Arte, quattro capolavori italiani in mostra in Armenia(9colonne.it 04.08.20)

l progetto espositivo “Venezia e Piazza San Marco. Il Settecento in quattro capolavori”, sotto l’Alto Patronato congiunto del Presidente della Repubblica Italiana e del Presidente della Repubblica di Armenia, si inserisce tra le iniziative promosse dall’ambasciatore d’Italia, Vincenzo Del Monaco, per celebrare l’arte italiana con quattro capolavori di pittura vedutista provenienti dalla collezione della Casa Museo della Fondazione Paolo e Carolina Zani per l’arte e la cultura. Quattro tele, quattro autori per raccontare una piazza e i suoi monumenti, memoria e incarnazione del mito storico della Serenissima, la Repubblica il cui buon governo viene esaltato anche da Petrarca “quale Città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni…” (Lettera a Pietro da Bologna, 10 agosto 1321). Canaletto, Bellotto, Marieschi e Guardi erano consci, attraverso le loro vedute di Venezia, di offrirci l’ultimo frammento di una memoria e, al contempo, il principio di una contemporaneità fatta di ‘ritratti’ ogni volta differenti: nelle acque delle calli e in marmi e pietre incrostate di salmastro, nelle ombre e riflessi, nell’aria particolarissima di una città che generazioni d’artisti hanno saputo rendere tramite colori leggeri o intensi, trasparenti e mutevoli. Una città opera d’arte che salda in piazza San Marco ogni memoria. Una piazza, definita da tre settori, che incarna Venezia stessa, rappresentandone il fulcro degli interessi politici e cerimoniali, sociali, religiosi, sede del potere dogale e simbolo della ricchezza della Repubblica. E questo viene narrato dalle quattro vedute della Fondazione Paolo e Carolina Zani che saranno esposte in mostra a Jerevan dal 3 settembre al 4 ottobre. (red – 4 ago)

(© 9Colonne – citare la fonte)

Il negazionismo del Genocidio armeno: un delitto contro l’Umanità (Spondasud 04.08.20)

(BRUNO SCAPINI) – A spiegare il genocidio armeno, quale fatto storico in sé, oltre alla necessaria sua commemorazione perché non si dimentichi nell’oblio della Storia, rimane ben poco da aggiungere. Lo si è condannato in tanti modi, a parole  come nelle manifestazioni popolari, lo si è deplorato in conferenze e con una copiosa letteratura, abbiamo biasimato i suoi autori, definendo i loro atti come nefandezze, e abbiamo tentato persino di costruirne una immagine che potesse conciliarsi con quella oltremodo odiosa di crimine contro l’Umanità. Ma in questo quadro di universale riprovazione ancora un piccolo tassello risulta mancare, che in realtà proprio piccolo non è: svelare il sospetto che il suo perdurante mancato riconoscimento, sopratutto da parte proprio della Nazione che lo ha commesso, nasconda in fondo il volto di un inganno.

Tanto si è discusso sul piano storico e politico della effettiva natura e portata del “Grande Massacro”. Ci si è addirittura divisi in due schieramenti tra “negazionisti” e non. Si è disquisito con spirito accademico su cosa significasse il termine “genocidio”, fin dove cioè si potesse parlare di un piano premeditato di totale annientamento di un popolo o solo di una sua parziale casuale menomazione. Ma si è anche, circostanza ancor più grave, polemizzato da parte del Paese responsabile del misfatto, che tale però non si ritiene, sulla interpretazione di fatti e di eventi di quel lontano 1915 con un uso spregiudicato e ideologizzato dello scetticismo storiografico. Lo scopo? Quello meschino e vile di trovare nelle pieghe artificiose di sottili differenziazioni una giustificazione al riprovevole operato.

Orbene, non è nell’intendimento di chi scrive lamentare in questa sede ancora una volta il mancato riconoscimento del primo Genocidio del XX secolo da parte dei suoi autori. Né descrivere una sua genealogia sul piano storico. L’intento è ben un altro invece: denunciare il “negazionismo” in sé come un delittuoso atto contro l’Umanità. Non è infatti sufficiente, a fronte dell’inerzia colpevole che ancora osta ad una doverosa riparazione storica da parte della Turchia, condannare il “Grande Massacro” elevandolo al più alto livello di deprecabilità tra i crimini umanitari.  Sulla posizione di Ankara c’è ormai troppa assuefazione. Nonostante una crescente mobilitazione di animi e di pensiero che si registrerebbe oggi nel mondo, ancora troppi, purtroppo, sono i Governi che si astengono dal pronunciare chiaramente la fatidica parola “Genocidio” parlando di questo massacro. E non stupisce, in una stretta logica di convenienza politica, scoprire come taluni Paesi, pur dichiarandosi insospettabili campioni delle libertà e dei Diritti Umani, non abbiano ancora trovato il coraggio di opporsi alla fraudolenza di certi concettivismi riduzionistici, spuri e, pertanto, pericolosi.

Non illudiamoci! Non sono pochi questi Paesi. Per gettare fumo negli occhi e ostentare un attivismo umanitario ipocrita e quanto mai dannoso non mancano i politici che, sfuggendo alle proprie responsabilità, inducono subdolamente i rispettivi Parlamenti ad adottare mozioni “pro-Genocidio armeno” con le quali si invitano i rispettivi Governi al riconoscimento – vero atto di valenza politica quest’ultimo –  salvo poi a rinviare “sine die” il provvedimento in forza di fatti imprevisti, più impellenti, o peggio, per la decadenza di una legislatura! Come qualificare, dunque, un tale atteggiamento? Non dovremmo forse, in uno slancio non tanto di aderenza alla Storia, quanto di fedeltà alla “buona fede” equipararlo all’atto stesso del negazionismo, sebbene opportunamente camuffato, e accertarci che esso stesso venga condannato?  La relativizzazione pretestuosa dei parametri con i quali il Genocidio armeno dovrebbe essere oggettivamente considerato e valutato è anch’essa un delitto. E’ il fraudolento tentativo di non voler riconoscere il dato reale come tale, ovvero nel nostro caso come Genocidio. E non sarebbe forse proprio questo un delitto contro l’Umanità? Non è forse la frode, l’atto ingannevole l’essenza di uno dei più antichi principi del “jus gentium” di romana memoria? Justitia, Veritas e Fides già Cicerone esaltava a fondamento di quel “Jus Naturae” dal quale tutti gli ordinamenti positivi ( Jus Civitatis ) avrebbero tratto il fondamento per la regolazione dei rapporti umani ispirandosi alla “Naturalis Ratio”. Realtà valoriali superiori avrebbero pertanto informato le società umane che oggi, come allora, necessitano inevitabilmente di concreti e sani principi per dare certezza ai propri rapporti. Dunque, non deve essere un’aspirazione ideale ammettere e riconoscere i predetti valori derivati da una antica e provata “Lex Naturae”. Sono principi già presenti nei nostri moderni ordinamenti. E probabilmente andranno soltanto riscoperti. Sì, riscoperti e dichiarati, per restituire finalmente giustizia e dignità alle tante vittime armene di uno dei più deprecabili crimini contro l’Umanità.

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Armenia e Azerbaigain, guerra in vista? (radiobullets.com 04.08.20)

li scontri del luglio sul confine tra Armenia e Azerbaigian aprono una nuova pagina nella storia del conflitto ormai trentennale? Su Radio Bullets un focus sui fatti, sul ruolo della Russia e della Turchia e sui possibili scenari, con commenti di giornalisti azeri e armeni. 

Armenia – Azerbaigian, un conflitto mai sopito 

Un nuovo scontro armato è sorto di punto in bianco il 12 luglio, nella parte settentrionale del confine tra i due paesi: tra la regione di Tovuz, in Azerbaigian, e la regione di Tavush, in Armenia. Questa volta, però, i combattimenti si svolgono lontani dal Nagorno-Karabakh, pietra d’inciampo e causa di tensioni decennali tra Baku e Yerevan, a partire dal febbraio 1988. 

Apparentemente sembra che la causa della nuova escalation fosse un checkpoint, tra l’altro di nessuno, visto che la linea di confine tra Armenia e Azerbaigian non è del tutto delimitata, ancora: alcuni tratti, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sono delle “zone di nessuno”, sebbene sia Yerevan che Baku tendono a considerarle proprie.   

Secondo la versione dell’Armenia, un fuoristrada delle guardie di frontiera azere avrebbe varcato il suo confine nazionale. L’Azerbaigian, invece, ribatte e sostiene che non si trattasse di nessuna “invasione” da parte sua, visto che il confine tra i due paesi non è ancora definito.

Le conseguenze dell’improvvisa “guerra minore” di luglio sono tragiche: entrambi i paesi hanno usato droni di combattimento e l’artiglieria, provocando vittime tra militari di alto rango e civili.

La situazione si appesantisce anche per le avvisaglie intimidatorie: mentre l’Azerbaigian minacciava di colpire la centrale nucleare armena di Metsamor, l’Armenia minacciava di attaccare la diga del bacino idrico di Mingachevir. Ora si parla degli scontri armati più violenti, tra Baku e Yerevan, dall’aprile 2016, quando, per quattro giorni di seguito, la regione del Nagorno-Karabakh è stata divorata da battaglie molto accese. 

Al momento, dopo la tregua, si intravede un’ombra di “de-escalation”, anche se qualche giorno fa le parti hanno violato il cessate il fuoco, accusandosi a vicenda. Ora la situazione nella zona di conflitto rimane tesa. 

La guerra delle albicocche

L’accaduto non ha fatto altro che inasprire quella piaga nella memoria collettiva chiamata, appunto, Nagorno-Karabakh, provocando reazioni contrastanti nei due popoli.  

Così, a Baku, si sono radunati manifestanti a supporto dell’esercito azero, dispersi poi con getti d’acqua. Però il conflitto non si è limitato al suolo dei due paesi caucasici ma si è esteso anche fuori, riversando lo scontento di azeri e armeni sulle strade di altri paesi, tra cui la Gran Bretagna e in particolare, la Russia.

Così, le due comunità etniche, che vivono numerose nella capitale russa commerciando prevalentemente frutta che proviene dal Caucaso, si sono rese protagoniste di parecchi scontri violenti per le strade di Mosca. Negozi e ristoranti di cucina nazionale sfasciati, macchine distrutte, persone attaccate: gli abitanti della capitale russa hanno assistito a un vero “pogrom” etnico. Come se non bastasse, alcuni commercianti di nazionalità azera si sono opposti alla vendita di albicocche armene in un centro commerciale di Mosca. La guerra delle albicocche, cosi è stata definita la faida azero-armena dalle autorità russe dopo l’accaduto, scrive Kommersant. 

Russia e Turchia, due presenze a confronto     

Tra le personalità mediatiche di rilievo sul conflitto, si è espressa Margarita Simonyan, la caporedattrice del canale televisivo RT, finanziato dal governo russo. Il 18 luglio la giornalista, tra l’atro di etnia armena, in un post ha mosso critiche molto abrasive nei confronti delle autorità armene per la loro linea politica. Tra i numerosi rimproveri c’è anche il mancato riconoscimento della Crimea nonché, secondo Simonyan, la posizione anti russa del governo armeno, nonostante “la Russia avesse offerto protezione nel corso degli anni”. 

“Dopo tutto quello che avete fatto, la Russia ha il diritto morale di sputarvi addosso”: le parole della giornalista hanno suscitato un dibattito molto forte nonché forti dubbi su quali fossero i piani del Cremlino sull’intera faccenda. 

Sembra che la leadership russa non sia pronta a mettere a rischio i rapporti né con Yerevan né con Baku: il Cremlino, per il momento, si è offerto come mediatore. Tra l’altro, la Russia ricopre il ruolo di copresidente del gruppo OSCE di Minsk, nato per mediare il conflitto del Karabakh, di cui fa parte anche la Turchia. Nel contempo, Armenia e Russia fanno parte del blocco militare CSTO, un’alleanza di sicurezza di sei paesi ex sovietici con accordi di cooperazione militare, e l’Azerbaigian, invece, no. Le alleanze politico-militari da quella parte del globo si complicano ulteriormente per la presenza della Turchia che, tra l’altro, sostiene Baku. 

Il 14 luglio il ministro della difesa turco ha dichiarato che la Turchia avrebbe sostenuto le forze armate azere “contro l’aggressione dell’Armenia”, nonostante il Paese sia membro del gruppo OSCE di Minsk, creato per portare la pace in Nagorno-Karabakh. I rapporti tra Yerevan e Ankara, invece, sono pessimi e ufficialmente inesistenti, nonché storicamente complicati, sopratutto per via del genocidio del popolo armeno da parte delle truppe ottomane del 1915.

In tutto questo, non dimentichiamo l’esistenza dell’oleodotto Baku – Tbilisi – Ceyhan, forte concorrente della Russia, che passa anche per la regione azera di Tovuz e assicura il trasporto di petrolio caspico in Turchia. 

Le voci locali sul ruolo della Russia e i possibili scenari 

“A partire dal 1993, la posizione della Russia è diventata sempre pro-armena, un fatto che ha inciso molto nei risultati militari della prima fase della guerra del Karabakh”, sostiene il giornalista azero di JAM News Shahin Rzayev. Secondo lui, al momento la Russia non è interessata a intervenire direttamente nel conflitto, visto che è la forza principale del blocco militare CSTO. Rzayev sottolinea che durante la esacerbazione della crisi militare, nell’aprile 2016, la CSTO non ha reagito in alcun modo, e nemmeno ora. 

“Recentemente la nuova leadership dell’Armenia sta perseguendo una politica abbastanza indipendente dalla Russia, che irrita apertamente i suoi leader. Ciò è dimostrato dalla visita recente della moglie dell’ex presidente armeno Kocharian, caduto in disgrazia in Armenia, nonché dalle ultime dichiarazioni della caporedattrice del RT Simonyan, il megafono principale del Cremlino”, ha commentato a Radio Bullets il giornalista. 

Rzayev è convinto che anche se la Russia non dovesse intervenire direttamente nella nuova escalation, ciò non significa che non cercherà di salvaguardare i propri interessi, mettendo, magari, entrambe le parti in una posizione di dipendenza. 

“Uno dei possibili scenari è l’introduzione delle truppe russe, una specie di forze di pace, sulla linea di contatto tra le truppe armene e azere, in cambio della liberazione di cinque dei sette distretti occupati intorno al Nagorno-Karabakh, il cosiddetto Piano di Lavrov”, spiega il giornalista (la proposta del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov sul conflitto, ndr). 

Secondo Rzayev, finora, né l’Azerbaigian né l’Armenia sono pronti ad accettare un simile piano. Recentemente in Azerbaigian c’è un nuovo ministro degli Esteri, quindi è un motivo valido per iniziare tutto “da zero”. Lo scenario peggiore è, ovviamente, la guerra, anche se il giornalista non crede che la situazione possa giungere a una tale escalation: per il momento continueranno solo con piccoli scontri. 

“Come si può vedere, la leadership politica di entrambe le parti è ancora lontana dalla voglia di scendere a compromessi. Lo scenario migliore è lo status quo, cioè né pace né guerra; questo è lo scenario più probabile per almeno i prossimi dieci anni”, conclude Rzayev. 

Invece Naira Hayrumyanla giornalista armena di Lragir.am, nonché commentatrice politica, crede che la Russia non potrà mai mantenere una posizione neutrale, vista la sua diretta responsabilità nel definire i confini attuali tra Armenia, Azerbaigian e Turchia. 

“Vorrei ricordare che nel 1921 il Karabakh armeno è stato trasferito in Azerbaigian per decisione dell’Ufficio del Caucaso della Russia, e questo è l’unico atto giuridico che stabilisce l’appartenenza del Karabakh all’Azerbaigian”, racconta a Radio Bullets la giornalista (“Kavbiuro era un’organizzazione istituita dai bolscevichi nell’aprile 1920 per sorvegliare la subordinazione del Caucaso al Partito comunista russo, ndr). 

“Fino a quando la Russia non riconosce questa decisione del partito come illegale, la neutralità è fuori discussione: così Mosca continua a sostenere l’Azerbaigian. Lo stesso vale per i confini della regione, stabiliti dai trattati russo-turchi del 1921. Se la Russia rimanesse neutrale, rinuncerebbe alla sua firma su questi trattati e consentirebbe ai paesi della regione di negoziare i propri confini”, afferma Hayrumyan. 

Invece nelle dichiarazioni recenti della caporedattrice di RT, Simonyan, la giornalista vede tanto disprezzo per l’Armenia, i suoi interessi, la sicurezza, così come il diritto degli armeni a formare il potere statale come meglio credono.

“Penso che Simonyan non abbia mai nascosto il suo atteggiamento negativo nei confronti delle autorità rivoluzionarie dell’Armenia e la simpatia per Robert Kocharian, che è considerato il leader dell’Armenia più vicino alla Russia”, conclude la giornalista. 

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Turchia: Erdogan gioca con il passato e il futuro (Agoravox 03.08.20)

La Turchia continua a percorrere la sua strada verso una sua modernizzazione che da laica si trasforma in osservante di un islam miscelato da una religiosità e da un nazionalismo espansionista.

Dopo il trattato di Sèvres (Francia, 1920) inizia una nuova Turchia, privata di tutti i territori arabi, senza l’impero, sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk e dopo l’epurazione armena, con le università che si aprono agli insegnanti occidentali, ebrei e cristiani, ridimensionando l’influenza del clero islamico nella vita politica.

L’impero ottomano era finito, i paesi occidentali si erano spartiti le sue spoglie, gli attriti con la Grecia non avevano termine, ma fu riconquistata nel 1936 la sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli; il massacro degli armeni non è mai stato un crimine di uno stato laico o religioso.

Il presidente sultano Recep Tayyip Erdogan guarda al futuro con un terzo ponte sul Bosforo, realizzato in poco meno di tre anni, con 8 corsie e 2 linee ferroviarie; poi il tunnel, sotto per collegare la sponda asiatica con quella europea della città, per l’autostrada Eurasia, il progetto di un canale di 43 km a Istanbul, contestato dalle “opposizioni” e ambientalisti perché mette a rischio le riserve idriche della città, solo per evitare il Bosforo il nuovo avveniristico aeroporto di Istanbul.

Nei progetti della grande Turchia è compresa la realizzazione di una serie di dighe per la razionalizzazione dell’acqua a fini idroelettrici e agricoli, che coinvolge il bacino del Tigri ed dell’Eufrate, nell’area dell’antica Mesopotamia, attuando uno sradicamento delle popolazioni che si vedono sommergere i loro villaggio e parte delle loro storia, mentre i monumenti ritenuti di interesse storico vengono decontestualizzati e portati in siti adiacenti.

Un intervento già effettuato, alla fine degli anni ’70, in Egitto per realizzare la diga di Assuan, spostando la Valle dei Re in collina, per uno sviluppo interno, ma nel caso turco vi è anche un’affermazione di prepotenza, comandando il flusso delle acque del Tigri, erogando parsimoniosamente l’acqua all’Iraq e alla Mesopotamia.

Una diga che sommergerà l’80% di Hasankeyf, con la sua storia millenaria di epoca neolitica, romana, bizantina e ottomana, lasciando ai turisti una selezione delle vestigia come una moschea e il mausoleo di Zeynel Bey.

Da una parte i sacrifici subiti dalle popolazioni per una modernizzazione senza scrupoli, dall’altra le scelte senza esitazioni per un salto a ritroso, cancellando 86 anni di stato laico, per portare Santa Sofia a status di moschea.

Atatürk aveva preferito trasformare la basilica bizantina in museo, evitando che un luogo continuasse ad essere causa di discordia tra la comunità cristiana e quella islamica, ma il nuovo sultano è di diversa opinione, come lo è riguardo ai rapporti donna uomo, mostrando “sensibilità” alle pressioni di alcuni gruppi islamisti per il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere, mentre si consuma un altro assassinio di una studentessa universitaria di 27 anni dove il principale sospetto è l’ex fidanzato di 32 anni.

Mentre il governo turco ci pensa quello polacco sta iniziando il processo per disdire la Convenzione di Istanbul, adducendo come giustificazione la presenza nel testo di «concetti ideologici» estranei alla Polonia, tra i quali il concetto di sesso socio-culturale contrapposto al sesso biologico, perché l’attuale legge polacca tutela i diritti delle donne.

Due differenti governi che condividono la stessa visione di subordinazione della donna e del progresso come un enorme restyling delle città, per essere limitato agli aspetti esteriori, come le ruspe sui simboli laici e l’abbattimento degli alberi a Gezi Park, stravolgendo la piazza delle grandi proteste di massa, e la demolizione del centro culturale Ataturk, essendo un edificio “fatiscente”, ma soprattutto perché luogo della protesta silenziosa del coreografo Erdem Gunduz, con il ritratto di Mustafa Kemal, Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, come elemento scenografico, piazzandosi davanti guardandolo negli occhi, in silenzio, per poi essere imitato da migliaia di persone.

Il sultano ha fatto edificare la Grand Mosque Camlica, la più imponente moschea della Turchia, nel quartiere asiatico di Istanbul, per testimoniare una grandezza economica del paese e per rafforzare il suo potere, inducendo ogni voce critica al silenzio, dopo aver imprigionato migliaia di persone sospettate di aver complottato contro il governo, e fatto chiudere decine di organi d’informazione, ora ha fatto approvare una legge per un maggior controllo sui social media, obbligando Facebook, Twitter e Youtube di avere un referente locale, responsabile sui contenuti e l’eventuale rimozione.

Il progresso della Turchia verso l’oscurantismo censorio, non limita i sogni e le ambizioni del sultano a trovare qualche ettaro di terra in Siria da annettersi, ma impone la sua influenza in Albania e Libia, a trovare dei porti sicuri in Africa, per un’ambizione nazionalistica espansionistica, per stravolgere la Storia.

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Caucaso, le nuove tensioni tra Armenia e Azerbaigian (Università di Padova 03.08.20)

Il Caucaso è tornato a infiammarsi, in uno scontro che è allo stesso tempo etnico, religioso e geopolitico. Lo scorso 12 luglio nella regione di Tovuz/Tovush il cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaigian è stato violato dagli scontri più gravi negli ultimi anni, con morti e feriti da entrambe le parti. Meno di una settimana prima il presidente azero Ilham Aliyev si era detto deluso per l’andamento dei negoziati di pace con l’Armenia, minacciando il ritiro della delegazione azera.

Una situazione di instabilità che dura dalla dissoluzione dell’Urss, con il primo conflitto armeno-azero e la nascita della Repubblica del Nagorno-Karabakh (oggi Artsakh). “Le radici del conflitto sono profonde e risalgono a prima dell’Unione Sovietica, quando la zona era contesa tra l’impero zarista e quello ottomano – spiega a Il Bo Live Antonio Varsori, storico delle relazioni internazionali dell’università di Padova –; sono anzi stati proprio i conflitti nel Caucaso, assieme al distacco delle repubbliche baltiche, a mettere in crisi l’Urss durante l’ultimo periodo di Gorbaciov al potere. Mentre però la secessione di Estonia, Lettonia e Lituania fu relativamente pacifica, le rivalità ataviche tra azeri e armeni esplosero in maniera violenta”. Anche perché non sempre i confini delle vecchie repubbliche socialiste corrispondevano a quelli etnici e religiosi: “Tra i più evidenti c’è proprio il caso del Nagorno-Karabakh: una regione autonoma (oblast) assegnata all’Azerbaigian ma tradizionalmente abitata da armeni. Il conflitto dura dalla dichiarazione di indipendenza, che non è stata riconosciuta a livello internazionale: da più di 25 anni insomma le due nazioni sono ufficialmente in guerra. Una questione che resta aperta e ogni tanto riemerge con questi scontri di frontiera e conflitti localizzati”.

Il confitto è anche un’ulteriore occasione di confronto tra la Russia e Turchia, legate ai due contendenti da trattati militari: “Non credo però che nell’immediato ci sarà una vera e propria guerra – continua Varsori –; Putin ed Erdoğan al momento hanno tutto sommato interesse a che questi contrasti non si esasperino, anche perché sono già impegnati in altri scacchieri, a cominciare da Siria e Libia. Certo la tensione è destinata a rimanere finché non ci sarà una pace vera e propria”. Anche nel Caucaso insomma Russia e Turchia alla fine riescono sempre a raggiungere un compromesso: “C’è rivalità ma la volontà sembra di non giungere a uno scontro aperto che non conviene a nessuno. E possiamo dire quello che vogliamo di Erdoğan e Putin ma non sono certamente stupidi e nella loro politica estera c’è una certa razionalità”.

Da secoli la convivenza pacifica nel Caucaso tra popoli e religioni diverse resta un miraggio. Eppure subito dopo la prima guerra mondiale Armenia, Azerbaigian e Georgia approfittarono del collasso dell’impero ottomano e di quello zarista per formare assieme alla Georgia la Repubblica Federale Democratica Transcaucasica, la quale però si dissolse dopo appena tre mesi. Successivamente le tre repubbliche furono inglobate da Mosca, ma con l’indebolimento e infine il crollo nell’impero sovietico i precari equilibri della regione sono saltati. Da allora le repubbliche caucasiche sono state tutte teatro di conflitti, con la Georgia che nel 2008 ha subito l’attacco russo e la secessione da parte dell’Abcazia e dell’Ossezia del sud. Senza parlare della Cecenia, culla dell’ascesa al potere di Vladimir Putin, che da allora ha sempre mantenuto un’attenzione particolare per la regione.

Negli anni, dalla fine della guerra del Nagorno-Karabakh, molte cose sono cambiate, e alcune no. L’Azerbaigian ha rafforzato la posizione di potenza nel campo degli idrocarburi, aumentando le sue possibilità in ambito bellico e diplomatico rispetto al più piccolo vicino. Dal punto di vista politico invece mentre l’Armenia con l’elezione nel 2018 del premier Nikol Pashinyan sembra essere riuscita negli ultimi anni a emanciparsi dalla vecchia nomenclatura postsovietica, l’Azerbigian assomiglia ancora oggi a una sorta di feudo personale del presidente Aliyev, che ha ereditato il potere dal padre e per il momento ha scelto come vice la moglie. “L’Azerbaigian ha un grande vantaggio nel possesso di ingenti risorse energetiche – spiega ancora lo storico –: tra l’altro è il più importante fornitore dell’Italia e rafforzerà la sua posizione con la Tap, parte conclusiva della pipeline che salta l’Armenia e attraversa Georgia, Turchia, Grecia e Albania prima di raggiungere la Puglia. Gli interessi economici per evitare lo scontro sono quindi forti, soprattutto in un periodo di difficoltà economica”. Da anni nella regione viene portato avanti un faticoso processo di pace da parte del Gruppo di Minsk, guidato da Stati Uniti, Francia e Russia, che però negli ultimi tempi sembra segnare il passo: “Soprattutto Usa e Ue al momento appaiono indeboliti e hanno altro a cui pensare, così come l’Iran – conclude Varsori –. Il Covid-19 sta incidendo sugli equilibri internazionali e più ancora lo farà la crisi economica. Per il momento solo la Cina sembra uscire rafforzata, e in effetti ha approfittato della crisi per riprendersi Hong Kong”.

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NAGORNO-KARABAKH: Frutta e social, si allarga il fronte degli scontri (Eastjournal 02.08.20)

Il conflitto del Nagorno-Karabakh è tornato a far parlare di sé nelle ultime settimane. L’escalation militare nella zona di Tavush, di cui abbiamo scritto nei giorni scorsi, fortunatamente, sembra essersi conclusa. La tensione nella regione resta, però, alta visto che, per la prima volta, si è combattuto sul confine internazionalmente riconosciuto tra Armenia e Azerbaigian, invece che su quello de facto tra la autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh e il resto del territorio azero.

In questo periodo, si è assistito a un altro evento che non aveva precedenti; gli usuali scontri verbali che vedono protagoniste le comunità armene e azere in giro per il mondo sono sfociati in violenza in diverse città del globo. Anche questi eventi, parallelamente a quelli al fronte, sono stati presentati in maniera antitetica dai mezzi d’informazione e sui social network nei due paesi.

La guerra delle albicocche e non solo

A Mosca, i problemi sono iniziati il 18 luglio, quando la catena di distribuzione alimentare Food City, appartenente a due imprenditori azeri, si è rifiutata di comprare le albicocche trasportate da cinquanta camion provenienti dall’Armenia. In risposta, la diaspora armena locale ha organizzato una catena di vendita alternativa della frutta e indetto boicottaggi ai danni dei commercianti azeri della zona. Nei giorni successivi, si sono registrati scontri nella capitale e in altre città della Russia, con ristoranti armeni e azeri attaccati da gruppi  di uomini armati di mazze.

Nel frattempo, gli armeni e gli azeri manifestavano in sostegno della propria madrepatria presso le rispettive sedi diplomatiche nel mondo. Questi movimenti, tendenzialmente pacifici, sono sfociati in violenza tra i due gruppi etniciLondra (17 luglio), Los Angeles (21 luglio) e Bruxelles. La dinamica degli scontri è stata ovunque piuttosto simile, con gruppi di manifestanti delle due fazioni che si sono confrontati in strada.

Una rappresentazione contrastante

Questi gravi episodi non hanno, al momento, avuto conseguenze più serie di alcuni feriti e qualche arresto. I media nei due paesi li raccontano con un unico paradigma. Si parla di manifestazioni pacifiche attaccate da un gruppo di facinorosi provenienti dall’altro gruppo etnico. Le notizie vengono poi pubblicate sui social network da giornalisti e semplici cittadini con toni all’insegna del vittimismo e appelli alla comunità internazionale a fermare l’aggressione altrui.

Accuse di tal genere ricalcano perfettamente quelle inerenti agli scontri sul fronte. Negli ultimi mesi, per esempio, sia Mammad Ahmadzada, ambasciatore dell’Azerbaigian in Italia, che il Consiglio per la comunità degli Armeni di Roma, hanno ribadito quanto  detto e ripetuto negli anni.

Il diplomatico azero ha condannato l’Armenia per l’occupazione trentennale di territorio internazionalmente riconosciuto come parte dell’Azerbaigian – il Nagorno-Karabakh e sette distretti adiacenti. Ha ricordato anche l’espulsione dei cittadini azeri dai territori sotto occupazione armena e il massacro di Khojali, che vide la morte di 613 civili azeri nel 1992 per opera dell’esercito armeno.

Il Consiglio per la comunità degli Armeni, in un comunicato dal titolo “L’Armenia vuole la pace, l’Azerbaigian la guerra”, ha accusato Baku di aver provocato l’escalation dei giorni scorsi e i conseguenti scontri in giro per il mondo. Ha anche citato il caso Safarov, l’assassinio di un ufficiale armeno da parte di un collega azero durante un’esercitazione della NATO, come esempio di “armenofobia”.

Chi semina vento raccoglie tempesta

Quanto sta succedendo al fronte e le successive violenze sono il risultato di anni di propaganda all’odio che hanno reso impossibile qualsiasi forma di dialogo. Le due parti si incolpano vicendevolmente senza provare a capire le ragioni dell’altro o fare autocritica.

Come notato nei giorni scorsi da Thomas de Waal, autore dell’importante libro “Giardino Nero”, “un giorno gli armeni e gli azeri dovranno accettare compromessi dolorosi, superare le proprie riserve attuali, fare la pace e vivere di nuovo come vicini”.

Rivangare all’infinito i torti subiti è un atteggiamento utile a infuocare di odio la popolazione, ma non a raggiungere un accordo necessario per il bene dei due paesi.

Da parte armena servirebbe comprendere che il principio di autodeterminazione dei popoli non è sinonimo di secessione. L’attuale situazione che, come menzionato, vede parte del territorio azero occupato per effetto del conflitto negli anni novanta, non potrà mai essere accettata a Baku. Una qualche concessione territoriale è necessaria sul tavolo della pace.

Da parte azera, invece, non sarebbe male rivedere le proprie azioni negli anni passati. Negare il genocidio armeno, glorificare un omicida e distruggere chiese e cimiteri armeni, non ha nulla a che vedere con l’occupazione del territorio azero. Ripensare la propria narrativa al riguardo sicuramente favorirebbe una distensione.

La prossima escalation tra i due paesi è, purtroppo, solo questione di tempo. In questo clima, sempre più teso, è bene chiudere parlando di due recenti iniziative che hanno visto le due parti collaborare. La prima è stata la co-produzione, da parte di giornalisti armeni e azeri, di un documentario sulla guerra in Nagorno-Karabakh. Si tratta di un’opera utile – la si può vedere qui – per capire le ragioni del conflitto e dell’attuale stallo dei negoziati. La seconda, è stata un appello alla distensione firmato da membri delle due comunità nel mondo.

Non è molto, ma sono le poche notizie che lasciano pensare ad un futuro migliore.

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La città armena e i presidenti sotto scacco (La nazione 02.08.20)

PinoDi Blasio

Il tempo stringe, la paura di ritrovarsi in serie D per beghe, cavilli e giochetti pericolosi e ambigui, cresce con il passare delle ore. La priorità è l’iscrizione della Robur, poi si passerà alle altre questioni: a capire bene cosa vogliono fare gli armeni, chi sono i loro veri advisor e rappresentanti, su cosa puntano davvero a Siena, oltre alla banalità della bellezza di Piazza del Campo. Personalmente non ho mai gradito le cortine fumogene della riservatezza, dei fondi che arrivano dal Liechtestein o da Cipro, la presunta tutela della privacy sui nomi, incarichi e precedenti penali e finanziari di chi vuole investire in Italia e a Siena. L’allergia vale anche per Sargis Gevorgyan, o chi per lui, fino a quando non mostrerà il suo volto e spiegherà le sue intenzioni.

Oltre al nuovo vento dell’Est, hanno tenuto banco in questi giorni, i guai di due presidenti. L’ex vertice di Banca Mps, Alessandro Profumo, ha superato indenne lo scoglio dell’azione di responsabilità, il cda del Monte ha scelto la strada della prescrizione. Il processo di Milano dirà se è stata la scelta giusta, qui non resta che ribadire ai nuovi vertici del Monte, che la Banca e Giuseppe Bivona hanno interessi divergenti. Bivona vuole incassare milioni per i danni dalle presunte malefatte degli ex vertici, la Banca deve continuare a fare la banca, nonostante un patrimonio sempre più risicato e bilanci ancora più rossi.

L’altro presidente sotto scacco è Francesco Macrì di Estra. Al quale auguriamo di superare le inchieste giudiziarie, di dimostrare in tutte le sedi la sua trasparenza e legittimità di carica. Ma la difesa non è un alibi per nascondere o sottovalutare la sfiducia del 75% dei soci di Estra. Difficile restare alla guida di una società se tre quarti dei soci ti chiedono di lasciare il volante.

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Robur Siena, quattro giorni all’iscrizione ma la cordata armena frena: cessione slittata

Il conto alla rovescia, iniziato settimana scorsa per l’iscrizione al campionato della Robur Siena, sta volgendo al termine: -4 giorni o il Siena non prenderà parte al campionato di serie C nella stagione 2020/2021. Intanto vanno avanti le trattative, dalle ultime indiscrezioni sembrava che la presidente Durio fosse a Roma per concludere la trattativa con l’armeno Sargis Gevorkyan, ma qualcosa è andato storto: la firma non è ancora arrivata, la cessione slitta a lunedì, forse, ma il tempo sta per finire.

Facciamo un riassunto della situazione che si è creata, già ad inizio anno, in casa Robur. Già a gennaio, la proprietà formata dalla coppia madre e figlio, ovvero, Anna Durio e Federico Trani ha iniziato a vacillare, la stangata definitiva è arrivata con il lockdown e l’emergenza sanitaria. Dalle mura bianco nere però non trapelava nulla, solo silenzio, infine gli stipendi non pagati e, successivamente, pagati in ritardo costando 2 punti di penalizzazione per il prossimo campionato. Successivamente la confessione della Durio: Il Siena è in vendita.

Già da maggio sono iniziate le trattative, molti i nomi che sono ruotati intorno alla Robur Siena, da Lombardi Stronati a Perinetti, infine, i nomi più gettonati: Diego Foresti e Sargis Gevorkyan, imprenditore proveniente dall’Armenia. In queste trattative si sono composti due schieramenti, da un lato la presidente Durio, volenterosa di cedere la società alla cordata romana guidata da Foresti, molto probabilmente perchè l’ormai ex direttore generale della viterbese avrebbe mantenuto Durio-Trani come soci di minoranza, con la garanzia di ripianare i debiti. Dall’altro lato il Comune di Siena che fin da subito non ha mai nascosto la sua simpatia verso il gruppo armeno.

Nonostante tutto, fin dall’inizio Foresti primeggiava nella volontà della società bianco-nera, arrivando quasi a concludere la trattativa, fino a quando qualcosa si è rotto, forse un’offerta finale troppo alta, insomma, sta di fatto che Foresti ha tirato i remi in barca ed ha portato la sua società (Fram Group n.d.r.) tra le fila del Catanzaro. Da lì in poi, seguirà un pressing fortissimo da parte del Comune di Siena che si dice preoccupato per un probabile fallimento. Intanto, però, la cordata armena si rifà avanti, questa volta con la volontà di acquisire, una volta per tutte, la società Robur Siena. Negli ultimi giorni si sta trattando, dalle ultime indiscrezioni sembra che la presidente Durio sia andata a Roma per concludere la trattativa, per affidare il 100% delle quote nelle mani di Sargis Gevorkyan. Forse nei prossimi giorni ci sarà l’ufficializzazione della vendita. Intanto il tempo scorre, sono ore decisive e convulse, il Siena non può e non deve fallire. L’iscrizione al campionato, però, è vicina.

Niccolò Bacarelli

“Games of drones” nel Caucaso meridionale (difesaonline 01.08.20)

(di Andrea Gaspardo)
01/08/20

Un aspetto interessante emerso nel corso degli scontri di confine tra Armenia e Azerbaigian, già ampiamente descritti sul versante geopolitico in una precedente analisi (v.articolo), è stato il massiccio utilizzo di UAV da parte dei contendenti. Ciò non rappresenta una novità in senso stretto dato che il primo utilizzo di velivoli senza pilota in modo sperimentale da parte dei contendenti risale ad almeno 20 anni fa. Tuttavia, quello che era iniziato come un esperimento in sordina, ha piano piano assunto i contorni di un fenomeno di larga scala foriero di ulteriori evoluzioni dagli esisti inaspettati, come visto dalle esperienze della “Guerra dei Quattro Giorni” dell’aprile 2016 e dagli scontri di frontiera del luglio 2020.

Nel corso degli ultimi fatti d’arme, avvenuti lungo i confini internazionalmente riconosciuti della Repubblica d’Armenia e della Repubblica d’Azerbaigian, gli Azeri hanno dichiarato di aver abbattuto 5 UAV armeni mentre a loro volta gli Armeni hanno rivendicato l’abbattimento di 13 UAV azeri. Anche questa volta sembrava di assistere al balletto di cifre che regolarmente fa capolino nelle sparate di propaganda diffusa delle parti in conflitto (propaganda che, è bene ricordarlo, a volte è frutto di deliberate manovre di disinformazione mentre altre volte è prodotto della cosiddetta “fog of war”, l’incertezza delle notizie provenienti dai campi di battaglia). Tuttavia, mentre le forze azere non hanno presentato ad oggi alcun tipo di prova a sostegno delle loro rivendicazioni, le loro controparti armene hanno questa volta colto tutti in contropiede organizzando, il 21 di luglio, una conferenza stampa in grande stile in uno spazio aperto nel corso della quale sono stati mostrati, a beneficio della stampa e degli analisti militari, i resti degli UAV azeri abbattuti nel corso dei giorni precedenti.

Interessante notare il fatto che, mentre alcuni UAV erano stati distrutti dal fuoco delle unità della Difesa Aerea, altri risultavano “relativamente intatti” quindi molto probabilmente vittime di attacchi informatici (in stile iraniano) oppure dirottati dagli impulsi elettronici ed elettromagnetici dei sistemi EW di origine russa, in servizio presso le Forze Armate Armene, che hanno dimostrato anche nel Caucaso meridionale (come già in Siria) la loro micidiale efficacia.

Contestualmente l’ufficio stampa delle Forze Armate della Repubblica d’Armenia ha pubblicato i video degli abbattimenti dei droni nemici ripresi dai serventi delle batterie antiaeree così come le riprese dei campi di battaglia, questa volta eseguite dai propri droni, apparentemente liberi di operare senza molte interferenze da parte azera.

L’iniziativa armena, a dire la verità un’autentica “prima volta” in questo genere, ha avuto una certa eco e ha permesso alla piccola repubblica caucasica di rivendicare la “palma della vittoria” per quanto attiene alla dimensione di “information war” della recente recrudescenza del conflitto.

Ma come si sono infiltrati i droni nelle dottrine militari e negli impieghi operativi dei duellanti del Caucaso?

Come già affermato in precedenza, l’impiego degli UAV in questa parte del mondo risale ai primi anni 2000 e l’iniziatore di tale trend è stato l’Azerbaigian. A partire dalla fine della “Guerra del Nagorno-Karabakh” del 1988-94, l’Azerbaigian, sconfitto e schiantato militarmente, decise sostituire le operazioni di “guerra convenzionale” con una vera e propria “intifada della guerra” al fine di snervare la determinazione degli Armeni ed obbligarli ad abbandonare il Nagorno-Karabakh (Artsakh). A partire da questa necessità politico-strategica, e nel quadro di un progressivo potenziamento delle proprie forze armate grazie ai proventi della vendita di petrolio e gas, gli Azeri si sono rivolti ai loro sponsor internazionali al fine di ottenere sempre nuovi armamenti. E una delle armi che gli strateghi di Baku riconobbero come fondamentale per prevalere sui loro nemici furono proprio gli UAV, in particolare quelli prodotti dallo Stato d’Israele. Non è questo il luogo e il tempo di parlare delle relazioni tra lo Stato d’Israele e la Repubblica dell’Azerbaigian a 360 gradi; per il momento ricorderemo soltanto che, dal punto di vista militare, l’Azerbaigian si è rapidamente imposto come uno dei principali clienti degli arsenali “made in Israel” sin dalla guerra del 1988-94.

A fare da tramite in un primissimo tempo fu la Turchia, grande sponsor dello stato caspico e anch’essa cliente di vecchia data dei prodotti militari dello “stato con la Stella di Davide”, ma successivamente Baku ha imparato a muoversi rapidamente con le proprie gambe.

Non è chiaro esattamente quali e quanti UAV siano in servizio presso le Forze Armate dell’Azerbaigian anche se si sa che essi sono controllati principalmente dalle Forze Aeree. È senza dubbio vero che una parte delle somme di denaro dei “mega contratti multimiliardari”, che le autorità di Baku strombazzano con la stessa regolarità delle stagioni, vengono spese per l’acquisto di droni israeliani così come è vero che, a partire dal 2005, le Industrie del Ministero della Difesa dell’Azerbigian hanno incominciato a produrre autonomamente una certa aliquota dei propri arsenali, UAV inclusi, ma i contorni del quadro sono ancora molto fumosi.

Per trovare alcuni fatti concreti bisogna, paradossalmente, “rivolgersi all’Armenia”. Infatti è sul confine tra Armenia ed Azerbaigian, oltre che sulla linea del fronte nel Nagorno-Karabakh (Artsakh) che l’Azerbaigian impiega le nuove tipologie di UAV non appena entrano in servizio e, dato che gli Armeni glieli abbattono con altrettanta regolarità, possiamo essere sicuri che, tempo qualche mese, i resti dei nuovi “giocattoli” di Baku verranno mostrati di fronte alle telecamere ad uso e consumo degli analisti della difesa di mezzo mondo.

Seguendo questo modus operandi è stato possibile verificare che, nel corso degli anni, Baku abbia messo in servizio UAV del tipo: IAI Searcher, IAI Harpy, IAI Heron (foto), Aeronautics Defense Orbiter, Aeronautics Defense Dominator, Elbit Hermes 450 ed Elbit Hermes 900, oltre allo UCAV del tipo IAI Harop. Quest’ultimo poi, ha fatto un’entrata in scena letteralmente “con il botto”, nel corso della guerra del 2016, quando un esemplare venne ripreso dalle telecamere nell’atto di schiantarsi contro un bus carico di volontari armeni diretti al fronte uccidendone almeno una decina e ferendone molti altri.

Come già detto, non è facile valutare tipologie e numeri dei droni dell’Azerbaigian, tuttavia alla luce di quanto detto sin ora, possiamo affermare che ad oggi Baku schieri: UAV di origine israeliana direttamente forniti da Israele, UAV di origine israeliana prodotti su licenza in Turchia e UAV di origine israeliana prodotti su licenza dallo stesso Azerbaigian. Corre voce però che, dopo anni di dipendenza da Israele, gli Azeri vogliano ora differenziare le loro fonti di approvvigionamento di droni e che stiano tenendo d’occhio con particolare interesse gli indiscutibili successi che la Turchia ha ottenuto negli ultimissimi anni in questo campo.

Dopo essere stata per lungo tempo dipendente dagli Stati Uniti d’America e dallo Stato d’Israele per le forniture di UAV e UCAV, ora la Turchia è assolutamente autonomia in questo senso e l’industria militare turca può essere considerata una superpotenza nel settore. Le Forze Armate di Ankara hanno utilizzato massicciamente i droni nei conflitti di Siria, Iraq e Libia e, pare che gli strateghi della Mezzaluna turca abbiano sposato completamente ed entusiasticamente la dottrina militare iraniana dell’utilizzo massiccio e generalizzato dei droni in ambito bellico, in questo modo differenziandosi dai loro fornitori originari, gli Americani e gli Israeliani, che pure operando con gli UAV e gli UCAV già da decenni pare siano rimasti “un pochino indietro” dal punto di vista dottrinale e sono “meno spregiudicati”. Dato che, ad oggi, le industrie turche sono state in grado di produrre almeno una quarantina di modelli diversi di UAV e UCAV (senza contare quelli di origine straniera prodotti su licenza), si capisce come le possibilità di Baku per rifornirsi siano enormi.

Diverso è stato invece il percorso intrapreso dall’Armenia, i cui primi UAV hanno incominciato a volare attorno al 2010; a differenza dell’Azerbaigian però, l’Armenia ha deciso da subito di percorrere la via dell’autarchia. Le ragioni che hanno portato Yerevan ad optare per questa scelta sono essenzialmente due. Primo: evitare come la peste di compromettere la propria sicurezza nazionale in un settore strategico come quello degli UAV affidandosi a fornitori stranieri, specialmente gli Israeliani, che già facevano affari d’oro proprio con la Turchia e l’Azerbaigian, i due paesi nemici dell’Armenia per antonomasia. Secondo: dare impulso al proprio comparto hi-tech e a tutte le imprese piccole e grandi d’Armenia che da anni stanno trainando lo sviluppo del segmento dell’economia ad alto contenuto di tecnologia in stretta collaborazione con i poli universitari del paese. Seppure questa strategia non si sia rivelata di facile percorrenza ed abbia necessitato di tempo, denaro e pazienza per poter essere messa in pratica, essa si è alla lunga dimostrata pagante, ed oggi vi sono diverse compagnie armene molto attive nella progettazione e nella produzione di UAV le cui prestazioni però non sono facili da valutare vista la refrattarietà delle autorità armene di permettere l’export di questi mezzi considerati “strategici”.

Egualmente complicato è valutare quali e quanti UAV siano in servizio con le Forze Armate della Repubblica d’Armenia e con l’Esercito di Difesa dell’Artsakh. Visto che le controparti azere non si sono dimostrate altrettanto efficaci nell’abbattere i droni armeni, nonostante siano in possesso di sistemi di difesa antiaerea sulla carta molto validi, l’unica altra strada da percorrere è quella dello studio dei “modelli” mostrati nel corso delle parate militari o nei filmati relativi alle esercitazioni militari. Tuttavia è bene ricordarlo che gli Armeni sono abbastanza “abbottonati” quando si tratta di rivelare la vera entità numerica e potenzialità delle loro forze armate e dei mezzi in dotazione e “non mostrano mai del tutto ciò che hanno veramente”.

Dopo questa doverosa premessa possiamo dire che le Forze Armate della Repubblica d’Armenia e l’Esercito di Difesa dell’Artsakh hanno adottato con certezza almeno 4 tipi diversi di UAV: il Basé, lo X-55 (foto), il Krunk e l’Azniv.

Il Basé è il più piccolo di tutti e svolge operazioni di ricognizione a livello di squadra o sezione, in particolare in appoggio alle operazioni delle Forze Speciali o degli avamposti sulla linea del fronte.

Lo X-55 è un po’ più grande e compie operazioni di ricognizione in appoggio ad operazioni di livello di battaglione o reggimento. Il Krunk e l’Azniv (quest’ultimo rappresenta un’evoluzione del precedente) svolgono invece operazioni di ricognizione sia tattica che strategica e si sono rivelati eccellenti piattaforme d’appoggio per dirigere il tiro d’artiglieria nel corso delle schermaglie senza fine lungo l’estesissima linea del fronte.

Il Krunk in particolare (che in lingua armena significa “gru”) è entrato in servizio nel 2011 e da allora è stato costantemente aggiornato e migliorato (tanto che ne sono entrate in servizio almeno 11 varianti diverse!) e ha stupito numerosi osservatori internazionali, persino gli stessi Israeliani, per le sue caratteristiche e prestazioni.

L’improvvisa apparizione dello UCAV IAI Harop tra i mezzi a disposizione dell’Azerbaigian, nel corso della guerra lampo del 2016, ha letteralmente scioccato gli Armeni (i servizi segreti di Yerevan per una volta hanno fatto cilecca e non avevano anticipato l’entrata in servizio di questo mezzo) i quali prima hanno pubblicamente respinto un’offerta segreta israeliana per l’acquisto dello stesso mezzo e poi hanno mobilitato il loro comparto tecnologico che nei 4 anni successivi ha sfornato numerosi modelli di UCAV indigeni, tra i quali almeno 2 sono stati adottati ed impiegati nei recenti scontro del luglio 2016: il BEEB 1800 e lo HRESH (“mostro” in lingua armena). Quest’ultimo in particolare è diventato suo malgrado protagonista di un piccolo intrigo internazionale quando diversi osservatori israeliani lo hanno associato allo UCAV israliano HERO-30 prodotto dalla Uvision accusando successivamente l’Armenia di essere una “ladra di tecnologia UCAV”, circostanza respinta seccamente dai vertici del gruppo ProMAQ, un conglomerato di diverse compagnie attive nel settore dei droni fondato subito dopo la guerra del 2016 e rispondente direttamente al governo ed alle autorità militari di Yerevan.

Al di là della querelle diplomatica pare proprio che non vi sia fondamento nelle accuse israeliane perché, ad una valutazione approfondita, lo HRESH non assomiglia a nessuno dei prodotti della Uvision (e coloro che hanno messo in correlazione lo HRESH con lo HERO-30 forse avrebbero fatto meglio a metterlo in relazione invece con lo HERO-400EC il quale è molto più simile allo UCAV armeno sia esteticamente che per prestazioni, invece dello HERO-30 che è totalmente diverso) ma sembra piuttosto una versione “rimpicciolita” del missile serbo ALAS con il quale ha in comune il medesimo sistema di guida ed una somiglianza estetica abbastanza marcata oltre alla stessa flessibilità di impiego. È curioso che proprio nel corso degli scontri di luglio 2020 l’Azerbaigian abbia apertamente accusato la Serbia di vendere armi e tecnologia militare all’Armenia, circostanza poi confermata (anche se minimizzata) dalle autorità di Belgrado, aprendo così la possibilità che, effettivamente, possa esistere un certo grado di parentela tra lo UCAV armeno HRESH ed il missile serbo ALAS.

Infine, proprio durante gli scontri di luglio 2020, le autorità del Nagorno-Karabakh (Artsakh) hanno annunciato l’inizio della produzione di massa di uno UCAV “made in Stepanakert” dopo uno sviluppo durato due anni e conclusosi con un utilizzo sperimentale sul campo dell’arma contro le posizioni azere. Sfortunatamente, al momento, a parte i video diffusi dalle autorità nagornine, non si conosce nulla di questo UCAV, nemmeno il nome.

Per concludere, abbiamo visto come la situazione di perenne conflitto tra Armenia e Nagorno-Karabakh (Artsakh) da un lato e Azerbigian dall’altro abbia creato il terreno fertile per lo sviluppo e lo schieramento da parte dei contendenti di importanti flotte di UAV e UCAV che sono già stati impiegati massicciamente e il cui utilizzo vedrà prevedibilmente un’escalation nel futuro, provocando nuove innovazioni nelle strategie di guerra che potranno poi essere esportate in altri contesti di conflitto in altre aree del mondo, anche alle nostre porte di casa. Una ragione in più per non girarci dall’altra parte e mantenere alta l’attenzione su questa area calda della geopolitica contemporanea.

Duduk musiche e voci dall’Armenia a Forni di Sopra (Ilfriuli.it 01.08.20)

Entra nel vivo l’Anciuti Music Festival, prezioso spazio culturale di riscoperta e valorizzazione della figura di Giovanni Maria Anciuti (1674-1744), ineguagliato costruttore di strumenti a fiato originario di Forni di Sopra: trasformata quest’anno – in ragione delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria – da evento itinerante in “stanziale”, sul territorio di Forni di Sopra, la rassegna offrirà nel mese di agosto dei raffinati “Concerti al tramonto”, appuntamenti di indubbio livello adatti, peraltro, sia a una platea qualificata che al grande pubblico. Il primo è in calendario per sabato 1 agosto, alle 17.30, nel piazzale della chiesa di San Giacomo, nella frazione di Vico: di particolare suggestione la proposta d’ascolto, intitolata “Il Duduk, musiche e voci dall’Armenia” e affidata a Elizaveta Martyrosian, (voce), Abel Arshakian, al Duduk, e Nelson Arshakian, al Dhol: si tratta di strumenti popolari tipici dell’Armenia, appunto. L’ingresso sarà libero.

La seconda data porta a mercoledì 5 agosto, quando a Cjasa dal Munic, nella borgata di Cella (sempre alle 17.30), si potrà assistere a un’elegante esibizione dei musicisti Paolo Pollastri, Claudia Pavarin ed Enrico Cossio: “Giochi d’ancia” il titolo del concerto, che offrirà un “viaggio” sonoro alla scoperta di oboi e corni inglesi dal Rinascimento ai giorni nostri.

Promosso dal Comune di Forni di Sopra, con il sostegno della Regione Friuli Venezia Giulia, e curato dall’Associazione culturale Dorelab, in partnership con la Pro loco di Forni di Sopra e il Comune di Palmanova, l’Anciuti Music Festival 2020 è coordinato dai maestri Paolo Pollastri, direttore artistico, ed Enrico Cossio, direttore organizzativo.

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L’ Armenia denuncia un nuovo attacco armato dell’Azerbaigian (appoggiato dal governo turco). La protesta della Comunità armena italiana. (Storiaverità 01.08.0)

Il ministero della Difesa armeno ha annunciato un nuovo attacco da parte delle forze armate azere lungo il confine che separa le due Repubbliche. Come riportato dall’agenzia di stampa Armenpress, la portavoce del ministro della Difesa armeno Shushan Stepanyan ha osservato che le forze speciali delle forze armate azere il 21 luglio, verso le 22:30, hanno lanciato un altro attacco in direzione della postazione di confine dell’esercito armeno “Avnakh”. Si tratta della stessa postazione che le forze armate azere hanno attaccato il 12 luglio.

“Le unità delle forze armate dell’Armenia hanno respinto l’attacco, infliggendo perdite significative al nemico. Secondo i dati preliminari, il nemico non ha subito non solo perdite umane, ma anche diverse forze speciali azere furono intrappolate. Non ci sono perdite dalla parte armena” – ha riferito Stepanyan.

Mappa della zona

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“In alcune parti del confine, il nemico ha violato il cessate il fuoco 7 volte con armi leggere, sparando circa 20 colpi in direzione delle posizioni dell’esercito armeno. Il cessate il fuoco nella direzione delle posizioni di combattimento situate nella direzione di Gill è stato violato una volta, nella direzione delle posizioni di combattimento situate nella direzione di Aygepar una volta, le posizioni di combattimento situate nella direzione di Paruyr Sevak, Yeraskh e Zangakatun 3 volte” – riporta ancora la portavoce della difesa di Erevan.

Gli scontri al confine tra i due Paesi sono iniziati il 12 luglio scorso nella regione di Tavush, nel nord delle due repubbliche. L’Azerbaigian ha denunciato un tentativo da parte delle forze armate armene di attaccare le posizioni dell’esercito della repubblica usando l’artiglieria, mentre Erevan attribuisce l’escalation a un tentativo di sfondamento da parte dell’Azerbaigian nella postazione di confine di Avnakh. Baku riporta la morte di 12 soldati dell’esercito azero. Erevan ha annunciato la morte di quattro militari e il ferimento di altri dieci. Entrambi i paesi accusano il nemico di aver colpito deliberatamente obiettivi civili.

Il conflitto tra l’Azerbaigian e l’Armenia per il Nagorno-Karabakh iniziò nel febbraio 1988, quando la Regione autonoma del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena, annunciò la sua secessione dalla Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian. Nel corso del conflitto armato del 1992-1994, l’Azerbaigian ha perso il controllo del Nagorno-Karabakh e di sette dipartimenti adiacenti. Dal 1992 sono in corso negoziati per una soluzione pacifica del conflitto nell’ambito del gruppo OSCE di Minsk, presieduto da Russia, Stati Uniti e Francia. La regione di Tavush dove si sono svolti gli scontri nell’ultima settimana si trova a circa 160 Km a nord della regione contesa.

Fonte: https://sicurezzainternazionale.luiss.it (traduzione di Italo Cosentino).

Il Comunicato della Comunità armena italiana.

In questi giorni l’Azerbaigian, dopo aver aggredito lo scorso 12 luglio militarmente l’Armenia cercando di violare il suo confine di Stato, ha dato avvio a una campagna di disinformazione in tutto il mondo, cercando di addebitare all’Armenia tale incursione e accusando, per ultimo, anche la Diaspora armena di aggressione verso i cittadini azeri.

Come invece la cronaca di questi ultimi giorni ci sta evidenziando le informazioni diffuse dalle sedi diplomatiche e dagli ambasciatori azeri presso gli stati stranieri si sono verificate del tutto infondate e menzognere, perché sono proprio gli attivisti turco azeri, incitati da Baku e dal Presidente dittatore Aliyev, a compiere atti di violenza verso le sedi diplomatiche armene e verso gli armeni.

Gli azeri prima aggrediscono, ricorrono ad atti di violenza per poi correre ai ripari con accuse infondate, mistificando addirittura la storia e la realtà, come sta facendo da qualche giorno l’Ambasciatore azero in Italia Sua Eccellenza Mohammad Ahmadzada, inviando lettere piene di fake news a testate giornalistiche e politici.

L’Armenia vuole la pace, l’Azerbaigian la guerra.

D‘altronde da un Paese che ha portato in trionfo come eroe nazionale un proprio ufficiale condannato per aver decapitato un soldato armeno durante un corso NATO a Budapest non c’era da aspettarsi un diverso atteggiamento.

L’Azerbaigian, agli ultimi posti nella classifica mondiale sulla libertà di informazione e tra i paesi più corrotti e corruttori, è stato già giudicato dal mondo libero e democratico.

Come Consiglio per la comunità armena di Roma, in quanto componenti della diaspora armena in Italia, denunciamo questa ennesima campagna di odio e di armenofobia portata avanti dal regime di Baku. Condanniamo tutti gli atti di violenza compiuti perché crediamo e siamo convinti che la via maestra sia il dialogo e la diplomazia e non l’aggressione e la violenza.

L’Armenia vuole la pace, l’Azerbaigian la guerra. Lo ribadiamo.

Invitiamo tutte le istituzioni, i politici e i media italiani a non prestare in alcun modo il fianco alle infondate accuse della dittatura azera spalleggiata dal regime di Ankara. E anche a verificare sempre la fondatezza delle comunicazioni diffuse e ad appoggiare la linea della non violenza, ribadita anche dal ministero degli Esteri armeno e dal gruppo di Minsk dell’OSCE.

L’Armenia vuole la pace, l’Azerbaigian (e la Turchia) la guerra.

Consiglio per la comunità  armena di Roma

www.comunitaarmena.it

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