Modella Gucci vittima di body shaming: viene derisa per la sua bellezza anticonvenzionale (105.net 28.08.20)

Armine Harutyunyan è una modella 23enne di origine armene molto affermata nel mondo della moda: oggi sfila per Gucci, che l’ha inclusa tra le 100 modelle più sexy del mondo. La giovane ha già sfilato su passerelle molto importanti ma, nonostante il suo successo, è vittima di body shaming.

In particolare, Armine è stata ricoperta da insulti e critiche dopo la sua partecipazione alla Fashion Week di Parigi lo scorso settembre; in seguito i messaggi denigratori sono proseguiti sui social da parte di misogini, razzisti, haters di tutti i tipi, tra i quali purtroppo anche tante donne e questo è ciò che stupisce di più. Molte donne, infatti, anziché mostrarsi solidali, diventano spesso perfide nei confronti di altre donne.

Armine viene così tanto criticata perché la sua bellezza non rispetta i canoni convenzionali: in tanti l’hanno definita brutta e considerano il suo aspetto non adatto al mondo della moda. Ma lei, con grande coraggio, se ne infischia e continua a fare il lavoro che ama.

A credere in Armine è stato Alessandro Michele, attuale direttore creativo di Gucci che da tempo punta proprio su scelte estetiche anticonvenzionali: secondo alcuni detrattori si tratta solo di scelte di marketing, ma in realtà l’intento è quello di veicolare una nuova idea di apertura verso la diversità e la bellezza al di fuori da ogni schema prestabilito.

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Armenia: c’è chi è rimasto in Thailandia (Osservatorio Balcani e Caucaso 27.08.20)

Varda Avetisyan, nota ristoratrice armena, e il suo compagno, lo scorso 28 gennaio erano in viaggio per l’isola di Koh Samu, per una vacanza in Thailandia. Non avrebbero mai immaginato che la loro vacanza di due mesi si sarebbe trasformata in un progetto imprenditoriale a tempo indeterminato. Le frontiere chiuse a causa del coronavirus hanno portato la vita della 38enne Varda in una nuova direzione.

“Era la fine di gennaio quando io e il mio ragazzo siamo partiti per una vacanza. Era da tanto che non staccavamo e avevamo programmato di rimanere in Thailandia per 2 mesi. Avevamo un biglietto di ritorno per il 2 aprile. Ero incinta di tre mesi in quel momento. Avevamo programmato di fare yoga, per rilassarci completamente. Insomma, sono andata in cerca di relax, ma tutto ha assunto un andamento diverso”, racconta.

Già all’inizio di marzo la coppia si era resa conto che i loro piani sarebbero dovuti cambiare. A marzo i voli internazionali hanno iniziato a subire progressivamente ritardi. “Quindi i visti sono stati automaticamente prorogati di tre mesi, in modo che il servizio immigrazione non fosse affollato. Proprio da quel momento ci siamo resi conto che saremmo rimasti qui per molto tempo e che c’erano delle sfide a cui trovare soluzione”, ricorda Varda.

Varda è nata a Yerevan, la capitale dell’Armenia, ma ha vissuto negli Stati Uniti per una parte della sua vita. Ancora adolescente ha fatto domanda per un programma di studi negli Stati Uniti, venendo accettata. È andata a studiare in America e ha vissuto lì per 13 anni.

Un piatto del Vegan Villa

È qui che è entrata per la prima volta nel mondo della ristorazione: prima lavava i piatti, poi è passata a fare la cameriera, poi è diventata manager. Le piace entrare in un ristorante, scrivere un nuovo menu, selezionare nuovo personale e immergersi nella cucina locale. Anni dopo ha proseguito la stessa attività in Armenia. Ha creato diversi piccoli ristoranti in Armenia con una cucina colorata e deliziosa.

Dice che si sente molto a suo agio in questo lavoro. “Qui in Thailandia data la situazione avevamo bisogno di soldi per continuare a vivere sull’isola. Dovevamo lavorare. Avevamo speso tutto quello che avevamo. E non siamo stati gli unici a trovarci in questa situazione. Proprio in quel momento ho deciso che avrei dovuto guadagnare con l’attività che più mi stava a cuore, la cucina. Ho creato il gruppo ‘Vegan Villa’ su Internet, pubblicato video e foto dei miei piatti, segnato i prezzi e aspettato ulteriori sviluppi. Dopo pochissimo tempo sono arrivati ​​gli ordini, abbiamo avuto il tutto esaurito e il lavoro è iniziato …”.

Anche alcuni loro amici, che li avevano raggiunti in vacanza da Russia e Stati Uniti, li hanno aiutati nel lavoro. Tutti assieme hanno affittato una grande casa, si sono spostati dall’hotel dove alloggiavano ed hanno sviluppato la loro attività.

“Avevano tutti lavori diversi, ma sono entrati presto nel ruolo. Non è stata una cattiva esperienza, era un’attività che rendeva, siamo riusciti a guadagnare abbastanza denaro per poter coprire tutti i costi. Era anche interessante cucinare con i prodotti che ci offriva l’isola, ero affascinata dall’infinito numero di colori che potevo dare ai nostri piatti”.

Varda ricorda che sull’isola era stato anche introdotto un coprifuoco e che quindi loro lavoravano solo nelle ore consentite, i clienti erano turisti rimasti bloccati come loro.

“Non vi è nulla di impossibile nella vita. Questo è un ulteriore esempio che è possibile avviare un’attività dal nulla e non morire di fame. Sono grata a ciò che la vita mi dà e questa è stata una delle varie opportunità concesse”.

Poi il ristorante on-line di Varda è stato chiuso: i voli sono stati riaperti, i turisti che erano bloccati sull’isola sono tornati a casa.

Lei e il compagno sono rimasti un po’ di più. Prima era stato loro rinviato il volo e poi essendo all’ultimo mese di gravidanza non hanno più potuto prendere un aereo. Il bimbo sarebbe potuto nascere in ogni momento e sarebbe stato troppo rischioso.

Per Varda però era molto importante tornare in Armenia, cosa che è riuscita a fare un mese dopo la nascita del figlio. L’aspettavano molte cose. I suoi ristoranti a Dilijan, una delle più belle città turistiche dell’Armenia, hanno dovuto chiudere causa coronavirus. L’affitto era troppo alto, Varda non aveva risorse per pagarlo. Ne ha però altri due, uno dei quali è stato temporaneamente chiuso ma ora è già riaperto, con clienti soprattutto nei fine settimana.

“I miei ristoranti sono piccoli e colorati. Sono ottimista. Spero tutto vada bene”, conclude Varda.

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Quattro capolavori del Settecento veneziano celebreranno l’Italia in Armenia (finestresullarte.info

Quattro capolavori del Settecento veneziano saranno trasferiti in Armenia, a Erevan, in occasione della mostra Venezia e Piazza San Marco. Il Settecento in quattro capolavori, che si terrà dal 3 settembre al 4 ottobre 2020, presso la Presidenza della Repubblica di Armenia. Si tratta della rassegna che celebrerà l’Italia per l’inizio dell’anno alla guida della Rete degli Istituti di Cultura dell’Unione Europea (Eunic), che ha sede nella capitale armena.

I quattro dipinti, raffiguranti Venezia e piazza San Marco, provengono dalla collezione della Fondazione Paolo e Carolina Zani e furono realizzati da grandi artisti quali CanalettoBernardo BelottoMichele Marieschi e Francesco Guardi.

Capolavori che raccontano la celebre piazza veneziana e i suoi monumenti, il mito storico della Serenissima, la Repubbica il cui buon governo venne esaltato anche da Francesco Petrarca “quale Città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni…” (Lettera a Pietro da Bologna, 10 agosto 1321).

“Canaletto, Bellotto, Marieschi e Guardi” spiegano i curatori, “erano consci, attraverso le loro vedute di Venezia, di offrirci l’ultimo frammento di una memoria e, al contempo, il principio di una contemporaneità fatta di ’ritratti’ ogni volta differenti: nelle acque delle calli e in marmi e pietre incrostate di salmastro, nelle ombre e riflessi, nell’aria particolarissima di una città che generazioni d’artisti hanno saputo rendere tramite colori leggeri o intensi, trasparenti e mutevoli”.

Il progetto, sotto l’Alto Patronato congiunto del Presidente della Repubblica Italiana e del Presidente della Repubblica di Armenia, si inserisce tra le iniziative promosse dall’ ambasciatore italiano a Erevan Vincenzo Del Monaco, per celebrare l’arte italiana con quattro capolavori di pittura vedutista provenienti dalla collezione della Casa Museo della Fondazione Paolo e Carolina Zani per l’arte e la cultura.

Immagine: Canaletto, La Piazzetta di Venezia (1732-38; olio su tela; Fondazione Paolo e Carolina Zani)

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Armenia-Italia: fino al 31 ottobre a Erevan una mostra fotografica sui legami tra i due paesi

Roma, 26 ago 17:44 – (Agenzia Nova) – Dal 24 agosto e 31 ottobre 2020 si terrà a Erevan la mostra fotografica “Tracce: fotografia in viaggio tra Italia e Armenia”. L’artista Patrizia Posillipo permette con questa mostra un viaggio attraverso le principali regioni dell’Italia e dell’Armenia, alla ricerca delle “tracce” e delle connessioni culturali ancora vive tra i due paesi. I soggetti delle sue fotografie sono spesso le storie che ogni persona racconta attraverso sguardi, gesti, luoghi e oggetti scelti per farsi ritrarre. Tra le foto scattate in Italia i volti dai fieri tratti armeni come quello di Rupen, ritratto a Bari tra i tappeti di cui il suo paese di origine è grande produttore. Non solo volti, ma anche oggetti e simboli possono raccontare storie; come l’alfabeto armeno che dischiude un mondo, come traspare dal particolare di uno degli antichi manoscritti armeni custoditi nella biblioteca del Pontificio collegio armeno a Roma.

Perché alcuni giornalisti italiani prendono le parti della dittatura azera e attaccano l’Armenia? (Interris 25.08.20)

Spett. redazione, il giornalista e analista geopolitico Domenico Letizia ha ritenuto opportuno inviarvi un articolo, pubblicato lo scorso 6 agosto, per puntualizzare alcuni aspetti relativi al contenzioso tra armeni e azeri riguardo il Nagorno Karabakh. Ovviamente non possiamo condividere alcun passaggio del suo intervento per i fatti che vengono riferiti e la storia che viene narrata.

Continuiamo a domandarci per quale motivo un giornalista italiano debba sposare le tesi del regime dell’Azerbaigian che figura al 167° posto su 180 nazioni nell’ultimo Freedom press index, qualche gradino sotto la Corea del nord e altre note dittature; continuiamo a meravigliarci che appoggi la propaganda di Baku che lamenta la perdita di un 13% di territorio e non spenda piuttosto una parola per il restante 87% soggetto a una dittatura trentennale che vede in carcere oppositori politici, attivisti ONG e giornalisti.
Avrà evidentemente, Letizia, le sue buone ragioni…

Quanto ai recenti scontri sul confine tra Armenia e Azerbaigian, iniziatisi il 12 luglio e proseguiti per alcuni giorni, le risultanze documentali e le relazioni indipendenti attestano con certezza che furono i militari azeri a tentare di penetrare nel territorio dell’Armenia come comprovano i corpi dei loro soldati caduti rimasti nella zona cuscinetto dove mai e poi mai avrebbero dovuto trovarsi. Stesso ragionamento per un mezzo militare rimasto nella medesima buffer zone.

A differenza delle convinzioni espresse da Letizia, l’Armenia non ha alcun interesse a una soluzione militare della contesa dal momento che il riarmo negli ultimi anni per miliardi di dollari da parte dell’Azerbaigian la pone presumibilmente in una posizione di inferiorità. Vero invece che il premier armeno Pashinyan ha anche recentemente ribadito la volontà di trovare una soluzione che salvaguardasse i diritti dei popoli dell’Armenia, dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) e dell’Azerbaigian; ma tale offerta negoziale è stata per l’ennesima volta respinta da Aliyev che usa il “nemico” armeno per tenere a bada una popolazione sempre più insofferente alla repressione interna.

Non è certo questa la sede per affrontare la vicenda storica e politica della regione del Nagorno Karabakh che il 2 settembre 1991, sfruttando la legislazione sovietica dell’epoca, da oblast’ autonoma proclamò la propria indipendenza rispetto alla neonata repubblica di Azerbaigian che tre giorni prima aveva annunciato la sua fuoriuscita dall’Unione sovietica.
La stessa Corte costituzionale di Mosca nel novembre successivo avallò il pronunciamento della piccola repubblica armena, vennero tenuti un referendum ed elezioni politiche che portarono alla nascita ufficiale il 6 gennaio 1992 del nuovo Stato. La risposta azera fu una guerra – costata 30.000 morti, decine di migliaia di feriti ed enormi distruzioni – al termine della quale gli azeri, nonostante un migliore armamento, vennero sconfitti dai partigiani armeni che misero in sicurezza il territorio conquistando anche distretti contigui.

Le risoluzioni ONU citate da Letizia riguardano proprio gli ultimi mesi della guerra quando l’esercito di difesa del Nagorno Karabakh stava sbaragliando il nemico allo sbando; chiedevano il ritiro dai territori occupati ma contestualmente la cessazione delle ostilità di tutte le parti. Per Letizia gli armeni (che furono fermati dalla minaccia di intervento turco altrimenti sarebbero arrivati fino al mar Caspio…) avrebbero dovuto ritirarsi lasciando ai soli azeri, ancora combattenti, il privilegio di riconquistare le posizioni perdute. Tali contingenti risoluzioni non furono rispettate per prime proprio dalle forze armate dell’Azerbaigian che invece di cessare il fuoco continuarono a combattere fino all’accordo di cessate-il-fuoco del maggio 1994.

Ancora ci domandiamo per quale motivo alcuni giornalisti italiani debbano prendere posizione a favore della dittatura azera e attaccare l’Armenia…

Gli abitanti della piccola repubblica de facto dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), 150.000 persone in 11.000 chilometri quadrati, chiedono solo di poter godere del proprio diritto all’autodeterminazione, di vivere in pace e guardare con serenità al futuro.
La loro voce è la voce degli ultimi. Sta a noi decidere da che parte stare.
Grazie per l’attenzione. Cordiali saluti

Questo articolo ci è stato inviato dal Consiglio per la Comunità Armena di Roma www.comunitàarmena.it

Ufficiale, il Siena agli armeni (Antennaradioesse 25.08.20)

Il nuovo Siena parlerà armeno. La notizia è stata ufficializzata poco fa da un comunicato del Comune di Siena, che “dopo ponderate valutazioni ed esaminata la documentazione fatta pervenire in Comune, oltre ad aver effettuato i colloqui con quattro rappresentanti di altrettanti gruppi industriali, ha ritenuto di concedere il titolo sportivo alla società Siena Noah Ssd Srl”. La squadra che parteciperà al campionato di serie D si chiamerà Acn Siena 1904. “Il progetto – continua la nota – è risultato il più confacente alle esigenze sportive della città e dei suoi tifosi che da sempre aspirano e sono abituati a confrontarsi con sfide di alto livello. Auspicando che questa opportunità venga colta nel rispetto della civiltà senese, dei tifosi e amanti del calcio, auguriamo un futuro all’altezza della nostra tradizione per la squadra di calcio bianconera”.

Adesso tutta l’attenzione va all’iscrizione in Serie D, la scadenza è domani alle ore 15, poi sara il tempo di scegliere il quadro societario e quello tecnico, dal direttore sportivo all’allenatore, costruire la rosa, allestire il settore giovanile e il settore femminile. Saranno giorni intensi, in attesa del campionato che inizierà tra un mese. Il futuro del Siena è ora, e parla armeno (foto: Fol).


De Mossi: “Il gruppo armeno ha presentato il piano industriale più solido e serio” (Radiosienatv)

Il commento del sindaco alle numerose proposte pervenute, 11 in totale: “Tanti pretendenti? Siena attira, basta guardarsi intorno”

Il gruppo armeno vince la corsa e si aggiudica la guida del futuro della Robur: nasce l’ACN Siena 1904. A margine degli annunci ufficiali, ecco le parole del sindaco Luigi De Mossi, che ha preso la  complessa decisione di assegnare il titolo sportivo dopo lunghe riflessioni. Le proposte totali sono state 11.

“Ieri nel corso degli incontri con gli aspiranti investitori – ha detto ai cronisti – avevamo chiesto una serie di garanzie: i soldi per l’iscrizione, un piano industriale quadriennale, garanzie per i dipendenti del Siena, il settore giovanile, il rispetto della tradizione e dei tifosi, e chiesto tutta una serie di garanzie anche sullo stadio. Il piano industriale di Siena Noah – nome e colori saranno rispettati – è strutturato e serio con prospettive di sviluppo per la città e i tifosi, così abbiamo deciso di dare la chanche a questo gruppo armeno. I rappresentanti mi paiono persone assolutamente serie. Tutti i pretendenti hanno dimostrato capacità economica, il piano industriale del gruppo armeno ha fatto la differenza, le sfide come ho già detto si vincono nei consigli di amministrazione. Io spero vada tutto bene e che i tifosi abbiano soddisfazione, la città deve stare a un certo livello”.

Tanti i candidati, segno che il brand Siena piace sempre: “All’inizio erano in 7, poi 4, i progetti finali rimasti in corsa 2, quello di Fedeli e degli armeni. La piazza di Siena attira? Basta guardarsi intorno, noi spesso non siamo nemmeno consapevoli” sottolinea con orgoglio il primo cittadino.

La fine della Robur Siena guidata da Anna Durio: “C’è stato un corto circuito – commenta De Mossi – è anche vero che ci hanno messo tanti soldi, va detto, chi è andato via lo ha fatto spendendo. Il tema è come sono stati spesi. C’è stata grande preoccupazione per quello che è successo, il calcio è un settore complesso”.

La chiosa sulla gestione del campo di allenamento dell’Acquacalda: “Dovremo trattare col Siena Nord”.


La Robur riparte dagli armeni: nasce l’ACN Siena 1904

Il progetto della società Siena Noah Ssd Srl, fa sapere il Comune, “è risultato il più confacente alle esigenze sportive della città e dei suoi tifosi che da sempre aspirano e sono abituati a confrontarsi con sfide di alto livello

Robur, L’amministrazione comunale, dopo ponderate valutazioni ed esaminata la documentazione fatta pervenire in Comune, oltre ad aver effettuato i colloqui con quattro rappresentanti di altrettanti gruppi industriali, ha ritenuto di concedere il titolo sportivo alla società Siena Noah Ssd Srl. La squadra che parteciperà al campionato di serie D si chiamerà Acn Siena 1904.

Il progetto della società Siena Noah Ssd Srl è risultato il più confacente alle esigenze sportive della città e dei suoi tifosi che da sempre aspirano e sono abituati a confrontarsi con sfide di alto livello. Auspicando che questa opportunità venga colta nel rispetto della civiltà senese, dei tifosi e amanti del calcio, auguriamo un futuro all’altezza della nostra tradizione per la squadra di calcio bianconera.

La mobilitazione in Bielorussia e il precedente armeno (Osservatorio Balcani e Caucaso 25.08.20)

Saranno i carri armati inviati da Mosca nelle piazze di Minsk come invocato da Lukashenko a risolvere la crisi bielorussa? Possibile ma improbabile. Per Putin sarebbe uno smacco in termini di reputazione internazionale oltre che di immagine sul piano della propaganda. L’autocrate russo dispone oggi di altri strumenti meno dirompenti e più sofisticati per fare valere le sue ragioni come le campagne mirate di fake news, i battaglioni di troll sguinzagliati sulle reti sociali e i finanziamenti più o meno occulti alle truppe dei partiti sovranisti del vecchio continente.

La situazione in Bielorussia sembra ormai fuori controllo. Aleksandr Lukashenko è riuscito ancora una volta a vincere le elezioni truccando il risultato delle urne ma ha perso nelle piazze e nelle fabbriche e anche le strutture dello stato cominciano a mostrare le prime crepe del dissenso.

Per capire quello che potrebbe succedere bisogna fare un passo a ritroso di due anni spostandoci in Armenia, un’altra delle sei ex repubbliche dell’Unione Sovietica che fanno da cuscinetto fra Federazione Russa e Unione Europea. Tre di queste, Georgia, Moldavia e Ucraina, hanno intrapreso un percorso di integrazione sociale, economica e politica con Bruxelles pagando, però, con conflitti intestini telecomandati da Mosca la scelta di liberarsi del giogo dell’ingombrante vicino.

L’Armenia cinque anni orsono aveva deciso di fare altrettanto negoziando con l’Ue un accordo di associazione che l’avrebbe incamminata sulla stessa strada. Fu Putin allora ad obbligare il presidente Serzh Sargsyan, l’uomo forte al potere a Yerevan, a fare retromarcia pena pesanti ritorsioni. La sicurezza dell’Armenia, che occupa militarmente il venti per cento del territorio del vicino Azerbaijan, è nelle mani della Russia.

Fra le innumerevoli missioni di osservazione elettorale di cui ho fatto parte ricordo, in particolare, quella in Armenia del dicembre 2017. Sono stato testimone di voti comprati davanti ai seggi, autobus di elettori trasportati in gita premio, condizionamenti pesanti all’atto del voto. Il Partito Repubblicano, quello di Sargsyan, vinse a mani basse. Sargsyan, però, non riuscì a sopravvivere politicamente alla rivoluzione di velluto della primavera successiva. La gente scesa in piazza lo obbligò a cedere il potere.

Anche allora Putin fu di fronte a una scelta: intervenire e ristabilire con la forza il regime dell’alleato fedele o assecondare la piazza assicurandosi che il cambiamento non mettesse a rischio la lealtà geopolitica di Yerevan a Mosca. Sono state elezioni libere ed eque quelle ripetute che hanno portato Nikol Pashinyan ai vertici dello stato armeno nel dicembre del 2018. Il regime di Sargsyan è caduto ma la collocazione internazionale dell’Armenia non è mutata.

Il paese rimane nell’Unione Economica Euroasiatica a guida russa e fa sempre parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’alleanza militare controllata da Mosca. Sul piano politico l’Armenia ha adottato sostanziali riforme in linea con gli standard europei ma sul piano economico e della difesa ha mantenuto gli stessi impegni che la allineano alla Federazione Russa.

La mobilitazione cui assistiamo oggi a Minsk non ha precedenti. La società civile di quel paese si è improvvisamente svegliata da uno stato letargico che durava da trent’anni. La Bielorussia si sta liberando dagli arresti domiciliari. Anche se ci riuscisse, però, resterebbe in libertà vigilata. Impossibile sfuggire alla presa del Cremlino senza bagni di sangue. Troppa è l’importanza che riveste dal punto di vista strategico per Mosca.

La Bielorrussia è condannata ad un esercizio limitato della propria sovranità. I dittatori non si amano ma si cercano, si annusano e si trovano al momento del bisogno. Se Lukashenko uscirà di scena per evitare colpi di coda violenti avrà bisogno di garanzie di immunità e impunità che solo Putin può offrire oltre ad una sorta di Sant’Elena dove trascorrere il resto dei suoi giorni. A meno che anche il presidente russo, che con un referendum costituzionale si è appena garantito, di fatto, il potere fino al 2036, sia vittima a sua volta di una rivoluzione di piazza. Ma questa è fantapolitica.

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La masseria della memoria (Il folgio 23.08.20)

Negli ultimi anni della guerra, il Collegio Armeno di Venezia rimase chiuso, e mio nonno ospitò nella villa del Dolo, sulla Riviera del Brenta, quattro ragazzi armeni, i fratelli Arshavir e Hrayr Terzian con la sorella Shaké e la sua amica, la bellissima mulatta Maria Hussissian”. Il ricordo di Antonia Arslan va a quei giorni. “Stavano in un appartamentino al primo piano della villa, in due graziose stanzette piene di cianfrusaglie, resti di una zia morta da poco, cugina di… 

Turchia, sostiene curdi, gay e riconosce il genocidio armeno: Canan Kaftantsioglou, la ‘Kamala turca’ che sfida il ‘Sultano’ Erdogan (Ilfattoquotidiano 22.08.20)

Medico, 48 anni, che sfida l’islam nazionalista del presidente con un approccio liberale, arrivando anche a contestare il fondatore della patria, Kemal Ataturk. Ma l’opposizione alla nuova stella del Chp è anche interna al partito

Una “Kamala Harris turca” per contrastare Recep Tayyip Erdoğan. Si chiama Canan Kaftantsioglou e sta studiando da candidata presidente in un Paese sì ancora dominato dai desiderata di Erdoğan, ma che sta vedendo nascere una nuova classe dirigente, moderna e aperta, anche grazie a quei movimenti giovanili che sono stati alla base del successo elettorale a Istanbul.

La Turchia potrebbe giocare con Kaftantsioglou una carta democratica e liberale. Un medico 48enne che, pur di esprimere in autonomia la propria opinione, si mette contro l’establishment islamo-nazionalista dell’AkParti e della sua stessa coalizione filo-governativa. Sostiene apertamente i curdi e gli omosessuali, riconosce il genocidio armeno, critica un nome storico per il suo paese come Mustafa Kemal, si muove in bicicletta, ha un figlio e ha pianto per la morte di un membro fondatore del Pkk, Sakineh Janziz, uccisa a colpi d’arma da fuoco nel 2013 a Parigi. E soprattutto non ha paura: ha ricevuto centinaia di minacce da sessisti, nazionalisti, fanatici religiosi ma non ha mai pensato di fare un passo indietro. Così, da due anni è a capo del Partito Popolare Repubblicano (Chp) a Istanbul. Ha rischiato di vedersi aprire le porte del carcere lo scorso settembre: un tribunale l’ha condannata a 17 anni di reclusione con l’accusa di “insulto al presidente” e “terrorismo”. Ha fatto ricorso ed è in attesa di giudizio.

La sua ultima denuncia riguarda l’assassinio di 32 donne avvenuto in Turchia la scorsa settimana da parte dei propri mariti. Kaftancıoğlu ha sottolineato che i femminicidi sono esponenzialmente aumentati da quando la Convenzione di Istanbul non è più applicata: “Vivere è vivere, non abbandoneremo la Convenzione di Istanbul. Vogliamo essere uguali, non prigionieri – ha detto – Opporsi alla Convenzione significa essere complici del femminicidio”. Nelle stesse ore in cui denunciava questi fatti, ha ricevuto moltissime critiche per le sue scelte politiche anche da parte di esponenti del suo stesso partito. Come Fatma Köse, presidente della sezione femminile del Chp, secondo cui Kaftancıoğlu avrebbe preso in ostaggio il partito.

Qualche giorno fa su Twitter ha espresso ironicamente tutto il suo stupore per la nomina di un rettore con il velo: “Yuppie! Abbiamo un rettore con il velo, manderemo presto un missile nello spazio o spezzeremo il nucleo atomico. In caso contrario, perché questa gioia?”. In occasione dell’elezione dei vertici femminili del suo partito ha fatto un intervento carico di significati: “Non c’è mai una donna debole, c’è una donna che è stata indebolita. Sono pronta a dare qualsiasi contributo al modello di organizzazione delle donne”, a dimostrazione di una battaglia che da anni conduce, al fianco del volto nuovo della politica turca: quell’Ekrem Imamoglu, nuovo sindaco di Istanbul, simbolo di un vento anti-Erdogan che potrebbe spingersi altrove.

C’era lei dietro la strategia che ha permesso la vittoria nella metropoli nel 2019, dopo 25 anni di strapotere erdoganiano, in un momento in cui un’altra decisione di Erdogan non tiene sufficientemente conto delle conseguenze economiche. Il canale di Istanbul, sponsorizzato dal governo, è un progetto nato per bypassare il corso d’acqua sul Bosforo che però comporterà costi esorbitanti: per questa ragione è stato soprannominato dal Chn “progetto di tradimento”, osservando che la Turchia stava effettivamente “scavando un fosso in cui sarebbe caduta”, attraverso quel progetto.

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Giornalisti minacciati in Azerbaijan (Articolo21 17.08.20)

Un articolo di solidarietà nei miei confronti a firma del prof. Carlo Coppola, presidente del Centro di Studi Hrant Nazariantz, che ringrazio, ha ridestato l’attenzione su un tema ancora poco noto: quello delle vessazioni operate dal regime dell’Azerbaijan contro i media, dentro e al di fuori dei confini del paese. Poco se ne parla – e non sarà forse un caso – nonostante (o, meglio, a causa di) la notevole influenza che l’Azerbaijan, fra i primi esportatori di petrolio e gas verso l’Italia, ha dimostrato in più occasioni di avere sul nostro come su altri governi, e sulle stesse istituzioni europee. Per farsi un’idea del fenomeno, vi invito a rivedere la puntata di Report del novembre 2017, a firma di Paolo Mondani, intitolata Caviar Diplomacy, a cui avevo dato un piccolo contributo.

Nonostante i primi attacchi nei miei confronti risalgano al 2015, anno in cui sono stato bandito dall’Azerbaijan, al pari di molti colleghi, mi ero sempre astenuto dal voler scrivere sul mio caso personale. Lo faccio oggi, sperando di far luce, nel mio piccolo, su un sistema di vessazioni e minacce che investe anche l’Italia; ma anche e soprattutto con l’auspicio che le vere vittime di questo sistema perverso (i giornalisti e gli attivisti azeri, non certo il sottoscritto) trovino un po’ di supporto internazionale, rompendo la coltre di silenzio che avvolge le loro storie di minacce, incarcerazioni e, in alcuni casi, torture e uccisioni.

Sono stato attaccato dalla stampa azera (una dozzina di articoli, in totale), messo sulla lista nera del governo e minacciato personalmente in diverse occasioni dal 2015 in avanti. L’ambasciata azera a Roma è stata coinvolta nel processo, ma anche diversi profili anonimi e non sui social media (tristemente per loro, anche giornalisti azeri di regime). La lista nera dei giornalisti, degli attivisti, dei politici e degli intellettuali cui è interdetto di visitare e lavorare in Azerbaijan sta crescendo (più di 1.000 persone), e ogni occasione è buona per attaccare o bandire altre figure, più o meno note. Fra le persone incluse nella lista nera, uno dei maggiori gruppi nazionali è l’Italia. Vi si trovano così, scorrendola, anche le giornaliste Anna Mazzone e Milena Gabanelli della Rai, Roberto Travan de La Stampa, il giornalista freelance Daniele Bellocchio e la nota scrittrice Antonia Arslan, fra i tanti.

Su internet, ancora disponibile online sul sito dell’Ambasciata azera a Roma (immagino, per ulteriore spregio), si trova una lettera ufficiale dell’ambasciatore che chiedeva al direttore del quotidiano Il Manifesto di interrompere la collaborazione con me. Non è l’unica lettera ufficiale scritta contro di me dall’ambasciata, che mi ha preso personalmente di mira, insieme agli altri partecipanti (vorrei ringraziare Beppe Giulietti, per il coraggio dimostrato), anche durante una conferenza presso la sede della FNSI di Roma nel 2016, organizzata da Amnesty International e da Riccardo Noury. In quell’occasione c’è stato anche un intervento della Digos, che ha spedito via dal luogo della turbolenta conferenza l’attivista azera Dinara Yunus e me con un taxi, temendo un possibile attacco fisico contro di noi. Ora, non so quale sia lo scopo esatto di questi attacchi e di in un tale generoso dispendio di energie nei miei confronti; ma so di non essere una vittima.

Osservo, tra l’attonito e il divertito, come diverse redazioni continuino a dare spazio ad articoli firmati da analisti e sediceni esperti che tessono panegirici di un regime che ha una sola famiglia al potere dal 1969, e la moglie dell’attuale autocrate, Ilham Aliyev, quale vicepresidente. Mi guardo bene dal citarli: rischierebbero di esistere oltre i loro circoli esigui di training autogeno. Più insidioso, e assai più pericoloso, è invece il consenso che raccoglie il paese caucasico in nome delle sue riserve di idrocarburi e della priorità data all’economia sulla vita (e la morte) delle persone. Per usare una di quelle metafore scacchistiche ossessivamente reiterate nella scrittura geopolitica: pedine sacrificabili, queste, in tutta evidenza, sullo scacchiere dei grandi interessi energetici.

È bene ricordare, allora, dove si trova l’Azerbaijan secondo la classifica più accreditata a livello internazionale sulla libertà dei media, quella di RSF: al 168′ posto su un totale di 180 paesi. Un faro mondiale della libera stampa, non c’è che dire. Un paese che corre sulla via delle riforme, come amano ripetere gli esperti di cui sopra (e infatti si trova al 146’ posto su 167 paesi, secondo il Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit: deve trattarsi di una lunga rincorsa, senza dubbio).

Dati e ironie a parte, vi invito a scoprire le loro storie. Una su tutte (ma sarebbero tante, quelle che meriterebbero menzione) è quella di Khadija Ismayilova, una delle più grandi figure del giornalismo di oggi. Vincitrice del Right Livelihood Award nel 2017, nonostante le sia stato impedito dal regime di ritirare il premio in Svezia, la Imayilova ha scoperto e raccontato, in numerose inchieste, la corruzione e gli affari illeciti, che investono molti paesi, della famiglia Aliyev. Minacciata più volte, imprigionata per un anno e mezzo, e ora impossibilitata a lasciare il paese, la giornalista azera ha affrontato con grande coraggio le tante violenze e pressioni subite, non piegandosi neppure di fronte al ricatto, operato dal regime, di un filmato che la ritraeva fare l’amore con il suo ragazzo nel suo appartamento (il video, dopo essere stato inviato anche ai famigliari, è stato infatti pubblicato su internet).

Casi come quello della Ismayilova, e sono tanti, aprono uno sprazzo su un regime liberticida accolto a braccia aperte, e spesso corteggiato, dalla diplomazia romana, e non solo. Si parla molto in questi giorni (e finalmente, è proprio il caso di dire) di Lukashenko, chiamato a torto l’ultimo dittatore d’Europa. L’Azerbaijan, parte del Consiglio d’Europa (e assai vicino al despota bielorusso, peraltro), presenta una sistema di potere non certo migliore o più aperto. È ora di chiudere, al plurale e per sempre, la pagina infame delle dittature e della repressione dei media in tutta Europa, prima che questo spettro (ne abbiamo avvisaglie in Ungheria, e altrove) finisca per ripresentarsi anche da noi in Italia, dove non mancano certo problemi interni, violenze e intimidazioni, anche sul versante dei media.

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Nakhichevan e l’architettura di uno scontro tra le civiltà (Interris 15.08.20)

Alla luce dell’inasprimento del conflitto tra Armenia e Azerbaijan, i riflettori dei media internazionali puntano ora sul Nakhichevan – un fazzoletto di terra, di 5.5 mila chilometri quadrati, che storicamente faceva parte dell’Armenia. Il Nakhichevan è stato quasi completamente distrutto e ricostruito dagli invasori musulmani che si sono susseguiti nei secoli e poi, infine, strappato dagli Armeni e annesso alla Repubblica di Azerbaijan il 16 marzo 1921.

Il caso Nakhichevan

L’annessione avvenne per mezzo di un trattato concluso tra la Russia Sovietica e la Turchia – un trattato palesemente illegale dal punto di vista del diritto internazionale, in quanto prevedeva la consegna di un territorio di un terzo Stato (l’Armenia) riconosciuto come stato sovrano dalle parti negoziali, ad un quarto Stato (Azerbaijan), senza, peraltro, la partecipazione dell’Armenia o dell’Azerbaijan, e senza neanche chiedere la loro opinione. Si trattava di una zona ricca, con una cultura sviluppata, testimoniata da monumenti storici e architettonici, tra i quali oltre 10,000 khachkar nel Cimitero Armeno di Jugha.

Un luogo simbolico

Il cimitero che comprendeva l’area più vasta di khachkar venne sistematicamente distrutto tra il 1998 e il 2005 dagli azeri con il coinvolgimento dell’esercito azero, in un evento tragico che è stato definito dalla Guardian come il peggior genocidio culturale del ventesimo secolo, e una vasta campagna di epurazione culturale. Ecco, allora, il locus del rafforzamento delle capacità dei vertici neo-ottomani – un luogo simbolico, di scontri tra due civiltà – quella cristiana e quella musulmana. Un luogo speciale, dove, secondo la tradizione biblica, Noè si fermò dopo la discesa dall’Arca e fondò una città. (Nella lingua Armena il nome Nakhijevan («Նախիջևան») significa appunto “luogo della prima permanenza”. Secondo un’altra interpretazione, il toponimo deriva dalle radici “nakhchi[r]” e “van” e significa “posto di caccia”).

Gli scontri

Un luogo dove quattro anni dopo l’annientamento delle tracce della civiltà cristiana Armena, nel 2009, venne creato il Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni o Consiglio turco da Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan e Turchia, i leader dei quali firmarono il cosiddetto “Accordo di Nakhchivan” (Nakhichevan) sul quale si fonda il Consiglio. Oggi, invece, vediamo il Nakhichevan come palcoscenico delle esercitazioni militari congiunte “su larga scala”, organizzate dall’Azerbaijan e dalla Turchia, come ennesimo atto provocatorio, a poco più di due settimane dagli scontri provocati dall’Azerbaijan nella direzione di Tavush (confine nord-est dell’Armenia) seguiti subito dalla visita in Ankara della delegazione militare dell’Azerbaijan guidata dal vice-ministro della difesa azero Ramiz Tairov lo scorso 16 luglio.

Tensioni in Armenia

Dobbiamo anche notare che tutto ciò accade nel contesto degli attacchi provocatori dell’Azerbaijan e segue anche il suo rifiuto unilaterale da parte dell’élite di comando azera dell’introduzione dei meccanismi di investigazione e sorveglianza sul confine tra i due Stati. Nel frattempo, gli aftershock degli scontri del mese scorso hanno compreso, tra l’altro, delle vere e proprie minacce terroristiche lanciate a livello interstatale, basti pensare alla dichiarazione della parte azera di voler bombardare la Centrale nucleare di Metsamor in Armenia) e lo show-off militare sui confini con la Repubblica d’Armenia e la Repubblica de facto di Artsakh (Nagorno Karabakh).

Le esercitazioni sul confine con l’Armenia, come fenomeno, s’inquadrano nella logica delle minacce neo-ottomane, espresse regolarmente tramite le dichiarazioni ambiziose a guerrafondaie contro l’Armenia, contro il primo popolo cristiano, e contro la presenza degli Armeni nelle loro terre storiche, la maggior parte di quali divennero, loro malgrado, oggetto di compromessi politici tra grandi potenze geopolitiche.

Grigor Ghazaryan

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