La Russia chiede ad armeni e azeri di rispettare il cessate il fuoco nel Karabakh (Sputniknews 12.12.20)

Mosca ha chiesto alle parti in conflitto nel Nagorno-Karabakh di rispettare rigorosamente la tregua, ha detto ai giornalisti il portavoce del quartier generale delle forze di pace russe nella regione contesa.

Il giorno prima sono stati registrati scontri a fuoco nella zona di Hadrut. L’episodio è stato il primo caso di violazione del cessate il fuoco dal 10 novembre, quando è iniziata l’operazione di mantenimento della pace nel Karabakh.

In precedenza il ministero della Difesa armeno aveva sostenuto che Baku ha ripreso le operazioni militari in direzione dei centri di Khin Taglar e Khtsaberd.

Questi villaggi sono delle enclavi a controllo delle forze filo-armene, il resto della zona di Hadrut è ora sotto il controllo delle forze armate dell’Azerbaigian.

A sua volta le autorità azere hanno accusato Yerevan di provocazioni, sottolineando che l’Azerbaigian doveva prendere “misure adeguate” in risposta al fuoco. Allo stesso tempo, come affermato nel ministero della Difesa azero, “attualmente” si osserva il cessate il fuoco nella regione.

Come notato in precedenza nel bollettino del dicastero militare russo, le forze di pace nel Karabakh stanno monitorando la situazione 24 ore su 24 e controllano il rispetto del cessate il fuoco in 23 punti di osservazione. Nella regione prosegue il ritorno degli sfollati.

Tregua nel Nagorno-Karabakh

All’inizio di questo mese Yerevan e Baku hanno concordato la tregua nel Nagorno-Karabakh, ponendo fine alla guerra di sei settimane nella regione contesa. L’accordo ha comportato la perdita della maggior parte dei territori controllati dalle forze filo-armene del Karabakh e prevede il dispiegamento di un contingente militare di pace russo di 1.960 soldati.

Il ministero della Difesa russo aveva comunicato a novembre che più di 1.200 sfollati avevano fatto ritorno nel Nagorno-Karabakh dal territorio dell’Armenia sotto il vigile controllo dei soldati russi del contingente di pace.

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GEVORKYAN E IL PROGETTO GIOVANI: L’ACCADEMIA PRENDE FORMA (Sienaclubfedelissimi 11.12.20)

Prendono concretezza i progetti di Roman Gevorkyan, presidente del Siena e tra gli uomini chiave della holding che controlla, oltre i bianconeri, anche i lettoni della Dinamo Riga e gli armeni del Noah. Vi raccontavano dell’idea di Gevorkyan di dar vita a un’accademia per la crescita dei giovani calciatori armeni, un settore giovanile all’avanguardia che possa competere con quelli europei. Un’idea certamente ambiziosa che dovrebbe veder coinvolto anche il Siena: i migliori prospetti potranno vivere infatti un’esperienza proprio tra i club controllati dalla holding, incluse dunque anche Noah e Dinamo Riga, dando così continuità al lavoro fatto in accademia in una realtà professionistica.

Il tutto si è reso possibile grazie all’accordo quinquennale, con la possibilità di estendere la durata, tra il Noah e l’accademia calcistica Vagharshapat, un patto siglato col benestare della federazione calcistica armena. L’accordo è stato firmato tra il segretario generale della federazione armena Artur Azaryan e il direttore esecutivo del Noah Artur Sahakyan.

Secondo i patti, il Noah attuerà il proprio programma di investimenti nel giro di cinque anni. Nello specifico verrà implementato l’impianto di illuminazione dello stadio Vagharshapat Academy,  costruita una nuova tribuna con 1000 posti e installati due moderni tabelloni. Il Noah ha inoltre in programma di trasferire prossimamente la sede dei propri match interni alla Vagharshapat Academy.

“Aspettavamo questo momento da molto tempo. Fin dal primo giorno dalla sua fondazione, il Noah non si è prefisso solo di diventare il miglior club e sostenere lo sviluppo del calcio in Armenia, ma anche di aiutare migliaia di giovani talenti armeni nel diventare giocatori di livello mondiale”, ha detto dopo la stipula dell’accordo Artur Sahakyan, direttore esecutivo del Noah.

(Giacomo Principato)

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Diario del genocidio armeno (Ilgiornale.it 11.12.20)

Tra il 1915 e il 1916 ebbero luogo le deportazioni e le eliminazioni compiute dall’impero Ottomano, più note come il genocidio degli armeni.

Al pari di tutti i crimini contro l’umanità, anche questo Olocausto ha i suoi negazionisti. La questione è ancora d’attualità, ove si pensi che il governo turco di Erdogan non ammette che vi sia stato il genocidio, mentre in Francia è reato negarne l’esistenza. Sappiamo però per certo che esso costò al popolo armeno un milione e mezzo di morti e fu scatenato dall’ascesa al potere nell’impero ottomano dei «giovani turchi», i quali temevano un’alleanza armena coi nemici russi. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, i turchi compirono i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. Continuarono nei giorni successivi: in un mese oltre mille intellettuali, tra giornalisti, scrittori, poeti, furono deportati nell’interno dell’Anatolia e massacrati. Il Maggiore Generale dell’impero Ottomano Friedrich Bronsart von Schellendorf, tedesco, è considerato l’iniziatore delle deportazioni. Le sue sinistre «marce della morte» sono la prova generale delle marce della morte naziste.

Esce in questi giorni Mia nonna d’Armenia di Anny Romand, con prefazione di Dacia Maraini e alcune struggenti foto d’epoca (La lepre, pagg. 128, euro 16; trad. Daniele Petruccioli). Riordinando le cose di famiglia, Anny Romand attrice, scrittrice e fotografa ha rinvenuto un diario di settanta pagine, scritto in armeno, francese e greco dalla nonna materna. In esso è descritto il viaggio terribile di un gruppo di donne e bambini armeni, costeggiando l’Eufrate, lungo le strade dell’Anatolia. Una «marcia della morte» raccontata da una vittima sopravvissuta. In quelle scarne paginette, Anny riconosce il racconto della nonna Serpouhi, ascoltato tante volte da piccola, contro il volere della madre. «Mia madre era molto contrariata quando ci trovava in lacrime, una nelle braccia dell’altra: la farai impazzire, questa bambina!».

Nessuno ascolta la nonna, quando racconta. Solo Anny. L’anziana donna nasce in una famiglia armena borghese di Samsun, sul Mar Nero e segue il padre in Palestina, ingegnere. Tornata in patria alla sua morte, è maritata a 15 anni a un turco di Trebisonda. Che si rivela un buon marito e a cui darà quattro figli. Due di questi sono vivi nell’aprile 1915, all’inizio del genocidio. Durante il quale vengono uccisi, prima il marito, poi la figlioletta di quattro mesi. Serpouhi è spinta a forza col figlio di quattro anni in una delle carovane della morte dirette a Sud. Le atrocità cui assiste sono inenarrabili: vede scaraventare nell’Eufrate due carretti pieni di bambini piccoli. Di fronte ai corpicini dei piccoli che annegano e ai carnefici che li guardano con sorrisi sarcastici, scrive in armeno: «Oh Dio mio, ti scongiuro lasciami vivere per vedere quegli infelici vendicati». Decide allora di lasciare suo figlio a una famiglia di sconosciuti contadini, per offrirgli una possibilità di sopravvivenza. Poi, scappa due volte, arriva sul Mar Nero, se ne sta nascosta due anni; va a Costantinopoli. Fa di tutto per ritrovare il figlio. Lo ritrova in un orfanotrofio nell’attuale Georgia.

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Nagorno Karabakh, l’Azerbaijan ‘sequestra’ la Storia armena. Ma non può distruggerne la memoria (Ilfattoquotidiano 11.12.20)

di Ani Vardanyan*

Abbiamo varcato la soglia del XXI secolo: noi cittadini del terzo millennio crediamo forse che nulla ormai possa stupirci. Eppure la storia si ripete ancora una volta e diventiamo testimoni dell’ennesima tragedia umana. Una tragedia che viene a bussare alle nostre porte travolgendo lo spazio che ci siamo ritagliati per isolarci da tutto ciò che non ci riguarda direttamente.

E anche questa volta possiamo fare la nostra scelta: restare indifferenti facendo finta di essere ignari di ciò che sta accadendo, oppure aprire gli occhi impegnandoci a fermare la politica “memoricida” delle autorità azere verso una delle civiltà più antiche del mondo, la civiltà armena.

In Azerbaijan, un paese dove l’odio verso l’etnia armena è la base della propaganda del regime, un paese dove seminare e alimentare odio verso il popolo armeno è quasi un dovere morale, la cancellazione di qualsiasi traccia della presenza armena nel territorio ha una lunga storia. Si tratta di un odio talmente forte che non ha voluto risparmiare migliaia di khachkar armeni (croci di pietra riconosciute Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco), sistematicamente distrutte negli anni 1998-2005 in Nakhichevan.

Ed è lecito domandarsi il perché di un tale odio verso il popolo armeno, che ha una presenza millenaria documentata da un immenso patrimonio culturale, storico, artistico e religioso nel territorio. Mentre il mondo civile si sveglia lentamente mostrando segni di preoccupazione in quel fazzoletto di terra chiamato Nagorno Karabakh, è già ripartito il ‘genocidio culturale’ messo in atto dalle autorità azere.

Il ministro della cultura azero Amar Karimov che dovrebbe garantire la protezione dei monumenti armeni è impegnato direttamente nella falsificazione della storia che riguarda il patrimonio artistico-religioso armeno. Oltre ai recenti atti vandalici compiuti verso le chiese armene, come nel caso delle due chiese di Shushi (San Salvatore e San Giovanni Battista), si assiste ancora una volta ad una inaccettabile falsificazione dei fatti storici.

Nel quadro dell’iniziativa Let’s get to know our Christian heritage che da come presentata “mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’antico patrimonio cristiano dell’Azerbaijan” diventa evidente come l’Azerbaijan si appropri dei monumenti armeni negando la loro vera origine e attribuendoli all’Albania Caucasica.

Si tratta di un modus operandi accurato e ben elaborato: cancellare le prove, negare l’evidenza dei fatti, creare una storia fittizia e infine fare propaganda. Una tale politica ha delle radici molto profonde. Un esempio calzante può essere la chiesa armena a Nij, “restaurata” nel 2004 mentre vennero cancellate le iscrizioni in lingua armena che ne confermavano l’origine appunto armena.

È doveroso notare che lo sforzo delle autorità azere di creare una storia fittizia spesso sfidi la fantasia umana, come nel caso di Dadivank, un monastero di inestimabile valore architettonico ed artistico dove si trovano le reliquie di San Dadi, discepolo di San Giuda Taddeo. Secondo il ministro Karimov che ne parla personalmente sul social network si tratterebbe di “uno dei migliori testimoni della civiltà dell’antica Albania Caucasica”.

L’Azerbaijan passa dalle parole alle azioni con una velocità frenetica. Pochi giorni fa nella chiesa di Dadivank è stata celebrata una messa da un gruppo di religiosi di nazionalità udi (una popolazione antica del Caucaso di religione cristiana).

L’archeologo e storico Hamlet Petrosyan scrive: “Tranne circa 100 iscrizioni in lingua armena presenti in Dadivank risalenti ai sec. XII-XVII non esiste una sola lettera in un’altra lingua” e aggiunge che quello che sta facendo l’Azerbaijan “non è altro che un atto di sequestro forzato del patrimonio culturale-religioso dai suoi creatori, un evidente genocidio culturale”.

L’Azerbaijan è disposto a creare dal nulla storie inesistenti per centinaia di siti archeologici, chiese, complessi monastici, fortezze, monumenti, cimiteri attribuendo la loro appartenenza a qualsiasi civiltà purché non sia quella armena. È una rete tessuta per anni con l’unico obiettivo di cancellare qualsiasi traccia armena nel territorio.

Goebbels, esponente di spicco del nazismo tedesco, diceva: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà realtà”. Probabilmente ne sono sicure anche le autorità azere e non vi è nulla di più triste di questo. Non per caso le immagini dei monumenti armeni pubblicate sui social network sono spesso accompagnate dall’hashtag #dontbelieveArmenia, che viene a confermare la loro volontà di sfidare la Storia.

Ed è un dispiacere profondo ma sincero che si prova per il popolo azero, intrappolato nella falsità, vittima di una visione distorta della realtà creata dal regime. Sarebbe ridicolo se non fosse infinitamente tragico il disperato sforzo del governo azero di cancellare qualsiasi prova della presenza armena nel territorio. L’Azerbaijan sembra incapace di rendersi conto che si può distruggere solamente ciò che di materiale è fatto, ma mai la conoscenza e la memoria tramandata attraverso la storia.

*Docente di lingua italiana all’Università Brusov di Yerevan e all’Università Americana in Armenia, collabora per alcune testate armene e italiane

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Armeni in subbuglio, dopo la sconfitta nel Karabakh (Asianews)

L’Artsakh minacciato di genocidio culturale (Dopiozzero 11.12.20)

Il 9 novembre, a seguito di una guerra di quarantatré giorni, l’Armenia e l’Azerbaigian hanno concluso, sotto l’egida della Russia, un accordo di cessate il fuoco che detta condizioni capestro alla parte armena. Dopo aver perso diverse migliaia di vittime militari e civili, la repubblica autoproclamata dell’Artsakh (Nagornyj Karabakh) ha dovuto rinunciare all’ottanta percento del suo territorio. Ben oltre cinquantamila persone sono costrette oggi ad abbandonare i loro paesi, chiese e monasteri. Con questo esilio forzato, essi non solo temono di non poter rivedere mai più le proprie case e i propri santuari, ma addirittura di condannarli alla distruzione e allo scempio.

Quale sarà il destino del patrimonio plurimillenario armeno sotto il controllo dell’Azerbaigian?

Mentre l’Azerbaigian si prepara a occupare un territorio punteggiato da migliaia di monumenti medievali e tardo-antichi armeni, i dirigenti azerbaigiani, sostenuti dalla comunità academica del proprio paese, difendono pubblicamente due tesi revisioniste che mirano a negare agli armeni autoctoni il diritto di vivere sulle loro terre ancestrali, nonché a cancellarvi ogni segno visibile della memoria storica armena. La prima tesi poggia sull’idea che il popolo azerbaigiano turcofono e sciita discenda direttamente dall’antico regno dell’Albania del Caucaso, mentre la seconda sostiene che l’insieme dei monumenti cristiani situati sul territorio della Repubblica autoproclamata dell’Artsakh, non diversamente da quelli situati nel territorio dell’Azerbaigian, siano monumenti albanesi.

 

Mappa della regione.

 

Se osserviamo la mappa del Caucaso del sud – il territorio che si stende a sud della catena del Grande Caucaso tra il mar Nero e il mar Caspio – notiamo un netto confine geografico che divide l’ultima propaggine orientale del Piccolo Caucaso, la quale scende ripidamente verso il fiume Kur, e le pianure che si estendono a est fino alla costa caspiana. L’antica regione armena di Artsakh (l’estremità orientale dell’Armenia storica) occupa proprio quei monti che sovrastano la valle del Kur, l’antica frontiera con l’Albania del Caucaso. Il territorio di questo antico regno cristiano – da non confondere con l’Albania nei Balcani – coincideva in gran parte con quello dell’attuale Azerbaigian, in particolare con le pianure della riva sinistra del fiume Kur, estendendosi fino al litorale del Daghestan meridionale. La popolazione di questo regno aveva origini eterogenee e fino all’alto Medioevo parlava diverse lingue caucasiche del Nordest e iraniane.

 

La storia dell’Armenia e dell’Albania del Caucaso furono strettamente legate a partire dalla cristianizzazione dei due regni avvenuta all’inizio del quarto secolo. Secondo Koriùn (442-48) e altre fonti armene, all’inizio del quinto secolo il dotto Mashtòts (362-440) inventò non soltanto un alfabeto armeno, ma anche uno albanese per la lingua dominante di questo regno, una lingua di origine caucasica nordorientale. Le lettere albanesi e il loro valore fonetico ci erano già conosciuti da un manoscritto armeno del 1442, mentre la scoperta nel 1996 di palinsesti con testi albanesi offrì un’inattesa conferma al racconto dello storico armeno. Il deciframento dei palinsesti ha permesso, inoltre, ai filologi di leggere sette iscrizioni albanesi, estremamente frammentarie, rinvenute precedentemente sul territorio dell’Azerbaigian (vedere lo studio di Jost Gippert qui). I legami durevoli tra l’Armenia e l’Albania del Caucaso possono anche essere osservati nei resti delle più antiche chiese albanesi che dimostrano profonde affinità con l’architettura ecclesiastica armena.

 

Monastero di S. Taddeo, o Dadivankʽ (seconda metà del XII-XIII secolo), Artsakh (foto: Artsakh Press Agency).

 

Contrariamente all’Armenia montagnosa, caratterizzata da un terreno accidentato, l’Albania del Caucaso, geograficamente facilmente accessibile e percorribile, fu largamente islamizzata dagli arabi già prima della fine dell’VIII secolo. Di conseguenza, la lingua albanese gradualmente svanì, mentre l’armeno diveniva la lingua dominante di tutte le popolazioni cristiane che rimanevano ancora sull’antico territorio dell’Albania, fossero esse di origine armena, albanese o altre, caucasiche o iraniane. Con la dominazione islamica sul mondo delle pianure che si stendono a oriente del Piccolo Caucaso, le inaccessibili gole dell’Artsakh divennero rifugio per cristiani di varie origini.

 

Quando, verso la fine del decimo secolo, tribù turcomanne e turche cominciarono a penetrare nel Caucaso del sud, esse non vi incontrarono, secondo ogni verosimiglianza, abitanti che scrivessero ancora l’albanese. Gli scambi tra i turchi e gli armeni furono, invece, intensi, come testimoniano i prestiti armeni relativi alla religione, a diverse attività professionali e alla famiglia in azerbaigiano e in turco, per esempio torǝn → torun (nipote), orinak → örnek (esempio), xač → haç (croce). Fu in ambienti urbani armeni che i turchi appresero anche le tecniche di costruzione.

 

Dadivankʽ, iscrizione murale (foto di Hamlet Petrossyan).

 

Per tutto il Medioevo, e addirittura fino a tempi recenti, l’armeno è stato una lingua di scambi economici e culturali attraverso diverse frontiere politiche e religiose, interessando un’area estesa. Ancora oggi a Tbilisi, in Georgia, si possono incontrare georgiani, cristiani siriaci ed ebrei che hanno una perfetta padronanza dell’armeno, mentre nella regione di Urmia (Orumiyeh), in Iran, vivono curdi e cristiani siriaci che conoscono questa lingua. L’armeno è conosciuto dai cristiani siriaci anche di altre regioni del Vicino Oriente, come per esempio Aleppo e la Siria.

 

Una guerriglia storiografica  

 

La teoria secondo la quale l’Azerbaigian rappresenterebbe l’erede diretto dell’Albania del Caucaso fu elaborata in epoca sovietica, nel suo peculiare contesto sociale e culturale. Mentre alle nazioni che componevano l’Unione sovietica era proibito dare una dimensione politica alle loro identità, queste nazioni potevano, sotto certe condizioni, esplorare e coltivare il loro passato, e in particolare l’archeologia, l’architettura, la linguistica e il folclore. Talvolta i popoli sovietici venivano addirittura sollecitati a scoprire le antiche civiltà sul territorio delle loro Repubbliche. Un lungo «processo storico» doveva dimostrare, per ciascuna nazione, l’inesorabile susseguirsi di fasi di sviluppo politico, un percorso in ogni caso coronato dalla rivoluzione socialista e dalla costruzione del comunismo sotto la guida del popolo russo.

 

Il passato di ciascuna di esse, nondimeno, doveva essere ben distinto: vi erano, quindi, un’archeologia armena, una georgiana, una azerbaigiana, una turkmena e così via. La collaborazione tra Repubbliche vicine non era incoraggiata, perché il ruolo di mediatore e l’egemonia culturale erano prerogativa della Russia e del popolo russo. Per questo motivo, con la dissoluzione del regime sovietico e con la perdita di controllo da parte di Mosca sull’insieme del territorio sovietico nella seconda metà degli anni Ottanta, le Repubbliche si trovarono sprovviste di istituzioni e di pratiche di mediazione e di dialogo, che avrebbero consentito una collaborazione per il superamento di dissidi culturali e politici con i loro vicini.

 

La chiesa di Ciceŕnavankʽ (fondazioni dei secc. V-VI, basilica attuale dell’XI-XII secolo), Artsakh (foto dell’autore).

 

Durante il periodo trascorso sin dalla formazione dell’Unione sovietica all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, le Repubbliche sovietiche avevano sviluppato tradizioni storiografiche idiosincratiche. Mentre l’Armenia e la Georgia rivaleggiavano tra loro, confrontando racconti concorrenti che risalivano all’inizio del primo millennio prima della nostra era, il loro vicino Azerbaigian, che era un’entità politica recente e portava addirittura un nome che prima del 1917 aveva designato soltanto il territorio a sud del fiume Arasse (cioè, oltre i confini sovietici), si sforzò di elaborare, mimeticamente, una storiografia autoctona che identificava come suo antenato diretto l’Albania del Caucaso. Questa teoria fu sviluppata nelle numerose pubblicazioni di Ziya Buniyatov (1923-1997), riconosciuto come padre della storiografia azerbaigiana, e, più recentemente, di Farida Mamedova. Questa teoria dotava gli azerbaigiani di un’identità autoctona antica, seppure cristiana. Diversi storici russi e occidentali hanno dimostrato a più riprese che Buniyatov falsificava sistematicamente le sue citazioni e le sue traduzioni.

 

Chi può rimproverare a un popolo di volere vedere riconosciuta come propria la storia della terra in cui vive, e dunque anche delle sue civiltà antiche? In una certa misura, non ereditiamo tutti il remoto passato del paese in cui abitiamo, qualunque esso sia? La fonte della nostra preoccupazione per il Caucaso del sud è altrove, e cioè nel fatto che l’Azerbaigian non abbia mai voluto riconoscere che, rivendicando un passato albanese, adotta, implicitamente, un passato armeno. Non soltanto le antiche chiese costruite sul territorio dell’Azerbaigian portavano una volta delle iscrizioni e dei simboli armeni (molti di essi furono documentati prima che venissero distrutti), ma anche la storia dell’Albania cristiana ci è conosciuta quasi esclusivamente da fonti scritte armene, e in particolare dalla Storia dell’Albania del Caucaso composta in armeno alla fine del X secolo da Movsês Kałankatuatsì. I riferimenti che questo autore fa alle vicissitudini dell’Albania e dell’Armenia, come anche la geografia mentale che riusciamo a scorgere nella sua opera, non ci lasciano alcun dubbio sul fatto che egli fosse un armeno.

 

Ammettere che il vicino cristiano e armeno fosse stato il canale di trasmissione dell’eredità lasciata sul territorio dell’Azerbaigian da una civiltà scomparsa, quella dell’Albania del Caucaso, non è mai stato accettabile per il governo o per il mondo accademico dell’Azerbaigian. Di conseguenza, il testo armeno della Storia dell’Albania – l’unico che possediamo – è stato dichiarato dagli azerbaigiani non attendibile perché corrotto dagli armeni, che sono anche stati accusati di averne distrutto l’originale (come emerge nel testo di Buniyatov, Azerbaigian dal secolo settimo al secolo nono, Baku, 1965, scritto in russo). Non è questa la sede per approfondire il tema, ma sono chiare le radici etnico-religiose del mimetismo storiografico a cui abbiamo accennato, del disprezzo per gli armeni da parte degli azerbaigiani e dell’accusa di «corrompere» i libri rivolta ai cristiani.

 

Le conclusioni a cui ci conducono queste brevi osservazioni sono ovvie: una chiesa armena senza iscrizioni armene, senza croci e senza iconografia (scolpita o murale) distintamente armena, e addirittura senza decorazioni rassomiglianti alle stele in pietra armene (i khachkar, croci in pietra accompagnate da elaborati disegni decorativi) conforterebbe la mitologia azerbaigiana relativa alla storia della regione: un’Albania del Caucaso senza legami con l’Armenia. Una civiltà cristiana morta è, quindi, preferibile a una cristianità vivente. Quando il presidente Ilham Aliyev e altri dirigenti azerbaigiani dichiarano oggi la loro intenzione di «conservare i monumenti storici cristiani» sui territori conquistati, essi progettano in realtà un vasto programma di genocidio culturale. Per non attirare l’attenzione della comunità internazionale, questo programma rischia di essere messo in atto a tappe, coinvolgendo inizialmente chiese e cimiteri medievali meno noti. Monumenti che raccontano la storia di un mondo che si espandeva una volta dalla catena del Grande Caucaso fino al Mediterraneo corrono quindi il pericolo di essere annientati.

 

Chiesa armena della Madre di Dio, XVII secolo, al centro di Baku (foto: Geçmişten Günümüze Ermeniler).

 

Per decenni, lettere albanesi sono state cercate invano in Azerbaigian nelle iscrizioni armene scolpite sulle chiese e sulle stele. Tali monumenti sono situati sia negli antichi siti albanesi (sulla riva sinistra del Kur), sia negli antichi siti armeni (sulla sua riva destra). Ormai da anni, non appena l’identità armena di una iscrizione è accertata, essa viene immediatamente cancellata. In questo modo, durante gli ultimi tre decenni, sul territorio dell’Azerbaigian sono scomparse innumerevoli iscrizioni e croci scolpite (come documenta Argam Ayvazian, The Historical Monuments of Nakhichevan, Wayne State University Press 1990).

 

Mentre gli armeni oggi abbandonano le loro chiese ed esumano i loro morti, per paura che loro tombe siano profanate come avvenne una quindicina d’anni a Baku, dove le pietre tombali del cimitero armeno furono usate per la costruzione di un’autostrada, possiamo leggere in diversi media azerbaigiani le promesse fatte da personalità pubbliche di questo paese riguardo ai monumenti armeni dell’Artsakh: non appena essi se ne impadroniranno, «verificheranno», finalmente, la loro autenticità! Pochi dubbi sussistono quanto alla natura, agli scopi e ai risultati di una tale «verifica», che ricorda quegli «studiosi del giudaismo» che, nella Germania nazista, pretendevano di salvare antichità ebraiche dalle mani di ebrei vivi. Tutto ciò che non corrisponde al mito ufficiale dell’Azerbaigian può essere dichiarato falso e, quindi, distrutto.

 

L’attaccamento degli armeni alla piccola regione dell’Artsakh – attribuita nel 1921 all’Azerbaigian da Stalin dietro pressioni della Turchia – difficilmente può essere considerato come la rivendicazione della «Grande Armenia» che i turchi e gli azerbaigiani spesso abusivamente imputano agli armeni. A differenza dall’Armenia occidentale, oggi in Turchia, dove quasi ogni traccia della millenaria presenza culturale degli armeni è stata cancellata nel corso del secolo scorso, l’Artsakh rimane l’ultima scheggia di un mondo dove il legame vivente tra gli abitanti e la terra, il suo paesaggio, la sua antica topografia, i suoi santuari ha resistito malgrado tutto. Un legame che leggiamo sui volti di decine di migliaia di persone che si separano oggi dalle chiese e dai monasteri dove loro e i loro antenati hanno pregato per secoli.

Spetta a tutto il mondo civile mobilitarsi per evitare queste perdite – legami insostituibili al nostro comune passato.

Il 4 di dicembre è stata consegnata alla Segreteria di Stato della Sante Sede una petizione firmata da oltre 160 accademici provenienti da ventitré paesi (studiosi dell’Armenia, della Georgia e del Caucaso, storici dell’arte e architetti) con l’appello urgente di difendere i monumenti armeni sul territorio del Nagornyj Karabakh da ogni manomissione.

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NAGORNO KARABAKH, ARTSAKH. La situazione dopo il cessate il fuoco (Antidiplomatico 11.12.20)

A cura di Enrico Vigna, 8 dicembre 2020

Con la cessazione delle ostilità e la sconfitta delle ridotte forze militari della Repubblica dell’Artsakh coadiuvate da reparti armeni e la vittoria dell’esercito azero, affiancato da reparti speciali dell’esercito turco e, inoltre è stata denunciata la presenza di terroristi islamici spostati dalla Siria e portati a combattere nella regione. Ora si è aperto un delicato e complesso processo di ritorno ad una normalità che sarà difficile da ripristinare.

Dopo la firma per la fine del confronto armato, sottoscritto tra Armenia, Azerbaigian e Russia, e la cessazione della guerra, favorito dalla mediazione della Russia e dal solito straordinario lavoro diplomatico del Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, dovrà ora essere proprio la stessa Russia a garantire e impedire altre spirali armate e a trovare forme di negoziati costruttivi che salvaguardino la pace e parallelamente, i diritti della minoranza armena dell’Artsakh, tra cui le misure volte alla conservazione dei beni religiosi e culturali, aspetto molto sentito dalla popolazione armena . Un compito e un ruolo molto difficili e delicati.

La guerra ha lasciato un segno profondo sul territorio dell’Artsakh e sulla sua capitale Stepanakert. Il numero dei morti è ufficiosamente per ora intorno a 5000, tra le due parti. Molti edifici sono stati danneggiati, compreso il mercato centrale. Ma molti prigionieri sono tornati, i negozi hanno riaperto. C’è il problema delle migliaia di rifugiati dalle zone ora sotto il controllo azero, a cui si deve trovare alloggio, assistenza sanitaria e alimentare.

Per rispondere alle prime emergenze dall’Armenia e dalla Russia sono già stati formanti centinaia di convogli umanitari.

 

La Russia nel suo ruolo di paese mediatore, come da accordi, ha mandato 1960 militari, 90 mezzi corazzati da trasporto, 380 veicoli e materiali speciali della 15ª Brigata di fanteria motorizzata in qualità di Forza per il mantenimento della pace, agli ordini del tenente generale Rustam Muradov, di etnia azera, con un area di pertinenza suddivisa in due settori: Zona di responsabilità “Nord”, con sede a Martakert; e una Zona di responsabilità “Sud” con base a Stepanakert, dov’è collocato il quartier generale che comanda tutti i 25 posti d’osservazione sparsi sul territorio. L’accordo prevede la presenza militare russa nella regione per 5 anni, più ulteriori 5 se nessuna delle parti comunicherà 6 mesi prima della scadenza la propria contrarietà.

Il Patriarca della Chiesa Apostolica armena Garegin II, ha pubblicamente ringraziato il Presidente della Federazione Russa V. Putin, per aver preservato l’eredità e le radici armene in Karabakh.

Garegin II ha elogiato gli sforzi delle autorità russe, per porre fine alle ostilità, stabilire un cessate il fuoco e stabilire pace, sicurezza e stabilità nella regione. “Vogliamo esprimere la nostra profonda gratitudine per i vostri sforzi nel preservare il patrimonio storico del popolo armeno, monasteri storici, chiese, monumenti culturali nei territori ora controllati dall’Azerbaigian, e solo grazie al dispiegamento delle forze di pace russe, le funzioni religiose in questi territori, sono state  garantite…Il nostro popolo ricorderà per sempre l’importante ruolo della Russia e di V. Putin, nel fermare lo spargimento di sangue nell’Artsakh. Pregheremo per la fermezza della secolare amicizia armeno-russa”, ha dichiarato Garegin II.

QUALE FUTURO? Un contributo di Iniziativa Italiana per il Karabakh

 

Prime riflessioni, a caldo, a poche ore dalla firma dell’accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaigian e Russia. Non si placano le proteste per una soluzione che, resa necessaria dall’andamento della guerra, poteva arrivare molto tempo prima e a ben altre condizioni.

Della repubblica di Artsakh, a giudicare dalle prime mappe postate sui social, sembra rimanere ben poco: la piana di Stepanakert, Askeran, un pezzo della provincia di Martuni e una parte di quella di Martakert. Degli undicimila chilometri quadrati che componevano la repubblica prima del 27 settembre ne rimangono pochi, orientativamente intorno ai 3000.

Un isola armena circondata da un mare azero, senza più difese naturali come i monti Mrav e un’unica sottile via di fuga attraverso il corridoio di Lachin. Persa Shushi, persa HadrutTogh; addio al monastero di Dadivank e forse pure a quello di Amaras dove il monaco Mastots creò l’alfabeto armeno nel IV secolo.

Ma c’è anche il rischio che a scomparire per sempre dalle mappe armene sia il monastero di Gandzasar: e qui si apre il primo punto interrogativo, ovvero l’esatta individuazione del territorio ceduto agli azeri

 

Nell’accordo si parla della “regione di Kelbajar“, espressione che dovrebbe riferirsi a quella che attualmente si chiama “regione Nuovo Shahumian”; se così fosse, buona parte della regione di Marakert sarebbe salva (a parte la porzione nord orientale all’altezza di Talish e Mataghis) in quanto si farebbe riferimento al territorio della cittadina di Karvachar (Kelbajar per gli azeri); quindi Gandzasor rimarrebbe a noi. Ma se disgraziatamente si dovesse fare riferimento al “distretto di Kelbajar” allora parte del territorio di Martakert, monastero compreso, andrebbe perduto.

Le prime mappe in circolazione sembrano puntare su regione e non su distretto. In questa fase non sono ancora determinati con esattezza i nuovi confini corrispondenti alla linea del fronte al momento della cessazione delle ostilità. Nei prossimi giorni vedremo, anche se non ci saranno particolari variazioni di rilievo rispetto alle prime anticipazioni. La regione di Martuni rimasta in mano armena dovrebbe rimanere collegata al resto della repubblica da uno stretto passaggio lungo la strada che passa dal villaggio di Nngi.

Detto questo, l’interrogativo più importante riguarda il futuro del territorio rimasto agli armeni.

L’accordo non specifica lo status dello stesso e quindi continuiamo a chiamarlo Repubblica di Artsakh. Ma è chiaro che, in mancanza di una definizione certa, il suo futuro non può essere assicurato: fra cinque o dieci anni, appena i russi se ne saranno andati, l’Azerbaigian troverà la scusa buona per attaccare quel poco che è rimasto.

Serve dunque una perimetrazione rapida e certa: o un riconoscimento della Repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh da parte del maggior numero possibile di Stati (a cominciare da quelli europei) o annessione all’Armenia. Nel primo caso il rischio di attacco non verrebbe meno ma dopo il riconoscimento internazionale sarebbe piuttosto incauto da parte azera attaccare il piccolo Stato e annientare la poca popolazione presente; nel secondo caso, l‘Armenia garantirebbe la sicurezza dei suoi confini con il trattato CSTO.

Questa definizione dello status della regione non è di secondaria importanza: Stepanakert è per buona parte distrutta e così molti centri minori: se si vuole avviare una veloce ricostruzione che favorisca il reinsediamento della popolazione, allora sarà necessario che l’Artsakh abbia un futuro di pace davanti che possa tranquillizzare e avviare le necessarie opere.

Magari l’Europa, e l’Italia, così assenti e distaccate in questa guerra potranno dare il loro contributo politico ed economico a una pace stabile.

A cura di Enrico Vigna, CIVG  –  8 dicembre 2020

ENRICO VIGNA

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“Italia per l’Artsakh”: “Una Voce nel Silenzio” a sostegno delle famiglie di Shusha colpite dalla guerra (Ticinonotizie 11.12.20)

MILANO –  A poche settimane dal cessate il fuoco in Nagorno Karabakh, teatro del recente conflitto tra le forze armene e l’Azerbaigian sostenuto dalla Turchia, molti territori dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh sono stati occupati dall’esercito azero. In aiuto delle numerose famiglie armene che stanno vivendo il dramma dell’esodo dalle proprie dimore ancestrali e la diffusa vandalizzazione degli storici simboli cristiani delle loro terre, l’associazione Una Voce nel Silenzio – da anni impegnata nel sostegno delle comunità cristiane perseguitate per la loro fede e private della libertà – ha avviato la campagna “Italia per l’Artsakh”.

 

Con il lancio di una raccolta fondi, l’associazione ha come finalità la consegna di aiuti concreti ai nuclei familiari di Shusha, città simbolo dell’Artsakh, oggi sotto controllo azero e tra le più colpite dal conflitto. Là, in una terra che ha registrato un imponente esodo dei suoi storici e legittimi abitanti, strappati via dalle loro case da una guerra ingiusta, è necessario un sostegno reale da parte dell’Europa, ed è obiettivo primario di Una Voce nel Silenzio donare a tante famiglie, anziani e bambini – i primi a pagare le conseguenze della guerra – un Natale che infonda il suo più profondo significato di gioia e di speranza. 

 

Per info:

-info@unavocenelsilenzio.it
-Stefano Pavesi +39 347 942 8799
-https://www.unavocenelsilenzio.it/donations/dona-la-fede

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Turchia: oggi come ieri? (Gariwo 10.12.20 )

Per l’anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: 10 dicembre 1948 – 10 dicembre 2020

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stata proclamata dall’ONU il 10 dicembre del 1948, il giorno dopo l’approvazione della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio.

Nel 72°anniversario che cade oggi, è bene sottolineare che il valore della Dichiarazione sta nel suo carattere di Universalità: libertà e uguaglianza dei diritti, dignità della persona, riguardano ogni essere umano, senza alcuna distinzione di genere, classe, cultura, etnia, religione.

Come notava Marcello Flores, se è vero che la cultura dei diritti è diventata internazionale, è anche vero che nella nostra contemporaneità i diritti umani sono violati costantemente in molte aeree del mondo, e anche nel nostro Paese, se pensiamo ai richiami della Corte Europea dei Diritti Umani in tema di migranti e carceri.

Oggi siamo chiamati almeno a far rivivere lo spirito della Dichiarazione cercando di leggere lo status dei diritti nel mondo, non per ricavarne ragioni di pessimismo e inerzia, ma per supportare e unirci a chi con coraggio, denuncia, diffonde appelli pubblici, fa conoscere le gravi violazioni che si ritrovano nella cronaca quotidiana, se si esercita un po’ di attenzione. Il moto di protesta immediato non basta, è come l’emozione che si prova quando vediamo l’immagine del bambino Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum. È momentaneo, e poi in genere:“ cambiamo argomento”.

Prendendo in considerazione il caso Turchia, vorrei sottolineare il valore di un pronunciamento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Padova e del suo Presidente, Avvocato Leonardo Arnau, sull’arresto avvenuto il 20 novembre a Diyarbakir, nell’est della Turchia, di 20 Avvocati impegnati nella difesa dei Diritti Umani. Una lettera coraggiosa e puntuale, espressione di un impegno sul tema della salvaguardia di Attivisti e Avvocati che operano per la difesa dei Diritti Umani, tema che il Consiglio dell’ordine considera centrale, tanto da avere istituto la Commissione Diritti Umani della quale è stato coordinatore lo stesso Presidente Arnau. Il Comunicato richiama il Governo italiano e le istituzioni europee a fare pressione sulle autorità turche perché rispettino gli obblighi internazionali: sicuramente considerato dalle autorità turche, indebita ingerenza nella sovranità dello Stato, come accade sempre quando si tratta di Stato autoritario. Il Presidente Erdogan ha imboccato la strada per far diventare la Turchia potenza islamica e asiatica, erede dell’Impero ottomano, assai attiva nel gioco geopolitico delle grandi potenze. Con arresti continui dal 2016 ad oggi di giornalisti, intellettuali, attivisti, avvocati, professori universitari, il governo turco cerca di piegare e silenziare ogni forma di opposizione violando ogni norma contenuta nel codice di procedura penale. A proposito dell’arresto reiterato di Osman Kavala, Presidente dell’Istituto “Anadolu Kultur” e Attivista dei Diritti Umani, definito da Erdogan il “Soros rosso”, Human Rights Watch aveva dichiarato che si tratta di un arresto «illegale e vendicativo», mentre Amnesty International ha parlato di « atto di deliberata e calcolata crudeltà». Il processo, ennesimo, per l’ultima accusa di “spionaggio” è previsto per il 18 dicembre.

Oggi come ieri?

In epoca ottomana non esisteva parità di diritti tra i sudditi dell’Impero. Le minoranze cristiane, e mi riferisco al caso armeno, erano considerati sudditi di serie B. Non potevano, ad esempio, denunciare un sopruso o un atto violento subito da un suddito islamico. La loro testimonianza in tribunale non valeva quanto quella di un suddito islamico. Ai non musulmani, i dhimmi, comunità sottomessa dei ghiavur, gli “infedeli”, non era riconosciuta una parità di diritti sul piano giuridico. Sappiamo che cosa è accaduto più di un secolo fa quando gli armeni si sono ribellati cercando la loro “primavera araba”, ieri un regime autoritario ultranazionalista, che voleva far valere l’identità unica “turca”, ha sterminato con un atto genocidario un milione e mezzo di Armeni.

Oggi, con una realtà repubblicana svuotata progressivamente dei valori democratici, in un Paese dove i musei diventano moschee, dove ci si unisce ai fratelli turcofoni azeri per creare un’“unica nazione” di 100 milioni di fedeli e liberare la strada verso est dall’ingombro di 150.000 armeni del Nagorno Karabagh, si manifesta con sempre maggiore urgenza la necessità di servirsi della memoria dei mali estremi del passato per il tempo presente, per denunciare, testimoniare, agire. Sotto l’occhio di tutti resta il fatto che c’è ancora bisogno di Giusti: “I Giusti ieri come oggi, sempre necessari”.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Carta Costituzionale di un mondo globalizzato, unita alla Carta della Memoria che Gabriele Nissim, Presidente di Gariwo ha lanciato per la sottoscrizione, ci dice a chiare lettere che non solo siamo nati liberi e uguali in diritti e in dignità, ma che ognuno di noi è titolare del compito di risanare il presente perché consapevoli che la nostra realtà è profondamente legata alla realtà degli altri.

Grazie all’Ordine degli Avvocati di Padova e alla Città di Padova eletta a “Città Rifugio per i Difensori dei Diritti Umani”. Link al Seminario “Focus Turchia e Diritti Umani”, questa sera alle ore 18.

In calce la lettera di denuncia: “Sull’arresto di venti avvocati a Dyarbakir”.

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PREOCCUPAZIONE PER FAZIOSA MISSIONE DIPLOMATICADI PARLAMENTARI ITALIANIIN AZERBAIJAN (Politicamentecorretto 10.12.0)

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” esprime preoccupazione per il viaggio che un gruppo di parlamentari italiani ha appena compiuto in Azerbaigian e delle dichiarazioni faziose anti-armene pronunciate dai rappresentanti eletti della Repubblica.

La scelta di prendere parte al tour promozionale nei territori conquistati militarmente, allestito dalla dittatura azera a poche settimane dalla fine della guerra nel Nagorno Karabakh scatenata dallo stesso regime azero con l’appoggio della Turchia e di mercenari jihadisti rischia di pregiudicare l’attività diplomatica della repubblica italiana che fa parte del Gruppo di Minsk dell’Osce.

La  delegazione di deputati e senatori, guidata dal vice-Presidente della camera Ettore Rosato (PD) e composta da On Ettore Rosato  (Italia Viva), capo delegazione, Sen. Alessandro Alfieri  (PD), On. Rossana Boldi  (Lega), On. Pino Cabras (M5S), Sen. Gianluca Ferrara  (M5S), Sen. Maria Rizzotti  (Forza Italia), Sen. Adolfo Urso   (Fratelli d’Italia) ha avallato con dichiarazioni pubbliche la narrazione storica e politica azera del regime di Aliyev e non ha esitato a mettersi in posa con il dittatore per una sorridente foto ricordo.  I parlamentari italiani hanno taciuto sulle responsabilità azere per aver scatenato l’invasione militare, aver coinvolto le forze armate turche e migliaia di jihadisti provenienti dalla Siria. Essi hanno taciuto sull’utilizzo, per tutta la durata della guerra, di bombe al grappolo e al fosforo bianco contro la popolazione civile armena. Non hanno chiesto al dittatore azero della sorte di centinaia di prigionieri civili e militari detenuti e torturati in Azerbaijan, la cui restituzione, contemplata nell’accordo di tregua firmato più di un mese fa sta tardando. Non hanno chiesto spiegazioni sulle decapitazioni di soldati armeni e esecuzioni sommarie di civili armeni da parte delle truppe regolari azere. Fatti filmati e distribuiti sulle reti sociali dagli stessi carnefici.

Tutto ciò veniva denunciato dalla stampa nazionale e internazionale, da organizzazioni internazionali e ONG del calibro di Human Rights Watch e Amnesty International. I nostri rappresentanti eletti non potevano non sapere. Essi hanno preferito tacere.

«In quanto cittadini italiani di origine armena, riteniamo – afferma il Consiglio per la comunità armena di Roma – che questa scelta di campo sia assolutamente inopportuna e pericolosa in quanto rafforza la convinzione della leadership azera che con l’uso della forza è possibile ottenere conquiste territoriali concrete senza alcun timore di ripercussioni internazionali e pone l’Italia fuori da quella posizione di equidistanza raccomandata dai negoziatori internazionali dell’Osce, di cui l’Italia è membro.

Sempre in quanto cittadini italiani di origine armena, vorremo anche sapere se la missione dei deputati è stata sovvenzionata con i soldi dei contribuenti italiani o se il viaggio è stato pagato dal Paese ospitante».

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA

On Ettore Rosato(Italia Viva), capo delegazione, Rosato_E@camera.it,

Sen. Adolfo Urso(Fratelli d’Italia), adolfo.urso@senato.it,

Sen. Maria Rizzotti(Forza Italia), maria.rizzotti@senato.it,

Sen. Gianluca Ferrara(M5S), Gianluca.ferrara@senato.it,

Sen. Alessandro Alfieri(PD)  alessandro.alfieri@senato.it

On. Rossana Boldi(Lega), Boldi_R@camera.it,

On. Pino Cabras (M5S) cabras_P@camera.it,

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AZERBAIGIAN: La parata della vittoria di Baku (Eastjournal)

“Armenia cristiana e fiera”: il saggio di Dell’Orco sul paese delle pietre urlanti (Barbadillo 10.12.20)

Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Idrovolante un estratto del libro “Armenia cristiana e fiera” di Daniele Dell’Orco (pp.175, euro 20), edizioni Idrovolante (qui il link per acquistarlo).

***

Il viaggio alla scoperta degli angoli più remoti dell’Armenia non è solo storico, politico e sociale.
Finisce per diventare, volenti o nolenti, un pellegrinaggio.
Vallata dopo vallata, canyon dopo canyon, specchio d’acqua dopo specchio d’acqua ci si avvicina sempre di più alle radici della cristianità. L’Armenia, come detto, è stato il primo paese al mondo ad adottare il cristianesimo (nel 301, basti pensare che il famoso Editto di Costantino che faceva cessare le persecuzioni dei cristiani è del 313, anche se studi più recenti ritengono che fosse una specie di attuazione di misure contenute nel precedente editto di Galerio del 311, mentre l’adozione del Cristianesimo come religione di stato nell’Impero Romano avvenne quasi un secolo più tardi, nel 391 durante il regno di Teodosio I), e alla spiritualità questo fiero popolo caucasico, che ha conosciuto nella storia la grandezza di un impero che si estendeva fino a Gerusalemme, non ha mai rinunciato.
Nel corso dei secoli l’Armenia è stata dominata, conquistata, distrutta, messa in ginocchio in tutti i modi possibili.
Ma ovunque si guardi capita ancora oggi di posare gli occhi su di un qualche khatchkar, una croce scolpita nel tufo discendente dai menhir (monoliti verticali).
In tutto il paese se ne contano almeno 30mila.
Il khatchkar più antico di cui si ha notizia risale al IX secolo, periodo in cui il paese visse un ritorno della propria fede dopo la liberazione dal dominio arabo, ma il periodo il cui l’arte di scolpire i khatchkar ha raggiunto il suo apice è quello che va dal XII al XIV secolo, fino all’invasione dei Mongoli.
Più tardi, tra il XVI e il XVII secolo questa forma d’arte ha vissuto una seconda primavera, senza però mai raggiungere le vette artistiche toccate in precedenza.
Normalmente raffigurano, al centro, la “croce fiorita” armena. Ma le varianti sono infinite.
I khatchkar, immancabili in quasi tutti gli edifici religiosi, potevano essere offerte votive, monumenti funerari o commemorativi. L’unico obbligo era, come per i monasteri, di essere orientati ad Occidente. Poi per il resto la fantasia faceva e ha sempre fatto il suo corso.
Ma c’è anche un significato più “civile”: i khatchkar sono stati intagliati nel corso dei secoli certamente da fini scultori, ma anche da persone semplici, contadini, artigiani, pastori.
Nella tradizione armena ogni padre, a cui era nato un figlio maschio, scavava dalla montagna un blocco di tufo alto anche più di due metri e lo scolpiva con cura e pazienza per lungo tempo per poi collocarlo in un punto visibile, come messaggio di concretizzazione della preghiera e soprattutto a dimostrazione che l’uomo quando non può pensare o pregare, lavora.
In tempi anche piuttosto recenti può capitare che, in occasione dell’inaugurazione di un nuovo ponte che evita ore o giornate di viaggio per raggiungere la riva di un fiume o la pendice di una vallata c’è sempre qualcuno che infigge un nuovo khatchkar nel terreno.
I khatchkar portano incise croci nude, senza il Cristo, a testimonianza che il figlio di Dio non è morto ma è salito al cielo
Attorno alla croce sono intagliate allegorie di foglie o frutti a rappresentare la continuità della vita anche dopo la morte.
Come detto, in Armenia i khatchkar sono dappertutto, ma i più belli si trovano in prossimità delle centinaia di monasteri posti un po’ ovunque, fin negli angoli più remoti della natura più selvaggia.
C’è un luogo speciale, però, che vale la pena di essere raccontato. A Noratus si trova un cimitero medievale nascosto tra vie sconnesse e abitazioni fatiscenti. Dopo la conquista, e conseguente distruzione, di Julfa ad opera degli azeri
Sono almeno 1000, sorvegliati a vista dall’anziana che mentre rende omaggio ai cari mi spiega che il corpo dei defunti, posto con i piedi alla base della croce, dovrà vedere il sole che sorge non appena si risveglierà dalle tenebre.
Tutt’intorno, diversi khatchkar sono circondati da pezzi di vetro. Non per incuria, ma per tradizione. Una storia molto popolare a Noratus narra di un monaco del XIX secolo di nome Ter Karapet Hovhanesi-Hovakimyan.
Viveva nel Monastero vicino al villaggio e conduceva le cerimonie di sepoltura proprio nel cimitero. La distanza da colmare, tuttavia, era considerevole.
E, stanco di ripetere il tragitto, fece costruire una cella scavata a Noratus per poterci rimanere.
Quando ebbe ormai 90 anni, chiese agli altri monaci del suo Monastero di essere seppellito vivo nella sua cella. Le sue ultime parole furono: “Non temo la morte. Vorrei che anche voi non ne aveste paura. Non temete mai nulla, ma solo Dio. Che chiunque abbia paura venga da me. Versi acqua sulla pietra della sepoltura, ne bevva, se ne versi sul viso, sul petto, sulle braccia e sulle gambe. Infine, rompa pure il vaso con l’acqua e la paura lo abbandonerà”.
Queste lapidi intagliate, che dicono molto del censo, dell’età e della storia di vita dei proprietari, fanno impressione se viste da lontano perché sono così fitte, così imponenti pur nella loro irregolarità, così ordinate come fossero dei ranghi serrati, da sembrare un esercito di pietra.
Fu questa la visione che si parò di fronte agli occhi del grande condottiero turco-mongolo Tamerlano, il Conquistatore, considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia.
Era considerato il leader più potente del mondo islamico dopo la sconfitta dei Mamelucchi egiziani e siriani e del primo Impero ottomano.
Si riteneva l’erede di Gengis Khan (com’è scritto sulla sua tomba nel mausoleo di Samarcanda) e credeva di poter riportare in vita l’impero mongolo.
Tamerlano segnò al tempo stesso il culmine e il declino delle grandi invasioni dei cavalieri nomadi in Asia e in Europa.
Condusse campagne in tutta l’Asia occidentale, meridionale e centrale, nel Caucaso e nelle regioni meridionali della Russia.
Quando il suo esercito si avvicinò a Noratus, gli abitanti del villaggio erano sensibilmente inferiori come numero ed equipaggiati in larga parte solo di forche e bastoni. Ma non erano ancora pronti ad accettare la sconfitta. Così, secondo la leggenda, decisero di ricoprire di lenzuola tutti i khatchkar e di “armarli” con elmetti, asce e spade.
Quell’inaspettato mare di soldati pronti ad affrontare i mongoli spada sguainata colse di sorpresa Tamerlano, che pure era un implacabile distruttore di eserciti nemici e delle città che gli si opponevano, a ritirarsi senza indugio.
Tornò settimane dopo, meglio equipaggiato e deciso stavolta a saccheggiare la città ad ogni costo.
Ovviamente ci riuscì in pochi minuti.
Ma gli abitanti di Noratus, ancora oggi, raccontano questa leggenda per far capire cosa rappresentano per loro le sacre pietre del cimitero: l’atto di rimanere in piedi, persino contro un nemico imbattibile, che li ha temuti foss’anche solo per un giorno.

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