (una delle principali tappe dei viaggi della morte); questi poi li vendette al giornalista armeno Aram Andonian, che li pubblicò nel 1919 sotto il titolo di Memorie di Naim Bey. Da allora sia l’autenticità dei documenti che la stessa esistenza di Naim sono state ferocemente contestate dalle autorità e dell’intellighenzia nazionalista turche: da ultimo dagli storici Şinasi Orel e Süreyya Yuca in una ricerca promossa nel 1983 dalla Società Storica Turca. Tanto più che gli originali delle cosiddette Memorie non furono mai pubblicati fedelmente e che risultano oggi dispersi.

Il libro di Akçam, che allo sterminio degli armeni ha dedicato in passato diversi studi, vuole proprio essere una risposta definitiva ai dubbi e alle critiche avanzate da Orel e Yuca e da tanti altri dopo di loro, grazie a uno strumento formidabile: l’archivio di Krikor Guerguerian (1911-1988), monaco armeno che durante il Medz Yeghern (‘grande crimine’) fu testimone dell’uccisione di entrambi i genitori e di 10 suoi fratelli. Riparato fortunosamente all’estero, Guerguerian spese gran parte della sua vita raccogliendo oltre 100.000 pagine di documenti, in vista della preparazione di una tesi di dottorato sul genocidio armeno che tuttavia non vide mai la luce. L’archivio, recentemente pubblicato on line dalla Clarck University di Worcester (Massachusetts) a cura dello stesso Akçam, raccoglie una gran mole di foto e scansioni di originali che risultano in massima parte distrutti o dispersi, tra cui – e questo è il colpo di scena degno di un romanzo – proprio il gruppo di documenti e appunti che costituiscono le Memorie di Naim Bey.

Con l’accuratezza dello storico e il piglio dello scrittore di legal thriller l’autore analizza i testi ricostruendone la provenienza e confrontandoli con altri documenti della stessa epoca custoditi presso gli Archivi della Repubblica Turca ad Ankara. E la risposta è convintamente a favore dell’autenticità: persino i codici cifrati utilizzati sono gli stessi, con il particolare che gli archivi ottomani sono stati aperti agli studiosi solo in tempi recenti, per cui all’epoca della pubblicazione delle Memorie non erano a disposizione di eventuali falsari.

A più di un secolo di distanza certi passaggi gelano ancora oggi il sangue: “I diritti di tutti gli armeni sul suolo turco, come il diritto alla vita e al lavoro, sono stati soppressi – scrive ad esempio Talat Pasha il 22 settembre 1915 –; nessuno deve essere risparmiato, nemmeno l’infante nella culla”. In un altro telegramma, destinato al governatore provinciale di Aleppo e datato 29 settembre 1915, si afferma che “il governo (…) ha deciso di annientare completamente tutti gli armeni che vivono in Turchia. (…) Non vi è spazio per gli scrupoli di coscienza e non si faccia distinzione per donne, bambini e ammalati, indipendentemente da quanto cruente possano essere le modalità di distruzione” (Killing Orders, pp. 60-61).

I diritti di tutti gli armeni sul suolo turco, come il diritto alla vita e al lavoro, sono stati soppressiTalat Pasha

Molti di questi documenti nel 1919 furono esibiti e riconosciuti validi addirittura dai tribunali ottomani, nei processi intentati a militari ed esponenti dei Giovani Turchi su pressione dei vincitori della prima guerra mondiale (in particolare la Gran Bretagna), e alcuni fra questi furono addirittura pubblicati sulla Gazzetta Ottomana. Successivamente però si decise di stendere una coltre di silenzio su quanto rischiava di oscurare il prestigio della nuova Repubblica turca sorta sulle ceneri dell’Impero, e gli eredi dei vecchi apparati si mossero per occultare, distruggere le prove, ridurre al silenzio i testimoni.

I documenti pubblicati da Akçam non solo rendono giustizia di quello che ancora oggi è negato, ma gettano anche luce su aspetti meno conosciuti delle tragiche vicende che descrivono: da essi ad esempio si comprende che molti turchi musulmani diedero protezione e riparo agli armeni, spesso a rischio della loro stessa vita: gli ordini erano infatti di giustiziare immediatamente davanti alla propria casa coloro che nascondevano i fuggiaschi.

Il libro è dedicato alla memoria del giornalista di turco-armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007 da un fanatico nazionalista davanti ai locali del suo giornale Agos, in un delitto dai contorni ancora oggi oscura. Akçam, a sua volta incarcerato per reati di opinione negli anni ’70 e in seguito rifugiato in Germania e poi negli Stati Uniti, rischiò a sua volta la vita per assistere al funerale di Dink: questa ricerca è un estremo omaggio alla lotta dell’amico per la verità sui massacri degli armeni, in un momento in cui i fantasmi dei conflitti etnici tornano ad aggirarsi nel Caucaso.

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La diplomazia del caviale. Ecco perché nessuno dice niente, in Europa, sulla guerra in Armenia (Confronti 26.12.20)

di Leonardo Filastò. Storico delle idee

«Tra favori grandi e piccoli, tra guadagni e maneggi legati al tiranno, si arriva al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta quasi uguale a quello di chi preferirebbe la libertà». Così scriveva l’umanista francese Etienne de La Boétie in un pamphlet circolato clandestinamente in Francia nella seconda metà del Cinquecento. Ma il Discorso della servitù volontaria è ancora oggi un preziosissimo prontuario su come nascono e si sostengono le autocrazie. Il meccanismo di sostegno è sempre lo stesso, la corruzione. Possiamo però fare un passo in più e allargare ciò che accade all’interno di uno Stato a quello che accade tra un Stato e un altro. Ne abbiamo un buon esempio sotto gli occhi e si chiama Caviar diplomacy.

Ricordiamolo, la locuzione “diplomazia del caviale” è stata coniata nel 2012 per indicare il sistema tramite cui il governo dell’Azerbaijan, elargendo regalie a politici stranieri, riesce a tacitare il Consiglio d’Europa sulla scorrettezza delle proprie elezioni politiche, sulla mancanza di libertà di stampa e sulle sistematiche persecuzioni e incarcerazioni degli oppositori politici.

L’Azerbaijan è formalmente una Repubblica, ma è in realtà una repubblica sui generis, con una presidenza dinastica, tramandata di padre in figlio come nella Corea del nord, e una conduzione del potere familistica (Ilham Aliyev ha nominato sua moglie come vice presidente). Insomma, di res publica non c’è traccia, il dispotismo è in realtà la sua cifra distintiva. Ma per accreditarsi come autentica democrazia ha implementato un sistema di corruzione capillare, atto a garantirsi la “servitù volontaria” degli Stati europei (e in particolare dell’Italia) già dipendenti dall’Azerbaijan per gl’idrocarburi.

Il 6 novembre 2013, in un articolo sul Corriere della Sera, Milena Gabanelli rilevava come, in occasione delle elezioni avvenute in Arzebaijan un mese prima e vinte dal Presidente uscente Aliyev con l’85% dei voti per il terzo mandato consecutivo, Pino Arlacchi, capo degli osservatori ufficiali del Parlamento europeo, avesse giudicato le elezioni «libere, eque e trasparenti» in totale disaccordo con i rilevamenti fatti dall’OSCE, dall’Human Rights Watch e dal Freedom House. «Ridicolo» aveva definito il rapporto degli osservatori il parlamentare Sir Graham Watson, mentre il tedesco Werner Schulze constatava come un certo numero di membri del parlamento minasse la credibilità dell’Europa «nella sua lotta per i diritti umani».

Il 4 settembre del 2017 il The Guardian (articolo a firma di Caleiann, Barr e Negapetyants) approfondiva la questione e parlava di pagamenti effettuati a favore di diversi membri del Consiglio europeo, tra i quali il tedesco Eduard Lintner e l’italiano Luca Volonté, nel momento in cui l’Azerbaijan era sotto i riflettori per l’arresto di attivisti dei diritti umani e di giornalisti. Il The Guardian individuava un ramificato sistema di corruzione, con tanto di cifre, banche e società di comodo beneficiarie.

Le poche denunce, però, non scalfiscono il sistema, la servitù volontaria dei paesi europei, a cui mano a mano si piega anche l’informazione, da allora sembra essersi allargata e incrementata. C’era in prospettiva qualcosa di ancora più importante per cui ottenere il tacito consenso degli europei, la ripresa di una guerra, in grande stile. Da anni l’Azerbaijan si era preparato alla guerra d’aggressione contro il Nagorno Karabakh (Artsakh, per gli armeni) una regione abitata in maggioranza da armeni, contesa tra Armenia e Azerbaijan da decenni, che ha richiesto legittimamente l’indipendenza e il riconoscimento come repubblica autonoma fin dal 1991, senza però ottenerlo fino a ora. Naturalmente l’Armenia si sarebbe schierata in difesa dell’Artsakh, nella speranza non immotivata di avere il sostegno delle democrazie occidentali. Vana illusione in realtà (il minimo che si possa dire è che la diplomazia armena sia stata ingenua) in un mondo che persegue innanzi tutto il culto di Mammona, e l’Armenia è un paese piccolo e povero, con poco o niente da offrire in termini di risorse materiali.  All’Azerbaijan serviva invece un cambio di passo, un’esposizione maggiore.

Ero in Armenia il 30 luglio del 2018, quando Sergio Mattarella, la prima volta per un presidente italiano, s’incontrava a Yerevan con il suo omologo nominato in quell’anno, Armen Sarkissian. L’Italia, almeno così sembrava, accorreva a manifestare la propria amicizia e solidarietà per una democrazia pienamente sbocciata, in seguito alla rivoluzione di velluto guidata da Nikol Pashinyan.

In conferenza stampa Mattarella esprimeva il suo desiderio di compiere quella visita «in virtù dei legami antichissimi che vi sono tra i nostri popoli». Accennava poi al comune impegno per la pace in Libano e in Afganistan, degli intensi rapporti di cooperazione culturale e del contributo all’Italia della diaspora armena. Non ricordo se Mattarella nominasse il fatto rilevante che l’Italia è il secondo più importante partner commerciale dell’Armenia. Dalla musica alla rubinetteria gli armeni amano tutto quello che è di produzione italiana, cosa che, dispiace dirlo, contribuisce a mortificare la manifattura e l’ottimo artigianato locale. Poi, naturalmente, la questione Nagorno Karabakh, la parte più opaca del discorso, che si riassumeva nella volontà di trovare una soluzione politica e non militare al conflitto.

Lo slancio finale non lasciava dubbi sull’impegno assunto dal nostro paese: «L’Armenia potrà sempre contare sul sostegno e la sincera amicizia dell’Italia». Sembrava davvero un discorso sincero e appassionato, e forse lo era. Prima di approdare in Armenia, però, Mattarella era stato in Azerbaijan, e lì, il 18 luglio, aveva fatto lo stesso discorso, ma con più sorrisi, più superlativi, e un particolare entusiasmo sulle relazioni economiche, il petrolio, il progetto della TAP (Trans-Adriatic Pipeline) sul gasdotto. Poi il solito discorso opaco sul Nagorno Karabach.

Spostiamoci al 20 febbraio del 2020. Mattarella ricambia l’ospitalità e accoglie in Italia il Presidente Aliyev. Fa gli onori di casa con amichevole riguardo, e tocca di seguito al presidente azero replicare con le cortesie d’etichetta. Poi però Aliyev s’irrigidisce, assume l’atteggiamento intransigente da despota e ricorda le donazioni che ha fatto all’Italia (un milione di euro per gli scavi archeologici sotto la via Alessandrina di Roma), le fornitura di petrolio di cui il nostro paese è il maggiore importatore e il progetto della TAP. Il tono suona stranamente ricattatorio. Alla luce di poi, sembra richiedere, in cambio di ciò che ha fatto per l’Italia e per l’Europa, una tacito consenso per la guerra che di lì a qualche mese avrebbe scatenato. Ci riuscirà. È il trionfo della Caviar diplomacy, al momento opportuno l’Italia e l’Europa assisteranno in silenzio al massacro di migliaia di giovani armeni.

L’epilogo è tragico e farsesco. L’Azerbaijan, com’era prevedibile, ha vinto la guerra, ottenendo in questo modo forse il suo vero obiettivo, quello di mettere a tacere il dissenso interno che aveva cominciato a farsi sentire prima del conflitto. Perché, lo sappiamo, la guerra ha il potere di unificare gli animi intorno a un ottuso patriottismo di fronte al nemico. E quando si vince, chi si azzarda a criticare! Si va tutti a festeggiare. E a festeggiare arriva anche una delegazione italiana. Ed eccola lì, in fila, a favore del fotografo, ai lati del tiranno Aliyev svettante sugli altri.

Ci sono tutti, la rappresenta politica al completo, da destra a sinistra. Com’è possibile? Chi li ha trascinati fin lì, miracolosamente di comune accordo, a fare festa intorno a un grottesco despota, che ha appena finito di massacrare i suoi vicini? Chi ha autorizzato Ettore Rosato (Italia Viva), Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), Pino Cabras (5 Stelle). Gianluca Ferrara (5 Stelle), Maria Rizzotti (Forza Italia), Alessandro Alfieri (PD), Rossana Boldi (Lega), a omaggiare un tiranno in nome del nostro Paese?

Niente di cui meravigliarsi in realtà, c’eravamo già incatenati a questo autocrate caucasico durante il governo di Matteo Renzi, quando furono firmati accordi di partenariato praticamente su tutti i settori, dall’economia alla cultura, e c’erano anche gli “Amici dell’Azerbaijan”, guidati dal senatore leghista Sergio Divina, a fare da sostegno. A niente era servito il richiamo di Amnesty International sulla violazione sistematica dei diritti umani di questo nostro nuovo alleato. «Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno», scriveva La Boétie.

Ph  © President.az, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons

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Mkhitaryan eletto miglior giocatore d’Armenia del 2020 (Pagineromaniste 25.12.20)

Henrikh Mkhitaryan ha vinto per la decima volta il premio di miglior giocatore armeno dell’anno. Tramite il proprio sito ufficiale ffa.am la federezione ha premiato il trequartista giallorosso che si è aggiudicato il riconoscimento con 133 punti. l giallorosso ha battuto gli altri quindici giocatori in lizza. Al secondo posto Tigran Barseghyan, centrocampista dell’Astana, mentre sul gradino più basso del podio Vahan Bichakhchyan, dello Zilina.

Mkhitaryan: “Buon Natale, che le vostre case siano piene di calore, amore e fortuna” – FOTO

In giallorosso l’armeno sta riscoprendo una forma disarmante. Dopo il calo vissuto in Inghilterra, ha ritrovato sé stesso in Italia ed è uno dei giocatori fondamentali della rosa allenata da Fonseca. Mkhitaryan ha infatti già collezionato 7 gol e 6 assist in questo campionato il che lo ha reso il centrocampista che ha preso parte a più gol in Europa. A breve arriverà anche il rinnovo di contratto, che lo legherà ai giallorossi fino al 2022.

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Roma, a gennaio pronto il rinnovo di Mkitaryan


Roma, Mkhitaryan eletto miglior giocatore d’Armenia del 2020 (Romanews)

Gli intrecci regionali della guerra in Nagorno-Karabakh (policymakermag.it 24.12.20)

Tra gli Stati coinvolti nel conflitto, oltre ad Armenia, Azerbaigian, Turchia e Russia, ci sono anche Georgia e Iran. L’analisi di Giuseppe Mancini

La guerra di 44 giorni tra Armenia e Azerbaigian, per il controllo del Nagorno-Karabakh, non solo ha cambiato gli equilibri tra azeri vittoriosi e armeni sconfitti ma ha paradossalmente determinato nuove prospettive di cooperazione regionale.

A uscire vincitrici dal conflitto sono state anche la Russia e la Turchiala prima è intervenuta per imporre la fine delle ostilità e ha ottenuto la presenza di proprie truppe in alcuni dei territori contesi; la seconda ha sostenuto una nazione amica – politicamente, ma anche militarmente – e poi trasformato il successo sul campo in dividendi diplomatici.

La proposta è venuta dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha incontrato il suo omologo azero Ilham Aliyev – il 10 dicembre, a Baku – in occasione della “parata della vittoria”: un raggruppamento regionale a sei, che non solo porti a una soluzione definitiva per il Nagorno-Karabakh ma crei anche forme di cooperazione economica.

Gli stati coinvolti, oltre ad Armenia e Azerbaigian, oltre a Turchia e Russia, sarebbero Georgia e Iran: tutti con confini in comune tra loro. Parlando con la stampa turca durante il viaggio di ritorno, Erdoğan ha assicurato di avere l’approvazione di Vladimir Putin; le diplomazie approfondiranno.

La proposta turca è ovviamente condivisa da Aliyev: perché l’obiettivo comune, attraverso questa nuova formula regionale, è il superamento del cosiddetto “gruppo di Minsk”, guidato invece – in seno all’Osce – da Russia, Usa e Francia (quest’ultima giudicata troppo filo-armena) e inefficace nel trovare soluzioni mutualmente accettabili per la sistemazione del Nagorno-Karabakh attraverso i negoziati degli ultimi 30 anni o quasi.

Del resto, le iniziative regionali non sono nuove per la Turchia: che subito prima delle “primavere arabe”, all’apice della sua influenza come Stato musulmano e democratico nel 2009-2010, aveva avviato la costituzione di un gruppo a quattro insieme a Siria, Libano e Giordania con l’obiettivo di favorire la cooperazione e lo sviluppo del Levante e poi di tutto il Medio Oriente. Il progetto è fallito per cause contingenti, ma l’approccio è rimasto vivo.

Questo approccio regionalista, nel caso del Caucaso, ha anche risvolti direttamente bilaterali: perché Erdoğan ha avanzato l’ulteriore proposta – nel contesto di questa iniziativa di pace e di cooperazione – di riaprire il confine turco-armeno, chiuso dal 1993 proprio al momento della prima guerra per il Nagorno-Karabakh. Un’iniziativa precedente per riaprirlo, coi protocolli di Zurigo del 2009, è fallita per la persistenza del conflitto tra Armenia e Azerbaigian: la liberazione di alcuni dei territori azeri sotto occupazione armena – è questo, il paradosso – potrebbe rimuovere uno degli ostacoli principali alla normalizzazione (rimarrebbe però l’ostilità storica provocata dagli eventi del 1915 in Anatolia, che l’Armenia ritiene un “genocidio” e la Turchia interpreta in modo diverso).

Yerevan, per il presidente turco, avrebbe così nuove opportunità di sviluppo: perché al momento è invece tagliata fuori da tutte le infrastrutture energetiche e di trasporto eurasiatiche, come il gasdotto Tanap e le nuove vie della Seta (il collegamento ferroviario tra Kars e Baku passa infatti per Tbilisi). Del resto, Turchia e Azerbaigian hanno immediatamente iniziato la ricostruzione dei territori del Nagorno-Karabakh riconquistati – l’Ansaldo energia ha già firmato un accordo per la ricostruzione di centrali elettriche – e avviato altri progetti infrastrutturali nel corridoio del Nakhchivan.

Riguardo questo corridoio, la sua funzione è di creare un collegamento tra l’Azerbaigian e questa regione azera interamente inglobati dal territorio armeno; visto che ha un brevissimo tratto di confine – appena 17 chilometri – col Nakhchivan, anche la Turchia ha di conseguenza un accesso diretto al territorio azero. In questo contesto, i progetti annunciati sono un gasdotto e un collegamento ferroviario dal territorio turco. L’Armenia è chiamata a rispondere, dopo che avrà assorbito le conseguenze politiche della sconfitta militare.

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Il conflitto del Nagorno-Karabakh e le influenze russo-turche in una regione strategica (Euronews 23.12.20)

Dal 27 settembre, Armenia e Azerbaigian si affrontano in uno scontro feroce per i territori contesi dentro e intorno all’enclave separatista del Nagorno-Karabakh, una regione strategicamente importante (il corridoio per gli oleodotti che trasportano petrolio e gas naturale dal Mar Caspio), riconosciuto a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, ma controllato dall’etnia armena.

Un conflitto che ha le sue radici nella dissoluzione dell’Unione Sovietica e che continua nonostante il cessate il fuoco concordato nel 1994.

Un’escalation con molteplici cause fra cui un processo negoziale in stallo da anni e un Azerbaijan più assertivo per la sua crescente forza economica e militare.

Infine, il sostegno straniero ricevuto da entrambe le parti: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è impegnato a sostenere l’Azerbaigian (un popolo prevalentemente di etnia turca). Dall’altra parte la Russia, tradizionalmente alleata dell’Armenia.

Secondo il presidente russo Vladimir Putin, oltre 4.000 persone sono state uccise da entrambe le parti, compresi civili, con 8.000 feriti e decine di migliaia cacciate dalle loro case.

Non c’è stato consenso da nessuna parte su chi sia responsabile della violenza: questo è ciò che entrambe le parti hanno dichiarato ai nostri microfoni il 9 ottobre.

Così l’azero Ilham Aliyev: “Ci rammarichiamo che i civili vengano uccisi, naturalmente non era il nostro scopo”.

Gli ha fatto eco il premier armeno Nikol Pashinyan: “Non siamo noi la causa di questo attacco (del 27 settembre), hanno attaccato le nostre città e villaggi e abbiamo dovuto rispondere: la nostra risposta è principalmente ed è principalmente contro le posizioni militari avversarie”.

L’accordo di pace è stato mediato dalla Russia che ha consegnato all’Azerbaigian diverse regioni: una parte dello stesso Nagorno-Karabakh e tre territori circostanti.

L’accordo prevede anche il dispiegamento di forze di pace russe nella regione e l’istituzione di un centro di osservazione russo-turco nella regione.

Vladimir Putin, presidente russo, ha detto: “Partiamo dalla premessa che gli accordi raggiunti creeranno le condizioni necessarie per una soluzione a lungo termine e su vasta scala della crisi intorno al Nagorno-Karabakh su una base giusta e nell’interesse dei popoli armeno e azero”.

E questa visione a lungo termine si riflette nello spirito di libera circolazione che è alla base dell’accordo, nella costruzione di autostrade e controllo militare sotto le truppe russe che vengono a salvaguardare il processo di pace.

Dall’altra parte ci sono gli armeni, rimasti sconvolti dall’accordo di pace: la rabbia cresce contro Nikol Pashinyan, che è etichettato come un traditore.

Per giorni ci sono state proteste che lo chiedevano di dimettersi: molti vedono il Nagorno-Karabakh come una parte legittima dell’Armenia, e molti nella regione separatista affermano che Pashinyan ha venduto parte della loro patria firmando il recente accordo di pace.

Il conflitto nella regione non è stato ciò che ha allontanato le persone: piuttosto, è stato l’accordo di pace.

Secondo il governo armeno, circa 90.000 azeri di etnia armena sono stati sfollati e sono fuggiti temporaneamente in Armenia. Da parte azera, i funzionari affermano che il conflitto ha provocato la fuga di circa 40.000 persone.

L’accordo di pace ha “congelato” lo status quo ma non ha certo risolto quello che è uno dei conflitti più antichi del mondo, né ha migliorato la vita delle persone che vi abitano.

Questa situazione ha ratificato la crescente influenza russa e turca nella regione e ha anche ridotto le ambizioni armene di riconnettersi con l’Europa, come avrebbe voluto Pashinyan.

Inoltre, sembra ridurre per ora le possibilità dell’Europa di svolgere un ruolo di primo piano in questo territorio, strategico per diversificare il proprio approvvigionamento energetico.

Anche la Francia, che ha una grande comunità armena e ha un ruolo di primo piano nei precedenti colloqui (come membro del gruppo di Minsk) è stata però messa da parte.

Il villaggio diviso

A seguito della guerra nel Nagorno-Karabakh, il villaggio di Taghavard è stato diviso in due parti.

In una, denominata Kaller Taghavarn, è rimasta la comunità armena, gli azeri hanno occupato l’altra metà.

Quasi 400 persone di questo villaggio sono state sfollate.

I problemi riguardano anche coloro che rimangono a Kaller Taghavard: vivere vicino al confine, difatti, è ugualmente preoccupante.

Tombe in cui riposano persone di nazionalità armena sono anche dall’altra parte del confine, per cui le famiglie non possono render visita al luogo di sepoltura

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Il Video racconto: “Armenia: la luce dal Pozzo Profondo” (LeccoFM 23.12.20)

Lecco, 22 dicembre 2020 – Venerdì 18 dicembre è stato trasmesso in diretta streaming l’incontro intitolato “Armenia: la luce dal Pozzo Profondo”, organizzato dal Liceo Leopardi di Lecco.

Gli studenti hanno dialogato in diretta con uno dei più illustri studiosi della questione armena e caucasica, il prof. Aldo Ferrari, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e con due esponenti della comunità armena italiana, la famosa scrittrice e saggista Antonia Arslan, e la Presidente della Casa Armena di Milano, Marina Mavian.

Tre straordinarie testimonianze, che hanno reso l’incontro un importante momento di riflessione su temi fondamentali per capire a fondo la situaizone armena, come la libertà e la ricerca della verità.

«Il desiderio di approfondire la questione armena, oggetto di studio nelle ore di Storia in quinta, è nato davanti alle drammatiche immagini della recente guerra scoppiata a fine settembre tra l’Azerbaijan e l’Armenia per il controllo del Nagorno- Karabakh e conclusasi il 10 novembre con il cessate il fuoco e l’arretramento delle forze militari armene – spiega Laura Bellelli, docente di storia del Liceo Leopardi di Lecco -. Questo breve conflitto ha visto implicate le più grandi potenze politiche dell’area, Turchia e Russia, e pone gravi problemi alla sopravvivenza delle testimonianze cristiane armene di quei territori, abbandonati da tanti abitanti in fuga».

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High tech e geopolitica, così Erdogan è diventato il signore dei droni da guerra (Repubblica 22.12.20)

A gennaio di quest’anno, quando il Parlamento turco ha autorizzato l’invio di soldati in Libia, l’esercito di Recep Tayyip Erdogan ha rapidamente cambiato il corso della guerra costringendo le milizie del generale Khalifa Haftar – sostenuto da russi, egiziani, emiratini e francesi – a ripiegare verso est.  Agli inizi di ottobre, il presidente azero Ilham Aliyev ha ringraziato pubblicamente la Turchia per avergli consentito di vincere la guerra contro gli armeni: “Se non avessimo ottenuto queste capacità (dei droni, ndr) – ha detto – sarebbe stato molto più difficile”. In Libia come nel Nagorno Karabakh a fare la differenza nel conflitto è stata una tecnologia su cui i turchi investono da 10 anni e che è diventata un punto di forza per le ambizioni geopolitiche di Erdogan nel Mediterraneo e in Asia centrale: l’industria dei droni.

I droni turchi hanno “rivoluzionato” le regole del gioco nelle guerre in Libia e in Siria, ha ammesso a luglio Ben Wallace, il segretario alla Difesa britannico, probabilmente avendo in testa le immagini dei Bayraktar TB-2 turchi che abbattevano i missili Pantsir di fabbricazione russa in Siria.

La Turchia ha iniziato a sviluppare gli arei a pilotaggio remoto agli inizi degli anni Duemila – prima per missioni di sorveglianza e intelligence, poi armandoli – quando si è resa conto che difficilmente avrebbe potuto ottenerli da Paesi stranieri come gli Stati Uniti o Israele. Oggi è diventata un attore importante del mercato, e si candida a competere con la Cina anche per le esportazioni in Africa, in Medio Oriente, in Asia, dove le regole più rigide per l’export militare impediscono agli Stati Uniti di conquistare mercato. Ha già venduto droni al Qatar e alla Libia, all’Azerbaijan e all’Ucraina e sta negoziando possibili forniture con alcuni Stati dell’Asia centrale e meridionale come il Kazakistan e l’Indonesia, ci conferma Arda Mevlutoglu, analista esperto di Difesa di base ad Ankara. Ci sono notizie che un drone della Turkish Aerospace Industry, l’Anka-S, si stato ordinato anche dalla Tunisia.

Questo attivismo si riflette nei numeri: nel 2002 la Turchia esportava 248 milioni di dollari attrezzature militari, l’anno scorso è arrivata a 3 miliardi, secondo il rapporto annuale dell’associazione turca delle industrie della Difesa e dell’Aerospazio, la Sasad.

Il manager e l’ingegnere: gli uomini della Difesa 

L’industria della difesa turca ruota intorno a due figure chiave: Selcuk Bayraktar, 41 anni, l’ingegnere aerospaziale che ha guidato l’ascesa della Baykar, l’azienda produttrice dei Bayraktar TB-2. E’ anche il cognato di Erdogan, ha sposato la figlia più piccola del presidente, Sümeyye. L’altro è Ismail Demir, un manager vicinissimo a Erdogan che ha passato molti anni di studio e di lavoro negli Stati Uniti ed è a capo delle industrie della difesa turche: di recente è stato sanzionato dagli americani per l’acquisto del sistema russo S-400. Entrambi stanno cercando di far avanzare la capacità aeronautica turca superando i limiti dell’industria nazionale.

Il 15 dicembre ha Turchia ha firmato un accordo con l’Ucraina: forniture militari in cambio di know how nello sviluppo dei droni. “L’Ucraina ha una forte base industriale soprattutto nei motori e nell’elettronica, che può essere utile alla Turchia. Un buon esempio è il drone strategico Akinci, che è in fase di test ed è equipaggiato con due motori turboelica ucraini”, spiega Mevlutoglu. L’altro progetto riguarda lo sviluppo di un jet da combattimento, un obiettivo ambizioso visto che “la Turchia fino ad ora non ha mai prodotto un aereo a reazione” e “non dispone di infrastrutture di test e sviluppo adeguate e di risorse umane per produrre e testare un velivolo da combattimento avanzato. Il roll-out è previsto nel 2023, i primi voli un paio di anni dopo”. In soccorso di Ankara è corsa la Bae Systems britannica che ha un ruolo da consulente tecnico nel progetto.

Il Canada dice no all’export militare, la Germania frena  

Altri Stati si sono disposti invece in maniera diversa nei confronti della crescita militare turca. A ottobre, dopo il conflitto nel Nagorno, il Canada ha sospeso l’esportazione verso la Turchia di componenti che possano essere utilizzati per fare i droni. La Germania si è invece opposta a un embargo totale delle forniture di armi alla Turchia che era stato chiesto dalla Grecia dopo le tensioni nel Mediterraneo Orientale. “Abbiamo già sperimentato una volta come la Turchia, quale membro della Nato, abbia acquistato missili dalla Russia perché non li riceveva più dagli Stati Uniti”, ha detto martedì il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas.

Ulteriori limitazioni potrebbero spingere Ankara a cambiare la sua catena di fornitura, guardando magari a est? Probabilmente la Turchia “aumenterà gli sforzi nell’indigenizzazione delle tecnologie oltre a trovare fonti alternative”, riflette Mevlutoglu. “L’industria della difesa è sempre stata una delle massime priorità in Turchia, indipendentemente dalla visione politica del partito o del leader al potere. Sulla base dell’esperienza dell’embargo statunitense nel 1975 e degli anni ’90 e ultimamente delle sanzioni Caatsa, la Turchia agirà sicuramente in maniera ancora più attiva”.


Azerbaijan, nel conflitto del Nagorno-Karabakh contro l’Armenia sono stati commessi crimini di guerra (Repubblica 22.12.20)

L’europa vile e senza onore abbandona i cristiani armeni (Osservatorio-sicilia 22.12.20)

La tragedia e l’annientamento del popolo armeno (cristiano) nel silenzio vile dell’europa (e rigorosamente minuscola)  mentre l’Italia si piega ad Haftar con Conte e si inginocchia davanti a Alyev con il sottosegretario Di Stefano.  

La viltà politica dell’Europa ormai sottomessa all’Islam sta avendo con la tragedia del popolo armeno, una plastica dimostrazione. Vili e senza onore, i politici europei che assistono al genocidio programmato dal dittatore turco Erdogan con la manovalanza del suo omologo azero, non meno feroce di lui, Alyev.

… e del 2020

Gli azeri con l’assistenza militare ed economica turca che ha diretto dalle retrovie l’operazione armena e pianificato il genocidio, hanno utilizzato mercenari siriani e bande di terroristi della peggior specie, pagati profumatamente non per combattere, ma per uccidere. Sono pagati bene e ottengono 100 dollari per ogni armeno ucciso. Loro non combattono, sono arruolati per tagliare le teste ai kaffir, ovvero gli infedeli cristiani armeni.
In questo contesto si assiste all’incredibile inginocchiamento della politica italiana nei confronti del capo azero. Infatti, incuranti del genocidio in atto, una delegazione parlamentare italiana, alla guida del  sottosegretario agli Affari Esteri Manlio Di Stefano, il deputato di Italia Viva Ettore Rosato e il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso,  si è recata in Azerbaigian ed è stato ricevuto dal Presidente della Repubblica Aliyev , ha incontrato i Ministri degli Esteri Bayramov, dell’Energia Parviz Shahbazov, e il capo dell’Amministrazione presidenziale responsabile della ricostruzione dei distretti tornati sotto controllo azero Samir Nuryev.
La presenza di Di Stefano e gli incontri ad alto livello hanno dato alla visita una impronta “ufficiale”  come a confermare che l’Italia non guarda ai cristiani armeni ma ai suoi carnefici.
Questa è l’europa e questa è l’Italia, un continente e uno stato che con viltà e disonore, hanno voltato le spalle ai cristiani azeri.
Erdogan l’ha promesso. La Turchia arriverà in europa, e l’Armenia è solo il primo passo. Dopo il genocidio del 1915, degli Assiro-Caldei, dei Greci del Ponto, il rais turco sta dimostrando che è ripresa la conquista dell’occidente.

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Siamo preoccupati per la protezione dei beni culturali armeni sotto l’occupazione azera-turca nell’Artsakh. L’Azerbajgian è già inadempiente (Korazym 22.12.20)

Da oltre un mese si moltiplicano gli appelli all’UNESCO perché faccia sentire forte la sua voce e intervenga per la protezione dei beni culturali armeni in Nagorno-Karabakh/Artsakh. Apparentemente potrebbe sembrare solo una questione di supremazia territoriale da parte azera: vincono la guerra e distruggono tutto ciò che rappresenta il nemico. In realtà c’è una ideologia di fondo, la stessa che ha portato i turchi a cancellare le tracce armene nell’Armenia storica. Poichè la narrazione azera è che nella regione gli Armeni sono arrivati solo da poco. Ecco che cercano di eliminare tutto ciò che possa riferirsi alla civiltà armena ed essere datato più indietro nei secoli. Hanno provato far passare le chiese e i monasteri armeni come appartenenti al popolo degli albani del Caucaso ma con scarso successo; hanno distrutto migliaia di katchkar a Julfa. Ecco perché gli Azeri sono pericolosi.

Da oltre un mese l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura è in attesa, nonostante ripetuti contatti, che Baku dia il suo consenso a una missione nel territorio dell’Artsakh ora sotto suo controllo. L’UNESCO sta aspettando una risposta dall’Azerbaigian. Che non arriva.

In un comunicato stampa del 20 novembre scorso, l’UNESCO (di cui sia l’Armenia che l’Azerbajgian sono parti contraenti) aveva ribadito l’obbligo dei Paesi di proteggere il patrimonio culturale ai sensi della Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. L’Organizzazione aveva proposto di svolgere una missione indipendente di esperti per redigere un inventario preliminare dei beni culturali significativi come primo passo verso l’effettiva salvaguardia del patrimonio della regione.

La proposta ha ricevuto il pieno sostegno dei copresidenti del Gruppo di Minsk e l’accordo di principio dei rappresentanti sia dell’Armenia che dell’Azerbajgian.

Riunitisi all’UNESCO il 10 e 11 dicembre 2020, anche i membri del Comitato intergovernativo della Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e del suo secondo protocollo (1999), hanno accolto con favore questa iniziativa e hanno confermato la necessità di una missione per fare il punto della situazione dei beni culturali nel Nagorno-Karabakh e nelle aree circostanti. Il Comitato ha chiesto a ciascuna delle parti di rendere possibile la missione.
Dal 20 novembre, l’UNESCO ha presentato proposte e condotto consultazioni approfondite per organizzare la missione che, ai sensi della Convenzione, richiede l’accordo di entrambe le parti.

Ernesto Ottone Ramirez, Assistente del Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, ha dichiarato: “Solo la risposta dell’Azerbajgian è ancora attesa perché l’UNESCO proceda con l’invio di una missione sul campo. Le autorità dell’Azerbajgian sono state contattate più volte senza successo finora. Ogni settimana che passa rende più difficile la valutazione della situazione dei beni culturali, anche a causa del tempo che si prevede diventerà più rigido nelle prossime settimane. La finestra di opportunità aperta dal cessato il fuoco non deve essere chiusa di nuovo. La salvaguardia del patrimonio è una condizione importante per l’instaurazione di una pace duratura. Ci aspettiamo quindi che Baku risponda senza indugio, in modo che le discussioni costruttive delle ultime settimane possano essere trasformate in azione”.

Questo atteggiamento da parte dell’Azerbajgian non deve certo stupire. Sin dal primo giorno di tregua gli Azeri hanno impostato una narrazione tendente a dearmenizzare il patrimonio culturale della regione.

Il ritardo nell’autorizzazione alla missione degli esperti dell’UNESCO ha evidentemente un duplice scopo: da un lato eliminare fisicamente tutto ciò che può essere distrutto: katchkhar (croci di pietra armeni medioevali), inscrizioni in armeno, inserti architettonici, monumenti; dall’altro alterare il patrimonio più importante cercando di eliminare le peculiarità distintive armene anche attraverso disonesti interventi di restauro.

A oltre quaranta giorni dal cessato il fuoco non sappiamo che fine abbiano fatto le migliaia di reperti armeni esistenti nelle regioni ora occupate dagli Azeri-Turchi. Il precedente delle chiese e monasteri nel Nakhchivan o delle migliaia di katchkhar distrutte dai soldati di Aliyev non è un bel precedente.

Cresce dunque la preoccupazione che nuovi atti di inciviltà colpiscano il patrimonio culturale armeno dell’Artsakh. Occorre vigilare e denunciare.

Ringraziamo per le informazioni l’Iniziativa italiana per il Karabakh, un gruppo di studio, attivo dal novembre 2010, che ha l’obiettivo di far conoscere all’opinione pubblica italiana la Repubblica armena del Nagorno-Karabakh/Artsakh, la sua storia, la sua cultura, il suo territorio. Ma soprattutto il suo diritto all’autodeterminazione ed i principi giuridici e politici che ne sono alla base.

Attraverso la comunicazione l’Iniziativa italiana per il Karabakh si adopera a far giungere anche alla opinione pubblica italiana la voce della Repubblica di Artsakh e dare una mano alla sua gente affinché i propri diritti vengano riconosciuti.

È un dovere morale per ogni europeo stare dalla parte della Repubblica di Artsakh: per l’Europa dei piccoli popoli, per una democrazia costruita dal basso e partecipata, contro la guerra e per un futuro di pace.

L’attività dell’Iniziativa italiana per il Karabakh si articola sul piano dell’informazione (diffusione di notizie sulla Repubblica del Nagorno Karabakh/Artsakh), su quello della formazione (produzione di materiale storico, politico e giuridico) e della progettualità (articolazione di iniziative di sostegno).

L’Iniziativa italiana per il Karabakh – che non ama l’ipocrisia della politica ed in particolare di quella internazionale – guarda al Nagorno-Karabakh/Artsakh come ad un esempio: positivo per il coraggio e la voglia di risorgere dimostrati dopo decenni di sottomissione ed alcuni anni di guerra imposta; negativo per come le diplomazie del mondo cercano di nascondere la realtà delle cose e di indebolire il diritto del Karabakh solo per proteggere i propri interessi petroliferi in Azerbajgian.

Artsakh, una piccola terra abitata da un grande popolo

Il Nagorno-Karabakh, l’antico armeno Artsakh, ha sempre lottato per il proprio sacrosanto diritto all’autodeterminazione. Annesso per scellerate scelte politiche staliniane all’Azerbajgian, costretto alla sottomissione da un dominatore diverso per etnia, cultura, lingua e religione, spinto infine a ricercare la libertà attraverso una lotta lunga e piena di sacrifici.

Sono testardi gli Armeni dell’Artsakh. Forse si piegano ma di sicuro non si spezzano; sanno soffrire e reagire, arroccati in mezzo alle loro montagne verdi. Hanno conquistato democraticamente e legalmente il diritto all’autodeterminazione. Sono stati aggrediti, hanno combattuto ed hanno vinto. Ora sono un popolo libero che però attende ancora giustizia.

La comunità internazionale così solerte ad accorrere in difesa ora di questo ora di quell’altro popolo (specie quando c’è di mezzo il petrolio o qualche importante interesse diplomatico) sembra poco attenta alle vicende dell’Artsakh. Come per il genocidio armeno del 1915, le grandi potenze fanno finta di non vedere. Conoscono, comprendono, le ragioni del Nagorno-Karabakh, ma ad esse antepongono altri interessi, prevalentemente economici. Così, quella guerra interrotta nel 1994 con il cessato il fuoco, ricominciato con l’aggressione azera-turca del 2020 e interrotto con il altro cessato il fuoco imposto dalla Russia, non ha ancora avuto il suggello di un definitivo trattato di pace.

Il Nagorno-Karabakh nel frattempo è divenuto una repubblica salda, con proprie efficienti istituzioni politiche ed amministrative, e dove si svolgono libere e democratiche elezioni. Gli Armeni del Nagorno-Karabakh sono più europei di tanti altri europei e guardano all’Europa come un esempio da seguire. Per questo il loro sforzo di sviluppare le istituzioni secondo i valori del vecchio continente merita attenzione ed aiuto. E noi, come europei e italiani, dobbiamo stare dalla loro parte, per non trasformare ancora una volta il Caucaso in un campo di battaglia solo per proteggere qualche interesse petrolifero.

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