Cosa c’è dietro la cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan (Formiche.net 14.01.21)

Geopolitica e “risposta” comune agli accordi Abraham: si sta snodando una nuova strategia alla base della rinnovata amicizia fra i tre player che, ognuno a modo suo, dimostrano mire precise nella macro regione di appartenenza

Cosa c’è davvero dietro la cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan che si sono accordate ufficialmente per combattere l’islamofobia, la discriminazione e la persecuzione delle minoranze musulmane? La preoccupazione diffusa dai tre Paesi per le gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità commessi contro le comunità musulmane in varie parti del mondo cela il progetto di fare muro contro le conseguenze degli accordi di Abraham, che toccano anche il Marocco in chiave geopolitica e il Mediterraneo in chiave energetica

DIALOGO

I ministri degli Esteri dei tre Paesi hanno annunciato la creazione di una piattaforma comune per rafforzare il dialogo trilaterale. Da Islamabad, in sostanza, prende avvio una fase di collaborazione articolata per combattere le persecuzione delle minoranze musulmane, in particolare nei forum regionali e internazionali. Accanto a ciò è stato discusso il tema legato alle conseguenze economiche dovute alla pandemia: a questo proposito hanno concordato uno scambio costante di informazioni, al fine di lavorare ad una maggiore solidarietà internazionale.

OLTRE L’ACCORDO?

Oltre quell’accordo c’è dell’altro. In primis l’idea di costruire una soluzione sostenibile e reciprocamente accettabile della questione di Cipro, direttamente connessa alla partita per il gas aperta nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale sulla base del diritto internazionale. Un annuncio che però si discosta dalla nota avversione di Erdogan alla Convenzione di Montego Bay e al Trattato di Lisbona, che ha delimitato dopo il primo conflitto mondiale le acque internazionali tra Turchia e Grecia.

Ma non è tutto, perché Turchia, Azerbaigian e Pakistan mirano ufficialmente a porre fine al conflitto tra Armenia e Azerbaigian, investendo su una generica normalizzazione. Come? Partendo, dicono in una nota ufficiale, dalla sovranità e dall’integrità territoriale dei confini internazionalmente riconosciuti all’Azerbaigian in conformità con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Parole che però non tengono conto di “come” Ankara abbia spinto sul Nagorno Karabakh anche con l’utilizzo dei suoi droni, gli stessi che hanno fatto la differenza in Libia.

STRATEGIE

Su questo si segnala la strategia messa a punto dal presidente russo, Vladimir Putin, e da Erdogan al fine di elaborare una sorta di Centro bilaterale per il monitoraggio dell’attuazione del cessate il fuoco. Come ha riferito il Cremlino l’obiettivo è “garantire il rispetto del cessate del fuoco e tutte le attività militari nell’area del conflitto”. Un passo formale che segue l’intesa trilaterale raggiunta da Russia, Armenia e Azerbaigian il 9 novembre scorso. Secondo il presidente azero Ilham Aliyev il centro turco-russo sarà ad Aghdam, un distretto del Nagorno-Karabakh che è stato consegnato all’esercito azero il 20 novembre scorso come condizione della tregua.

La tesi pubblicamente sostenuta da Erdogan è che la Turchia lavora per creare quell’humus utile ad azeri e armeni per vivere insieme nel Nagorno-Karabakh. Lo scorso novembre, va ricordato, il parlamento turco aveva approvato la mozione per lo spiegamento di truppe in Nagorno-Karabakh per un anno.

ABRAHAM

La rinnovata partnership tra Turchia, Azerbaigian e Pakistan va però letta in filigrana, senza evitare di analizzare le ripercussioni degli accordi di Abraham. Erdogan si è persino spinto a dire la Turchia è favorevole al miglioramento delle relazioni diplomatiche con Israele, “ma la sua politica palestinese è inaccettabile per Ankara”, entrando in quel solco di critiche agli accordi di Abraham già tracciato da Hamas. Appare evidente che la mossa israeliana di aver ripristinato con successo le relazioni diplomatiche tra il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti (come parte dell’accordo Abraham mediato dagli Stati Uniti) sia uno dei principali elementi che sta determinando reazioni a catena nell’intero quadrante mediorientale.

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Nagorno-Karabah, riaprono i passaggi con Turchia, Russia, Iran (Asianews.it 14.01.21)

Grazie alla mediazione di Putin, si riaprono prospettive per la rinascita economica della regione. Soldati russi per lo sminamento dei territori e la ricostruzione dei passaggi interrotti. Pašinyan non ha ottenuto il ritorno dei prigionieri. Cresce l’opposizione interna.

Mosca (AsiaNews) – I corridoi che permettono i trasporti fra il Nagorno Karabakh e i Paesi attorno (Armenia, Azerbaijan, Turchia, Russia, Iran, …) verranno presto riaperti. Lo ha assicurato il presidente russo Vladimir Putin dopo 4 ore di discussione con l’armeno Nikol Pašinyan (foto 2) e l’azero Ilham Aliev (foto 3).

Le trattative, tenutesi lo scorso 11 gennaio, non hanno sciolto tutti i nodi del conflitto, ma hanno presentato alcune prospettive per la rinascita economica della regione.  Martoriata dagli scontri armati negli ultimi mesi, la sua pace è per ora garantita da “pacificatori” russi e turchi.

Putin ha garantito che i corridoi dei trasporti verranno riaperti grazie al lavoro dei soldati russi che smineranno i territori e ricostruiranno i passaggi interrotti.

I due leader in conflitto hanno ascoltato il presidente russo con espressioni non molto concilianti: Aliev era molto freddo e Pašinyan estremamente nervoso (fino all’ultimo il suo arrivo era stato messo in dubbio); si sentiva poi la mancanza del “convitato di pietra” turco, il presidente Recep Tayyip Erdogan, che negli ultimi interventi ha insistito sulla necessità che la Turchia partecipi a tutti i processi post-bellici nella regione. Putin sembra voler imporre il formato tripartito esclusivo delle trattative, mentre Aliev ha parlato continuamente degli “interessi dei nostri Paesi vicini”. Con la riapertura dei trasporti, l’Azerbaigian ottiene infatti il ristabilimento del contatto diretto (soprattutto ferroviario) con la regione del Nakhichevan (zona azera in territorio armeno) e con la Turchia stessa.

A sua volta, il premier Pašinyan ha insistito sulla contrarietà armena allo status del Nagorno Karabakh e sulla questione dello scambio di prigionieri. Tuttavia egli si è dichiarato sostanzialmente d’accordo sugli accordi economici proposti da Putin, che riaprono anche i collegamenti tra Russia e Iran, e “possono condurre a garanzie più efficaci di sicurezza”.

Contro le trattative è intervenuto ieri il capo dell’opposizione a Pašinyan, il leader del “Movimento per la salvezza della patria” Vazken Manukyan. Con espressioni molto dure, egli ha detto che l’incontro di Mosca segna una nuova umiliazione per l’Armenia, che non ha ottenuto la restituzione dei prigionieri e ha assecondato tutte le richieste di Aliev. Manukyan è tornato a chiedere le dimissioni di Pašinyan, “che non è in grado di difendere gli interessi del nostro Paese”.

Anche in Georgia le reazioni all’accordo sono state piuttosto negative, in quanto le proposte del trio Putin-Aliev-Pašinyan riducono il ruolo di Tbilisi a semplice zona di transito delle comunicazioni tra nord e sud del Caucaso, senza poter intervenire nei meccanismi economici. I convogli per Baku e Ankara ora passeranno dal Nakhichevan, escludendo appunto la Georgia, che peraltro mantiene un ruolo strategico nel trasporto di gas e petrolio. In Georgia la politica è comunque bloccata dalla discussione sull’ennesimo ritiro dalla politica del miliardario Bidzina Ivanišvili (foto 4), fondatore e leader del partito al potere, il “Sogno Georgiano”.

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Henrikh Mkhitaryan “La mia Armenia ferita nel silenzio del mondo” (Repubblica 13.01.2021)

La Repubblica (M. Pinci) – Sorrisi leggeri e pensieri profondi. Henrik Mkhitaryan ha scelto di raccontarsi senza filtri, affrontando anche la questione del conflitto tra l’Azerbaigian e la sua Armenia.

Mkhitaryan, qual è il suo primo ricordo legato al calcio? 

È legato a mio padre Hamlet. Era attaccante, andò a giocare in Francia e lì ho iniziato a seguire le partite. È morto quando avevo 7 anni: quando si ammalò siamo tornati a Erevan e lì sono andato a scuola calcio.

Ha iniziato a giocare per lui?

Si, lui è stato il motore della mia scelta, il mio idolo e la motivazione per cui ho iniziato a giocare.

Lei per motivi politici non ha potuto giocare la finale di Europa League 2019 a Baku: da armeno non sarebbe stato al sicuro. 

La Uefa dovrebbe garantire la sicurezza di tutti i giocatori. Una finale europea è l’occasione di una volta, a volte l’unica che ti capita. E saltarla per motivi di sicurezza è davvero doloroso, come dolorosa è la guerra tra Armenia e Azerbaigian. È un diritto di ogni calciatore giocare al sicuro in ogni paese, soprattutto se ospita una finale europea.

Il conflitto del Nagorno Karabkh è scoppiato un anno prima della sua nascita: che peso ha avuto nella sua formazione? 

Non sono molte le persone che mi capiscono perché poche si sono trovate in situazioni simili. Da piccolo non capivo molto, ma poi ho studiato, anche a scuola, e ho visto cose dolorose. È incredibile che nel XXI secolo capitino cose del genere, una guerra che dura trent’anni. Fa male pensare ci siano prigionieri detenuti in Azerbaigian, sottratti alle loro famiglie da anni e anni.

Si sarebbe aspettato maggiore sostegno dal mondo del calcio?

Quando è esploso il conflitto mi hanno chiesto di convincere i calciatori a esporsi con un messaggio di sostegno all’Armenia. Ma io sono contrario a chiedere a persone che non conoscono la storia del Paese di prendere posizione. L’ho fatto io, ma solo con appelli alla pace, nient’altro.

Cosa l’ha convinta?

Era importante che il mondo si svegliasse, che qualcuno facesse sentire la propria voce. Molti hanno preferito non essere coinvolti. Ringrazio il governo italiano per il sostengo, anche Matteo Salvini, anche se la mia non è una preferenza politica. E grazie a chi ha riconosciuto l’indipendenza dell’Artskajh (repubblica proclamata dagli armeni in Nagorno Karabakh).

Da qualche giorno la Roma ha sensibilizzato i Roma Club a mettere a disposizione la loro rete per aiutare il popolo armeno…

Si, è fantastico ed è stata una iniziativa fantastica. Hanno colto la sofferenza della gente e si sono impegnati per dare un contributo. Non finirò mai di ringraziarli.

Derby da romanista: Pellegrini, un tifoso sulla trequarti

In quel contento è riuscito a unire il calcio e lo studio…

È stato difficile: gli allenamenti a volte erano la mattina, dovevo scegliere tra quelli e andare a scuola. I miei genitori volevano studiassi molto: quanti pensano di poter fare i calciatori? Ma basta un infortunio e se non hai studiato non sai fare nulla.

Da bambino era tifoso? 

Avevo le maglie di molte squadre ma non sono mai stato tifoso. Solo verso i 10, 12 anni ho iniziato a tifare Arsenal: Wenger aveva una squadra che prendeva i ragazzi, io sognavo di giocare lì. E alla fine l’ho fatto.

Cosa ha pensato quando le hanno detto “vai alla Roma”? 

Era un possibilità per dimostrare di poter ancora giocare bene. La Roma ha creduto in me, si vede da come gioco che qui sono felice, no?

Quindi rinnoverà il contratto? 

Non c’è stato tempo di parlarne, in pochi giorni abbiamo avuto l’Inter e ora la Lazio. Presto ne parleremo.

Da quando sono arrivati i Friedkin è cambiato qualcosa? 

Sono sempre vicino alla squadra, ma il fatto che Pallotta non ci fosse mai non deve essere un alibi. Dobbiamo essere pronti ai cambiamenti, che sia il modulo o il cambio di società.

A proposito: dal cambio di modulo la squadra è più continua. 

Ha dato più fiducia ai giocatori, se vedi anche in campo come giochiamo, proviamo cose insieme. E si, l’allenatore capisce meglio di tutti se cambiare formazione o no.

Venerdì giocherà il suo primo derby: ha studiato quelli passati? 

Non mi piace guardare partite vecchie, ho sentito parlarne i compagni, ma non servono parole per spiegarlo a un calciatore. Siamo pronti per una battaglia.

Sa che quando è arrivato i tifosi hanno registrato una canzone per lei sulle note di “Felicità” di Al Bano? 

Si (ride), qui la sento ogni giorno.

La Serie A come se la immaginava?

Penso sia sottovalutata. In Inghilterra dicevano che il livello era calato molto, ma un campionato non si giudica solo per il numero degli spettatori: da subito ho notato una qualità in campo molto elevata.

NAGORNO-KARABAKH: Quali novità per il 2021? ( East Journal 13.01.21)

La situazione in Nagorno-Karabakh è rimasta relativamente tranquilla con l’inizio del 2021. Lo scorso 27 dicembre, si è registrata una seconda violazione del cessate il fuoco definito dall’accordo del 9 novembre, mentre la popolazione di Stepanakert, evacuata durante i 44 giorni di guerra, sta progressivamente tornando nelle proprie case.

Rimangono però molti i punti problematici rimasti irrisolti, su tutti: lo scambio di prigionieri di guerra, la demarcazione del nuovo confine tra Armenia e Azerbaigian,  e lo status futuro del Nagorno-Karabakh. Queste e altre questioni sono state discusse l’11 gennaio a Mosca nel primo incontro dalla fine del conflitto tra il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan e il presidente azero, Ilham Aliyev, mediato dal capo di stato russo, Vladimir Putin.

Sparatorie, prigionieri e confini

Il 27 dicembre, il ministero degli Esteri dell’Azerbaigian ha riportato di una sparatoria avvenuta nei pressi del villaggio di Aghdam, nella regione di Khojavend, uno dei territori passati sotto il controllo azero per effetto del conflitto dello scorso autunno. Secondo la ricostruzione di Baku, i sei membri di un gruppo armato armeno rimasto nell’area avrebbero attaccato alcune unità dell’esercito azero, uccidendo un soldato. La notizia è, però, stata categoricamente smentita dalle autorità dell’Armenia.

Sempre nella regione di Khojavend, sono stati catturati 62 soldati armeni finiti al centro di un’altra controversia, rimasta irrisolta, tra le parti. Erevan ne ha, infatti, chiesto il rilascio in base all’ottavo punto dell’accordo di pace del 9 novembre [“Deve essere effettuato lo scambio di prigionieri di guerra, ostaggi e altri detenuti”]. Secondo Baku, invece, questi detenuti, essendo stati arrestati dopo la firma del cessate il fuoco, non sono prigionieri di guerra e dovranno, quindi, rispondere alla giustizia azera.

La demarcazione della nuova frontiera tra Armenia e Azerbaigian è un’altro dei punti spinosi tra le parti. Il confine internazionale che si può osservare su tutte le mappe della regione esiste, infatti, solo sulla carta. Grazie alla vittoria nella guerra degli anni Novanta, Erevan ha controllato per trent’anni il territorio da entrambi i lati della frontiera. Le infrastrutture – come per esempio una delle strade che collegano la capitale armena al sud del paese – sono state costruite guardando alla realtà sul territorio e senza curarsi delle cartine geografiche. Con il nuovo conflitto e l’avanzata territoriale azera, però, la questione è diventata spinosa. Baku  sostiene che la nuova frontiera debba essere marcata in base a come era definita dalle autorità sovietiche nel 1988 (ovvero prima dell’inizio della guerra). Erevan, invece, sottolinea l’importanza di riconoscere le realtà che si sono create con il tempo nell’area, oltre alle strade, anche pascoli e campi necessari al sostentamento degli abitanti della regione. Il problema potrà forse essere risolto con la mediazione russa, ma qualunque soluzione è destinata a creare scontento da una parte o dall’altra.

Le tante questioni aperte sono state, presumibilmente, discusse a Mosca l’11 gennaio durante le quattro ore dell’incontro a porte chiuse tra Aliyev, Pashinyan e Putin.

Ai termini del vertice trilaterale, i tre capi di governo hanno rilasciato alla stampa dichiarazioni dai toni molto diversi. Il presidente azero, forte del recente successo militare e del conseguente supporto popolare in patria, si è dichiarato soddisfatto per la fine del conflitto e per la piena attuazione delle clausole dell’accordo del 9 novembre. Il premier armeno, invece, alle prese con una difficile situazione politica interna che potrebbe portare alla caduta del suo governo, ha usato un tono molto più cupo. Pashinyan ha, infatti, sottolineato che il conflitto non è risolto vista l’assenza dello definizione di uno status per il Nagorno-Karabakh e si è detto insoddisfatto per la mancata risoluzione della questione dei prigionieri di guerra, una delle priorità per Erevan.

Putin, invece, ha espresso grande soddisfazione per la firma, avvenuta ai margini dell’incontro, di un accordo in quattro punti per la riapertura dei corridoi economici e infrastrutturali nella  regione. In particolare, il documento definisce l’istituzione di un gruppo di lavoro per la costruzione di infrastrutture ferroviarie e stradali tra Armenia, Azerbaigian e Russia, il cui primo incontro avverrà il 30 gennaio. Come sottolineato dall’analista Thomas de Waal, il vertice dell’11 gennaio è stata una delle poche occasioni in cui il presidente russo è stato presente al Cremlino dall’inizio della pandemia, a dimostrazione che la questione occupa un posto importante nella sua agenda.

I problemi da risolvere nel 2021 sono numerosi e complessi. I progressi fatti potrebbero essere messi in discussione da tanti fattori, su tutti il prevalere di forze politiche in Armenia contrarie ai negoziati con l’Azerbaigian. Il costo umano del conflitto dello scorso autunno dimostra che un’altra guerra va evitata a tutti i costi.

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Mkhitaryan: “I Friedkin sono sempre vicino alla squadra. Pallotta non c’era, ma non deve essere un alibi. Siamo pronti alla battaglia nel derby” (Pagineromanista 13.01.21)

La Repubblica (M. Pinci) – Sorrisi leggeri e pensieri profondi. Henrik Mkhitaryan ha scelto di raccontarsi senza filtri, affrontando anche la questione del conflitto tra l’Azerbaigian e la sua Armenia.

Mkhitaryan, qual è il suo primo ricordo legato al calcio? 

È legato a mio padre Hamlet. Era attaccante, andò a giocare in Francia e lì ho iniziato a seguire le partite. È morto quando avevo 7 anni: quando si ammalò siamo tornati a Erevan e lì sono andato a scuola calcio.

Ha iniziato a giocare per lui?

Si, lui è stato il motore della mia scelta, il mio idolo e la motivazione per cui ho iniziato a giocare.

Lei per motivi politici non ha potuto giocare la finale di Europa League 2019 a Baku: da armeno non sarebbe stato al sicuro. 

La Uefa dovrebbe garantire la sicurezza di tutti i giocatori. Una finale europea è l’occasione di una volta, a volte l’unica che ti capita. E saltarla per motivi di sicurezza è davvero doloroso, come dolorosa è la guerra tra Armenia e Azerbaigian. È un diritto di ogni calciatore giocare al sicuro in ogni paese, soprattutto se ospita una finale europea.

Il conflitto del Nagorno Karabkh è scoppiato un anno prima della sua nascita: che peso ha avuto nella sua formazione? 

Non sono molte le persone che mi capiscono perché poche si sono trovate in situazioni simili. Da piccolo non capivo molto, ma poi ho studiato, anche a scuola, e ho visto cose dolorose. È incredibile che nel XXI secolo capitino cose del genere, una guerra che dura trent’anni. Fa male pensare ci siano prigionieri detenuti in Azerbaigian, sottratti alle loro famiglie da anni e anni.

Si sarebbe aspettato maggiore sostegno dal mondo del calcio?

Quando è esploso il conflitto mi hanno chiesto di convincere i calciatori a esporsi con un messaggio di sostegno all’Armenia. Ma io sono contrario a chiedere a persone che non conoscono la storia del Paese di prendere posizione. L’ho fatto io, ma solo con appelli alla pace, nient’altro.

Cosa l’ha convinta?

Era importante che il mondo si svegliasse, che qualcuno facesse sentire la propria voce. Molti hanno preferito non essere coinvolti. Ringrazio il governo italiano per il sostengo, anche Matteo Salvini, anche se la mia non è una preferenza politica. E grazie a chi ha riconosciuto l’indipendenza dell’Artskajh (repubblica proclamata dagli armeni in Nagorno Karabakh).

Da qualche giorno la Roma ha sensibilizzato i Roma Club a mettere a disposizione la loro rete per aiutare il popolo armeno…

Si, è fantastico ed è stata una iniziativa fantastica. Hanno colto la sofferenza della gente e si sono impegnati per dare un contributo. Non finirò mai di ringraziarli.

Derby da romanista: Pellegrini, un tifoso sulla trequarti

In quel contento è riuscito a unire il calcio e lo studio…

È stato difficile: gli allenamenti a volte erano la mattina, dovevo scegliere tra quelli e andare a scuola. I miei genitori volevano studiassi molto: quanti pensano di poter fare i calciatori? Ma basta un infortunio e se non hai studiato non sai fare nulla.

Da bambino era tifoso? 

Avevo le maglie di molte squadre ma non sono mai stato tifoso. Solo verso i 10, 12 anni ho iniziato a tifare Arsenal: Wenger aveva una squadra che prendeva i ragazzi, io sognavo di giocare lì. E alla fine l’ho fatto.

Cosa ha pensato quando le hanno detto “vai alla Roma”? 

Era un possibilità per dimostrare di poter ancora giocare bene. La Roma ha creduto in me, si vede da come gioco che qui sono felice, no?

Quindi rinnoverà il contratto? 

Non c’è stato tempo di parlarne, in pochi giorni abbiamo avuto l’Inter e ora la Lazio. Presto ne parleremo.

Da quando sono arrivati i Friedkin è cambiato qualcosa? 

Sono sempre vicino alla squadra, ma il fatto che Pallotta non ci fosse mai non deve essere un alibi. Dobbiamo essere pronti ai cambiamenti, che sia il modulo o il cambio di società.

A proposito: dal cambio di modulo la squadra è più continua. 

Ha dato più fiducia ai giocatori, se vedi anche in campo come giochiamo, proviamo cose insieme. E si, l’allenatore capisce meglio di tutti se cambiare formazione o no.

Venerdì giocherà il suo primo derby: ha studiato quelli passati? 

Non mi piace guardare partite vecchie, ho sentito parlarne i compagni, ma non servono parole per spiegarlo a un calciatore. Siamo pronti per una battaglia.

Sa che quando è arrivato i tifosi hanno registrato una canzone per lei sulle note di “Felicità” di Al Bano? 

Si (ride), qui la sento ogni giorno.

La Serie A come se la immaginava?

Penso sia sottovalutata. In Inghilterra dicevano che il livello era calato molto, ma un campionato non si giudica solo per il numero degli spettatori: da subito ho notato una qualità in campo molto elevata.

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Armenia: presidente Sarkissian ricoverato in ospedale per una polmonite bilaterale (Agenzia Nova 13.01.21)

Erevan, 13 gen 09:24 – (Agenzia Nova) – Il presidente armeno Armen Sarkissian, risultato positivo al coronavirus, è stato ricoverato in ospedale per una polmonite bilaterale. Lo ha riferito l’ufficio stampa presidenziale. “Sarkissian, che ha contratto il coronavirus ed è stato curato sinora nella sua abitazione, è stato ricoverato in ospedale. Il decorso della malattia è ancora complesso, con sintomi caratteristici inerenti alla malattia, tra cui febbre alta e polmonite bilaterale”, si legge nel comunicato. Nei giorni scorsi l’amministrazione presidenziale dell’Armenia ha annunciato la positività al Covid-19 di Sarkissian al suo rientro da un viaggio a Londra. (Rum)

IL CIELO IMPOSSIBILE DEL KARABAKH. APPUNTI DI VIAGGIO (Gariwo 11.01.21)

DA STEPANAKERT – Traumi, vite cancellate o perdute, nuove ferite che ricalcano o riaprono quelle antiche, in una spirale, quella della guerra in Karabakh, che a trent’anni dallo scoppio della violenza sembra più lontana che mai dal trovare fine. Del Karabakh che ho amato, poco o nulla resta dopo la fine dell’ultima guerra che ha insanguinato questo territorio. Il clima che vi si respira è terribile, e la rapida ricostruzione – grazie anche al supporto russo – degli edifici danneggiati o distrutti a partire dal 27 settembre, rende forse ancor più doloroso e irreale il paesaggio urbano della capitale Stepanakert. Più si nascondono le ferite, viene naturale pensare, più i traumi si faranno profondi e insanabili per tutti.

Arrivo a Stepanakert dopo aver attraversato una decina di checkpoint, a larga maggioranza russa, che prendono il posto della vecchia frontiera fra Armenia e Karabakh. Chiaro chi siano oggi i nuovi padroni, da queste parti. Non una sola bandiera del Karabakh in questo lungo tragitto militarizzato, rare anche quelle armene, mentre il tricolore di Mosca è ovunque, anche in quei centri, come Berdzor, dove i soldati hanno iniziato a risiedere. A Shushi invece, un’enorme bandiera azera di molti metri segna la vittoria di Baku. Una simile serie di appostamenti, in anni trascorsi in Medio Oriente, l’avevo vista solo nell’Iraq all’epoca dell’ISIS.

Ancora più dolorosa la vista di Stepanakert, il cui ingresso alla città è segnato da un enorme poster che ritrae Vladimir Putin. I cellulari funzionano a singhiozzo, frequenti i blackout, difficile trovare cibo decente nei pochi ristoranti aperti, l’acqua che scorre dai rubinetti è gelida. E soprattutto, si spara ancora. Si spara a Martakert, dove visitiamo un ospedale crivellato di colpi e molti condomini distrutti. E si spara persino a capodanno, a Stepanakert, allo scoppio della mezzanotte. Una macabra usanza, come mi spiega un’amica armena, che accompagna questa guerra fin dagli anni Novanta. Colpi di kalashnikov e raffiche di mitra fra Stepanakert e Shushi, munizioni traccianti che col loro rosso solcano il cielo notturno. Auto che corrono impazzite in quella direzione, con l’intento di fornire rinforzi, mentre le strade restano deserte e gelide.

Impossibile raccontare qui tutte le storie che ho incontrato e raccolto in questa terra. Forse la più infame, l’uso sistematico di tortura, da parte azera, nei confronti dei prigionieri di guerra armeni. Non solo: le torture sono filmate, in tantissimi casi, e utilizzate come veicolo di propaganda e arma psicologica. Anche nei confronti di anziani. Il punto, inutile farsi illusioni, è senza dubbio quello di seminare il terrore. Così, ci raccontano gli abitanti del villaggio di Shosh, la notte i cecchini azeri sparano ancora contro uomini e animali, per togliere qualsiasi illusione circa un possibile ritorno alla normalità.

Se l’Armenia oggi è una nazione traumatizzata, in Karabakh la situazione è semplicemente fuori controllo. I russi, che ben si sono guardati dal fornire una qualsiasi assistenza diplomatica e militare all’Armenia durante il conflitto, sono stanziati in tutta evidenza solo per curare i propri interessi e espandere la loro influenza. Le poche strade che rimangono sotto il controllo armeno sono circondate da cecchini e postazioni militari azeri. Le frontiere, neppure tracciate. Il punto non è neppure capire se riprenderà questo conflitto – il punto è quando. E non vi è alcun dubbio su quale sarà l’obiettivo ultimo del regime di Aliyev: il compimento di una pulizia etnica, a danno degli armeni, che ha già stravolto la vita di decine di migliaia di persone.

Incontro donne, uomini, bambini, malati e anziani che, nella quasi totalità dei casi, hanno perso tutto nel giro di poche ore: le loro case, il lavoro, ma anche tutti gli oggetti e ricordi di famiglia, perduti per sempre. Le tante storie che raccolgo da parte di profughi di Shushi, Hadrut e altri centri, si somigliano un po’ tutte. Il marito che parte per il fronte, la moglie che porta via i bambini e lo stretto necessario, con l’approssimarsi dei combattimenti, convinta di poter rientrare in pochi giorni. Un’illusione che si rivelerà tragica.

Mentre in questo strano inverno marcato dal lockdown e da tante limitazioni il gas proveniente dall’Azerbaijan riscalda le nostre case, in Karabakh – lontano dalle nostre coscienze assopite – si consuma un requiem per l’Europa. Una trappola per topi, una riserva per i pochi nativi rimasti (i più disperati), una terra un tempo rigogliosa e accogliente trasformata in un macabro poligono di tiro, in un teatro per una delle più macabre messe in scena del nostro tempo.

Una pace impossibile che si nutre di un’umanità abolita e sacrificabile al miglior offerente, che si trascina mentre tre dittature (Baku, Ankara e Mosca) celebrano il loro macabro trionfo nel Caucaso. Non tutti qui, per fortuna, hanno le fronti stravolte dall’odio. Non tutti hanno abbandonato la speranza che possa arrivare un miracolo (perché di ciò si tratterebbe): una pace che ha i tratti incerti del miraggio.

Eppure, tutti sembrano essersi già dimenticati del Karabakh e degli oltre 6.000 morti di questi 44 giorni di combattimenti, che si aggiungono ai 20.000 caduti degli anni Novanta. Si è passati da una vita di catacombe, durante la guerra, dove precluso era anche solo vedere il sole o le stelle per qualche ora, alla prospettiva di un cielo impossibile, forse per sempre. Eppure, proprio ora servirebbe con urgenza un rinnovato impegno e supporto della società civile italiana e europea. Eppure, questa terra rigogliosa e pura potrebbe ancora conoscere una futura convivenza – quello che manca è semplicemente una volontà.

Non so se potrò mai tornare in questa terra che ho amato e sentito mia come poche, mi capita di pensare spesso durante il viaggio. Troppi i segni infausti che si manifestano, troppe le armi, gli eserciti stanziati, i traumi e la ferocia che scavano i cuori degli uomini, da un lato e l’altro della frontiera.

Io il Karabakh, lo ammetto senza esitazioni, l’ho amato come pochi altri posti al mondo. Ma ho amato un cielo impossibile.

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“Tangenti dall’Azerbaijan”: l’ex deputato Volontè condannato a 4 anni per corruzione (Ilfattoquotidiano 11.01.21)

Una mazzetta dall’Azerbaijan per far bocciare un rapporto sul trattamento di Baku per i prigionieri politici. Con questa accusa il tribunale di Milano ha condannato a quattro anni di carcere Luca Giuseppe Volontè, ex deputato dell’Udc e membro dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Il reato contestato a Volontè è la corruzione. Per i giudici avrebbe abusato della propria funzione, ricevendo mezzo milione di euro da due esponenti politici azeri, ai quali è stata inflitta la stessa pena, per orientare il voto e ottenere la bocciatura di un rapporto sui prigionieri politici nella repubblica caucasica, a vantaggio del governo azero. La mazzetta contestata dai pm era di circa 2,4 milioni di euro, ma i giudici hanno assolto i tre per una somma consistente della stecca pari a oltre 1,8 milioni. “Sono certo della mia innocenza. Ora con gli avvocati leggeremo le motivazioni della sentenza. In ogni caso continuo a confidare nella giustizia e, come è emerso in questi due anni di dibattimento, sono convinto che le mie ragioni possano trovare piena soddisfazione in appello”, dice il politico.

Le indagini erano state avviate partendo da una segnalazione di operazione sospetta di una banca italiana riguardanti alcuni bonifici ricevuti da Volontè, rappresentante del Parlamento italiano all’assemblea del Consiglio d’Europa dal settembre 2008 al giugno 2013, provenienti da società britanniche attraverso la Danske Bank in Estonia e la Baltikums Bank a Riga in Lettonia. Dagli accertamenti disposti dalla Procura di Milano, per rogatoria internazionale, scoppiò poi lo scandalo sul presunto riciclaggio di 200 miliardi di euro provenienti dalla Russia e appunto l’Azerbaijan, che sono transitati tra il 2007 e il 2015 dalla filiale estone del principale istituto di credito danese.

Una piccolissima quota, pari a poco meno di 2,4 milioni di euro – stando alla tesi dei pm Scudieri-Ramondini – sarebbe stata promessa e fatta arrivare a Volontè dal componente del Parlamento azero Elkhan Siraj Suleymanov e dal collaboratore Muslum Mammadov, oggi condannati a 4 anni, in cambio “dell’asservimento della sua funzione pubblica a interessi privati e del Governo dell’Azerbaijan”, tra cui un’attività nei confronti degli altri componenti del Pace per “orientare le votazioni” della stessa assemblea parlamentare “in senso contrario all’approvazione del rapporto Straesser, in merito alle condizioni dei prigionieri politici” nel Paese dell’ex Urss. L’iter processuale della vicenda, avviata il 18 giugno 2016 con la richiesta di rinvio a giudizio per Volontè e i due funzionari azeri, ha avuto un percorso tortuoso con due udienze preliminari, altrettanti ricorsi per Cassazione e due dibattimenti separati. L’ex deputato dell’Udc è stato infatti assolto in primo grado dall’accusa di riciclaggio, su cui si è aperto già l’appello.

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Corruzione: soldi per sostenere Azerbaijan al Consiglio d’Europa, 4 anni a ex deputato Volontè
Milano, 11 gen 17:22 – (Agenzia Nova) – È stato condannato a quattro anni di reclusione l’ex deputato dell’Udc, Luca Giuseppe Volontè, insieme a due esponenti politici azeri, per corruzione, perché accusato dalla Procura di Milano, quando sedeva nell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di aver ricevuto, tra il 2012 e il 2014, 2.390.000 euro provenienti da fondi pubblici o privati dell’Azerbaijan attraverso società e conti bancari offshore in cambio del sostegno alle posizioni politiche dell’ex repubblica sovietica. Con questa sentenza si è chiuso il processo di primo grado iniziato a fine 2018 davanti ai giudici della decima sezione penale del Tribunale di Milano. Tuttavia, il collegio Guidi-Valori-Taricco ha ritenuto che fossero “dazioni corruttive” solo tre bonifici dell importo complessivo di 500 mila euro sui 21 contestati dai pm Adriano Scudieri e Elio Ramondini, titolare dell’indagine. Le motivazioni saranno depositate entro 30 giorni.

Le indagini erano state avviate partendo da una segnalazione di operazione sospetta di una banca italiana riguardanti alcuni bonifici ricevuti da Volontè, rappresentante del Parlamento italiano all’assemblea del Consiglio d’Europa (Pace) dal settembre 2008 al giugno 2013, provenienti da società britanniche attraverso la Danske Bank in Estonia e la Baltikums Bank a Riga in Lettonia. Dagli accertamenti disposti dalla Procura di Milano, per rogatoria internazionale, scoppiò poi lo scandalo sul presunto riciclaggio di 200 miliardi di euro provenienti dalla Russia e appunto l’Azerbaijan, che sono transitati tra il 2007 e il 2015 dalla filiale estone del principale istituto di credito danese. Una piccolissima quota, pari a poco meno di 2,4 milioni di euro – stando alla tesi dei pm Scudieri-Ramondini – sarebbero stati promessi e fatti arrivare a Volontè dal componente del Parlamento azero Elkhan Siraj Suleymanov e dal collaboratore Muslum Mammadov, oggi condannati a 4 anni, in cambio “dell’asservimento della sua funzione pubblica a interessi privati e del Governo dell’Azerbaijan”, tra cui un’attività nei confronti degli altri componenti del Pace per “orientare le votazioni” della stessa assemblea parlamentare “in senso contrario all’approvazione del rapporto Straesser, in merito alle condizioni dei prigionieri politici” nel Paese dell’ex Urss. L’iter processuale della vicenda, avviata il 18 giugno 2016 con la richiesta di rinvio a giudizio per Volontè e i due funzionari azeri, ha avuto un percorso tortuoso con due udienze preliminari, altrettanti ricorsi per Cassazione e due dibattimenti separati. L’ex deputato dell’Udc è stato infatti assolto in primo grado dall’accusa di riciclaggio, su cui si è aperto già l’appello. (Rem) ©️ Agenzia Nova – Riproduzione riservata

Perché i leader azero e armeno, Aliev e Pashinjan, si sono incontrati senza stretta di mano (Euronews 11.01.21)

Primo incontro al vertice fra i presidenti armeno e azero dopo la guerra d’autunno nel Caucaso meridionale, nel Nagorno-Karabakh. I volti di Nikol Pashinjan e di Ilham Aliev tradivano imbarazzo, compensato però dalla sicurezza dell’anfitrione, il presidente russo Vladimir Putin, grande mattatore del cessate il fuoco che ora vuole un accordo definitivo tra Azerbaigian e Armenia sulle sorti dell’Alto Karabakh.

Per il presidente Putin, che ha messo in campo tutta la sua capacità di persuasione “l’accordo armistiziale funziona e ha messo fine alla guerra dei 44 giorni”.

Ed è su questa base che il leader del Cremlino ora vuole costruire un accordo di pace definitivo, che riporti la regione alla normalità dopo ben trentacinque anni di conflitti armati.

Se Putin ha svolto il ruolo di onesto sensale, i presidenti armeno e azero hanno invece misurato i gradi delle rispettive divergenze.

Infatti per Aliev la guerra è finita. E le acquisizioni territoriali (per gli azeri “riconquista”) di una consistente porzione di Nagorno-Karabakh sono soddisfacenti. Per lui ora occorre “ripristinare la viabilità, i trasporti, e solidificare la stabilità e la sicurezza regionali”.

Secondo Pashinjan invece “il conflitto non è stato ancora risolto, nonostante il cessate il fuoco. Manca infatti lo status definitivo del Nagorno-Karabakh”.

La proposta del Cremlino è di creare un gruppo di lavoro regionale per la ricostruzione economica della regione. Per gli Armeni si tratta di recuperare per via diplomatica parte del territorio perduto nella enclave armena in territorio azero dell’Alto Karabakh, una repubblica mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

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Nagorno-Karabakh. Al Cremlino trilaterale fra Russia, Armenia e Azerbaijan. Putin: “rientrati già 48mila rifugiati” (di A. Borelli)

Vertice azero-armeno al Cremlino

I DRONI “TB2”: I MUSCOLI DELLA TURCHIA (L’Opinione 11.01.21)

La propaganda governativa del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in questi ultimi tempi, è focalizzata sulla esaltazione del ruolo dei propri droni sui vari scenari di guerra dove la Turchia, direttamente o indirettamente, è coinvolta. Per la politica di Erdogan, la sempre più sofisticata patriottica tecnologia dronica è diventata il simbolo per eccellenza del potere turco in ambito internazionale e la manifestazione della crescente indipendenza sulle decisioni interventiste. Il nuovo drone made in Turchia, il Tb2, è diventato l’arma decisiva sugli scenari di guerra. Infatti, uno dei fattori chiave del successo di Ankara sia in Libia, in appoggio al governo di Tripoli contro le truppe di Khalifa Haftar, che nel Caucaso, dove ha supportato in modo determinate le milizie dell’Azerbaigian contro l’esercito armeno-karabakho, è stato l’affidabile e poco costoso drone Tb2 utilizzato, senza risparmio, dall’esercito turco. Nella propaganda turca, il Tb2 ha assunto l’immagine del nuovo eroe nazionale e anche quella di neo-giannizzero volante, in ricordo delle milizie private del sultano ottomano. Proprio in autunno, sulle tv turche, venivano mandati i filmati del fronte caucasico meridionale dove un drone riprendeva soldati armeni che scaricavano da un camion probabilmente attrezzature belliche; le sequenze video mostrano immediatamente un bagliore sul mezzo armeno e oggetti e persone che vengono lanciati in aria; subito dopo, dissipati i fumi dell’esplosione, restano sul posto decine di morti e il mezzo semi disintegrato. Tale video fu trasmesso senza filtri dai media turchi e replicato spesso, anche di recete, come esempio di efficacia militare e “velatamente” come monito anche alla popolazione turca, ricordando che il micidiale drone può essere utilizzato sugli scenari di guerra, ma anche contro eventuali ribellioni o proteste interne.

Il “percorso turco” verso questa specializzazione militare sui “velivoli lenti” non è stato né semplice né privo di compromessi, ma va detto che ha portato importanti risultati. Infatti, dopo aver tentato negli anni 2000, senza successo, di acquisire droni da Israele e dagli Stati UnitiAnkara ha impegnato forti risorse, sia umane che finanziarie, nell’ambito della progettazione dei droni. La società Bayraktar (denominazione non casuale) nasce da questi sforzi nel 2015 e diventa la produttrice principale di “velivoli lenti” tra cui il drone Tb2. Le caratteristiche tecniche del TB2 sono di interessante qualità: ha capacità visive notevolissime, può essere armato con quattro missili teleguidati e ad alta precisone, può volare in autonomia anche per ventotto ore, ma soprattutto è abbastanza semplice da utilizzare e costa molto meno di un drone israeliano o statunitense. È da tempo chiara la visione geopolitica di Erdogan che vede nella potenza militare del suo paese la “merce di scambio” per le più convenienti relazioni internazionali; a questo si aggiunge un apparente spirito revanscista, dal ricordo imperiale-ottomano, che stuzzica l’orgoglio dei turchi messo in discussione, secondo quanto detto dal presidente turco, dalle potenze imperialiste. Infatti, nei suoi discorsi di ispirazione nostalgico-sultaniale, trasmessi sui principali media nazionali all’inizio di ottobre, ha indugiato sul cambiamento dei rapporti con le nazioni dominati: “Quelli (le Nazioni potenti) abituati a parlarci in tono imperioso stanno ora negoziando con noi da pari a pari…abbiamo totalmente sventato le loro politiche di sottomissione a decisioni prese senza di noi su tutte le questioni regionali e globali.

In effetti i droni Tb2 sono stati anche determinanti nell’indebolimento dei guerrieri curdi del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) dopo il 2015; sono stati fondamentali dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016 dove i droni turchi hanno acquisito notorietà colmando il vuoto creato dalle purghe all’interno dell’aviazione turca; successivamente, all’inizio del 2020, hanno fronteggiato con successo le truppe del regime di Bashar al-Assad decimandone le fila. Va detto che il progettista del Tb2 non è il “primo venuto”, è sì un “cervello turco”, ma che si è perfezionato negli Stati Uniti, infatti l’ormai definito il Wernher Von Braun turco, Selçuk Bayraktar, dopo essersi laureato in Turchia, ha preso una borsa di studio per un Master sui velivoli senza pilota, tra il 2002 e il 2004, presso l’Università della Pennsylvania, ottenendo un secondo master, presso il Massachusetts institute of technology, sul controllo aggressivo delle manovre di veicoli aerei senza pilota. Selçuk Bayraktar, che ha sposato la seconda figlia di Erdogan, è ormai diventato un personaggio quasi beatificato in Turchia, come fosse l’autore dei massimi successi militari di Ankara, valutando anche che la parentela con “il capo” non guasta. Ricordo che il clamoroso successo dei Tb2 ha dato una forte spinta all’esportazione di armi turche; così nel 2019 la Turchia ha venduto attrezzature militari per 3 miliardi di dollari e se raffrontati con 10 miliardi della Francia e i 56 miliardi di dollari degli Stati Uniti, fa capire quale ascesa e sviluppi ha commercialmente questa produzione. Infine, i droni turchi sono entrati anche nel mercato del Pakistan, delle Filippine ma soprattutto dell’Ucraina e del Qatar; la strategia di Erdogan punta ad ottenere la totale indipendenza del fabbisogno delle armi nazionale proprio entro il 2023, a cento anni esatti dal Trattato di Losanna che ratificò la nascita della Repubblica di Turchia.

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