La nascita della comunità armena di Trieste: un difficile inizio (1770-1810) (Triesteallnews 15.08.20)

15.08.2020 – 07.30 – La crescita di Trieste negli anni centrali del Settecento, dapprima attraverso il (fallito) tentativo di Carlo VI d’Asburgo e successivamente con le riforme progressiste di Maria Teresa d’Austria e il figlio Giuseppe II, permisero un afflusso continuo “delli negozianti esteri“.
Si trattava di commercianti, bottegai e piccoli imprenditori attirati dalle possibilità offerte dal porto franco: non solo per le esenzioni fiscali, ma per la protezione religiosa e giudiziaria. Il tracciato razionale del borgo teresiano in via di costruzione nascondeva così un sottobosco caotico e mutevole di avventurieri e mercanti in cerca di fortuna.
Onde regolamentare quest’informe caos di religioni e lingue, le autorità austriache incoraggiarono la naturalizzazione, nella forma della richiesta di cittadinanza austriaca.
Occorre notare, a questo proposito, come si preferisse acquisire la cittadinanza austriaca invece che quella comunale, perché meno rigida, meno vincolata dalle leggi locali.
Attraverso queste richieste di naturalizzazione è possibile così tracciare la storia delle prime comunità etnico-religiose di Trieste: da quella dei greci, degli inglesi, dei francesi, giungendo agli stessi armeni.

L’anno domini 1773 viene tradizionalmente considerato il primo anno della comunità armena triestina, quando un gruppo di padri mechitaristi, che si erano staccati dall’isola di San Lazzaro a Venezia, giunsero a Trieste. Sotto le accoglienti ali dell’Aquila Bicipite miravano ad aprire una stamperia: naturale sbocco per il motto ora et labora et studia dei monaci armeni mechitaristi, incarnato tutt’ora dall’attività editoriale di San Lazzaro.

La congregazione ebbe sempre vita difficile a Trieste a causa di continui litigi tra i monaci su questioni economiche: le risorse della comunità vennero mal gestite e sull’intera impresa pesò non poco l’ombra della comunità armena di Costantinopoli, interessata alle franchigie del porto franco triestino. Sebbene tutto ciò danneggiò anche gli armeni secolari, nei primi decenni la presenza di un nucleo religioso permise di attirare i primi migranti armeni, per lo più mercanti. Verso il 1774 un suddito turco di fede armena, Giovanni Battista di Sarum, chiede la cittadinanza per sé e i suoi due figli, motivando di essersi stabilito “in questo porto franco con animo morandi per intraprendere il solito mio carriere di Commercio“. Secondo l’Intendenza commerciale era un “Mercante di stima” che aveva commerciato nelle Indie e in Turchia. Si registrava nello stesso anno un altro mercante armeno, stavolta di origini veneziane; e nel 1773 sappiamo esserci a Trieste il padre Giovanni Ariman dei mechitaristi e il direttore della Compagnia di Egitto Giorgio Saraff.
Quest’ultimo, com’era caratteristica di molti armeni ben integrati, era un prodigioso poliglotta che sapeva la lingua “turchesca, araba, armena e persiana” e che lavorava come interprete ufficiale per il Litorale e per il Magistrato di Sanità.

Verso gli anni Settanta del settecento, dopo che Maria Teresa concedette uno Statuto alla nazione armena a Trieste (30 maggio 1775), la comunità crebbe notevolmente.
Inizialmente, verso il 1774soggiornavano a Trieste trenta armeni secolari e i monaci mechitaristi; verso il 1780/90 si giunse a un centinaio di armeni “triestini”.
Il Vescovo di Trieste, a questo proposito, utilizzò gli armeni per controbilanciare la presenza dei greco-ortodossi: “mi parrebbe potersene ricavare assai maggiori vantaggi, tanto più per reprimere la baldanza de’ Greci continuamente accrescendosi di gente misera, e pitocca, e mai cessano di ricercare maggiori Privileggi quali in poco tempo, li metteranno a livello con la Religione Dominante; ottimo sarebbe di controbilanciarli coll’introduzione di Religiosi, e famiglie, ricche, Armene“.

Vai al sito

Il Libano e suoi straordinari volontari (Affariitaliani 14.08.20)

Quando lo Stato non esiste più, una nuova forza in campo: i giovani.

Tutti noi, in seguito alla catastrofe che ha colpito il Libano, distruggendo più della metà di Beirut storica, siamo stati colpiti profondamente. 

Il 4 agosto un’esplosione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio ha devastato il porto di Beirut e le zone limitrofe, compresi gli ospedali, distruggendone tre, danneggiandone due e mandando al collasso i restanti.

La tragedia, che ha ucciso oltre 150 persone e ferite 5000, ha sconvolto il mondo ed una città già provata dalla crisi economica e politica, oltre che dalla pandemia di Covid-19 

“Siamo profondamente colpiti nel vedere il nostro Paese distrutto con tante vittime, distruzioni e lutti dappertutto.  I libanesi hanno perso ogni speranza, molti come me hanno creduto in quel momento che il Paese dei Cedri fosse finito” scrive il giornalista e collega libanese Talas Khrais. 

“Dopo qualche ore dal disastro però tutto è cambiato: migliaia di giovani sono entrati in azione muniti di una forte coscienza, di professionalità. Poche ore dopo la catastrofe sono entrati in campo. Questi ragazzi e ragazze hanno trasformato ogni luogo possibile, parrocchie, conventi e scuole, in centri di rifugio e assistenza per i superstiti delle esplosioni al porto di Beirut. Hanno creato falegnamerie per realizzare nuove porte e finestre. Hanno creato un Call Centre per l’emergenza, servito cibo, vestiti e medicine.”

Ogni giorno aumenta il numero dei volontari che offrono aiuti dopo la tragica esplosione. Cordate di giovani che operano in solidarietà con talento e cuore. 

“Come primo passo i giovani volontari si sono organizzati per aiutare chi doveva rimuovere i tanti detriti per rendere di nuovo agibile la propria abitazione. Al tempo stesso hanno cominciato, grazie alla solidarietà dei cittadini,  a distribuire alimenti alla popolazione locale.

Si! Migliaia di giovani in assenza dello Stato aiutano tutta la popolazione.

Numerosi i messaggi uniti ad appelli e richieste che arrivano dal Libano di cui riportiamo solo un esempio tra i tanti: 

“Data l’enorme gravità della situazione in Libano, il grande numero delle vittime, 300.000 sfollati e 150 mila case distrutte, oltre il settore pubblico e privato, urge offrire un sostegno mirato. La catastrofe ha colpito il 98 per cento della popolazioni tra cristiani e armeni. Il danno non è arrivato a Kafarmatta. In campo diversi organizzazioni molto serie. Cosa fanno? Soccorrono i feriti, offrono un aiuto umanitario, riparano le case.Urge in questo momento: Vetri, infissi, guarnizioni, legno, materiale elettrico, tinte. In secondo luogo sono urgenti generi alimentari. Tutto è distrutto, case, scuole, banche, sedi dei quotidiani. “

Il 95% della popolazione colpita è composto da armeni e cristiani. Il dato ufficiale. 

Sono due le organizzazioni in prima linea schierate insieme ai giovani, che  ricostruiscono,  curano, ed hanno aperto delle mense creando diversi call center: la Armenian General Benevolent Union (AGBU) e la Al -Nawraj.

L’organizzazione non governativa Al-Nawraj è stata creata da Fouad Abou Nader (ex leader delle forze libanesi e poi leader del Freedom Front) durante gli scontri inter-musulmani del 7 maggio 2008 per impedire ai cristiani di confrontarsi e che vengono attaccati.  Al-Nawraj aveva poi collaborato con l’esercito libanese. Ancora oggi, di fronte al pericolo jihadista, Al-Nawraj sta lavorando con l’esercito libanese per difendere i villaggi cristiani e proteggere i cristiani.

Con il supporto di chiese e patriarcati, Al-Nawraj mira anche allo sviluppo rurale e socio-economico dei villaggi cristiani libanesi preservando la presenza cristiana;  e, il riavvicinamento tra libanesi, cristiani che possono unire sunniti, sciiti e drusi ai valori del cristianesimo che sono l’amore, il perdono, la carità e la speranza.

Nel 1920 fu creato il “Grande Libano” fondato sul principio di “Libertà e Libertà”.  Da allora il Libano è stato l’unico paese del mondo arabo, il cui sistema politico era basato sulla democrazia e senza una religione di stato ufficiale.  Il Libano rappresenta l’ultima risorsa e rifugio sicuro per tutte le minoranze e i cristiani che ancora vivono nei Paesi arabi.

I cristiani mirano a vivere in Libano con i loro partner in LIBERTA ‘, SICUREZZA, DIGNITA’ ed EQUALITÀ ‘.

Per informazioni  https://www.nawraj.org/en/about-us

L’Armenian General Benevolent Union (AGBU) invece è la più grande organizzazione no-profit del mondo dedicata alla difesa del patrimonio armeno attraverso programmi educativi, culturali e umanitari.  Ogni anno, AGBU si impegna a fare la differenza nella vita di 500.000 persone in Armenia, Nagorno-Karabakh e nella diaspora armena.

Attraverso la visione dei suoi leader e il generoso sostegno di donatori e membri devoti nel corso degli anni, AGBU ha svolto un ruolo significativo nel sostenere le tradizioni ei valori armeni adattandosi alle esigenze della comunità mondiale e alle esigenze dei tempi.  Dal 1906, AGBU è rimasta fedele a un obiettivo generale: creare una base per la prosperità di tutti gli armeni.

AGBU attualmente opera con un budget annuale di oltre $ 45 milioni, reso possibile dai nostri innumerevoli benefattori.  Con sede a New York City, AGBU ha una presenza attiva in 30 paesi e risponde alle esigenze degli armeni con programmi tradizionali e progressivi in ​​tutto il mondo, da scuole, scout, campi e supporto per le arti a stage, apprendimento virtuale e reti di giovani professionisti.

Per informazioni: https://agbulebanon.org/

https://www.facebook.com/AgbuLebanon/

Anche Il centro culturale dei gesuiti a Firenze ed i gesuiti m, si sono messi subito  in contatto con la comunità gesuita locale St. Gregory’s College: anch’essa è stata colpita, per fortuna senza vittime, ed è attiva nell’aiuto e nella gestione dell’emergenza. 

Anche la Caritas Libano si è mossa  da subito con la propria rete a sostegno delle migliaia di persone colpite e ai numerosi sfollati che non possono più  rientrare nelle case distrutte. Nella ricerca dei dispersi. I giovani volontari di Caritas Libano hanno aiutato  a rimuovere i tanti detriti per rendere di nuovo agibile la propria abitazione. Al tempo stesso stanno distribuendo  alimenti alla popolazione locale.

“Sono stati riportati danni anche alla sede stessa della Caritas nazionale, situata a diversi chilometri di distanza dal luogo dell’esplosione” come riporta Agensir.  

Per informazioni:

https://www.caritas.it/home_page/attivita_/00007356_Libano.html

Sono proprio i giovani ad aver dato la risposta ed un segnale di speranza innanzi ad una catastrofe che colpisce un Paese già piegato da una grave crisi economica e sociale acuitasi nell’ultimo anno che ha ridotto in povertà moltissime famiglie, con più di un quarto della popolazione che già viveva con meno di 5 dollari al giorno.

Vai al sito

Caos Caucasico: Fake News o triste realtà? (Difesaonline 14.08.20)

(di Andrea Gaspardo)
14/08/20

Nelle ultime settimane, a causa di un improvviso riacutizzarsi delle tensioni ai confini tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian, abbiamo cercato di portare l’attenzione dei lettori di Difesa Online su questa spinosa questione geopolitica mediante la pubblicazione di due report analitici, il primo intitolato Caos Caucasico che esplorava il problema del conflitto tra Armenia ed Azerbaigian (e l’ingombrante ruolo della Turchia nell’area) seguito dal più tecnico “Games of Dones” nel Caucaso meridionale avente invece come focus l’ampio utilizzo di UAV e UCAV registrato negli ultimi anni da parte dei contendenti.

Sebbene entrambe le analisi abbiano ottenuto un ottimo riscontro da parte del pubblico, la Redazione di Difesa Online ha anche registrato una manifestazione di dissenso proveniente da un lettore (non è dato sapere se occasionale o regolare) proveniente dall’ambito accademico. Avendo egli scritto una lettera alla Redazione e chiamato in causa espressamente la mia persona accusandomi tra le altre cose “di spargere fake news” ho ritenuto necessario, a beneficio della comunità dei lettori e per rimarcare l’assoluta indipendenza ed integrità morale e professionale di tutti autori di Difesa Online, di ritornare sull’argomento pubblicando sia le obiezioni del lettore che per espandere la visione sullo scontro tra Armenia ed Azerbaigian in modo da informare ulteriormente il pubblico cosicché possa rielaborare in modo indipendente la tematica e decidere in piena coscienza e libertà quale campana ascoltare.

Allegata alla mail vi era quella che, nelle intenzioni dell’autore doveva costituire il suo punto di vista alternativo in relazione al conflitto tra Armenia ed Azerbaigian e che vi proponiamo integralmente qui sotto:

“L’articolo di Andrea Gaspardo, Caos caucasico, apparso su difesaonline del 20 luglio è zeppo di imprecisioni, omissioni e vere e proprie fake news. Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian, che purtroppo è tornato in questo luglio a una fase di scontro diretto, appare come una questione complessa che non può essere trattata in maniera rozza e soprattutto prendendo acriticamente le parti di uno dei contendenti contro l’altro.

Proviamo, con lo spirito del debunking, a mettere in evidenza i piu’ macroscopici errori fattuali che a nostro parere appaiono nello scritto di Gaspardo:

1) l’autore afferma che l’occupazione armena del Nagorno Karabakh sia un “mito da sfatare” e che tale territorio sia una sorta di culla ancestrale della nazione armena. Niente di più sbagliato. Sull’occupazione tornerò nel punto successivo ma per quanto riguarda la supposta esclusività del Nagorno Karabakh per gli armeni è questa una considerazione mitologica. Questo territorio sin dal nome, costituito da parole turche e russe, rivela la sua natura multiculturale e multietnica in cui, storicamente. il framework occidentale dello stato nazionale monoetnico non ha senso. Il Karabakh non è stata alcuna sede ancestrale armena ma uno spazio geografico di compresenza di popolazioni armene, turco-azerbaigiane, caucasiche (i famosi Albàni) cristiane e musulmane. Popolazioni che hanno convissuto pacificamente per secoli. Per i dettagli rimando al volume di Thomas De Waal Black Garden che è accessibile anche al lettore non specialista dell’area. Se proprio vogliamo puntualizzare nell’unica fase della sua storia in cui il Karabakh è stato un’entità statuale si è chiamato Kanhato del Karabakh, una sorta di principato locale musulmano turco-azerbaigiano. Fu proprio il khanato azerbaigiano del Karabakh, nel 1805, a siglare un trattato con la Russia Zarista aprendo la strada al dominio di San Pietroburgo. Nel corso del XIX secolo gli equilibri demografici della regione cambiarono. Essa divenne una sorta di laboratorio di ingegneria sociale del dominio imperiale russo che favorì l’immigrazione degli armeni in tutto il Caucaso meridionale alterando i precedenti equilibri demografici. Nel 1918 quando Armenia, Georgia e Azerbaigian proclamarono la propria indipendenza l’Azerbaigian – in attesa di una decisione definitiva della conferenza di pace – vide riconosciuta da parte delle potenze dell’Intesa la sovranità sul Karabakh. Quindi quando nel 1923 venne istituita la regione autonoma all’interno dell’Azerbaigian oramai sovietizzato, si puo’ dire che il Karabakh non venne “assegnato all’Azerbaigian” ma semmai mantenuto all’interno dei confini azerbaigiani.

2) L’autore parla distrattamente dell’occupazione armena delle “zone di sicurezza” aggiuntive rispetto al Karabakh. In realtà viene omesso che si tratta di sette regioni occupate tra il 1993 e il 1994 equivalenti a circa il 20% del territorio nazionale; aree da cui sono stati espulsi circa 700.000 cittadini azerbaigiani che uniti a quelli sradicati dal Karabakh e ai rifugiati dall’Armenia portano a circa 1 milione di persone le vittime di displacement del conflitto con l’Armenia. Altro che “zone di sicurezza”, si tratta di una vera e propria tragedia umanitaria che perdura da oltre un quarto di secolo.

3) l’argomentazione che il governo azerbaigiano userebbe o sarebbe alleato di milizie riconducibili all’Isis è semplicemente ridicola e sa di fake news, neanche tra le piu’ sofisticate. Lo Stato azerbaigiano è fortemente laico, secolare con una rigida separazione tra le istituzioni civili e quelle religiose. Esso va fiero della propria natura secolare e della dimensione multiconfessionale della società azerbaigiana nonché delle normative e delle istituzioni che le garantiscono. Viene talvolta rivolta l’accusa di essere eccessivamente laico e di usare un atteggiamento severo quando sospetta di un’invasione della sfera politica da parte della religione. Pensare che l’organizzazione terroristica di ispirazione religiosa più fanatica del mondo – per giunta sunnita – si allei con un governo che rappresenta il suo esatto contrario – per giunta di un Paese a maggioranza sciita – è semplicemente fantascientifico. D’altronde le fonti citate da Gaspardo sono quantomeno di parte: addirittura i servizi segreti militari armeni! Forse servirebbero fonti un poco meno “coinvolte” quando si lancia un’accusa come questa.

Chi scrive, in conclusione, ritiene che questo conflitto debba risolversi nel quadro del diritto internazionale a partire dalle quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1993-1994 che riconoscono l’inviolabilità dei confini riconosciuti internazionalmente e l’integrità territoriale dell’Azerbaigian. A partire da questo semplice concetto vanno cercati spazi di autodeterminazione democratica della minoranza armena all’interno dello Stato azerbaigiano in un quadro di garanzie internazionali. Ipotesi militari, secessioniste e sovraniste servono solo ad esacerbare il conflitto.

Daniel Pommier Vincelli – Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale – Sapienza università di Roma

Avendo dato l’opportunità al professor Daniel Pommier Vincelli di esprimere le sue tesi, le confuterò ora una alla volta aggiungendo allo stesso tempo ulteriori elementi.

Per quanto riguarda il PUNTO NUMERO 1: la ricostruzione fatta dal professor Vincelli è assolutamente lacunosa. Secondo le cronache tradizionali citate dal venerabile Mosè di Corene, la parabola storica degli Armeni ha origine con la leggenda di Hayk che uccise il gigante Bel, costruttore della torre di Babele e tiranno di Babilonia, e condusse il suo popolo lontano dalla schiavitù delle terre mesopotamiche. Secondo l’erudito armeno, Hayk sarebbe vissuto attorno al 2492 a.C., usando come ancoraggio cronologico i paralleli eventi narrati nella Bibbia. Se noi guardiamo invece ai ritrovamenti archeologici, vediamo che le prime tracce della cultura armena risalgono addirittura al 6500 a.C., in un’area che va dalle propaggini orientali del Tauro Anatolico fino alle propaggini meridionali del Caucaso ed avente come uno dei propri punti focali proprio l’area compresa tra gli odierni territori del Naxçıvan, la provincia armena di Syunik ed il territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh). La persistenza di una cultura coerente trasmessa prima in forma orale e poi in forma scritta e il rifiuto quasi ossessivo di assimilazione etnica nei confronti dei popoli e paesi finitimi per un periodo di oltre 8500 fanno degli Armeni (in lingua armena “Hayer”, che si può tradurre letteralmente come: “i figli di Hayk”) uno dei popoli più antichi del mondo ed il secondo più longevo dell’area mediorientale e caucasica superato solamente dai Georgiani. Nel coso di questo lunghissimo arco temporale, gli Armeni hanno abitato una vastissima area del Medio Oriente e del Caucaso rappresentata nella “figura 1” allargando o restringendo il loro territorio di stanziamento a seconda delle possibilità e degli eventi che hanno caratterizzato tutte le ere storiche delle quali sono stati testimoni. È altresì ovvio che, durante tutto il periodo storico della loro esistenza e in tutto il loro vasto territorio di stanziamento, gli Armeni hanno condiviso lo spazio fisico con una miriade di altri popoli di tutti i tipi, ma senza mai perdere la loro identità e specificità culturale. All’interno di questa vasta area di stanziamento, il territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh) merita una particolare menzione perché esso è l’unico territorio di questo areale che presenta una continuità ininterrotta della presenza armena dalle origini fino ai giorni nostri, come dimostrato dall’archeologia oltre qualsiasi dubbio. Se davvero il legame tra gli Armeni ed il Nagorno-Karabkh (Artsakh) non fosse antico e fosse invece solamente il frutto di una “mitologia moderna”, come afferma il docente, allora qualcuno mi dovrebbe spiegare perché nel territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh) si trovino oltre 4000 monumenti storici di origine armena e solamente 10 di origine islamica (araba o persiana safavide a seconda delle epoche) e che tra il locale patrimonio archeologico armeno vadano menzionati addirittura i resti della città di Tigranocerta dell’Arstakh, una delle varie città tutte chiamate con lo stesso nome fondate dal Gran Re armeno Tigrane II il Grande, rinvenuti sul territorio della provincia di Askeran della Repubblica dell’Artsakh da un team di archeologi internazionali guidati proprio da un nostro connazionale, il professore e storico Giusto Traina? Proseguendo con il ragionamento del docente, esistono diverse interpretazioni sull’origine del termine “Karabakh” e quella che ha sinora riscosso il maggior successo vede tale termine come derivato del composto turco-persiano “kara” e “bagh” che possiamo tradurre come “Giardino Nero” per via delle sue impenetrabili foreste montane, così diverse dal resto dell’Altopiano Armeno che in prevalenza è spoglio e riarso dal sole, tuttavia questo nulla ci dice rispetto alla composizione etnica tradizionale delle popolazioni locali. Per trovare una risposta bisogna andare a scavare nella Storia e nella demografia, scienza quest’ultima che ha sempre costituito il pilastro centrale di ogni mia analisi. Per prima cosa è necessario delimitare lo “spazio fisico” che noi andiamo a considerare.

Sia il docente che tutti gli apologeti dell’Azerbaigian quando parlano di “Karabakh” intendono il territorio del cosiddetto “Khanato del Kharabakh”, un khanato turcofono semi-indipendente sottoposto al vassallaggio nei confronti della Persia safavide e durato formalmente dal 1748 al 1822 quando l’intero territorio passò sotto il controllo dell’Impero Russo. In termini territoriali, il “Khanato del Karabakh” comprendeva quelli che al giorno d’oggi sarebbero, andando da ovest ad est: i territori di Zangezur (oggi provincia armena di Syunik), il Nagorno-Karabakh (Artsakh) moderno e le pianure dell’Azerbaigian fino alla confluenza dei fiumi Aras e Kura come si può vedere in “figura 2”. Nel corso della “Guerra Russo-Persiana” del 1804-1813, l’intero territorio del khanato venne occupato dai Russi che vi condussero successivamente un censimento, pubblicato nel 1823. Il documento, lungo 260 pagine e ancora oggi consultabile (ovviamente in lingua russa), menziona uno per uno tutti i villaggi e le piccole città del territorio del khanato registrando le percentuali degli abitanti degli stessi secondo la diversa etnia ed afferma che “la popolazione totale dell’intero khanato è per l’8,4% di Armeni e per il restante da Tatari Caucasici (il nome dato allora a quelli che oggi vengono definiti Azeri, ndr) con minuscole aliquote di Cristiani Nestoriani (il nome dato allora agli Cristiani Assiri moderni, ndr) e di Zingari” tuttavia lo stesso censimento afferma anche che “la pressoché totalità della popolazione armena vive nella zona centrale del khanato in cinque distretti e lì le percentuali si invertono radicalmente, con gli Armeni che formano il 90,8% della popolazione locale”.

Ebbene, i cinque distretti dei quali parlano i documenti ufficiali del censimento russo altro non sono che i territori dei cosiddetti “Melikhati del Karabakh”, visibili in “figura 3”, ossia una confederazione di cinque principati feudali armeni (Gulistan, Jraberd, Khachen, Varanda e Dizak) retti da altrettante famiglie nobiliari tra il 1603 ed il 1822, a loro volta sorti sulle ceneri del grande “Principato di Khamsa” che aveva governato l’area tra il 1261 ed il 1603 il quale a sua volta era erede del cosiddetto “Regno di Artsakh” esistente nei suddetti territori tra l’anno 1000 ed il 1261. I lettori capisco che, mettendo assieme tutte queste date, si ottiene un periodo ininterrotto di oltre 800 anni di controllo politico armeno del territorio che contribuirono a rafforzare ulteriormente la specificità identitaria degli abitanti del luogo, i cosiddetti “Armeni Nagornini”, detti anche “Karabatsi”. Questo è un punto molto importante perché quando gli Armeni parlano di Nagorno-Karabakh (Artsakh) essi intendono solamente quella porzione del territorio che storicamente costituiva i cinque “Melikhati” e non tutto il territorio del “khanato” come vorrebbero far credere gli apologeti dell’Azerbaigian in malafede che prendono solamente quelle parti di Storia che servono a loro personale uso e consumo e lasciano perdere tutto il resto puntando le loro carte sull’ignoranza dei lettori che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno mai letto un libro sulla Storia locale delle popolazioni caucasiche e fanno anche molta difficoltà ad orientarsi con le mappe sia storiche che geopolitiche. Quando poi l’Impero Russo crollò, nel corso della Prima Guerra Mondiale, le popolazioni caucasiche proclamarono l’indipendenza prima cercando di creare una Repubblica Federale Democratica Transcaucasica la quale si sgretolò ben presto nella Repubblica Democratica della Georgia, nella Repubblica Democratica di Azerbaigian, nella Prima Repubblica di Armenia e nella Repubblica dell’Armenia Montanara. Parlare però di confini, sovranità e riconoscimento internazionale in una situazione geopoliticamente e militarmente fluida come quella del 1918-1920 è un punto decisamente debole.

Nel corso di quei due anni densi di avvenimenti sul campo, i suddetti stati caucasici si sono fatti la guerra tra di loro, hanno assistito ad una risorgenza turca ed infine sono stati investiti dall’offensiva della Russia Sovietica che li ha reincorporati nella nascente Unione Sovietica come “repubbliche costituenti” del nuovo “stato dei soviet”. È in questa occasione che è avvenuto il vero “esperimento di ingegneria sociale e geopolitica” quando Stalin decise di dividere quelle terre di confine nel modo seguente: all’Armenia sovietica venne assegnata l’area di Zangezur che divenne nota da quel momento in poi come “provincia di Syunik” e che tutt’oggi fa parte della nuova Repubblica d’Armenia, il territorio del Naxçıvan venne assegnato invece all’Azerbaigian sovietico diventandone a tutti gli effetti una exclave separata dal resto del territorio del paese (ruolo che riveste tutt’oggi), così come vennero assegnati all’Azerbaigian tutti i territori restanti del vecchio khanato con la postilla che, nell’area un tempo parte dei cinque “Melikhati” sopra descritti e dove la popolazione armena era più forte e radicata sul territorio, le autorità sovietiche ritagliarono una “Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh”, visibile nella “figura 4”. Fu questa cervellotica spartizione territoriale a gettare le basi per decenni di instabilità a livello locale, premessa per la tragedia che stiamo vivendo dalla fine degli anni ’80 sino ad oggi dopo che la fine della forza opprimente del Comunismo ha liberato nuovamente lo spettro dei nazionalismi locali spinti. Questa è l’unica vera Storia, passo per passo, di come il territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh) divenne “parte dell’Azerbaigian”, se esso ne sia mai veramente stato parte da un punto di vista culturale ed identitario, beh, lo lascio decidere ai lettori.

PUNTO NUMERO 2: È ovvio che la “Guerra del Nagorno-Karabakh” del 1988-1994 ha creato un dramma umanitario di proporzioni enormi, tuttavia tale disastro umanitario è stato da ambo i lati e non a senso unico! I dati dell’UNHCR, i più affidabili di cui siamo in possesso, parlano nel complesso di 724.000 Azeri che vennero espulsi dai territori dell’Armenia, del Nagorno-Karabakh (Artsakh) e dalle zone circostanti ai quali fanno da contraltare 500.000 Armeni espulsi dal Naxçıvan e dal resto dei territori dell’Azerbaigian, soprattutto dalla capitale, Baku, che essi avevano letteralmente contribuito a costruire e far fiorire dal punto di vista culturale. Quando le tragedie umanitarie assumono proporzioni così grandi non ha semplicemente senso puntare il dito verso l’una piuttosto che l’altra parte, tuttavia c’è un discrimine importante che bisogna fare in questa situazione. Il Nagorno-Karabakh (Artsakh) e le aree circostanti furono il teatro di quella che, probabilmente, è stata la più brutale ed efferata tra tutte le guerre dello spazio ex-sovietico, combattuta letteralmente villaggio dopo villaggio, montagna dopo montagna e vallata dopo vallata, dove entrambi i contendenti fecero largo uso di pezzi d’artiglieria e carri armati in zone dalle quali, spesso e volentieri, risultava semplicemente impossibile evacuare la popolazione civile. È ovvio che, in un tale scenario da incubo, le perdite civili da entrambe le parti lievitarono enormemente e ci furono anche gravi episodi di violazioni dei diritti umani da parte dei combattenti armeni ai danni dei civili azeri, il più famoso dei quali fu il massacro di Khojaly. Tuttavia tale guerra fu caratterizzata anche da episodi spaventosi di pogrom commessi dai nazionalisti azeri contro civili armeni inermi che vivevano in zone interne dell’Azerbaigian lontanissime dalle aree di combattimento. Centinaia, forse migliaia, di civili di etnia armena furono uccisi spesse volte con furia e crudeltà medievale nel corso di massacri organizzati a Sumgait, Kirovabad e persino nella capitale Baku e le stesse folle di scalmanati azeri poi attaccarono anche Georgiani, Osseti, Ebrei, Russi e gente di altre etnie fermandosi solamente quando, dopo un colpevole ritardo durato sette giorni, le truppe sovietiche intervennero reprimendo nel sangue la rivolta (il cosiddetto “Gennaio nero” del 1990). Niente di tutti ciò è avvenuto in Armenia! I nazionalisti armeni nella Repubblica d’Armenia si resero sì responsabili dell’espulsione di circa 200.000 Azeri locali e anche lì ci furono numerosi episodi di violenza ma non si è tenuto alcun massacro organizzato di civili azeri nel territorio della Repubblica d’Armenia e i morti azeri in quei frangenti furono si e no una ventina, tutti a causa di atti di violenza isolati e non di massacri organizzati dall’alto come avvenne all’interno del territorio dell’Azerbaigian. Questa è una differenza critica e molto importante che, pur nella immoralità della guerra, non si può bellamente ignorare! E, sì, al termine della “Guerra del Nagorno-Karabakh”, le forze unificate armene si ritrovarono in possesso di un territorio pari al 20% della superficie dell’Azerbaigian comprendente la quasi totalità del territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh) e i distretti circostanti ma tale risultato è ascrivibile alla condotta delle operazioni militari e il mantenimento del possesso di tali territori si è rivelato necessario per garantire la sicurezza della popolazione civile del Nagorno-Karabakh (Artsakh) dai tentativi nemmeno tanto velati della leadership di Baku di commettere un genocidio. Punto. Ci sono decisamente troppi omissis nel punto 2 come è stato presentato dal docente.

PUNTO 3: Credo che qui sia necessario specificare molte cose. Nonostante la costituzione del paese sia improntata al “laicismo” e l’assoluta maggioranza della popolazione sia musulmana sciita (anche se in maniera decisamente tiepida, per non dire fredda), l’Azerbaigian, nella sua identità autentica, non è “uno stato laico”, e non è nemmeno “uno stato musulmano sciita”. L’Azerbaigian è prima di tutto un paese “post-sovietico”, con tutte le limitazioni che le parole “post-sovietico” comportano. Secondariamente, è uno stato che sta perdendo rapidamente i suoi connotati autonomi e sta sempre più scivolando nel vortice della Turchia con tutte le conseguenze che lascio immaginare ai lettori e sulle quali non mi soffermerò perché non sono oggetto della presente analisi. Per altro questo trend è assolutamente in linea con la Storia di quel territorio dato che nel corso degli ultimi secoli le élite del paese furono prima persianizzate, poi russifizzate ed ora turchizzate, testimoniando il fatto che, andando a grattare in profondità, l’Azarbaigian e gli Azeri in generale non abbiano una vera identità nazionale e sono sempre vissuti alla periferia di grandi imperi assorbendone cultura, costumi ed ideologia dominante, in questo differenziandosi nettamente dagli Armeni e dai Georgiani che invece hanno sviluppato culture nazionali coerenti e le hanno sempre difese con le unghie e con i denti anche quando sono stati inglobati nei territori di più grandi imperi stranieri. L’Azerbaigian è una dittatura familiare nella quale l’attuale presidente, Ilham Heydar oglu Aliyev governa da 17 anni (con la moglie Mehriban Arif qizi Aliyeva nominata alla carica di vice-presidente!) avendo ereditato il potere dal padre Heydar Alirza oglu Aliyev il quale nel corso della sua lunga vita è stato per 25 anni, tra il 1944 ed il 1969, ufficiale a vari livelli del KGB azero, Segretario del Partito Comunista dell’Azerbaigian, tra il il 1969 ed il 1982, membro del Politburo dell’Unione Sovietica dal 1982 al 1987 ed infine presidente dell’Azerbaigian indipendente dal 1993 al 2003 quando infine morì. Come è possibile che taccia con tale disinvoltura su questi fatti? In merito alle mie affermazioni che l’Azerbaigian abbia massicciamente impiegato milizie straniere nel corso delle sue interminabili guerre contro gli Armeni, dai primi anni ’90 fino ad oggi, incluse milizie facenti capo all’ISIS (e passando per i Lupi Grigi, gli islamisti ceceni, gli Afghani di Hezb-e-Islami, i jihadisti siriani, ecc…) ebbene io l’ho detto e ribadisco parola per parola quanto affermato nell’articolo “Caos Caucasico”. Esiste una vastissima letteratura in materia non ultimo da parte dello stesso ICT (Institute for Counter-Terrorism) quindi sta a chi di dovere dimostrate che io e una sequela di altri analisti geopolitici abbiamo torto, portando contro-prove. Comunque, prometto che tornerò ancora su questo argomento in altre analisi future dato che si tratta di una tematica di estremo interesse anche dal punto di vista della sicurezza internazionale. Ma non posso terminare questa analisi senza parlare al pubblico dei lettori di un aspetto molto importante che caratterizza l’ostilità dell’Azerbaigian nei confronti di “tutto ciò che è armeno”, e cioè la distruzione del patrimonio culturale armeno da parte dell’Azerbaigian. Grazie ad interazioni di ogni tipo durate millenni, gli Armeni avevano lasciato importantissime tracce nella Storia archeologica e nell’architettura del vicino caucasico. Nella regione del Naxçıvan, come detto una delle culle del popolo armeno, i ricercatori Argam Aivazian (armeno nativo del luogo) e Steven Sim (scozzese) documentarono nel corso degli anni ’80 l’esistenza di un ricchissimo patrimonio culturale di origine armena mediante la pubblicazione di ben 80.000 fotografie e disegni rappresentanti tra gli altri un totale (a detta degli autori incompleto) di 218 tra chiese, monasteri e cappelle, 41 castelli, 26 ponti, 86 siti di città e villaggi, 23.000 lapidi e, soprattutto, 4500 croci di pietra, i leggendari “khachkar”, che rappresentano forse il marchio più importante della cultura armena in ogni epoca storica. In particolare nelle vicinanze della città di Julfa esisteva un cimitero unico al mondo costituito da una “foresta” di khachkar che si ergevano a migliaia (10.000 secondo il missionario francese Alexandre de Rhodes che nel 1648 visitò l’area) in uno spiazzo situato lungo il corso del fiume Aras. Ebbene, negli anni successivi all’indipendenza, dopo aver prima ripulito l’area dagli ultimi Armeni rimasti, ultimi eredi di una ininterrotta presenza plurimillenaria proprio come nel Nagorno-Karabakh (Artsakh), l’Azerbaigian ha sistematicamente distrutto tutte le tracce del patrimonio archeologico ed architettonico armeno presente sul proprio territorio operando un genocidio culturale persino peggiore di quello causato dall’ISIS in Siria ed Iraq. Tra il 1998 ed il 2002, i 3000 khachkar e le 5000 lapidi che ancora si trovavano nel cimitero di Julfa (tra le quali anche alcune rarissime e preziosissime lapidi recanti il motivo armeno dell’ariete risalente al periodo pre-cristiano, introvabili in nessun altro luogo sulla Terra) vennero metodicamente abbattute, spaccate e triturate dai soldati azeri fino a che non vennero ridotte letteralmente in polvere per venire poi scaricate nel letto del fiume Aras. Tali distruzioni si sono poi riverberate in tutti il territorio del paese (ad eccezione ovviamente del Nagorno-Karabakh!) tanto che oggi le uniche due chiese armene ancora in piedi in Azerbaijan sono la chiesa del villaggio di Kish (ma solamente perché nel corso della Storia essa è successivamente diventata prima una chiesa albano-caucasica e poi una chiesa georgiana, quindi è stata altro, oltre ad essere armena) e la chiesa di San Gregorio l’Illuminatore situata a Baku ma permanentemente chiusa ed oggi utilizzata come magazzino. Potrei andare avanti per ore, ma preferisco fermarmi qui.

In conclusione, l’autore della presente analisi ritiene di aver dato ai lettori, sia su “Caos Caucasico” che sull’analisi odierna una grande quantità di informazioni che essi stessi potranno ricercare e verificare in completa libertà e seguendo la loro curiosità intellettuale anche su fonti aperte in lingue diverse dall’italiano, confidando sempre e comunque nella bontà del mio lavoro e del mio metodo analitico e sapendo che la Verità, quella con la “V” maiuscola, non ha bisogno di traduzioni.

Vai al sito

«I miei esodi da Beirut, tracce indelebili di dolore» (Ilmanifesto 12.08.20)

«Spaventata e terrorizzata, non riuscivo neanche a piangere». Nata a Beirut e trapianta a Roma, Layla Mustapha Ammar è islamologa e si occupa di costruzione della identità femminile nel mondo arabo-islamico. Dopo un dottorato sulla presenza della donna nell’opera di Sayyid Qutb, ha preso parte al volume Protagonismo delle donne in terra d’Islam, Appunti per una lettura storico-politica (a cura di Layla Karami e Biancamaria Scarcia Amoretti, Ediesse 2015).

Come ha vissuto queste giornate?

È accaduto di nuovo, mi dicevo, Beirut è in fiamme, l’apocalisse di un’esplosione nel porto non lontano dal luogo in cui ho vissuto la mia adolescenza, una tragedia che lentamente e da vicino mi ha divorato il cuore, solo al pensiero degli innocenti che avevano perso la vita scomparsi nell’inferno dei capannoni, vittime inghiottite sotto le macerie.

Ha lasciato il Libano nel 1990.

Sì, per fuggire dalla guerra iniziata nel 1973; la scelta della mia famiglia di lasciare Beirut e andare a vivere in un altro paese, in Canada, era stata già presa con grande amarezza nella consapevolezza di non poter fare nulla contro una situazione tanto difficile e senza futuro per noi (siamo cinque figli). La decisione era «lasciare tutto per vivere la vita stessa, in pace». Dopo la guerra del 1973, ho assistito all’invasione d’Israele nel 1983, in seguito i bombardamenti del 13 luglio 2006, la prima volta con i miei genitori e la seconda volta con la mia famiglia. Con i miei figli, nati e cresciuti in Italia, siamo tornati in Libano per fargli visitare il paese, mi è sembrato di rivivere il mio esodo, da ragazza prima e da madre poi. Sono tracce indelebili di dolore, senso di ingiustizia e impotenza.

In che ambiente si è formata?

I nostri vicini erano sunniti, sciiti, cristiani, armeni e palestinesi. Sono cresciuta in un ambiente familiare molto aperto (da parte di mia madre) e molto conservatore (da parte di mio padre), che come tanti libanesi lavorava in Arabia Saudita per mantenerci. In questo contesto io sognavo di volare, allontanarmi da una isteria collettiva che colpiva durante i bombardamenti, quando il rumore assordante delle bombe mandava tutti in delirio e si correva velocemente nei rifugi e ognuno pregava a modo proprio, si sentiva il mormorio della Fatihah da una parte, e si percepiva il segno della croce dall’altra parte, tutti lì in silenzio ore e ore ad aspettare coltivando pazienza, fede e speranza.

Quali sono i ricordi della sua infanzia che le stanno più a cuore?
Dopo la preghiera del mattino, mio nonno Hajj Ibrahim andava per fare la fila e procurarci il pane, si mangiava un solo pasto al giorno e l’altro doveva essere distribuito ai vicini oppure ai poveri. Il ricordo più bello era quello di mia nonna Nena-al-Khansa, con lei avevamo fatto un accordo segreto nel quale ricevevo come ricompensa per ogni giorno di digiuno mezza lira e per ogni preghiera altrettanto, ero la sua preferita e camminavo fiera con lei senza imbarazzarmi del suo velo bianco, ripeteva che potevamo morire in qualunque momento anche senza la guerra.

Ha delle letture a cui ritorna e che le sono di riferimento?

Sono legata alla letteratura del Mahjar (d’emigrazione) che raccoglie la scrittura in arabo prodotta da scrittori libanesi emigranti e sviluppatasi negli Stati Uniti, penso alle parole universali di Khalil Gibran e a quelle di Ameen Al Rihani, entrambi hanno conservato la propria autenticità. Tra i contemporanei mi piace segnalare Elias Khuri, Amin Maalouf. Hoda Barakat nel suo Malati d’amore è talmente realistica, con lo sfondo della guerra civile in Libano, da sembrare quasi irreale. Brava e coraggiosa.

Il suo augurio per Beirut?

Di rialzarsi dalle ceneri. Ferita nel profondo, abbandonata a se stessa e al vento degli invasori, dei traditori eppure ce la farà ancora una volta. Abbiamo speranza, crediamo in Beirut e in chi la abita.

Vai al sito

Guerra nel Nagorno Karabagh: quale viatico per la pace? (Panorama 09.08.0)

di Bruno Scapini (scrittore, ex ambasciatore italiano in Armenia)

L’Armenia, già vittima nella sua lunga e antica storia di persecuzioni e di conflitti che l’hanno coinvolta a causa di una critica posizione geografica, al crocevia di strategici interessi di imperi e civiltà, continua purtroppo ancor oggi a soffrire di questa sua centralità subendone le negative ripercussioni di uno scontro tra Oriente e Occidente. Una posizione, perciò, quella dell’Armenia che al posto di divenire un vantaggio geopolitico nella prospettiva di una crescente integrazione tra aree regionali euroasiatiche, si è tradotta invece in un “tallone d’Achille”. Una condizione di vulnerabilità, dunque, ma non soltanto per il Paese in sé che, per via della conflittualità esistente con l’Azerbaijan, si vede condizionato nel cogliere a pieno le opportunità offerte da una auspicabile cooperazione di area, ma anche per la stessa intera regione caucasica che, privata inevitabilmente con la guerra della stabilità politica, stenta a decollare verso accettabili traguardi di sviluppo e di democrazia. Prova di questa deprecabile situazione è l’attuale groviglio di interessi che, ruotando attorno alla rete delle condotte energetiche, induce i vari Governi interessati a prevedere, con rilevanti costi aggiuntivi, percorsi alternativi, o addirittura nuove “pipelines” con transiti concorrenziali; e il tutto nell’ottica di ridurre al massimo la dipendenza dalle forniture di area per via dei possibili rischi connessi proprio alla instabilità della regione.

Leggi l’articolo dal sito

Diplomazia pontificia, focus internazionale: dal Libano al Caucaso (Acistampa 08.08.20)

La Santa Sede segue con attenzione le tensioni nel Caucaso, e questa settimana due ambasciatori della Regione (di Georgia e Armenia) hanno rilasciato dichiarazioni sulle situazioni nei loro rispettivi Paesi. Il territorio, infatti, è colpita da diversi conflitti regionali, complessi da spiegare e che pure hanno un forte impatto anche sull’Europa. La Santa Sede ha mostrato più volte la sua presenza.

……

Armenia – Azerbaijan, parla l’ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede

C’è stata una escalation nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan, che ha portato ad una ventina di vittime ed anche alla richiesta di Papa Francesco, durante l’Angelus del 19 luglio, di giungere ad “una soluzione politica duratura”. L’escalation nasce da una situazione di conflitto al confine contesto tra Azerbaijan e Armenia.

Secondo alcune fonti, sono gli armeni ad aver certo di prendere posizioni vantaggiose sul territorio. Secondo altre fonti, sono stati gli azeri ad aver cercato di prendere una posizione in territorio armeno. Le schermaglie sono sfociate in veri e propri attacchi di artiglieria.

Garen Nazarian, ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede, in una dichiarazione resa ad ACI Stampa mette in luce l’interesse della Turchia nella regione, Stato in antica inimicizia con l’Armenia anche per il non riconoscimento del genocidio armeno.

L’ambasciatore Nazarian ha sottolineato “l’aggressione scatenata dall’Azerbaijan contro il nostro Paese”, operata ignorando “i precedenti appelli di Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, e di Papa Francesco di mettere in atto un cessato il fuoco generale in questo momento di pandemia da COVID 19”.

Nazarian nota che i giornali italiani hanno messo in luce le dichiarazioni del ministro della Difesa azero sugli attacchi alla centrale nucleare di Metsamour, nonché “l’inaccettabile interferenza da parte turca”, denunciata tra l’altro di voler “fuorviare la comunità internazionale per nascondere l’innegabile uso della forza da parte dell’Azerbaijan al confine armeno a partire dal 12 luglio”.

Secondo Nazarian, “è risaputo che la Turchia cerca costantemente di intervenire nei conflitti regionali, complicandoli ulteriormente, creando nuove fonti di tensione, minando la sicurezza dei suoi vicini e diffondendo instabilità per raggiungere i suoi obiettivi più che secolari”, ma questo non fa altro che esprimere “l’incondizionato sostegno turco all’Azerbaijan, giustificando la sua politica anti-armena e belligerante”.

Nazarian rivolge alla Turchia la pesante accusa di agire “non come un membro del Gruppo di Minsk dell’OSCE, ma come parte direttamente coinvolta nel conflitto del Nagorno-Karabakh; e non può svolgere nessun ruolo nel processo di risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh”.

Nazarian accusa l’atteggiamento provocatorio della Turchia “una grave minaccia per la Regione in senso lato”. E denuncia anche la decisione di convertire nuovamente Santa Sofia in moschea, sulla base del fatto che Santa Maria è patrimonio culturale dell’UNESCO.

Nazarian nota che fu un architetto armeno, certo Trdat, a restaurare Santa Sofia nl IX secolo, e sottolinea che “la società armena – attraverso il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Armenia, il Catholicos di tutti gli Armeni e della Grande Casa di Cilicia, gli ambiti accademici armeni e le organizzazioni della diaspora – ha rilasciato commenti e dichiarazioni sulla decisione della parte turca. E questo è ovvio perché la decisione crea un precedente pericoloso e ciò rende necessario l’introduzione di un meccanismo di monitoraggio internazionale per salvaguardare le chiese e gli altri monumenti in Turchia ed evitare che vengano snaturati. L’Armenia è pronta a impegnarsi in questo senso con l’Unesco e con tutti gli stati membri interessati”.

Vai al sito

 

Risposta del Consiglio per la comunità armena di Roma a articolo apparso su “L’Antidiplomatico”.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-Perch%C3%A9_Larmenia_Ha_Attaccato_Lazerbaigian_Un_Messaggio_Alla_Turchia/82_36596/

 

Spett. redazione,

“L’antidiplomatico” ha già avuto modo di analizzare la recente crisi alla frontiera armeno-azera di metà luglio e i suoi lettori si saranno sicuramenti fatti un’idea di cosa sia accaduto in quei giorni nel Caucaso.

Ecco perché il titolo dell’articolo del 4 agosto (“Perché l’Armenia ha attaccato l’Azerbaigian?”) risulta fuorviante e assolutamente non corrispondente alla realtà dei fatti.

Il richiamo all’articolo del giornalista turco Bostan sul Daily Sabah riporta una versione dei fatti e della storia del Nagorno karabakh in alcun modo condivisibile.

Nei giorni scorsi ci siamo, provocatoriamente, rivolti all’ambasciatore azero in Italia chiedendo una risposta a due semplici domande: cosa ci faceva un veicolo militare azero nella buffer zone domenica 12 luglio e perché c’erano corpi di militari azeri nella predetta zona cuscinetto tra le due linee di contatto.

Tali dati sono noti e supportati da evidenze documentali che non lasciano dubbi sul fatto che le forze armate dell’Azerbaigian abbiano tentato una sortita nel territorio dell’Armenia, Paese membro delle Nazioni Unite e di numerose organizzazioni europee.

La favoletta della “aggressione armena” è stata rapidamente smontata proprio dai fatti. E non è un caso che gli azeri non abbiano attaccato lungo la linea di contatto tra Azerbaigian e Artsakh (Nagorno Karabakh) perché dopo la guerra dei quattro giorni del 2016 la stessa è stata, da parte armena, dotata di un sofisticato e capillare sistema di vigilanza visiva, anche a raggi infrarossi, che consente di smascherare eventuali sortite nemiche e sbugiardare la propaganda di Baku.

Errata è anche l’asserzione della “occupazione armena” del Nagorno Karabakh e le cifre fornite dal giornalista turco sul ripopolamento armeno della regione. La storiografia turco-azera cerca sempre di mescolare le carte e di trovare l’appiglio per giustificare l’insediamento armeno del territorio dove – detto per inciso – insistono chiese e monasteri armeni risalenti anche a dieci secoli or sono. E non è un caso se, laddove ne hanno avuto la possibilità materiale, turchi e azeri si sono periziati di distruggere qualsiasi testimonianza che poteva documentare la presenza armena (citiamo ad esempio la distruzione di diecimila katchkar medioevali armeni a Julfa nel Nakhchivan o la cartellonistica all’ingresso della città imperiale di Ani al confine con l’attuale Armenia dove sono elencati tutti i popoli che hanno abitato quelle terre ma la presenza armena stranamente scompare…).

Ma a furia di retrodatare queste presunte migrazioni, gli storici turchi devono fare attenzione perché l’invasione ottomana del Caucaso e dell’Anatolia è datata tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV…

Grazie per l’attenzione.

Cordiali saluti e buon lavoro

 

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA

 

 

Burj Hammoud, il quartiere armeno di Beirut (Osservatorio Balcani e Caucaso 06.08.2020)

Fu fin troppo facile innamorarsi di Beirut, e ancora di più del quartiere di Burj Hammoud: era il 2011, la primavera araba aveva il profumo del gelsomino e anche lo storico quartiere armeno della capitale libanese sembrava fervere di una nuova energia.

La storia di quell’agglomerato, di cui divenni prima un curioso frequentatore e poi un accanito habituè, comincia tragicamente in Turchia un secolo fa, all’indomani del genocidio e dei primi arrivi di profughi nell’accogliente cittadina costiera libanese. Qui gli armeni misero subito radici, creando la più fervente e nutrita comunità in diaspora del Medio Oriente. Molti i fattori che lo permisero, come il pluralismo religioso, la vocazione commerciale della città e la prossimità del porto: circostanza storica, quest’ultima, che ieri ha rumorosamente dato testimonianza di se stessa.

L’onda d’urto che è partita dal molo ha scaricato la sua potenza sulla città partendo proprio dalla contigua Burj Hammoud: la comunità armena oggi piange i suoi morti e i suoi feriti insieme a tutta Beirut, la capitale di cui il nome, se pronunciato, evoca il sogno, la tragedia, l’incubo e la rinascita.

Per approfondire

Nel 2012 Paolo Martino partì da Beirut e attraverso Turchia orientale, Giordania e Siria ha raggiunse Yerevan, capitale della evocata quanto estranea Madre Armenia. Da quel viaggio venne fuori Dal Caucaso a Beirut, un reportage che percorre il cordone ombelicale della diaspora attraverso i luoghi della fuga e dell’esilio. Tre anni dopo Paolo incontrò di nuovo uno dei personaggi del suo reportage e scrisse La sabbia aspra della memoria

Vai al sito

 

Ambasciatrice Armenia “Azerbaijan vuole guerra nucleare”/ “Turchia aiuta terrorismo” (IlSussidiario 06.08.20)

Mentre il mondo ha acceso di nuovo i riflettori sul caos in Medio Oriente dopo la terribile doppia esplosione a Beirut, le situazioni di potenziale conflitto sociale e geopolitico in Asia non si limitano purtroppo alla sola intricata vicenda tra Israele, l’Iran e il Libano. È di poche settimane fa il rischio fortissimo di un’escalation militare tra l’Armenia e l’Azerbaijan sul territorio del Nagorno-Karabakh, conteso fin dal 1994: oggi alla Commissione Esteri al Senato è intervenuto l’ambasciatrice appena nominata dell’Armenia in Italia, S.E. Tsovinar Hambardzumyan per lanciare un forte appello al nostro Paese in vista di una potenziale catastrofica guerra nucleare. «L’Armenia si trova in una regione altamente significativa sotto il profilo geostrategico, una regione dove tutt’oggi sono in corso numerose sfide per la sicurezza, la più complessa delle quali credo che sia il conflitto del Nagorno Karabakh», spiega l’ambasciatrice davanti ai senatori illustrando nel dettaglio tutti i possibili pericoli per la stabilità del Caucaso. La recente aggressione del Governo azero oltre a far perdere la vita a 5 soldati armeni mette a rischio anche lo stesso popolo azero: «Il leader azero, con le sue dichiarazioni e nei suoi discorsi pubblici degli ultimi mesi, ha più volte ribadito che l’Azerbaijan è in grado di risolvere il conflitto del Nagorno Karabakh con i mezzi militari», attacca Hambardzumyan.

“SI RISCHIA UNA GUERRA NUCLEARE”

Gli attacchi armenofobici e le dispute geopolitiche rischiano di portare ad un conflitto che va ben al di là della guerra civile sul confine del Nagorno-Karabakh: «con la pandemia ancora in corso, a partire dal 29 (ventinove) Luglio, la Turchia e l’Azerbaijan stanno svolgendo esercitazioni militari congiunte su larga scala proprio vicino al confine con l’Armenia», spiega ancora l’ambasciatore armeno presso la Commissione Esteri. L’attacco militare iniziato il 12 luglio scorso è stato premeditato da tempo, secondo Hambardzumyan, con il ruolo sempre più forte giocato dalla Turchia di Erdogan: ricordando come oggi si celebra la commemorazione delle bombe atomiche di Nagasaki in Giappone, l’ambasciatore avverte «il Ministero della Difesa dell’Azerbaijan, oggi, minaccia di bombardare la Centrale Nucleare armena di Metsamor. È una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario, in particolare, del Primo protocollo aggiuntivo alla  Convenzione di Ginevra». Queste minacce, attacca ancora il rappresentate del Governo dell’Armenia in Italia, sono una sorta di «terrorismo di stato», nonché un rischio per tutti i popoli della regione, compreso lo stesso popolo azero.

«Questo atteggiamento così irresponsabile conferma l’assoluta indifferenza della leadership politico-militare dell’Azerbaijan anche per la sicurezza dei propri cittadini», conclude il suo intervento l’ambasciatrice, sottolineando come «Il Nagorno Karabakh è un popolo, è la sua gente. Gente come noi. La loro lotta per la libertà è costata migliaia di vite umane […] L’attuale posizione destabilizzante della Turchia va presa seriamente in considerazione anche nel più ampio contesto della sua politica militare e geopolitica Neo-ottomana. L’esempio più recente di tale politica è la decisione della Turchia di trasformare la basilica-museo di Santa Sofia, dell’epoca bizantina, in una moschea». L’Armenia chiede ufficialmente che l’Azerbaijan partecipi ai negoziati di pace finora rifiutati nonostante l’invito dell’Onu ma anche che riconosca senza riserva il diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno-Karabakh (o Artsakh), «diritto fondamentale previsto dall’Atto finale di Helsinki, e la sicurezza del popolo dell’Armenia e dell’Artsakh non possono venir meno in nessun caso».

Vai al sito

La Caritas Armenia al fianco dei poveri: un ponte di pace nel Caucaso (Interris 05.08.20)

L’Armenia sta vivendo una pericolosa escalation di violenze che pesano sulla parte più fragile della popolazione: bambini, anziani, disabili. Dopo anni di relativa quiete, sono infatti riprese le tensioni tra Armenia e il confinante Azerbaigian, storicamente divisi sulla regione contesa del Nagorno-Karabach, una regione autonoma (oblast) assegnata all’Azerbaigian ma tradizionalmente abitata da armeni. Una zona di confine altamente strategica perché comprende infrastrutture preziose, tra cui strade e oleodotti, fondamentali per entrambi i Paesi caucasici.

Le violenze

Lo scorso 12 luglio nella regione di Tovuz/Tovush il cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaigian è stato violato dagli scontri più gravi negli ultimi anni. Diversi membri delle forze armate dell’Azerbaijan hanno tentato di violare i confini statali della Repubblica di Armenia con un veicolo militare. Ne è scaturito un conflitto a fuoco con morti e feriti da entrambe le parti. Nello specifico, almeno tre soldati dell’Azerbaijan – scrive L’osservatorio dei Balcani e del Caucaso – sarebbero stati uccisi e altri cinque feriti. Mentre il ministero dell’interno dell’Armenia ha riportato il ferimento di due agenti di polizia e di tre soldati armeni, senza parlare di vittime.

Ilham Aliyev

L’escalation di violenze è iniziata dopo che il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev aveva espresso il suo malcontento per i negoziati di pace con l’Armenia. In un’intervista a canali televisivi azerbaijani il 6 luglio scorso Aliyev aveva affermato che “i negoziati in video tra i ministri degli Affari esteri dell’Armenia e dell’Azerbaijan non hanno alcun senso”. Aliyev aveva poi minacciato l’uscita dell’Azerbaijan dai negoziati. “Se i negoziati non affrontano questioni sostanziali – aveva detto – non vi prenderemo parte”.

I trattati di pace

Da anni nella regione viene portato avanti un faticoso processo di pace da parte del cosiddetto Gruppo di Minsk, creato nel 1992 dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE) e guidato da Stati Uniti, Francia e Russia. Il gruppo, con la pandemia, ha subito un forte indebolimento. “Soprattutto Usa e Ue al momento appaiono indeboliti e hanno altro a cui pensare, così come l’Iran – spiega a Il Bo Live Antonio Varsori, storico delle relazioni internazionali dell’università di Padova –. Il Covid-19 sta incidendo sugli equilibri internazionali e più ancora lo farà la crisi economica”.

Covid in Armenia

Il coronavirus ha per ora colpito solo marginalmente l’Armenia. Quasi 40 mila casi positivi e 768 morti accertati da inizio pandemia su una popolazione di quasi 3 milioni di abitanti. Un decesso ogni 4mila abitanti. Non moltissimo confrontato all’Italia (uno ogni 1.700 abitanti) o il Belgio (uno ogni 1.160 abitanti circa). Ma a preoccupare non è solo l’emergenza sanitaria, ma anche la crisi economica che la pandemia si trascina dietro. Si temono gli effetti devastanti della chiusura dei confini e delle attività economiche. Con un aumento della povertà diffusa, specie in quelle fasce già deboli prima dell’avvento del lockdown.

Caritas Armenia

A denunciare il tracollo economico delle face deboli è la Caritas Armenia, da 25 anni al fianco dei poveri grazie all’assistenza diretta di migliaia di persone in 125 comunità del Paese caucasico.

Non appena è stato dichiarato lo stato di emergenza, la Caritas Armenia ha iniziato il suo lavoro di assistenza alle varie comunità in tutti i settori, compreso quello sanitario. La prima azione è stata infatti quella di donare 200 mascherine 200 attrezzature mediche di protezione al personale sanitario dell’ospedale per le infezioni di Gyumri, in collaborazione con l’amministrazione regionale di Shirak.

Disabili, anziani, bambini soli

Sono numerose le iniziative a favore delle fasce deboli che Caritas Armenia porta avanti nelle varie fasi dell’anno. Qui sotto, a titolo di esempio, il video del programma di Caritas Armenia dedicato alla protezione degli anziani durante l’inverno, il “Warm Winter Poject”:

Coronavirus

Programmi specifici sono stati creati ad hoc per contrastare i danni – sanitari ed economici – causati dalla pandemia. Durante l’isolamento sociale, infatti, molte famiglie si sono trovate in difficoltà economica. Il Pil pro capite pone il Paese al 118esimo posto nel mondo. Ma una difficoltà in più l’hanno vissuta i disabili, molti dei quali impossibilitati a uscire di casa anche solo per fare la spesa per problemi motori e rimasti senza assistenza sanitaria. Anche molti anziani soli e alcune madri con figli piccoli hanno rischiato di morire di fame.

Assistenza domiciliare e da remoto

Proprio per loro la Caritas Armenia ha avviato un progetto di sostentamento e assistenza da remoto o domiciliare. Tra le altre iniziative, ha consegnato oltre 1200 pacchi alimenti e articoli per l’igiene a persone con disabilità, ad anziani in condizioni critiche e ai bambini vulnerabili e alle loro famiglie in 4 regioni del Paese.

Inoltre, le persone con disabilità e le famiglie di bambini in condizioni critiche sono state assistite con assistenza estesa e monitoraggio e consulenza remoti costanti, così come le persone anziane sole, che sono anche state visitate a domicilio per casi urgenti.

Senso di comunità

Rimanendo fedele alla sua missione, Caritas Armenia si dice “orgogliosa del lavoro svolto in collaborazione con lo Stato, le associazioni e i volontari” e in una nota sollecita “una crescita del senso di comunità e di carità da parte di tutti i cittadini al fine di aiutare i più vulnerabili in un periodo così delicato”.

Vai al sito