Da Lecco l’iniziativa di sensibilizzazione e aiuto concreto al popolo armeno „Solidarietà, parte da Lecco la raccolta fondi per aiutare il popolo armeno“ (Leccotoday 21.12.20)

Da Lecco l’iniziativa di sensibilizzazione e aiuto concreto al popolo armeno

Solidarietà al popolo armeno. A lanciare l’iniziativa di sensibilizzazione e di aiuto concreto è l’associazione “Amici Lecco-Vanadzor Italia Armenia” con sede in Via Calloni a Lecco, alla Cooperativa Libero Pensiero di Rancio. Scopo è portare all’attenzione la drammatica condizione nella quale il popolo armeno si dibatte dopo l’aggressione subita dall’esercito azero, che ha causato morti e feriti e oltre 110mila profughi.

«Abbiamo ricevuto il patrocinio e la condivisione sia del presidente della Provincia di Lecco sia del sindaco della città di Lecco, oltre a un significativo accordo con la Fondazione Comunitaria del Lecchese – spiegano dal sodalizio – Gli aiuti economici verranno infatti canalizzati alla Fondazione e successivamente tramite la nostra associazione agli amici armeni di Vanadzor. Nel contempo abbiamo coinvolto e informato l’intero mondo del lavoro e sociale: le organizzazioni Sindacali, tutte le associazioni imprenditoriali, gli Ordini e i Collegi Professionali, l’Ufficio scolastico provinciale e il Decanato lecchese».

«Abbiamo scelto di dedicare a questo progetto l’intero anno 2021, durante il quale saremo a disposizione per meglio argomentare questa nostra scelta solidale e di amicizia, che nacque nel 1988, anno del disastroso terremoto – proseguono dall’associazione – Sia nelle scuole che in ogni realtà dove verremo chiamati non mancheremo di aggiornare e dare il necessario rilevo all’andamento della raccolta fondi che trasmetteremo ai nostri amici di Vanadzor per la ricostruzione della loro scuola e anche per accogliere i ragazzi profughi con le loro famiglie dal Nagorno Karabakh. Pur considerando le criticità attuali causate dalla pandemia, dalla crisi sanitaria ed economica, siamo consapevoli che i cittadini e le famiglie lecchesi coglieranno la portata e l’elevato profilo della nostra iniziativa solidale nei confronti di un popolo meritevole ed esemplare per la sua dignità».

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L’Armenia sprofonda nella crisi dopo il trattato per la fine della guerra nel Karabakh (Globalvoices 21.12.20)

Armenia e Azerbaigian hanno concordato di cessare le ostilità, ponendo fine alla guerra nel Nagorno-Karabakh.

“Ho preso una decisione molto difficile per noi tutti e per me”, ha ammesso il primo ministro armeno Nikol Pashinyan in una diretta streaming  Facebook [en, come in tutti link successivi, salvo diversa indicazione] nelle prime ore del 10 novembre. “Ho preso questa decisione come risultato di una profonda analisi della situazione militare e le valutazioni di persone che ne sanno di più”.

Questa guerra è andata male per l’ Armenia. Ha annullato molte se non tutte le conquiste della prima guerra Karabakh, combattuta sul palcoscenico del crollo dell’Unione Sovietica. Dal 1994, quella guerra ha abbandonato il Karabakh a se stesso, così come le tante regioni circostanti l’Azerbaigian, sotto il controllo della popolazione etnica armena in uno stato di fatto conosciuto come Repubblica di Artsakh. Centinaia di migliaia di azerbagiani e curdi sono fuggiti o sono stati espulsi nel territorio controllato dal governo azerbagiano.

La guerra scoppiata il 27 settembre era l’ultimo tentativo di Baku di riconquistare Karabakh, e la guerra più seria dal cessate il fuoco del 1994. Un’offensiva azera ha preso prima le fasce dei territori in basso lungo il confine con l’Iran, prima di andare verso nord in un territorio più nel cuore del Nagorno-Karabakh. A inizio novembre, i soldati azerbagiani erano vicini a tagliare l’unico collegamento stradale di Karabakh con gli alleati armeni per la città di Lachin — una strada che migliaia di civili hanno usato per fuggire da Nagorno-Karabakh quando le città erano sotto l’intenso bombardamento dell’esercito azerbagiano.

Da nessuna parte questa guerra era così evidente che a Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh. Di conseguenza, vi fu un punto di svolta quando le forze azerbagiane erano pronte alla conquista di Shusha, un’imponente città collinare che si affaccia su Stepanakert. Il 9 novembre, il Ministro della Difesa azerbagiano ha rilasciato un video che mostrava i soldati azerbagiani fuori il palazzo del sindaco di  Shusha. Intanto gli azerbagiani, in particolare quelli sfollati dalla città, festeggiavano nelle strade  di Baku.

Questi sviluppi hanno sollecitato il presidente di fatto di Artsakh Arayik Harutyunuyan a supportare Pashinyan in una pubblica dichiarazione il 10 novembre. L’accordo di pace, ha dichiarato, era un male necessario dato dallo stato precario delle forze armate armene nel Karabakh e dalla possibilità che un accordo successivo sarebbe meno favorevole.

L’ accordo mediato dalla Russia essenzialmente equivale ad una resa, chiedendo il ritiro delle forze armate armene dalle regioni circostanti il Nagorno-Karabakh in tre fasi fino al dicembre 2020. In particolare, sono stati distribuiti alla regione 2000 soldati russi, lungo la strada che collega l’Armenia al Nagorno-Karabakh,e in quei tre distretti di Nagorno-Karabakh che rimangono sotto il controllo armeno. Lo status di quei territori controllati dagli armeni non è specificato nel testo dell’accordo, e sarà presumibilmente stabilito in negoziazioni future. Inoltre, l’Azerbaigian garantirà anche l’uso delle strade lungo l’Armenia , offrendo un collegamento terrestre alla sua exclave di Nakhchivan.

Una mappa veloce di quali parti del #Artsakh/#Karabakh gli armeni hanno tenuto (in giallo), quali sono state già militarizzate e tenute dall’Azerbaigian (in verde/blu) e il resto, che è circondato dall’Azerbaigian, i termini includono anche la restituzione dell’enclave di Qazakh occupata dagli armeni e la strada per Nakhchivan

Le forze di pace russe  stanno già per arrivare a Nagorno-Karabakh. La loro presenza formale nel territorio è ora vista come un segno importante del raddoppiamento dell’influenza russa nel Caucaso meridionale – un’influenza di cui gli armeni potrebbero risentire dopo che la Russia, che è formalmente il loro alleato nel CSTO, non ha dato all’esercito l’aiuto sperato. L’aiuto entusiasta della Turchia per gli sforzi bellici azerbagiani ha anche consolidato Ankara come un attore nella regione, con multiple risorse indicando che la presenza delle forze di pace turche sarà regolamentata in un documento separato con l’Azerbaigian.

Ma per molti in Armenia, l’accordo è visto come un’umiliazione assoluta.

Non molto tempo dopo che questo è stato annunciato, migliaia di persone sono fuggite nella Piazza della Repubblica della capitale di Yerevan e hanno assalito il palazzo del governo. La folla è subito entrata nel palazzo del parlamento e, in cerca di Pashinyan, in un attimo è entrata nella residenza del primo ministro. Il portavoce del Parlamento Ararat Mirzoyan, un alleato chiave di Panshinyan, è stato trascinato fuori dalla sua macchina e gravemente picchiato.

Molti colleghi del primo ministro sembrano aver preso le distanze da Pashinyan. Armen Sarkissian, presidente dell’ Armenia, ha dichiarato in un comunicato ufficiale questa mattina che non era a conoscenza dell’accordo fino a quando non l’ha saputo dai media.

Pashinyan ha cercato di mantenere un tono discreto nelle recenti dirette streaming su Facebook — il suo mezzo di comunicazione preferito con i normali cittadini. Tuttavia, la società sembra profondamente divisa. Nei social network in lingua armena, la parola ամոթ (“peccato” in armeno) può essere vista accanto al suo nome. Così anche  #iostoconNikol dei sostenitori.

Un ritornello comune sui social media armeni è quello del tradimento— quando il portavoce ha gridato Հաղթելու ենք (“saremo vittoriosi”), la situazione era così poco rosea di quanto loro fossero preparati ad ammettere.

Così mentre l’opposizione armena si schiera dietro la bandiera nel conflitto in Karabakh, ora sembrano mobilitarsi contro il governo. Il 9 novembre, alcuni dei 17 partiti di opposizione hanno rilasciato una dichiarazione chiedendo le dimissioni di Pashinyan come primo ministro. Tutti questi partiti sono extra-parliamentari con una importante eccezione: Prospera Armenia (PAP), guidata dall’influente oligarga Gagik Tsarukyan. La PAP era una degli unici partiti di opposizione ad entrare in parlamento nelle elezioni del 2018, insieme all’Armenia Luminosa. Sebbena la seconda nno abbia segnato la dichiarazione del 9 novembre, molti dei suo legislatori hanno anche richiesto le dimissioni di Pashinyan.

Molti di questi partiti rappresentano al precedente elite che è stata detronizzata dalla Rivoluzione del velluto armena del 2018, che ha mandato al potere Pashinyan con un mandato di lotta contro la corruzione e le impunità. Ma il vigore di Pashinyan nel raggiungimento di quell’obiettivo ha sorpreso e onorato molti — in particolare con sonde di anticorruzione indirizzate ad oligarchi come Tsarukyan e un’indagine sulla soppressione violenta di proteste nel 2008 che ha condotto alla detenzione dell’ex presidente President Robert Kocharyan. Ma queste mosse hanno anche dato a Pashinyan potenti nemici interni. Inoltre, hanno fomentato la sensazione costante che Mosca sia stata turbata dal prospetto di una vittoria di Pashinyan nel proprio paese — che potrebbe essere meno disposto ad ricevere il suo aiuto sul fronte.

Con questi timori di schemi d’opposizione, gli esperti di politica armena come il sociologo Dr. Artyom Tonoyan adesso si chiedono se comincerà una nuova battaglia per la lega della Rivoluzione di Velluto:

Qualunque cosa possa succedere, una sola cosa certa sono le luci rosse che lampeggiano sull’esperimento armeno con la democrazia. È un rischio e potremmo non sopravvivere a questo. Spero di sbagliarmi. Prego di sbagliarmi.

Sebbene molti in Armenia abbiano avuto un grande disappunto per l’accordo, sembrano ugualmente sprezzanti verso coloro che hanno occupato i palazzi del governo la scorsa notte. Secondo Samson Martirosyan, un giornalista del sito indipendente Hetq, rappresentano una vecchia guardia disgraziata [hy]:

Da quel che ho capito, all’inizio quelli [in Piazza della Repubblica] stavano mostrando espressamente il loro dolore e la loro sofferenza. Ma il vandalismo è stato commesso dai tirapiedi della Prospera Armenia, i repubblicani [il precedente partito in carica], il Dashnaktsutyun, e il Kocharyan. Molte persone erano infatti molto silenziose la scorsa notte, piangendo le vittime.

Molte migliaia di civili e soldati sono state uccise in quella che è diventata nota come la Seconda Guerra Nagorno-Karabakh. Qualunque siano state le loro perplessita, gli armeni che hanno perso amici e famiglia nel conflitto saranno sollevati con la fine dello spargimento di sangue.

Ma l’assenza della guerra non è una pace duratura. Nelle passate tre decadi, il conflitto Nagorno-Karabakh ha reso e distrutto leader  in Armenia e Azerbaigian, qualunque siano state le loro alleanze o i sistemi politici in cui erano confinati. Pashinyan sarà il prossimo?

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INTERVISTA CON MARINE GALSTYAN, CHE NELLA SOAP “UN POSTO AL SOLE” INTERPRETA THEA DIMITRU: “PER ME LA GENTILEZZA È UN SEGNO DI GRANDE APERTURA MENTALE” (Spettacolomusicasport.com 20.12.20)

Marine Galstyan è entrata da poche settimane nel cast di “Un Posto al Sole”, in onda da lunedì a venerdì su Rai 3, ma ha colpito subito il pubblico con la sua interpretazione intensa ed emozionante nel ruolo di Thea Dimitru, una giovane madre di origine rom che deve affrontare i pregiudizi e l’intolleranza dei nuovi vicini di casa e che sarà aiutata da Giulia Poggi.

Attrice e ballerina di talento, Marine Galstyan è nata in Armenia, ha studiato all’Accademia di teatro e cinema di Yerevan e da diciotto anni vive e lavora in Italia, dove ha interpretato famosi ruoli teatrali come Nora in “Casa di bambola” di Ibsen e Dorotea in “Pericolosamente” di Eduardo De Filippo. Ha recitato nel tv movie “Tutto il mondo è paese” e nel film “Il resto con i miei occhi” e insieme al marito Sargis Galstyan ha fondato il gruppo teatrale italo-armeno InControVerso.

In questa piacevole chiacchierata abbiamo parlato con Marine Galstyan di Thea ma anche dello spettacolo “Il grande male” e della sua passione per il ballo.

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Marine, poche settimane fa sei entrata a far parte del cast di Un Posto al Sole nel ruolo di Thea Dimitru. Cosa puoi raccontarci riguardo il tuo personaggio?

“E’ un bellissimo personaggio con diversi strati, io sono abbastanza brava nei ruoli drammatici. E’ una donna devota alla famiglia, ai figli, onesta, sincera, ma come abbiamo visto nelle puntate già andate in onda non è ben accettata dalla società e questo è un problema attuale perché purtroppo esistono ancora il razzismo, la discriminazione. Thea non è ben vista dai suoi vicini in quanto appartiene al popolo rom verso il quale ci sono dei pregiudizi legati al fatto che alcune persone hanno scelto le vie facili o non trovando lavori onesti si sono messe a rubare o fare cose sbagliate. Lei invece avendo sani principi subisce un grosso danno da parte della società italiana”.

Com’è stato l’impatto con il set della soap?

“Sono stata diverse volte sul set ma è come se fosse sempre la prima, per me è una magia, è misterioso entrare in un meccanismo nuovo. “Un Posto al sole” poi è un’istituzione quindi mi sono venuti i brividi entrando nel palazzo della Rai dove nei diversi piani vedi le location che esistono da diversi anni. Ho girato una scena che ancora deve andare in onda e mi sono sentita come Alice nel paese delle meraviglie. Ho trovato colleghe professionali, disponibili e gentili e questo mi ha colpito molto”.

Puoi anticiparci qualcosa sugli sviluppi che avrà il tuo personaggio nelle prossime puntate?

“Non posso dire nulla ma finora il pubblico ha visto solo un’anticipazione di Thea, un personaggio che è rimasto nell’aria e che avrà uno sviluppo con un bell’intreccio. E’ entrato nel cast anche suo fratello, che nella realtà è mio marito Sargis. La loro storia porterà forti emozioni”.

Thea deve scontrarsi con i pregiudizi e la diffidenza delle persone. Ti è mai capitato di affrontare situazioni simili?

“Sono stata fortunata perché ho trovato le porte aperte davanti a me ma qualche difficoltà l’ho vissuta. Non essendo nata in questo Paese inconsciamente subisci queste reazioni che fanno male, magari chi hai davanti non nota questo comportamento verso di te, ma è facile offendere o ferire una persona, anche non volutamente. Nei miei ruoli a volte, in termini di emozioni e profondità, prendo spunto dal mio vissuto o da quello di terze parti. Sono 18 anni che vivo in Italia, ho affrontato tante esperienze bellissime e altre meno, che mi hanno fatto diventare la persona che sono oggi, una donna forte, comprensiva, mai arrabbiata perché per me la gentilezza è un segno di grande apertura mentale. In tutti i Paesi ci sono le brave persone e quelle disoneste, è questa etichetta che viene attaccata a un popolo a prescindere che è sbagliata. Bisogna avere una mentalità aperta per dare delle chance e vedere il bello che c’è negli altri”.

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Come ti sei avvicinata alla recitazione?

“A 13 anni non sapevo cosa avrei fatto da grande, un giorno per intrattenere mio padre che era stato operato da poco e doveva stare a casa ho imitato il personaggio maschile di una fiction, che in quel periodo veniva trasmessa in tv, che impazzisce e comincia a ballare. Lui mi ha guardato e ha detto: mia figlia diventerà un’attrice. Mio padre ha piantato questo seme dentro di me ed è nata questa passione. Poi purtroppo dopo qualche mese se ne è andato e io ho voluto tantissimo fare questo mestiere per lui e per me stessa. Le difficoltà da superare sono state tante. All’epoca non potevo andare all’Accademia di teatro e cinema, mia mamma non voleva che la frequentassi perché c’erano tanti pregiudizi a riguardo, così per tre anni ho studiato Giurisprudenza. Poi sono riuscita a convincerla, ho lasciato l’Università e ho frequentato per cinque anni l’Accademia ed è stato il periodo più bello della mia vita perché l’ho vissuto pienamente e ho avuto dei professori eccezionali”.

Cosa rappresenta per te il ballo?

“Sia io che mio marito, che è stato anche primo ballerino del complesso statale di Yerevan, da piccoli abbiamo fatto danza classica come base ma il mio sogno era imparare il tango argentino e il flamenco. Durante gli studi all’Accademia un professore diceva che mi sarei dovuta dedicare o al ballo o alla recitazione, ma dopo le prime messe in scena ha capito che doveva aiutarmi in quanto avrei potuto fare entrambe le arti. Come regista ho diretto ad esempio A porte chiuse di Jean Paul Sartre in cui le idee nascevano con il tango, non era un musical ma uno spettacolo di prosa e creavo quegli intrecci tra due donne e un uomo, i conflitti, la passione, l’odio e l’amore, con i movimenti del tango, quando le parole non bastavano. Non separo queste due discipline perché mentre recito il mio corpo può ballare o viceversa. E’ uno strumento in più che io posso usare”.

Ti piacerebbe recitare in un musical?

“Adoro il musical ma in realtà non è stata mai la mia priorità. Il genere che facciamo con la nostra compagnia italo-armena che si chiama InControVerso è stato definito una dramma-coreografia”.

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Hai portato in scena lo spettacolo “Il grande male” in occasione del centenario di quell’immane tragedia che fu il genocidio armeno nel 1915…

“Abbiamo realizzato nel 2015 questa produzione molto importante che è stata messa in scena al Teatro India di Roma con attori importanti. Il testo è stato scritto in 3-4 anni da Sargis Galstyan che è anche il regista dello spettacolo. Eticamente il conflitto è un genocidio non riconosciuto sia dalla parte che l’ha compiuto, la Turchia, sia dalla maggior parte del mondo. L’argomento è affrontato molto dettagliatamente, con dialoghi riportati fedelmente dalle testimonianze scritte e le immagini dell’epoca proiettate in scena. Grazie a questo spettacolo si possono ottenere tantissime informazioni a riguardo perché le persone non sanno cosa sia davvero accaduto. Stiamo portando avanti questo progetto, inteso come una lezione di storia attraverso il teatro e proveremo, una volta che si ripartirà, a proporlo alle rassegne per le scuole e alle matinée, per far conoscere questa storia”.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

“Lo scorso anno abbiamo realizzato una commedia surreale che si chiama “Pole Dance” sempre scritta e diretta da Sargis Galstyan, riconosciuta come miglior spettacolo della stagione teatrale 2019, siamo stati inseriti nel cartellone del Teatro della Cometa per tre settimane ma poi il lockdown ha fermato tutto. Speriamo che una volta tornati alla normalità si possa riprendere questa commedia che affronta un tema importante e profondo. Vorremmo poi fare un adattamento cinematografico sia di Pole Dance sia de Il grande male. Come attrice sono impegnata anche con “Play Hamlet” dove interpreto Ofelia, ai primi di gennaio girerò un corto che riguarda la corrida nelle vesti di protagonista. Infine sto valutando alcune proposte”.

Cosa ti auguri per il 2021?

“Mi auguro una rinascita del nostro settore, dell’arte, del teatro e del cinema. Abbiamo subito un danno enorme e stiamo soffrendo tanto. Essendo una persona positiva spero ci sia un rinascimento, voglio vedere i teatri aperti, i set cinematografici liberi di creare e produrre, la gente vivere e respirare la cultura. Nel primo lockdown ci siamo salvati grazie all’arte. La gente chiusa in casa non è impazzita perché c’erano film e serie tv”.

di Francesca Monti

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L’appello di Serj Tankian: “Aiutate l’Armenia” (Ilgiornale 20.12.20)

Serj Tankian è il carismatico frontman dei System of a Down, storica band alternative metal nata in California nella prima metà degli anni ’90 ma composta da quattro membri tutti di origine armena.

Un legame profondo, quello con Yerevan, che i System of a Down hanno sempre rimarcato nel corso della loro prolifica carriera che li ha catapultati ai vertici delle classifiche mondiali con capolavori del calibro di Toxicity (2001) e Mezmerize (2005). Nei mesi scorsi, la band ha pubblicato il singolo Protect the land per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su ciò che stava accadendo nel Nagorno-Karabakh. Tankian ha inoltre partecipato al concerto on-line “Per te Armenia”, organizzato da associazioni armene in Italia a sostegno dei rifugiati armeni dall’Artsakh, con il patrocinio della Regione PiemonteIntervistato dall’assessore regionale Maurizio Marrone, Serj Tankian ha raccontato qual’è la situazione nella regione del Nagorno-Karabakh attraverso una testimonianza lucida e toccante.

Tankian: “Turchia e Azerbajan hanno attaccato il popolo del Nagorno-Karabakh”

Partiamo dall’inizio, cioè da cosa è successo alla fine di questo settembre. Ebbene, spiega il cantante dei System of a Down, “il 27 settembre di quest’anno le forze militari combinate di Turchia e Azerbaigian, insieme a mercenari siriani portati appositamente dalla Turchia all’Azerbaigian, hanno attaccato il pacifico popolo del Nagorno-karabakh che vive lì dal 500 d.C. E’ così iniziata una guerra incredibilmente brutale, all’interno della quale si sono registrati molteplici crimini di guerra commessi dall’Azerbaigian e dalla Turchia in termini di bombardamenti sulle infrastrutture civili e della popolazione di Stepanakert e di molte altre cittadine dell’Artsakh. Le persone hanno dovuto rifugiarsi dentro a rifugi improvvisati, altre sono dovute fuggire e si sono registrati anche episodi di decapitazioni, torture sui prigionieri politici e i prigionieri di guerra“.

Oggi, prosegue Tankian, “con il cessate il fuoco firmato il 9 novembre, la situazione resta molto precaria con la con le truppe di peacekeeping russe intervenute sul terreno e la regione dell’Artsakh sostanzialmente divisa in due. Ora la maggior parte delle nostre chiese e del nostro patrimonio millenario sono nelle mani dell’Azerbaijan, un paese che in passato ha già dimostrato di non essere degno di fiducia per quanto riguarda la tutela di questi simboli. Croci distrutte, chiese devastate…“.

“Hanno bombardato le nostre Chiese: aiutateci”

Come sottolinea il cantante della band statunitense, gli azeri, durante la guerra, “per due volte nello stesso giorno hanno bombardato una delle più antiche chiese Artsak, a Sushi, con missili di precisione. Il tutto mentre al suo interno, dentro un rifugio, vi erano famiglie che si nascondevano. In quel caso un giornalista è anche rimasto ferito ed è stato necessario ricoverarlo in ospedale. Sono stati momenti terribili e anche le conseguenze della guerra lo sono state, dal momento che hanno creato un’enorme catastrofe umanitaria per la popolazione dell’Artsak e gli armeni“.

Drammatica la situazione dei rifugiati: e la pace è appesa a un filo. “Ci sono oltre centomila persone sfollate che non sanno quando potranno tornare dal momento che non hanno nessuno che possa davvero proteggerle. Al momento ci sono le truppe di peacekeeping russe da una parte, e le forze turco-azere dall’altra. E questo non potrà essere così per sempre. L’accordo sul cessate il fuoco sarà solo per 5 anni” spiega l’artista nato in Libano da genitori armeni.

L’appello: riconoscere la Repubblica di Artsakh

Come sottolinea Tankian, in questa guerra brutale, ci sono stati alcuni episodi tipici “di una guerra religiosa“, specialmente “con l’arrivo dei terroristi jihadisti dalla Siria, ma penso che la maggior parte di queste azioni sia stata utilizzata più come strategia militare, che di estremismo religioso. Stanno cercando di sconfiggere i cuori e le menti della nostra gente, stanno cercando di deprimerci dicendo: “Guardate cosa facciamo alla vostra cultura“. Cosa può fare l’Italia in questo contesto? La risposta è chiara: riconoscere la Repubblica di Artsakh, come peraltro stanno facendo moltissimi comuni in tutta la penisola.

Dobbiamo spingere l’Unione europea a fare la cosa giusta e sanzionare la Turchia” osserva l’artista. “Dobbiamo spingere l’Unione europea attraverso il parlamento italiano, attraverso il parlamento olandese, attraverso il parlamento francese, il bundestag tedesco, tutti a sanzione la Turchia e l’Azerbaigian, tutti a riconoscere l’Artsak. Così che quando al gruppo Osce di Minsk ci si siederà ai tavoli per i negoziati di pace si possa avere un po’ più di peso e di influenza contro gli aggressori di questa guerra“. Le autorità italiane raccoglieranno l’appello dell’artista – e di molte altre associazioni – o lasceranno l’Armenia da sola?

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Alla Parata della vittoria la svolta pan-turca di Erdogan (Tempi.it 20.12.20)

Altro che il neo-ottomanesimo: l’ideologia su cui Recep Tayyip Erdogan ha deciso di imperniare la sua politica estera negli anni a venire è il pan-turchismo, e i paesi che devono sentirsi minacciati non sono tanto quelli dell’Unione Europea, quanto l’Iran e la Russia. È quello che emerge dal discorso tenuto dal presidente turco durante la Parata militare della vittoria organizzata dal presidente azero Ilham Aliyev a Baku il 10 dicembre scorso per celebrare la riconquista di molti territori da parte dell’Azerbaigian nella recente guerra del Nagorno Karabakh. Parata della quale Erdogan era ospite d’onore nonché unica personalità a condividere il palco presidenziale e a tenere un discorso pubblico dopo quello del capo dello Stato azero.

I riferimenti del presidente turco all’islam sono stati generici e quelli all’eredità ottomana nulli. Ha invocato il nome di Allah per chiedere l’eterno riposo per i “martiri” della guerra e futuri successi per i due popoli, con la tipica formula “inshAllah”, “se Dio vuole”: turchi e azeri sono musulmani, ma i primi sono sunniti mentre i secondi sono di tradizione sciita. Inoltre gli azeri sono etnicamente turchi, ma non hanno mai fatto parte dell’Impero Ottomano, lo hanno anzi combattuto: cagiari e safavidi, tribù turche dell’Azerbaigian, hanno governato l’impero persiano rivale di quello ottomano per più di quattro secoli, fino al 1925.

Guerra mondiale

Molto più significativo è stato il riferimento di Erdogan ai protagonisti degli ultimi giorni dell’Impero Ottomano, che tentarono di riorientare la politica dell’impero morente in direzione dell’unità dei popoli turchi: «Oggi», ha detto, «le anime di Nuri Pascià, di Enver Pascià e dei coraggiosi soldati dell’Esercito Islamico del Caucaso si rallegreranno». Enver Pascià, com’è noto, fu uno dei tre componenti del triumvirato che decise la partecipazione dell’Impero Ottomano alla Prima Guerra mondiale, che si concluse con la sua rovina. Insieme agli altri due, Mehmed Talat e Ahmed Cemal, è considerato anche responsabile del genocidio degli armeni, per il quale i tre furono condannati a morte in contumacia da un tribunale militare a Istanbul nel 1919. I triumviri avevano preso il controllo del Comitato per l’Unione e il Progresso (più tardi Partito dell’Unione e Progresso) e l’avevano trasformato in una forza politica che promuoveva il panturchismo. Enver, ministro della guerra, nel luglio 1918 ordinò la creazione dell’Esercito Islamico del Caucaso per conquistare i territori russi caucasici che erano rimasti sguarniti dopo il crollo dell’Impero zarista. Nel mese di settembre occupò Baku, ma fu costretto a deporre le armi dopo la resa dell’Impero Ottomano il 30 ottobre. Enver fu l’unico dei triumviri a sfuggire alla vendetta degli armeni – Talat fu ucciso a Berlino nel 1921 e Cemal a Tbilisi nel 1922 da agenti dell’Operazione Nemesi della Federazione rivoluzionaria armena – ma morì anche lui nel 1922 in Tagikistan, dove partecipava a una rivolta anti-sovietica della popolazione locale musulmana. Nuri Pascià, l’altro personaggio evocato da Erdogan, era fratellastro di Enver, da lui nominato a capo dell’Esercito Islamico del Caucaso. Sopravvisse alla guerra ma fu emarginato dopo l’ascesa al potere di Kemal Ataturk, che per realismo aveva rinunciato alle ambizioni pan-turche per concentrarsi sulla costruzione dello Stato turco in Anatolia. Nel 1941 Nuri, insieme ad altri ufficiali dell’esercito di orientamento pan-turco, incontrò l’ambasciatore Franz von Papen per convincere la Germania nazista ad appoggiare la loro causa. Il risultato più cospicuo fu la creazione della Legione turchestana, un’unità militare di 16 mila uomini turcofoni provenienti da varie regioni dell’Unione Sovietica che combatté al fianco della Wehrmacht in Francia e in Italia. Nuri poi si recò a Berlino per convincere i nazisti ad appoggiare l’indipendenza dell’Azerbaigian, ma senza successo.

Iran e Russia

I russi hanno tutti i motivi per preoccuparsi della retorica di Erdogan, perché oltre a rappresentare la maggioranza in cinque stati nati dallo scioglimento dell’Unione Sovietica (Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan), popolazioni turcofone sono presenti in tredici repubbliche facenti parte della Federazione Russa: il progetto pan-turco è un attentato all’integrità territoriale della Russia. Discorso analogo vale per l’Iran. Nel corso del suo intervento Erdogan ha recitato una poesia irredentista del poeta azero Bakhtiyar Vahabzadeh che dice così: «Hanno diviso il fiume Aras e lo hanno riempito di sabbia. Non sarò separato da te. Ci hanno separato con la forza». Il fiume Aras (o Araz) segna il confine fra Armenia e Azerbaigian da una parte, Iran dall’altra, ma separa anche l’Azerbaigian persiano, appartenente alle Repubblica iraniana, dall’Azerbaigian propriamente azero. Non esistono statistiche ufficiali sul numero di azeri che vivono in Iran, che potrebbe oscillare fra i 12 e i 15 milioni. Il ministero degli Esteri iraniano ha reagito con durezza: «L’ambasciatore turco è stato informato che l’era delle rivendicazioni territoriali e dell’espansionismo imperiale è finita. L’Iran non permette a nessuno di interferire con la sua integrità territoriale», recita un comunicato sulla pagina web del ministero.

Una colonizzazione di fatto

Il progetto pan-turco spiega anche la miscela di lusinghe e minacce nei confronti dell’Armenia che ha caratterizzato gli interventi di Aliyev ed Erdogan alla Parata della vittoria e alla successiva conferenza stampa. Non che offrire il ramo di ulivo, nel suo discorso Aliyev ha rivendicato per l’Azerbaigian territori che si trovano nell’Armenia internazionalmente riconosciuta: «La politica aggressiva dell’Armenia è cominciata negli anni Ottanta. A quel tempo, 100 mila azeri che vivevano nell’attuale repubblica di Armenia furono espulsi dalle loro terre ancestrali. I distretti di Zangazur, Goycha e Iravan sono nostre terre storiche. La nostra gente ha vissuto in quelle terre per secoli, ma la leadership armena espulse 100 mila azeri dalle loro terre natìe a quel tempo». Erdogan, dopo aver evocato la figura di Enver che tutti gli armeni del mondo associano al genocidio del 1915, è invece passato alle lusinghe, assicurando che se il governo armeno riconosceva i suoi errori del passato, poteva iniziare una nuova era di rapporti: «Speriamo che i politici armeni analizzino bene tutto, e compiano passi coraggiosi per costruire un futuro basato sulla pace e la stabilità. (…) Se il popolo armeno impara una lezione da quello che ha sperimentato nel Karabakh, sarà l’inizio di un nuova era nella regione». Nella conferenza stampa successiva Aliyev ha esposto il suo progetto di un partenariato per la pace regionale aperto anche all’Armenia, una volta che questa abbia rinunciato ad ogni pretesa sul Nagorno Karabakh. Il presidente azero immagina un raggruppamento composto da Azerbaigian, Turchia, Iran, Russia, Georgia e Armenia. Erdogan ha manifestato il suo favore per il progetto, che comporterebbe la riapertura delle vie di terra della Turchia e dell’Azerbaigian con l’Armenia, chiuse da trent’anni: «Se l’Armenia si lascia alle spalle le sue irrazionali ambizioni, un giorno potrà essere parte delle nostre alleanze regionali. Abbiamo distrutto il loro esercito, ma facciamo appello perché l’Armenia collabori con noi». In realtà la condizionata apertura agli armeni è perfettamente funzionale al progetto pan-turco: l’Armenia rappresenta l’unica interruzione della continuità territoriale fra stati turcofoni che va dalla Turchia fino ai confini di Kazakistan e Kirghizistan con la Cina. Tentare di annientarla causerebbe reazioni internazionali; meglio annunciare obiettivi, come quello del ritorno di 100 mila azeri nelle province dell’Armenia e la costruzione di nuove strade che partendo dalla Turchia attraversino l’Armenia e l’Azerbaigian, che comporterebbero una colonizzazione di fatto del territorio armeno da parte dei più numerosi e più economicamente sviluppati vicini turcofoni. A quel punto la strada per l’integrazione politica dei popoli turchi da Istanbul ad Alma Ata sarebbe spianata.

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RUSSIA. Putin spiega la posizione di Mosca sul Nagorno Karabakh (Agcnews 19.12.20)

Il presidente russo Vladimir Putin ha spiegato la posizione della Russia sul cessate il fuoco del Nagorno-Karabakh il 17 dicembre. Durante la conferenza stampa annuale a Mosca, Putin ha sottolineato che la regione è parte integrante dell’Azerbaigian secondo il diritto internazionale.

«Dal punto di vista giuridico internazionale, tutti questi territori sono parte integrante della Repubblica dell’Azerbaigian. Così è stata costruita la nostra posizione nel Gruppo di Minsk, dove Russia, Stati Uniti e Francia sono copresidenti. Per molti anni, abbiamo sempre pensato che le sette aree tenute intorno al Nagorno-Karabakh dovessero essere restituite all’Azerbaigian», ha detto Putin, riporta Hurriyet.

«Lo stato attuale del Karabakh dovrebbe rimanere invariato, con la condizione obbligatoria di creare un canale di comunicazione tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh», ha detto, aggiungendo che il corridoio di Lachin, che collega il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, è stato creato per questo scopo. Putin ha sottolineato che lo status del Nagorno-Karabakh «dovrebbe essere trasferito al futuro», notando: «Lo status quo nel Nagorno-Karabakh dovrebbe essere fissato».

Alla domanda sulla posizione della Turchia nel conflitto, Putin ha risposto: «La Turchia ha difeso, come credono, la giusta causa dell’Azerbaigian, cioè il ritorno dei territori occupati durante gli scontri degli anni Novanta».

Il presciente russo si è rifiutato di speculare sulle ragioni esterne dell’ultimo focolaio in Karabakh, dicendo: «La tensione è durata per molti anni (…) Non credo che sia stata causata da interferenze esterne. Molte volte ci sono state tensioni, scontri e piccole sparatorie. Come risultato, si è sviluppato in un conflitto», ha detto.

Putin ha osservato che l’accordo trilaterale tra Russia, Armenia e Azerbaigian ha assicurato le posizioni delle parti in conflitto nelle loro sedi quando è stato raggiunto l’accordo sul cessate il fuoco: «Questo accordo sulla cessazione delle ostilità è molto importante. Perché ha fermato lo spargimento di sangue, i civili hanno smesso di morire, questa è una cosa estremamente importante, è fondamentale. Tutto il resto è secondario. Salvare la vita e la salute delle persone è il compito più importante che abbiamo risolto», ha detto il presidente russo.

Commentando la recente violazione del cessate il fuoco, Putin ha espresso la speranza che non si ripeta mai più. Per quanto riguarda un possibile aumento del numero di truppe russe per il mantenimento della pace nella regione, ha detto che può essere fatto solo con l’approvazione di tutte le parti, perché le sue dimensioni sono state negoziate e concordate nella fase di stesura dell’accordo di cessate il fuoco.

«Se tutti giungono alla conclusione che ciò è necessario per aumentare il numero delle forze di pace, lo faremo, altrimenti non lo faremo», ha detto Putin.

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In Armenia marcia in memoria vittime Nagorno-Karabakh (Ansa 19.12.20)

EREVAN – Il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha guidato una marcia in memoria dei morti nelle sei settimane di guerra con l’Azerbaigian per la regione caucasica del Nagorno-Karabakh, cui hanno partecipato migliaia di persone, e che dà il via a tre giorni di lutto proclamati nel paese caucasico.
Ma le tensioni si fanno pressanti su Pashinyan, di cui l’opposizione chiede le dimissioni per l’esito del conflitto in seguito a un accordo dettato dalla mediazione della Russia, giudicato “umiliante”, e con la perdita di circa 3.000 armeni.    L’opposizione ritiene infatti che il leader 45enne abbia tradito la causa nazionale accettando un accordo alle condizioni azere.
Da parte sua Pashinyan ha affermato di non avere intenzione di fare un passo indietro e che quell’accordo costituiva l’unica opzione per l’Armenia e l’unica possibilità per la sopravvivenza della regione del Karabakh. (ANSA).


Armenia, veglia per i morti del Karabakh e tre giorni di lutto nazionale (Ansa)

Armenia: tre giorni di lutto nazionale per le vittime del Nagorno (Euronews)

Armenia, marcia in memoria vittime Nagorno-Karabakh (Swissinfo)

L’opposizione armena vola a Mosca (Insideover.com 19.12.20)

Sullo sfondo della tensione sociale, che ha assunto la forma di una vera e propria disobbedienza civile, si sta assistendo all’aumento dei tentativi delle forze di opposizione di aprire un canale di dialogo con Mosca.

Due viaggi sospetti

Il 17 dicembre è avvenuto qualcosa di singolare lungo l’asse Yerevan-Mosca. Quel giorno, infatti, due personaggi di primo piano della politica armena sono partiti alla volta della capitale russa; trattasi di Edmon Marukyan e Robert Kocharyan. Entrambi i viaggi sarebbero stati organizzati per motivi che esulano dalla politica e, soprattutto, sarebbe una coincidenza che i due siano partiti lo stesso giorno in direzione della stessa meta.

Marukyan è uno dei volti più noti dell’attuale opposizione, essendo il capo del partito Armenia Luminosa, mentre Kocharyan è stato il secondo presidente dell’Armenia. Aren Petunts, portavoce di Armenia Luminosa, non ha rilasciato dettagli sul viaggio improvviso di Marukyan, limitandosi ad annunciare che sarebbe stato di breve durata. Anche l’ufficio stampa dell’ex presidente non si è sbilanciato eccessivamente: Kocharyan, partito ufficialmente per una “visita privata”, avrebbe fatto ritorno il 20.

Leggere la politica è come seguire un’indagine: un analista, al pari di un investigatore, non può credere nelle coincidenze. Tutto, in breve, anche l’evento apparentemente più insignificante, potrebbe essere un indizio o una prova. Il fatto che due figure del calibro di Marukyan e Kocharyan siano partite lo stesso giorno, in maniera riservata e per dirigersi nella stessa direzione, non prova nulla, ma è quantomeno sospettoso.

Non è da escludere che i due possano essere stati invitati per discutere di quanto sta accadendo in Armenia, della situazione nel Nagorno Karabakh e, soprattutto, del dopo-Pashinyan. Marukyan, essendo uno dei papabili alla successione del primo ministro, potrebbe essersi recato a Mosca per presentare la propria agenda e ottenere la benedizione del Cremlino.

Tentare di analizzare la presenza di Kocharyan è molto più complicato: essendo la sua immagine pubblica compromessa in maniera irrimediabile da una serie di scandali, anche gravissimi, è da escludere che possa essere stato sentito in qualità di “presentabile”. L’ex presidente, però, potrebbe rivelarsi utile su altri dossier, dal controllo delle piazze, in virtù dei suoi legami con spionaggio e sicurezza, al monitoraggio del Nagorno Karabakh, dove, nelle ultime settimane, il cessate il fuoco ha rischiato di collassare.

L’identikit del duo

Marukyan è l’attuale presidente di Armenia Luminosa, un partito di natura liberale, filo-occidentale e “russo-scettico”, che, a partire dal dopoguerra, ha iniziato un percorso di riallineamento geopolitico in direzione di Mosca. Marukyan sta cavalcando le proteste popolari contro il primo ministro, sta guidando la lotta contro l’esecutivo in sede parlamentare e ha anche avvicinato l’attuale presidenteArmen Sarkissian.

Kocharyan è un pragmatico: di origine karabakha, la sua fama di veterano – ha combattuto nella prima guerra del Nagorno Karabakh – gli ha consentito di venire eletto dapprima alla presidenza dell’Artsakh, dal 1994 al 1997, e successivamente dell’Armenia, dal 1998 al 2008. L’era Kocharyan è ricordata per il miracolo economico, per l’apertura di un tavolo negoziale con Ilham Aliyev, ma anche per gli scandali (l’omicidio di Poghos Poghosyan) e per le proteste di piazza che ne hanno determinato la caduta e la prosecuzione penale.

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Come manovra la Russia tra Armenia e Azerbaigian (Startmag 18.12.20)

Che durante le guerre di ieri come quelle di oggi i crimini contro l’umanità siano una drammatica costante dovrebbe ormai essere una verità acclarata. Negli ultimi giorni sono stati messi online numerosi video che documenterebbero le atrocità che sarebbero state commesse durante il recente conflitto in Nagorno-Karabakh dai soldati azeri contro inermi civili armeni e contro i prigionieri di guerra.

Ora, indipendentemente dal fatto che questi video siano autentici o meno — sarebbe stata la Russia a diffonderli per screditare l’Azerbaigian — la reazione dell’opinione pubblica è stata immediata e durissima sia da parte dell’ufficio del procuratore di Stato di Baku — che ha annunciato l’avvio di un procedimento penale per fare luce sui crimini commessi nei confronti dei corpi dei militari armeni uccisi durante i combattimenti — sia da parte di Human Rights Watch che ha opportunamente ricordato come le esecuzioni extragiudiziali e lo spoglio dei morti siano crimini di guerra che devono essere oggetto di indagine penale.

Questi drammatici eventi — indipendentemente dall’autenticità che sarà verificata in un secondo momento dalle autorità locali e da quelle internazionali — costituisce un ottimo spunto per riflettere sul ruolo che la Russia ha avuto — e avrà — in Armenia e in Azerbaigian.

Sia per l’Armenia che per l’Azerbaigian, due ex repubbliche sovietiche, la Russia è la vecchia metropoli. Naturalmente, trent’anni dopo la caduta dell’Urss, il passato sovietico sta svanendo. Diventate indipendenti, queste ex repubbliche sovietiche si sono emancipate e hanno subito profonde trasformazioni.

L’Armenia ha mantenuto un rapporto molto privilegiato con la Russia: membro della CSTO, nel 2015 ha firmato un accordo che istituisce un sistema di difesa aerea congiunto con la Russia, rafforzato da un trattato bilaterale (2016, ratificato nel 2017) creando forze armate congiunte con comando congiunto. L’Armenia ospita anche truppe delle guardie di frontiera russe (4.500 uomini schierati ai confini turco-armeno e armeno-iraniano) e un’importante base a Gumri (in conformità con un accordo in scadenza nel 2044). L’Armenia mantiene anche strettissime relazioni economiche con la Russia.

L’Azerbaijan si è allontanato ulteriormente dalla Russia: non è membro della CSTO [ci sono però accordi una tantum con la Russia in campo militare] e si è chiaramente avvicinato alla Turchia che, in tutti i settori, è diventata il suo principale partner strategico.

Nonostante queste notevoli differenze, Mosca rimane, per questi due stati, assolutamente essenziale per il ruolo centrale svolto nella risoluzione del conflitto del Karabakh. Al di là di queste contingenze politico-strategiche, la Russia è semplicemente una realtà geopolitica e geoeconomica che si impone, in Armenia come in Azerbaijan, così come in Georgia. È anche un mercato di esportazione essenziale per i loro prodotti, nonché la sede delle diaspore transcaucasiche numericamente molto importanti.

Tuttavia, per comprendere chiaramente il ruolo della Russia in questo contesto, è necessario tenere presente che il Caucaso settentrionale è posto sotto la sovranità della Federazione Russa, mentre il Caucaso meridionale è composto da tre stati indipendenti riconosciuti (Armenia, Azerbaijan, Georgia) e altri tre non riconosciuti ma che sono comunque stati de facto: Abkhazia e Ossezia del Sud (ex entità autonome della Georgia) e Nagorno-Karabakh (ex entità autonoma dell’Azerbaigian, popolata da armeni).

Nel Caucaso settentrionale, Mosca difende la propria integrità territoriale, in particolare contro le minacce secessioniste e/o terroristiche islamiche. In Transcaucasia, la Russia agisce come una potenza post-imperiale. Ci sono molte continuità con il periodo sovietico, ma soprattutto con le strategie attuate dall’acquisizione di questa regione da parte dell’Impero russo nella prima metà del XIX secolo. Il quadro di queste strategie consiste nel svolgere il ruolo di potere tutelare e porsi come arbitro dei molteplici e inesauribili conflitti tra etnie, che San Pietroburgo e poi Mosca (dopo il 1917) hanno continuato a utilizzare al meglio per consolidare la loro posizione egemonica della regione.

Ora per quanto riguarda la guerra del Nagorno-Karabakh nel 2020 si tratta di un conflitto asimmetrico tra gli armeni del Karabakh — l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, un’enclave che, prima della guerra, copriva un’area di 11.430 km2 e popolata da meno di 149.000 abitanti (dati 2015), sostenuta dalla vicina Armenia (ufficialmente 3 milioni di abitanti), alleata della Russia, ma che quest’ultima non sostiene in questo conflitto — da un lato e l’Azerbaigian (86 6 00 km2, poco più di 10 milioni di abitanti nel 2015), sostenuto dalla sua alleata Turchia, il secondo esercito della Nato dall’altro.

Il potere economico e militare dei due contendenti è asimmetricamente proporzionale. Era quindi logico che la potenza azera, nella sua associazione con la potenza turca, dovesse vincere.

Tuttavia, va osservato che l’operazione Steel Fist, lanciata da Baku come Blitzkrieg, non ha avuto il successo previsto, in quanto ha portato a una guerra che è durata 45 giorni, che dimostra la capacità di combattere e la resistenza degli armeni, nonostante la loro evidente inferiorità tecnologica. C’è anche un’altra asimmetria, abbastanza fondamentale, il che significa che questo conflitto non è una semplice “rivalità”. Se si tratta di un conflitto di natura territoriale per l’Azerbaijan (riprendere il controllo regione secessionista persa di fatto dal 1991 e poi ripopolata), per gli armeni, è invece una vera guerra di gran lunga più rilevante, una Guerra volta a riappropriarsi di un territorio che storicamente gli appartiene, sullo sfondo della paura del verificarsi di un nuovo genocidio perpetrato dai “turchi” (siano essi dell’Azerbaigian o dell’Anatolia), dopo quello del 1915 o i pogrom anti-armeni commessi in Azerbaigian nel 1988. E su questo punto, le ultime dichiarazioni dei Presidenti Erdogan e soprattutto Aliev — che ha appena annunciato di voler conquistare gran parte del territorio dell’Armenia — alimenta e giustifica solo queste paure.

Per quanto riguarda l’accordo di cessate il fuoco firmato il 10 novembre sotto l’egida di Sergey Lavrov questo mette al comando la Russia, con il dispiegamento per almeno cinque anni di una grande forza di interposizione russa nella regione. Questa forza non solo dispiega mezzi militari, ma anche un soft power che rassicura e seduce la popolazione locale. Ma l’accordo del 10 novembre non fa nulla per regolare lo status del Nagorno-Karabakh.

L’ulteriore sviluppo dipenderà dai negoziati che saranno condotti tra Armenia e Azerbaigian, nonché dal quadro entro il quale tali negoziati saranno condotti. Sono possibili tre ipotesi: la riattivazione del Gruppo di Minsk nel quadro dell’Osce (con le co-presidenze francese, russa e americana), che è il quadro finora prevalente; l’apertura di un nuovo quadro negoziati russo-turchi (o anche russo-turco-iraniani), sul modello del “Processo di Astana” (avviato dall’accordo di Astana, firmato il 4 maggio 2017 da Russia, Iran e Turchia, stabilire quattro zone di cessate il fuoco in Siria) — un quadro che esclude completamente l’Occidente dal gioco, o anche una miscela dei due.

Un altro aspetto da sottolineare è il fatto che la guerra tra Armenia e Azerbaigian mette in luce la complessità del partenariato russo-turco a 360 gradi.

La Russia vede infatti il conflitto del Nagorno-Karabakh in un continuum geostrategico che si estende dal Caucaso settentrionale al Medio Oriente, compresi il Mar Nero e il Mediterraneo orientale. Da questo punto di vista, ciò che conta non è tanto la protezione a tutti i costi del suo alleato armeno, per quanto caro e prezioso sia, ma il mantenimento di un favorevole equilibrio di potere con Ankara. E questo equilibrio di potere si sta sviluppando contemporaneamente in più aree — Caucaso, Siria, Libia — che devono quindi essere analizzate come tali, ma anche nelle loro molteplici interazioni. La politica estera russa porta senza dubbio il sigillo della Realpolitik. È essenziale mantenere un rapporto di “partnership” (questo è il termine comunemente usato) con la Turchia.

In questa vasta area del Caucaso-Vicino Oriente-Mediterraneo orientale, la Russia è posizionata come la forza trainante dei “partenariati” tra le potenze regionali — Russia, Turchia e Iran, vale a dire i tre ex russi, persiani e Ottomano — che esclude, per quanto possibile, il blocco occidentale e il suo stretto alleato Israele. Senza esprimerlo in modo esplicito, questo è forse ciò a cui la Russia punta per l’intera regione del Caucaso maggiore-Mar Nero-Medio Oriente.

Nel lusingare le ambizioni strategiche di indipendenza della Turchia portate avanti da Erdogan, Vladimir Putin, nel suo ultimo discorso al “Forum Valdai” il 22 ottobre nascondeva a malapena il desiderio di vedere l’emergere di una Turchia veramente indipendente, libera dalla Nato e dal blocco occidentale, con cui la Russia poteva sinceramente “trattare” come meglio crede. Perché non dobbiamo perdere di vista il fatto che i conflitti nella grande regione Caucaso-Mar Nero-Medio Oriente sono sullo sfondo della “nuova guerra fredda” tra Russia e blocco occidentale, in pieno svolgimento dal 2008.

Ma anche l’Iran è un attore centrale nel conflitto del Nagorno-Karabakh. Tradizionalmente alleato con Yerevan, mantiene anche molte relazioni con Baku sia per le dimensioni della sua diaspora azera sia per il fatto che l’Azerbaigian rimane un paese sciita. Ebbene l’Iran è stato discreto in questa guerra nel Nagorno-Karabakh, che si stava svolgendo a 50 km dal suo confine settentrionale. In diverse occasioni Teheran ha ribadito il suo attaccamento al principio di integrità territoriale, mostrando in apparenza un sostegno indiretto per la parte azera. Eppure, in effetti, i rapporti dell’Iran con l’Armenia sono buoni, tanto che possono quasi essere definiti un’alleanza non detta.

Tuttavia, l’Iran teme molto l’Azerbaigian, la cui capacità di nuocere è, per Teheran, molto reale. Basta fare riferimento a tre elementi: primo, la guerra “sposta le linee” in termini di confini, poiché l’Armenia di fatto controllava — tramite l’occupazione dei territori situati sul fianco meridionale del Nagorno-Karabakh — vaste aree del confine con l’Iran che torna sotto il controllo azero; secondo esiste una forte minoranza azera in Iran (tra i 15 e i 18 milioni, ovvero quasi il 20% della popolazione iraniana); ultimo ma non meno importante, l’Azerbaigian è diventato uno stretto alleato di Israele, che fornisce a Baku armi avanzate e che ha stabilito una “base” dell’intelligence iraniana in Azerbaigian.

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I genocidi di cristiani dell’Impero Ottomano (Insideover 18.12.20)

Per lunghi secoli la dominazione turco-ottomana di vaste regioni del Medio Oriente dell’Europa orientale portò sotto l’autorità dei sultani di Istanbul numerose popolazioni cristiane. Nonostante una narrazione da “scontro di civiltà” ed effettivi momenti in cui la battaglia tra l’Impero turco e le principali potenze europee assunse connotati da scontro tra cristianità ed Islam (come dimostrato dalla battaglia di Lepanto del 1571) per lunghi secoli le popolazioni cristiane furono parte integrante della società imperiale. Tanto che nella “leva” compiuta dalle autorità ottomane nelle terre abitate da cristiani, il devishirme, i sultani di Istanbul più volte trovarono l’occasione di creare corpi militari come quello dei giannizzeri e burocrazie capaci di controbilanciare la tradizionale nobiltà turca.

La fase conclusiva della storia dell’impero fu però caratterizzata da un tragico strascico, essendo caratterizzata da ben diversi episodi di stermini di massa di popolazioni cristiane che per secoli erano state fedeli all’Impero: l’ultimo mezzo secolo che precedette la disfatta nella prima guerra mondiale fu un climax ascendente di tensioni e violenze che esplosero nei tre grandi genocidi dell’era della Grande Guerra. Al genocidio armeno, in cui furono uccisi oltre 1,5 milioni di cristiani appartenente alla nazione armena, si aggiunsero due massacri sistemici meno noti nel contesto della drammatica storia del Novecento, ma nel cui contesto perì un numero di persone superiore a quello del massacro degli armeni: il genocidio dei cristiani assiri che vivevano nell’attuale Iraq (di rito nestoriano, siriaco e caldeo), che provocò 900mila vittime, e quello delle popolazioni di etnia e cultura greca e religione cristiane viventi in Anatolia, proseguito fino al 1922, in cui furono uccise 700mila persone.

Il bagno di sangue in cui l’Impero Ottomano, nella fase conclusiva della sua storia, trascinò popolazioni che erano state parti integrante della sua storia ha le sue radici in tre fattori avviatisi a inizio XIX secolo: il progressivo ridimensionamento territoriale del dominio della Sublime Porta, l’ascesa di crescenti appetiti coloniali stranieri sui suoi territori strategici e lo sdoganamento del nazionalismo turco da parte di numerose èlite di potere alternatesi nel controllo decisionale delle strategie dell’Impero.

Nei primi due casi, l’Impero ottomano subì numerose amputazioni territoriali, molte delle quali legate a proclamazioni d’indipendenza in cui l’elemento religioso cristiano assunse a fattore determinante (come quella della Bulgaria) o agli appetiti delle potenze europee (pensiamo all’annessione della Bosnia da parte dell’Austria-Ungheria e all’invasione italiana della Libia); l’orgoglio nazionale ferito fu utilizzato come elemento catalizzatore della svolta politica imposta da gruppi come quello dei Giovani Turchi per evolvere le dottrine politiche dominanti nell’Impero. I Giovani Turchi guidarono dal 1908 in avanti un’agenda politica fatta di graduale incentivazione del nazionalismo turco in cui venivano considerati come esterni al ceppo “puro” della nazione quegli elementi ritenuti di importazione straniera, come il cristianesimo. La complessa ideologia fatta di nazionalismo esasperato e di un tentativo di conciliazione tra Islam e positivismo portò i Giovani Turchi a indicare nei cristiani dell’Impero un potenziale nemico alla sua unità, che solo nella progressiva assimilazione alla nazione dominante avrebbe potuto trovare coesione.

Anche tu puoi aiutare i cristiani (Qui tutti i dettagli).

Per sostenere i cristiani che soffrono potete donare tramite Iban, inserendo questi dati:

Beneficiario: Aiuto alla Chiesa che Soffre ONLUS
Causale: ILGIORNALE PER I CRISTIANI CHE SOFFRONO
IBAN: IT23H0306909606100000077352
BIC/SWIFT: BCITITMM

Oppure tramite pagamento online a questo link

Questa ideologia incendiaria provò a trovare giustificazione nel fatto che, tra XVIII e XIX secolo, nei territori mediorientali dell’Impero potenze europee come Russia e Francia si erano fatte garanti delle comunità locali cristiane, utilizzando questa possibilità come strumento di soft power per rendere il regime delle “capitolazioni” una proiezione di influenza regionale. Più volte questo fatto era stato strumentalizzato per far ricadere sui cristiani la colpa per il regresso politico dell’Impero, la sua debolezza di fronte alle potenze stranieri, la sua fragilità interna. L’autorità imperiale di Istanbul, a fine XIX secolo, trovò a sua volta nell’ostilità contro i cristiani un pretesto per riaffermare un’agenda di ordine opposto, quella della sempre più farinosa volontà di garantire l’unità panislamica. In questo contesto mautrarono i “massacri hamidiani”, in cui tra il 1894 e il 1896 da 80 a 300mila cristiani armeni e assiri furono uccisi in una sequela di pogrom.

Ma è solo quando alla miscela tossica di nazionalismo esasperato e fanatismo etnico del governo dei Giovani Turchi (dal 1913 al potere in un regime monopartitico guidato dal triumvirato dei “tre Pasha”, Talat, Enver, Ahmed) si aggiunse lo scoppio della Grande Guerra che i progetti di annientamento trovarono un’applicazione su larga scala. I cristiani di varie fedi, abitanti millenari di terre in cui avevano convissuto con grande capacità di adattamento con diversi dominatori alternatisi tra l’Anatolia e il Medio Oriente, iniziarono a essere visti come agenti di potenze straniere nemiche della Turchia, potenziali focolai di rivolta nel decadente impero, a esser ritenuti nemici in quanto tali. Distruzioni di villaggi, marce della morte nel deserto, esecuzioni di massa: i tre genocidi presentano una sequela continua di episodi di questo tipo, in una drammatica riproposizione di quello che si è sviluppato come un processo in grado di autoalimentarsi, in una spirale di violenza crescente.

“Ucciderò ogni uomo, donna e bambino cristiano”, affermò il 19 aprile 1915 il governatore di Van di fronte alla prospettiva di ribellione della città abitata dagli armeni; in Mesopotamia la tenace ribellione di numerose comunità cristiane, guidate dall’imprendibile generale Agha Petros, andò di pari passo con la campagna di sterminio operata dai turchi, che arrivarono a sconfinare nel territorio della neutrale Persia per distruggere i villaggi di un’etnia ritenuta nemica; i pogrom anti-greci in Anatolia proseguirono anche dopo la fine della guerra, sulla scia di nuovi e ripetuti scontri greco-turchi.

Questi genocidi, a cui si associarono centinaia di migliaia di morti per le carestie e i disastri naturali collegati alla guerra, furono un campanello d’allarme per quello che il Novecento sarebbe stato e il più grande caso di persecuzione anti-cristiana della storia umana. Larga parte di questa storia è ancora sottaciuta, tenuta nascosta per non urtare la sensibilità politica di quella Turchia divenuta oggi attore chiave sull’asse euro-atlantico e mediterraneo. A oltre un secolo di distanza, mentre i cristiani nelle terre che furono in passato ottomani vivono ancora una grande tribolazione, il ricordo di queste sofferenze e delle capacità di comunità antiche di proseguire la loro storia nonostante la sistematica campagna di annientamento ottomana e un susseguirsi di crisi politiche e sociali nei decenni successivi ci è di lezione e di monito. Di lezione, per insegnarci a capire al meglio quanti drammi abbiano contraddistinto il XX secolo. Di monito, perché ricordiamo l’importanza di aiutare comunità che sono fratelli della civiltà europea e testimoni di un passato di incontro e dialogo che neanche la marea della storia ha potuto sommergere.

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