Scambio di prigionieri tra Armenia e Azerbaijan (Euronews 15.12.20)

Quelle che vedete sopra sono le immagini degli armeni che tornano in patria. Armenia e Azerbaijan hanno accettato lo scambio dei prigionieri dopo l’accordo di pace firmato sotto l’egida russa. Gli arrivi sono iniziati questo lunedì dopo oltre un mese dalla firma dell’accordo.

“La Federazione russa ha riportato a Baku 12 persone – dice il comandante del contingente russo in Nagorno-Karabakh, Rustam Muradov – Gli azeri hanno liberato 44 persone che sono arrivate all’aeroporto di Yerevan con me. Le forze russe continueranno a monitorare il rispetto degli accordi”

A Yerevan i parenti aspettano con ansia a Yerevan l’arrivo dei loro cari.

Non posso descrivere la mia emozione, grazie a tutti quelli che hanno pregato per i nostri prigionieri. Grazie a tutte le madri. Non posso esprimere la mia gioia… Sono così confusa che non so cosa dire

Varditer Davtyan

Gli armeni hanno nei fatti perso questa guerra, hanno ceduto fette di territorio e si trovano i russi dentro casa. Ma per le madri che riabbracciano i figli, ora tutto questo non conta.

Arrestati soldati azeri che profanavano i cadaveri armeni

Baku ha annunciato lunedì l’arresto di quattro soldati azeri: due accusati di profanare i corpi di soldati armeni morti in battaglia e altri due accusati di aver distrutto lapidi appartenenti ad armeni.

Gli uomini avevano filmato le loro azioni e condiviso i video sui social media.

Il conflitto di sei settimane scoppiato a settembre tra i separatisti sostenuti dall’Armenia e l’Azerbaijan per la regione del Nagorno-Karabakh si è concluso il 10 novembre con un accordo di pace mediato da Mosca. Nel conflitto sono morte 5mila persone.

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Chi è in guerra (e chi non è in guerra) con la Turchia di Erdogan (Startmag 15.12.20)

Mosse e obiettivi della Turchia di Erdogan fra amici e nemici. L’analisi di Giuseppe Gagliano

Il presidente turco Tayyip Erdogan ha presenziato ad una parata militare per la vittoria azera nel recente conflitto del Nagorno-Karabakh in occasione della quale ha recitato una poesia azero-iraniana sulla divisione del territorio dell’Azerbaigian tra Russia e Iran nel XIX secolo nella quale non solo viene legittimata la separazione delle regioni azere dal resto dell’Azerbaigian ma viene anche legittimata la proiezione di potenza turca in questa regione in funzione anti-iraniana.

La reazione di Teheran è stata immediata, dura e inequivocabile. Da un lato infatti l’Iran ha informato l’ambasciatore turco che l’era delle rivendicazioni territoriali e degli imperi espansionistici è ormai giunta a conclusione ma ha anche sottolineato che l’Iran non consente — e non consentirà — a nessuna nazione di immischiarsi nella sua integrità territoriale. Qual è il significato geopolitico di una provocazione propagandistica di questa natura da parte della Turchia? Sul ruolo della Turchia nel recente conflitto si è già discusso su Start in questo articolo.

Tuttavia l’attenzione deve essere rivolta non solo a sottolineare come questa provocazione di natura squisitamente ideologica serva al presidente turco per ribadire ancora una volta che il proprio paese intende giocare un ruolo importante nella ricostruzione delle aree occupate dall’Azerbaigian — come in Libia, nel Mediterraneo orientale e in Siria aggiungiamo noi — ma soprattutto a evidenziare il ruolo sempre più importante che l’uso della propaganda aggressiva di Erdogan sta giocando nel legittimare il suo consenso politico interno e a giustificare la sua politica di proiezione di potenza.

A tale proposito è utile approfondire questo aspetto in relazione alla contrapposizione tra Erdogan e Macron. Al di là del confronto geopolitico nello spazio geografico, c’è il confronto ideologico e religioso tra la Turchia e la Francia. È essenzialmente su questo registro che si attua la retorica del presidente Erdogan contro la Francia. La Francia sostiene la libertà di espressione e un secolarismo che separa rigorosamente la religione dallo Stato. Al contrario, il presidente Erdogan sostiene l’Islam politico contro il secolarismo turco “kemalista” che controlla la religione attraverso lo Stato.

Il presidente turco è abituato a rilasciare dichiarazioni scioccanti che prendono di mira personalmente i leader politici. Pur non essendo certo l’unico leader ad agire in tal modo per galvanizzare il suo elettorato la strategia comunicativa del presidente turco consiste in un discorso manicheo. Il discorso di Erdogan si costruisce infatti su una logica dicotomico: la lotta del bene contro il male, Macron contro Erdogan, l’Occidente contro l’Oriente, i musulmani contro i crociati. Nella retorica del presidente Erdogan, la Turchia è carica di valori positivi e la Francia e l’Occidente di valori negativi. Basti pensare al passato coloniale europeo e, in particolare, a quello francese in Africa. Lo scopo dei ripetuti discorsi contro la Francia è quello di screditare l’autorità costituita, metterla in discussione agli occhi dell’opinione pubblica, indebolirla per creare o rafforzare le proteste già esistenti presso la comunità musulmana al fine di alimentare il discredito. È una serie di umilianti insulti personali che sminuiscono il presidente francese, simbolo dell’autorità repubblicana. Così il presidente Erdogan connota la sua controparte francese come “arrogante”, “ambizioso ed incapace”, mettendo persino in dubbio la salute mentale del presidente Macron.

Infine, un altro scopo della tecnica propagandistica di Erdogan è quello di isolare l’avversario accusandolo — tutt’altro che velatamente — di essere un razzista e di fomentare il razzismo contro l’Islam come infatti il presidente turco in un discorso televisivo del 26 ottobre ha fatto invitando i leader europei a cercare di porre fine ai progetti anti islamici portati avanti dal presidente francese.
L’obiettivo è ovviamente molto chiaro: il sostegno dato alla Francia da parte dei leader europei sarebbe visto come complicità e connivenza della campagna anti-islamica portata avanti dalla Francia.

Con estrema abilità il presidente Erdogan ha utilizzato — e sta utilizzando — i valori della cultura laica occidentale e cioè quelli della libertà e della giustizia contro il presidente francese per dimostrare il suo atteggiamento anti-islamico.

Tuttavia non è certo arduo dimostrare le contraddizioni nelle quali cade la narrazione propagandistica del presidente Erdogan.

La Turchia tace sulla persecuzione degli uiguri in Cina, che è una popolazione musulmana di lingua turca. Il presidente Erdogan ha anche firmato con la Cina un accordo nel 2017 per estradare gli oppositori uiguri in Cina.

Un’altra contraddizione è l’emarginazione delle minoranze religiose (cristiane, aleviste) ed etniche (curde e armene) sul suo territorio. Per non parlare del genocidio armeno, che attraverso continue e costanti pressioni di natura diplomatica, la Turchia sta cercando di imporne la negazione a livello internazionale.

Per realizzare la sua strategia propagandistica il presidente turco si serve soprattutto di Al-Jazeera e dei principali canali televisivi turchi come TRT. In poche ore il messaggio viene diffuso e raggiunge una dimensione internazionale creando le premesse per la campagna di boicottaggio antifrancese attiva anche su Twitter.

Nello specifico una delle principali società di distribuzione alimentare del Kuwait (Al-Naeem Cooperative Society) è stata tra le prime a lanciare questa campagna di boicottaggio. Alla quale hanno fatto seguito i boicottaggi in Qatar, Kuwait, Giordania, Pakistan e Bangladesh. Ma anche l’utilizzo di fake news e disinformazione da parte della Turchia è fortemente veicolata dai social network. Basti pensare alla diffusione di false informazioni ufficiali come quella del 26 ottobre nella quale il presidente Erdogan ha affermato che la Francia avrebbe promosso il boicottaggio dei prodotti turchi.

Un altro strumento certamente assai efficace del quale si è servito il presidente turco, e di cui si servirà certamente ancora, è la diaspora turca in Europa. La presenza turca è stimata sui 5,5 milioni, di cui 1,5-2 milioni in Germania e circa 700.000 in Francia.

Per influenzare la sua diaspora in Francia, si dice che la Turchia abbia circa 150 iman distaccati in Francia sotto il controllo della DITIB, Unione degli affari religiosi turco-islamici strettamente dipendenti dallo Stato turco. Anche il ruolo esercitato da Ahmet Ogras rappresentante dell’Islam turco in Francia (Comitato di coordinamento dei musulmani turchi in Francia CCMTF) fino al 2019 ha svolto un ruolo di grande rilievo nel diffondere la propaganda turca.

A tale proposito c’è da tenere presente che religione e istruzione sono due strumenti fondamentali della stessa strategia di influenza dello Stato turco, che cerca così di controllare e strumentalizzare la sua diaspora. La modalità di diffusione è lenta, calcolata sul lungo termine. Tuttavia, assumendo il controllo di moschee e associazioni religiose, creando scuole l’influenza turca volta a difendere un Islam politico si sta diffondendo ampiamente non solo in Francia ma anche in Germania.

Piaccia o meno, la presenza musulmana in Germania e in Europa costituisce per il presidente turco una vera e propria quinta colonna per destabilizzare sul piano politico le istituzioni laiche favorendo la sua politica antioccidentale e i suoi interessi nel Mediterraneo orientale. Un esempio eclatante è costituito certamente dal ramo francese dei “Lupi Grigi”, movimento ultranazionalista fedele al presidente Erdogan, che sta facendo pressione sulla comunità armena attraverso l’uso della intimidazione.

Sul piano internazionale la propaganda posta in essere dal presidente turco ha certamente visto il Kuwait e il Pakistan in prima fila per difendere gli interessi politici di Erdogan. Non sorprende tuttavia — visti gli interessi ormai conflittuali tra due paesi sul piano geopolitico — che gli EAU abbiano sostenuto addirittura il presidente francese.

La stampa americana invece, come il Financial Times e il New York Times, è stata invece particolarmente criticata dal presidente francese a causa delle sue copertine che condannano il sistema sociale francese più degli attacchi stessi, facendo così il gioco di Erdogan.

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GUERRA FUTURA. Gli UAV sono invisibili ai radar. Come abbatterli? (Agcnews 14.12.20)

La guerra del Nagorno-Karabakh ha certificato che gli Uav hanno avuto un ruolo enorme nella sconfitta delle forze armene.

Ma il risultato più sorprendente è stata la distruzione delle difese aeree armene: praticamente tutti i sistemi di difesa aerea dell’Armenia sono stati distrutti, lasciando alle forze armene solo i Manpad per la difesa aerea.

Nei video forniti dall’Azerbaigian, ripresi dai droni di sorveglianza o dal drone d’attacco stesso, non vi è alcuna prova che un radar o un sistema di difesa aerea armeno abbia rilevato l’Uav prima che fosse colpito e distrutto. Nei video si vedono in realtà delle parabole radar che girano mentre vengono colpite dagli Uav, come avvenuto negli attacchi contro gli impianti petroliferi sauditi ad Abqaiq e Khurais, nel 2019.

La questione centrale sollevata dagli attacchi in Arabia Saudita e nel Nagorno-Karabakh è perché i sistemi di difesa aerea e i radar non hanno rilevato le minacce dei droni in arrivo.

Ad esempio Israele si è specializzato nel dare la caccia a razzi piuttosto piccoli lanciati principalmente da Hamas a Gaza, i Qassam, che non sfuggono al sistema Iron Dome.

Gli Uav non hanno motori caldi; sono alimentati da piccoli motori a combustione interna che funzionano a batteria. E molti Uav sono costruiti in plastica o in materiali compositi, alcuni costruiti in legno, quindi le uniche parti metalliche sono i motori, che sono tipicamente piuttosto piccoli o per nulla visibili.

Un buon esempio è il Bayraktar TB2, che è fatto di compositi e Kevlar, non di metallo. Utilizza un piccolo motore a combustione interna austriaco che si trova all’interno della fusoliera e nella parte posteriore dove aziona un propulsore a spinta, anch’esso in composito. Anche se è grande, ha a malapena una firma Ir e la sua firma radar è piuttosto piccola, forse troppo piccola per essere facilmente individuata.

Ci sono radar in grado di rilevare piccoli droni, ma la maggior parte dei sistemi di difesa aerea convenzionali non li ha. Questi nuovi radar funzionano in modo diverso rispetto ai radar convenzionali – hanno una scansione ad altissima risoluzione e dispongono di algoritmi informatici che hanno dati di firma su diverse minacce di droni.

Quando ci sono abbastanza immagini radar da passare attraverso il database del computer, l’avvistamento di un drone può essere confermato dal sistema radar e può continuare a tracciare l’oggetto.

Guardando oltre i radar, ci sono altri modi per rilevare un drone. È possibile rilevare le trasmissioni di un drone e localizzarlo in questo modo, attraverso la triangolazione. In alcuni casi, un drone può essere rilevato da sofisticati sensori ottici. E se il drone fa abbastanza rumore, può essere rintracciato acusticamente.

Un moderno sistema di rilevamento dei droni probabilmente utilizza tutti questi metodi in combinazione e dispone di un elegante software per fondere insieme tutte le informazioni in tempo quasi reale per raggiungere una soluzione sulla sua traccia e come eliminare il drone come minaccia.

C’è stato un solo sistema di questo tipo attivo nel Nagorno-Karabakh che è stato portato in guerra dai russi alla fine della guerra. Per quanto è noto, il sistema di disturbo Krasukha è stato introdotto per proteggere una base russa vicino a Yerevan. Anche così, i russi sostengono di aver messo fuori uso 9 droni Bayraktar.

Sembra anche che l’attacco e i droni suicidi fossero collegati, attraverso i centri di comando, ai droni di sorveglianza. In pratica, ciò significava che i droni di sorveglianza potevano individuare e rintracciare obiettivi e le informazioni sarebbero state utilizzate per chiamare il drone di attacco più vicino.

Questa caratteristica si vede in molti dei video che il ministero della difesa azero ha fornito online dove il drone di sorveglianza sta visualizzando il bersaglio ma dove i razzi lanciati dai droni arrivano da una diversa angolazione e altitudine.

Un problema chiave per i progettisti è che attualmente la gamma di radar ad alta definizione necessari per l’identificazione di Uav e piccoli missili da crociera è limitata. È necessaria una nuova tecnologia per estendere in modo significativo la gamma.

Lucia Giannini

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Tra gli sfollati della guerra in Nagorno-Karabakh (Dinamopress 14.12.20)

Mentre sorseggia un tè in un famoso caffè nel centro di Yerevan, Irina Safaryan, 28 anni, originaria di Stepanakert, ricorda cosa ha fatto il giorno prima che scoppiasse l’inferno. «Quella sera stavamo festeggiando il fidanzamento di uno dei nostri amici della diaspora armena in un pub molto conosciuto chiamato Bardak», ricorda Irina. «Nessuno dei pub di Yerevan può battere quel posto».

La mattina successiva, Irina e sua sorella, che era in visita da Yerevan con la sua bambina, sono state svegliate dal “suono assordante di un’esplosione”. «Ho aperto la finestra e sembrava la scena del film Pearl Harbor», racconta Irina. «Ho detto a mia sorella di prendere velocemente le sue cose e siamo corse al rifugio sotterraneo. Diverse ore dopo, sono uscita per pubblicare sui social media qualche post su cosa stava accadendo».

 

Era il primo giorno della guerra scoppiata a fine settembre 2020 tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh. La guerra, durata 44 giorni, ha provocato migliaia di morti e decine di migliaia di sfollati.

 

Irina è nata in un bunker durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh, nei primi anni ’90, ed è cresciuta nella città di Hadrut, nel sud della regione: la sua vita è quindi intrecciata con il conflitto, ma nemmeno lei immaginava che i combattimenti sarebbero ritornati con tale ferocia. «Avevamo percepito che qualcosa si stava preparando – ricorda – ma non avremmo mai immaginato che sarebbero state bombardate le città e gli insediamenti civili. Pensavamo che tutto si sarebbe svolto in prima linea proprio come la guerra dell’aprile del 2016. Per 30 anni, Stepanakert e altre città [del Nagorno-Karabakh] non hanno vissuto la guerra».

Irina ha poi rimandato, lo stesso giorno, sua sorella e sua nipote a Yerevan. Lei ha invece deciso di restare. Ha lavorato principalmente presso il centro stampa di Stepanakert e ha contribuito a coordinare gli sforzi di volontariato in città. Anche i suoi nonni e sua madre erano nel frattempo sfollati. Poco più di una settimana dopo, il 6 ottobre, Irina ha deciso di andarsene: la guerra aveva già preso un tributo sia fisico che emotivo troppo alto. Sperava però di rientrare presto.

 

L’unico dei suoi familiari più prossimi a rimanere in quei giorni in Nagorno-Karabakh è stato suo padre, nella sua città natale di Hadrut. Se ne è poi andato quando le forze azere si avvicinavano alla città.

 

Dopo che la dichiarazione di pace trilaterale che ha posto fine alla guerra è stata firmata da Armenia, Azerbaijan e Russia, il 10 novembre, Irina si è trovata di fronte al fatto che Hadrut e la loro casa di famiglia erano ora sotto il controllo azerbaijano e che probabilmente non vi sarebbe mai più tornata. Irina, ora rientrata a Stepanakert, alla domanda su quali siano i piani per il futuro suoi e della sua famiglia risponde che il futuro, ora, è una cosa di cui non riesce a parlare: «Non ho niente da dire».

 

 

VOLONTARI

Secondo i funzionari del Nagorno-Karabakh durante la guerra sono state sfollate ed hanno dovuto cercare rifugio in Armenia oltre 100.000 persone, il 70% della popolazione della regione. Altri 40.000 sono stati gli sfollati dopo la fine della guerra, poiché residenti nelle regioni che ora sono sotto il controllo dell’Azerbaijan. Al 23 novembre quasi 25.000 persone che se ne erano andate dal Nagorno Karabakh sono tornate.

Quando è iniziata la guerra sono state molte le iniziative di volontariato e le organizzazioni non governative ad adoperarsi in soccorso di chi fuggiva dalla guerra. Poi è presto subentrato il ministero del Lavoro e degli Affari sociali che ha contribuito a coordinare gli sforzi a livello nazionale ed ha fornito assistenza sociale, medica e psicologica di base oltre che gli alloggi.

 

Gli sforzi di volontariato hanno caratterizzato l’intera società armena.

 

Gli studi d’arte, i musei e i teatri hanno offerto lezioni e spettacoli gratuiti per i bambini sfollati; cliniche dentali private offrivano cure dentistiche gratuite; e molti hanno aperto le porte delle loro case per accogliere famiglie che si sono trovate senza.

 

foto di Dvin Titizian

 

Un gruppo di quattro giovani volontari del piccolo villaggio di Mughni, vicino alla città di Ashtarak, si è incaricato di ospitare e prendersi cura di quasi 170 rifugiati del Nagorno-Karabakh che soggiornano nel loro villaggio. «Tutto è iniziato quando abbiamo messo alcune scatole nel centro di Ashtarak per raccogliere donazioni a favore dei nostri soldati», racconta Marianna Torosyan, 16 anni, la più giovane dei volontari. «Presto la gente chiedeva se si potevano aiutare anche i rifugiati».

 

Marianna e gli altri tre volontari di fatto si occupano del mantenimento dei bambini e delle donne che soggiornano nel loro villaggio e molti degli sfollati li trattano come se facessero parte della loro famiglia.

 

Raccolgono continuamente donazioni e hanno un magazzino pieno di cibo e medicine per le famiglie che sostengono. Sono riusciti anche a trovare un donatore dal Canada che ha acquistato vestiti nuovi per tutti i bambini sfollati. Hanno inoltre raccolto la disponibilità sull’utilizzo di molte case i cui proprietari o non vivevano più in Armenia o ne avevano più di una.

 

 

QUATTRO FAMIGLIE, UNA CASA

Le prime persone che hanno aiutato a trovare una casa sono state quattro famiglie della regione di Martuni. Ora vi sono venti persone che vivono in una casa a due piani – 15 bambini di età compresa tra 4-14 anni e cinque adulti. Tutti gli uomini di queste famiglie erano inizialmente a combattere in prima linea.

Il giorno in cui li abbiamo incontrati diversi bambini sono corsi da Marianna e Artyom – un suo amico e co-volontario – e hanno fatto la fila per abbracciarli. «Chi ti piace di più? Io o Manan [Marianna]?», ha chiesto Artyom scherzando. «Entrambi!», hanno risposto gioiosi i bambini. Dopo aver trovato un posto tranquillo nell’ampio giardino in modo che i bambini non la interrompessero, una degli adulti, Narine Arzumyan, 49 anni, ha subito iniziato a esprimere la propria gratitudine ai volontari e al villaggio in generale.

 

Narine ha dovuto abbandonare il villaggio di Yemishjyan il primo ottobre, con i suoi quattro figli e assieme alla sua vicina, con altri sei figli.

 

«Pensavamo che sarebbe finita presto, quindi all’inizio ci proteggevamo nel nostro rifugio sotterraneo», racconta Narine. «Ma dato che i bambini si stavano spaventando, abbiamo deciso di andarcene. Ora abbiamo trovato questo posto meraviglioso a Mughni».

Narine è rimasta molto colpita dal sostegno ricevuto. Dice che, grazie a questo aiuto, non hanno bisogno di nulla. A suo avviso anche le recenti chiusure scolastiche dovute al Covid-19 non hanno influenzato più di tanto i bimbi.

Marianna e le sue amiche volontarie hanno periodicamente portato i bambini sfollati ai musei della zona e allo zoo e un’insegnante è andata più volte alla settimana a lavorare con loro in modo che non rimanessero indietro negli studi.

Il 5 ottobre, molti dei bambini che stavano a Mughni sono stati battezzati, i volontari sono diventati le loro madrine e padrini . Ora che la guerra è finita, tre delle quattro famiglie sono rientrate, mentre Narine è rimasta, ora raggiunta dal marito.

 

Mi hanno detto che per ora c’erano troppe “incertezze” in Nagorno-Karabakh ma che intendevano, comunque, rientrare.

 

foto di Dvin Titizian

 

 

I POGHOSYANS

Un’altra famiglia che ha trovato rifugio a Mughni è stata quella dei Poghosyans: Zhora e Valentina Poghosyan con le loro due nuore, Lilit e Ruzanna, e i loro cinque nipoti. Zhora ha trasportato loro ed altri parenti e vicini – un totale di 25 persone – in un unico viaggio nel suo furgone Ford Transit: ha rimosso i sedili per fare in modo che ci potessero stare tutti. I suoi due figli sono rimasti a combattere.

La famiglia Poghosyan è originaria del villaggio di Togh, nei pressi di Hadrut. Subito dopo la conquista di Hadrut da parte delle forze del’Azerbaijan Lilit è venuta a sapere che la loro casa era stata rasa al suolo. «Quello che sta accadendo in Nagorno-Karabakh è un massacro», mi ha detto la settimana prima della firma della dichiarazione di pace.

 

«Questa guerra è diversa. Questa volta i droni hanno reso la guerra diversa. I nostri rifugi non potevano aiutare molto. Quel primo giorno siamo stati colpiti dagli Uav, li vedevamo costantemente nel cielo».

 

«Stiamo sentendo notizie di decapitazioni, e ora le munizioni al fosforo. È disumano – è intervenuta Ruzanna – non vorremmo mai che i loro figli e anziani [dell’Azerbaijan] vivessero quello che stiamo attraversando». «Abbiamo lasciato lì i nostri cuori», ha aggiunto, dicendo che se ne sono andati per il bene dei bambini.

Quando ho chiesto ai bambini cosa mancasse loro di più quasi tutti hanno risposto i loro padri, tranne Avet, di 4 anni. Ha detto che gli mancavano i suoi stivali da pioggia. Con Hadrut ora fuori dal controllo armeno, non hanno più una casa a cui tornare e ad Avet i suoi stivali per la pioggia mancheranno per sempre.

I mariti di Lilit e Ruzanna le hanno poi raggiunte a Mughni, dove rimarranno per il momento. Ruzanna dice che ora vivranno in Armenia, ma senza speranza nel futuro. «Ho perso il mio villaggio natale, la mia casa», afferma. «Non ritorneremo nell’Artsakh [Nagorno-Karabakh] perché ogni centimetro di Artsakh è ora in prima linea. Non è più sicuro per cittadini pacifici come noi».

 

 

INCAGLIATI

Non tutte le famiglie del Nagorno-Karabakh sono state fortunate a trovare una casa decente in Armenia. Rima Petrosyan, madre di 23 anni, originaria del villaggio di Askeran e i suoi due figli, sono arrivati in Armenia il 29 ottobre. Sono stati portati in un collegio nella città di Vanadzor, insieme ad altri 100 sfollati.

 

Ha raccontato che le condizioni in cui vivevano erano “orrende”. Senz’acqua calda e riscaldamento la bronchite dei suoi figli è peggiorata.

 

Dato che le autorità non fornivano alcun aiuto Rima ha iniziato a chiamare ogni conoscente che aveva con la speranza di trovare un nuovo posto dove poter stare. Fu allora che un’amica l’ha messa in contatto con Marianna. Non c’erano più case a Mughni, così Marianna ha offerto la casa della sua famiglia.

Rima e i suoi due figli sono rimasti lì per due settimane. Suo figlio ha mosso i primi passi a Mughni. La storia di Rima è simile a quella di molti altri in Nagorno-Karabakh. Suo marito, padre e fratello sono rimasti in prima linea. «La paura è nel mio cuore», ha detto. «Desidero solo poter rivedere mio marito e i miei uomini». Dopo la fine della guerra, Rima è tornata a casa nel Nagorno-Karabakh dove è stata raggiunta anche dal marito.

 

 

COESISTENZA

Ora che le armi tacciono e che alcuni degli sfollati hanno iniziato a rientrare in Nagorno-Karabakh, sta tornando una parvenza di normalità. Ma per molti la situazione è ancora lontana da una vera pace e nessuna delle famiglie con cui abbiamo parlato ritiene sia possibile la convivenza con l’Azerbaijan.

 

foto di Dvin Titizian

 

«Se c’era un barlume di speranza prima, questa guerra l’ha cancellato completamente», afferma Irina Safaryan. “«Ho preso parte a iniziative di costruzione della pace per dieci anni e ho incontrato molti azeri. Abbiamo pianto insieme, litigato, passato dei bei momenti insieme. Ma ogni volta che tornavano mi cancellavano dalla loro lista di amici, pur scusandosene. A casa gli venivano fatti problemi».

 

Irina ha smesso di credere in queste iniziative di pacificazione dopo le prime due a cui ha preso parte. Ora le considera uno spreco di denaro.

 

«Ho visto miei amici azeri celebrare la morte degli armeni sui social media. Li ho bannati tutti. Credo che vogliano un Nagorno-Karabakh senza armeni».

Narine Arzumyan, madre di quattro figli, originaria del villaggio di Yemishjyan, dice di non aver mai vissuto pacificamente con gli azerbaijani. «Solo quando ho vissuto in Russia per un po’ avevo delle amiche azerbaijane e non abbiamo avuto problemi», spiega.

«Ma non credo che possa accadere in Karabakh. Siamo come cane e gatto». Zhora Poghosyan ha spiegato che negli anni ’60 e ’70 conviveva abbastanza con gli azerbaijani. «Le nostre case erano una accanto all’altra», ricorda. «Ma ora? No, non dopo tutto questo».

 

 

LA RUOTA CHE GIRA

Gyulvard è cresciuta nella città azerbaijana di Sumgayit, dove ha lavorato come infermiera. Ha detto di aver convissuto pacificamente con gli azerbaijani fino al 1988. Il 27 febbraio di quell’anno vi sono state violenze e pogrom anti-armeni hanno attraversato l’intera città. Ha visto persone trascinate fuori dalle loro case e picchiate, suo fratello è stato quasi ucciso.

Lei stessa è scampata a malapena alla morte. Quando la folla inferocita è arrivata alla sua porta, è stato il suo vicino azerbaijano a tenere a bada gli aggressori. La famiglia è poi fuggita da Sumgayit e si è trasferita in Karabakh, dove però sono scoppiate violenze ancora maggiori. Suo figlio è stato uno dei migliaia a morire nella prima guerra del Nagorno-Karabakh.

 

Ora, 30 anni dopo, è stato suo nipote ad andare a combattere. «Continuiamo a vedere solo guerra», mi ha detto con un sospiro. Una storia di violenza che si ripete come una “ruota che gira”.

 

Ma Gyulvard non ha perso la speranza. Sua nipote, Elmira, mi ha raccontato che alcuni mesi prima che la guerra scoppiasse Gyulvard aveva avuto un incubo, che preannunciava il conflitto. «Ne aveva poi avuto un altro, dieci giorni prima della firma degli accordi di pace, in cui Gyulvard si era vista in una chiesa, dove aveva sentito una voce che le diceva di accendere dieci candele, e una volta che lo ha fatto la voce l’ha rassicurata sul fatto che ora, finalmente, la pace sarebbe arrivata».

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A San Lazzaro degli Armeni la confettura di rose che conquistò Lord Byron „A San Lazzaro degli Armeni la confettura di rose che conquistò Lord Byron“ (Veneziatoday 14.12.20)

A San Lazzaro degli Armeni la confettura di rose che conquistò Lord Byron

Sull’isola di San Lazzaro degli Armeni, nella laguna veneziana, c’è un giardino che circoscrive il monastero dove vivono i monaci dell’ordine Mechitarista nel quale vengono contivate molte specie di rose, alcune di queste rarissime. I roseti del convento, fondato nel 1717 dalla popolazione armena giunta in città e sulle rovine di edifici preesistenti, sono una delle bellezze veneziane nascoste di cui solo pochi conoscono l’esistenza e nel mese di maggio regalano all’isola uno spettacolo floreale di estremo fascino. Queste rose, oltre che a ornare il giardino del monastero, vengono utilizzate dai monaci di San Lazzaro per produrre una confettura dal sapore unico, la cosidetta “vartanush”, cioè la confettura ricavata dai petali di rosa, una ricetta tipica dell’Armenia.

Nello specifico, la tipologia di rosa più adatta per ottenere questa confettura è la rosa canina che fiorisce in tarda primavera e la tradizione armena per questa ricetta vuole che i petali di rosa vengano raccolti al sorgere del sole prima di essere tramutati in una buonissima composta da mangiare.

Lord Byron ospite fisso a San Lazzaro: conquistato dalla confettura di rose

Una curiosità poco conosciuta dell’isola di San Lazzaro degli Armeni è che il poeta inglese Lord Byron era ospite fisso del convento dei monaci perché conquistato dalla bontà di questa composta di petali di rose che i monaci del convento producevano ogni anno e continuava a tornare a Venezia, e nello specifico sull’isola, spinto proprio per questo goloso motivo.

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Armenia: premier Pashinyan dichiara tre giorni di lutto per vittime guerra Nagorno-Karabakh (Agenzia Nova 14.12.20)

Erevan, 14 dic 10:12 – (Agenzia Nova) – Un periodo di lutto di tre giorni in onore delle vittime della guerra dell’Artsakh (così si definisce l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh) sarà dichiarato in Armenia e Artsakh dal 19 dicembre. Lo hanno annunciato il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Artsakh, Arayik Harutyunyan. In quei giorni si svolgeranno cerimonie commemorative. “Il 19 dicembre segnerà i 40 giorni dalla fine delle operazioni militari. E in questa occasione verrà proclamato un lutto di tre giorni dal 19 dicembre, e anche un corteo commemorativo sarà organizzata a Erevan dalla Piazza della Repubblica a Yerablur”, ha detto il primo ministro Pashinyan. Altre cerimonie di ricordo si svolgeranno nel Paese. Pashinyan ha detto che è probabile che tutti i corpi dei militari scomparsi verranno recuperati per allora. “Avremo molti corpi non identificati, ma credo che questa decisione non possa più essere ritardata”, ha detto Pashinyan. A sua volta, il presidente Arayik Harutyunyan ha affermato che lui e il primo ministro armeno hanno deciso di dichiarare i tre giorni di lutto in Artsakh e in Armenia per commemorare la memoria delle vittime della guerra. “I loro nomi saranno sempre nei nostri cuori e nei capitoli della storia armena, obbligandoci a continuare la loro opera patriottica nel nostro cammino futuro. Pertanto, sarà un lutto di dolore, orgoglio e dovere per la nazione armena”, ha detto Harutyunyan. (Rum)

Italia-Azerbaijan – Chiudere gli occhi in nome del profitto (Assadakah 14.12.20)

(Redazione Assadakah) – Facendo seguito alle vergognose visite diplomatiche e politiche delle delegazioni italiane in Azerbaijan, già si muovono alcune realtà industriali, ansiose di accaparrarsi una sostanziosa fetta della torta degli affari internazionali, chiudendo entrambe gli occhi di fronte all’aggressione, ai massacri, alle torture, ai bombardamenti e alla distruzione del patrimonio storico e culturale armeno, nella recente guerra scoppiata fra Azerbaijan (sostenuto dalla Turchia) e Armenia, nella ancora irrisolta disputa per il Nagorno Karabach.

Una di queste realtà è il Gruppo Maschio Gaspardo, fondato nel 1964 dai fratelli Egidio e Giorgio Maschio (in joint-venture con il marchio Gaspardo dal 1994), che oggi è una multinazionale leader nella produzione di macchinari e attrezzature agricole. Otto centri produttivi (cinque in Italia, tre in Romania, Cina e India, dove la mano d’opera minorile costa pochissimo), tredici filiali in altrettanti Paesi, circa duemila impiegati e tecnici, e con l’80% di fatturato generato all’estero.

La ricerca di nuove soluzioni, e di maggiori guadagni, a quanto pare, sono alla base della strategia commerciale del marchio Maschio Gaspardo, che ha portato il vice-presidente del Gruppo a scrivere una lettera di smaccata adulazione, con note di malcelato opportunismo, a colui che incarna la politica di aggressione, pulizia etnica, prevaricazione, della regione sud-caucasica, ovvero il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev.

Questo il testo della lettera, che dovrebbe essere esempio di come, in ragione del profitto, sia possibile voltare la testa e decidere di non vedere a quali risultati portino le scelte di un dittatore, rimasto infarcito di ideologia stalinista: “A Sua Eccellenza Ilham Aliyev, Presidente della Repubblica dell’Azerbaijan. Gentile signor Presidente, mi permetta, a nome del Gruppo Maschio Gaspardo, di congratularmi con Lei e con il Suo Popolo per la vittoria nella liberazione delle terre azere da un’occupazione che durava ormai da 28 anni, e per avere raggiunto l’accordo di pace. E’ meraviglioso poter essere testimoni di questo eccezionale e storico successo militare, ottenuto sotto la guida di una leadership forte e determinata, e in così breve tempo. Vogliamo quindi congratularci per la grande vittoria, che apre una nuova era nella storia moderna dell’Azerbaijan, così come nella storia dell’intera regione. Un fatto che apre a opportunità promettenti e uniche, prospettive brillanti per la cooperazione regionale e lo sviluppo sostenibile in un territorio di enorme potenziale e crescente importanza geostrategica. Auguriamo ulteriori e maggiori successi nel processo di ripristino dei territori liberati del vostro Paese. Auguriamo pace, progresso e prosperità al popolo della Repubblica dell’Azerbaijan. I più cordiali saluti. Andrea Maschio, vice presidente del Consiglio di amministrazione Gruppo Maschio Gaspardo”.  A margine, una sola parola: vergogna.

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Dal Nagorno Karabakh raccapriccianti immagini di crimini di guerra (CDS 13.12.20)

Dopo aver esaminato 22 video girati nel Nagorno Karabakh durante il recente conflitto, Amnesty International è giunta alla conclusione che le forze armate dell’Armenia e dell’Azerbaigian hanno commesso crimini di guerra come esecuzioni extragiudiziali, decapitazioni, maltrattamenti ai danni di prigionieri e profanazione di cadaveri di soldati nemici.

In particolare, due video mostrano decapitazioni commesse da militari dell’Azerbaigian mentre in un terzo filmato si vede una guardia di confine azera cui viene tagliata la gola.

Azioni orrende, che hanno spinto Amnesty International a sollecitare l’avvio, da parte delle autorità amene ed azere, di indagini indipendenti e imparziali che identifichino i responsabili di questi crimini di guerra.

Le immagini, come accertato dal Crisis Evidence Lab di Amnesty International e poi confermato da esperti forensi indipendenti, non sono state manipolate.

Uno dei due video di decapitazioni mostra un gruppo di soldati dell’Azerbaigian trattenere a terra un uomo che cerca di divincolarsi mentre un terzo soldato, con la bandiera azera e altre insegne militari cucite sulla divisa, gli taglia la gola con un coltello. Al termine dell’esecuzione, vi sono applausi e grida di festeggiamento.

Nel secondo, la testa di un civile armeno viene posta accanto alla carcassa di un maiale. Un uomo, in lingua azera, dice “Tu sei senza onore, ecco come ci vendichiamo del sangue dei nostri martiri: tagliando loro la testa”. Nel video si vedono due uomini in uniforme delle forze armate azere con la bandiera del paese cucita sulla spalla sinistra procedere alla decapitazione.

Nel terzo video un uomo che indossa l’uniforme della polizia di frontiera dell’Azerbaigian viene gettato e bloccato a terra. La persona che sta girando il filmato gli parla in lingua armena poi si avvicina e gli pianta un coltello in gola.

In altri filmati esaminati e convalidati da Amnesty International si vedono soldati armeni tagliare le orecchie al cadavere di un soldato azero e trascinare un altro cadavere legato con una corda ai piedi e posare sul suo corpo. E ancora, soldati azeri picchiare armeni fatti prigionieri costringendoli a fare dichiarazioni contro il loro governo.

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Synth e conflitto/II, suoni underground a Yerevan (31mag.nl)

di Mara Noto e Viola Santini

Una sanguinosa disputa territoriale lunga (oltre) trent’anni, due Paesi che si contendono un territorio più piccolo del Molise e una soluzione -temporanea o permanente, nessuno può dirlo- trovata il 10 novembre 2020 con un’accordo di pace, mediato e fortemente voluto dalla Russia.

Quella del Nagorno Karabakh è una storia complessa e controversa, segnata da distanze culturali, religiose e politiche. Allo scoppio dell’ennesima ripresa del conflitto, avevamo raccolto le testimonianze di due donne: una armena, l’altra azera, entrambe originarie del Nagorno Karabakh, o Repubblica di Artsakh spinti dalla necessità di capire meglio una storia poco raccontata dai media mainstream e lontana dall’attenzione generale dell’opinione pubblica occidentale.

Per aggiungere un altro tassello al mosaico e magari capire altro, abbiamo pensato di guardare il conflitto, oltre il conflitto, chiedendo a delle musiciste di parlarci della loro formazione culturale, per capire meglio come siano nate le loro passioni e quanto siano state influenzate dal dramma del conflitto.

La realizzazione di quest’articolo ha richiesto uno sforzo enorme tanto alle nostre interlocutrici, quanto a noi: lo sforzo di chi, nel mezzo del conflitto, con familiari e conoscenti al fronte, ha comunque trovato la forza di condividere con noi i suoi pensieri mentre altri, semplicemente non se la sono sentita.

Lara Sarkissian è un’artista di origine armena, residente negli USA. La sua pratica artistica spazia dalla sperimentazione dei suoni alla produzione cinematografica.

  1. Come e in quali circostanze ti sei appassionata di musica?

Ho iniziato a produrre musica e a lavorare come DJ nel 2015. Prima mi occupavo di produrre cortometraggi sperimentali. Nel 2013, durante un corso di Design del suono nel cinema all’Università di Copenaghen, ho iniziato ad avvicinarmi alla produzione musicale. Nel 2015, insieme a 8ULENTINA ho dato vita a una casa discografica, la CLUB CHAI, che si occupa di promuovere eventi dance. La collaborazione è alla base della mia esperienza artistica: permette di svilupparsi e scoprire nuove prospettive. Anche se a volte ciò avviene inconsciamente, nessun prodotto artistico è frutto del lavoro di un solo individuo. È molto importante per me, in quanto “figlia” della diaspora armena, creare delle connessioni sia con artisti che vivono nella mia comunità (San Francisco e Oakland), sia con producers e djs armeni. Solo in questo modo, tenendomi in contatto con luoghi e persone diverse ma che fanno ugualmente parte della mia storia, riesco a sentirmi realmente “intera”. È proprio per questo che il mio progetto, Club Chai, cerca di ottenere sound comunitari, frutto di un lavoro collettivo.

  2. Cosa ci racconti della scena elettronica a Yerevan? Come si è sviluppata?

A ottobre del 2019 ho fatto il mio primo DJ set a Yerevan, in uno dei club più recenti, il Poligraf. Nello stesso anno ho lavorato anche per una radio locale online, radio Bohemnots. A Yerevan si sta sviluppando, ormai da un po’ di anni, una scena elettronica underground. Stanno aprendo molti nuovi spazi e realtà che si occupano di sound e performance elettroniche – ma non solo – e danno visibilità agli artisti locali. I più famosi sono il Poligraf, la Mirzoyan Library e il Basement.

3. Puoi parlarci dei tuoi suoni e delle influenze (sia musicali che culturali) che hai avuto?

La mia musica elettronica si basa sull’uso di strumenti armeni, uniti al genere elettronico sperimentale, all’ambient e a quello techno. Ho prodotto anche alcune incisioni per film e installazioni sperimentali, una fusione tra le arti visive e la musica. Ho sempre voluto prendere i suoni armeni, sintetizzarli e spingerli nel nuovo mondo della musica sperimentale. Creare nuovi linguaggi con quei suoni “antichi”, per raccontare la mia storia di Armena della diaspora che è cresciuta negli Stati Uniti. È molto importante per me capire come posso connettermi con altre culture attraverso il mio legame musicale con l’Armenia: questo mi permette di creare conversazioni nuove e del tutto inaspettate. Inoltre, la cultura armena è molto variegata: varia in base al paese in cui i figli della diaspora sono nati e cresciuti. Conoscere e collaborare con questi artisti armeni da tutto il mondo, che, come me, sperimentano e “rischiano” in modo non tradizionale, è indispensabile per la mia produzione artistica e per la mia crescita personale.

4. In che modo è stata influenzata la produzione artistica / musicale in tempi di guerra come quello in cui vivi?

Quando ho parlato con artisti attivi nella scena Armena e dell’Artsakh (musicisti, DJ, registi…) – tutti mi hanno raccontato di essere stati fortemente segnati dal fatto che loro coetanei e amici sono stati costretti a combattere per difendere la loro madrepatria, e molti hanno perso la vita in questa guerra. Nessuno di loro aveva scelto di fare il soldato: erano giovani come me, persone che avresti potuto incontrare in un club. Tuttavia, non hanno potuto fare altro se non difendere la propria terra da atrocità come la pulizia etnica, il colonialismo e il genocidio perpetrate dagli Azeri e dai Turchi. Abbiamo perso tantissimi DJ, artisti e musicisti della comunità di Erevan.

5. Come stai affrontando personalmente, e quindi anche artisticamente, il conflitto?

Quando penso alle difficoltà che l’Armenia ha storicamente incontrato, mi ricordo anche di quanto la musica sia stata uno strumento indispensabile per il mio popolo, per affrontare le persecuzioni e le migrazioni forzate. La musica è resilienza. Anche nei momenti più difficili, è un modo di narrare storie, riunire persone e formare una comunità. Dall’altro canto è capace di portare gioia ed aiuta a sopravvivere. La musica e l’arte possono essere viste come una “via di fuga”, e non solo: possono portare auto coscienza, e ci danno un modo di dare forma alla nostra auto narrazione. Quindi, artisticamente parlando, il conflitto mi ha dato più forza per andare avanti nella mia produzione musicale e culturale. È stato molto difficile, ma ora ho le idee più chiare che mai.

 6. Cosa ne pensi dell’esito del conflitto? 

Non so cosa succederà nel lungo periodo. Potrebbe ripetersi tutto da capo, perché il vero fine di questa guerra non è l’Artsakh. La cosa più importante adesso è aiutare i 120 000 e più armeni dell’Artsakh, che si sono trovati senza casa, e ricostruire il frammento di Artsakh, distrutto dalla guerra, che è rimasto agli Armeni. ArmeniaFund.org e ParosFoundation.org sono due iniziative umanitarie che stanno facendo proprio questo.

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Armenia: nuove proteste contro premier Pashinyan, bloccata strada che collega ad aeroporto di Erevan (Agenzianova 13.12.20)

Erevan, 13 dic 16:47 – (Agenzia Nova) – Gli oppositori del primo ministro armeno Nikol Pashinyan, scesi nuovamente in strada oggi per chiederne le dimissioni, hanno bloccato l’incrocio della strada che porta all’aeroporto internazionale Zvartnots di Erevan. È quanto riferisce la stampa armena, secondo cui i manifestanti hanno chiesto alla polizia di concedere loro cinque minuti per tenere la manifestazione, dopodiché hanno lasciato l’autostrada e il traffico è ripreso. Le proteste sono in corso in Armenia dallo scorso 10 novembre, quando Pashinyan ha firmato un accordo trilaterale con l’Azerbaigian e la Russia per porre fine alle sei settimane di ostilità nell’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh. Pashinyan ha accettato un cessate il fuoco concedendo tutte le regioni cuscinetto azerbaigiane che circondano il Nagorno-Karabakh e vaste aree del territorio. Molti armeni considerano le concessioni una sconfitta e un tradimento e decine di partiti di opposizione si sono uniti dietro le richieste di dimissioni di Pashinyan. (Rum)