Il film della regista armena nel villaggio abitato, gestito e curato solo da donne dalla primavera all’inverno (Ilmessaggero 31.08.20)

Si intitola Villaggio di donne, il film in concorso in vari festival minori, in Italia e all’estero, della registra e sceneggiatrice armena Tamara Stepanyan. La giovane cineasta formatasi in Libano ha scelto di registrare per un intero anno la vita di un paese abitato solo da donne che accudiscono vecchi e bambini. Un villaggio armeno che si è lentamente svuotato dai mariti e dai figli più grandi per  trovare lavoro all’estero, soprattutto in Russia, dove c’è la possibilità di un impiego stagionale, dalla primavera all’inverno.

Le donne, improvvisamente diventano capo famiglia e tutto ruota attorno a loro. Il nome del villaggio non viene definito volutamente, proprio perché il destino di queste donne è una condizione femminile molto comune nelle regioni più disagiate dell’Armenia, paese caucasico dalle radici antichissime, divenuto indipendente dall’Urss dopo il crollo del Muro di Berlino. Per nove mesi i mariti di quasi tutte le donne partono per quello che viene definito un autentico esilio.

E’ in quel momento che il testimone di capo famiglia passa dall’uomo alle mani della moglie e, di conseguenza, anche il potere simbolico di presiedere ad ogni aspetto della vita comunitaria, organizzativa, gestionale assicurando la continuità di vita per i figli, le piccole aziende agricole, la campagna. E’ sulle spalle di queste donne che si accumulano i lavori degli uomini, ai quali si aggiungono anche quelli che solitamente svolgono le donne in casa in qualità di care-giver.

Il film percorre una condizione difficilissima mettendo a nudo ansie, problemi,contraddizioni di chi resta e di chi torna, ma anche la capacità di fare rete tipicamente femminile. La regista ha fatto tutto da sola, entrando con una telecamera da ospite nelle case, riprendendo scene di vita comune, ascoltando le storie, raccogliendo le lacrime, studiando gli orizzonti comuni. Le donne armene legate alla terra sopportano l’attesa, dimostrando di riuscire a fare tanto quanto i loro mariti se non di più.

Una giovane lasciata in paese dal marito ventenne dopo pochi mesi di matrimonio per il lavoro in Russia, racconta: «Quando tornava era sempre un estraneo e ho faticato anni ad accettarne la presenza in casa». Gli uomini armeni che emigrano stagionalmente hanno una vita ugualmente durissima. Generalmente vivono in cameroni tutti assieme per risparmiare sui costi del’alloggio, lavorano senza avere orari, sfruttati al massimo nel’agricoltura o nell’edilizia. Poi quando arriva la neve gli uomini fanno ritorno e tutto riprende come prima, compresa la vita patriarcale tipica delle famiglie rurali armene. I bambini però si abituano crescendo a questo cambiamento di ruolo, accettando con maggiore semplicità l’idea di una uguaglianza tra uomo e donna.

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Consiglio per la Comunità Armena di Roma. La nostra risposta all’Ambasciatore azero in Italia: “Bugie e negazionismo”. (Sardegnagol 31.08.20)

Recentemente, l’Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia, Mammad Ahmadzada, è intervenuto sulla recente recrudescenza dell’ostilità tra l’Armenia e lo Stato azero.

Sul conflitto tra i due Paesi, vista la complessità dello scenario geopolitico, riteniamo doveroso dedicare spazio a tutte le diverse voci in campo, senza alcuna intermediazione.

Oggi, dopo aver intervistato il Presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia, Baykar Sivazliyan, pubblichiamo la lettera inviata alla nostra redazione dalla Comunità Armena di Roma, in risposta alle dichiarazioni dell’Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia, Mammad Ahmadzada.

“Se la ride S.E. Mammad Ahmadzada, ambasciatore dell’Azerbaigian in Italia, citando la presunta abilità armena di contraffare la verità che a suo dire genera ‘ilarità’. Fossimo in lui, rappresentante diplomatico di una delle peggiori dittature al mondo (Freedom press index colloca l’Azerbaigian al 167° posto su 180 nazioni, poco sotto la Corea del nord…) ci preoccuperemmo delle sorti del suo Paese dove l’opposizione è inesistente, i giornalisti e i membri delle ong non allineati vengono sbattuti in galera”.

“Nonostante i tanti soldi che regala in giro per l’Europa (Italia compresa) Aliyev rimane un dittatore al pari di Lukashenko o Kim Jong-un e la sua famiglia governa da più di trenta anni una nazione fatta crescere nell’odio contro gli armeni. Accusa gli armeni, prima nazione al mondo ad aver abbracciato ufficialmente la fede cristiana nel 301, di essersi ‘appropriati della Chiesa dell’Albania caucasica’ ma non spiega perché allora l’Azerbaigian ha distrutto tutti i monumenti e le chiese armene in Nakhichevan, comprese diecimila croci di pietra (katchkar) di epoca medioevale a Julfa. Come i barbari talebani in Afghanistan con i buddha di Bamiyan… e non sono gli armeni a proclamarsi primo popolo cristiano ma lo dice la storia della Chiesa”.

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“Bugie continua a ripetere la feluca azera sulla storia armena e su quella del Nagorno Karabakh-Artsakh (che non è mai stato storicamente un territorio azero e che giusto un secolo or sono vantava il 95% della popolazione di etnia armena) mescolando a caso informazioni e propaganda, tanto su un tema così complicato e delicato il lettore medio difficilmente riesce a raccapezzarsi”.

“Sorvola sui massacri e le pulizie etniche che gli armeni residenti in Azerbaigian dovettero subire nei decenni scorsi da Sumgayt in poi e mente sugli antefatti storici della guerra che l’Azerbaigian scatenò contro la piccola repubblica del Nagorno Karabakh, territorio di circa 4000 Km2 gentilmente donato da Stalin agli azeri negli anni Venti del secolo scorso”.

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“Un tavolo negoziale per la soluzione pacifica del contenzioso è stato istituito con il Gruppo Minsk dell’OSCE ma dalle affermazioni dell’Ambasciatore si evince che il suo Paese è contrario al dialogo e non accetta il principio che la questione del Nagorno Karabakh possa arrivare a conclusione senza l’uso della forza”.

“L’Armenia è un aggressore e l’Azerbaigian è una vittima” scrive l’esimio Ambasciatore al quale rinnoviamo due domande molto semplici: “Cosa ci faceva il 12 luglio scorso un veicolo militare azero nella zona cuscinetto sul confine azero armeno? Una gita fuori porta?” E la seconda: “Cosa ci facevano i soldati azeri nella stessa buffer zone? Un pic-nic?”.

“L’Azerbaigian deve capire che deve arrendersi all’evidenza che la Storia non può essere raccontata a suon di petrodollari…”.

“Ma invero, se una ricostruzione di parte può anche essere scontata (visto il recente richiamo del dittatore Aliyev ai propri ambasciatori perché si diano da fare a livello di comunicazione…) appare tuttavia moralmente inaccettabile il richiamo negazionista – d’altronde buon sangue turco non mente – quando parla degli ‘eventi della prima guerra mondiale’ riferendosi evidentemente al genocidio armeno perpetrato dall’impero ottomano contro la minoranza armena”.

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“Ecco, vedere riportato su una testata italiana l’intervento di un rappresentante di uno Stato dittatura che mistifica la realtà e pronuncia frasi negazioniste sul genocidio di un milione e mezzo di armeni senza che la redazione senta il dovere di prendere un minimo di distanza da certe affermazioni fa male. Quale reazione vi sarebbe, chiediamo, se l’ambasciatore di un Paese non democratico inviasse una nota nella quale tra l’altro nega l’Olocausto?
Viviamo in una nazione, l’Italia, nella quale per fortuna tutti hanno diritto di parola e la libertà di informazione è garantita. Ciò però non significa avallare pedissequamente un crimine contro l’umanità”.

foto © www.comunitaarmena.it

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LETTERA/ Gli “errori” dell’Azerbaigian sulle terre che sono armene (Il Sussidirario 31.08.20)

Egregio direttore,
scriviamo in risposta alla lettera, ricca di retorica ma ahinoi povera di fatti, dell’ambasciatore Mammad Ahmadzada da lei pubblicata il 12 agosto. Ci limiteremo a esporre alcuni dei fatti più salienti, e lasceremo al pubblico italiano trarne le conseguenze.

Quando l’Ambasciatore insiste che l’Azerbaigian è “garante della sicurezza e della pace nel Caucaso meridionale” e “promotore del dialogo tra le civiltà”, ricorderemo solamente la vicenda dell’ufficiale Ramil Safarov, che nel cuore della notte del 19 febbraio 2004 a Budapest, durante un’esercitazione Nato, uccise l’ufficiale armeno Gurgen Margaryan con 16 colpi d’ascia. Dopo la sua condanna all’ergastolo dalla corte ungherese il 13 aprile 2006, condanna confermata dalla corte d’appello il 22 febbraio 2007, Safarov venne consegnato alle autorità azere il 31 agosto 2012, rimpatriato, e osannato dal suo governo. Fu promosso a capitano. Gli furono dati otto anni di paga arretrata e un appartamento.

E vorremmo ricordare anche che, nel rally tenutosi a Baku il 14 luglio scorso, la folla urlava “morte agli armeni”.

Per quanto l’Ambasciatore insista che il Nagorno Karabakh – o l’Artsakh, come viene chiamato dagli armeni – sia una “regione azerbaigiana” e “terra storica” di “1 milione di azerbaigiani”, la regione non ha mai veramente fatto parte dell’Azerbaigian. Non si trovava tra i confini dell’Azerbaigian quando è stato creato nel 1918. Né ne faceva parte integrale nel 1991, quando l’Azerbaigian ha dichiarato la propria indipendenza. Il Nagorno Karabakh è stato incluso tra i confini dell’Azerbaigian da Stalin solamente nel 1921, come oblast, ossia regione autonoma, e contrariamente alla volontà delle persone che vi abitavano.

Come chiunque può evincere dalle rovine di Tigranakert (Tigranocerta) – una delle sette città fondate dal re armeno Tigrane il Grande nel I secolo a.C. – e dalle innumerevoli chiese armene sparse in tutto il territorio, per non ricordare la città di Shushi –, il Nagorno Karabakh è terra dove il popolo armeno vive da millenni.

Infine, ci siamo divertiti con la citazione dell’Ambasciatore, che scrive: “c’è un detto in Azerbaigian: ‘L’ultimo arrivato caccia chi già c’era!’”. È certamente vero per quanto riguarda il Nakhichevan, antico territorio armeno attribuito da Stalin all’Azerbaigian nel 1921, dove sono stati distrutti perfino gli antichi cimiteri degli armeni; non lo è certo per il Nagorno Karabakh.

Nagorno Karabakh. Il Consiglio per la Comunità armena di Roma: ‘bugie e negazionismo: . La nostra risposta all’ambasciatore azero in italia (Politicamentecorretto, notiziegeopolitiche 30.08.20)

Se la ride S.E. Mammad Ahmadzada, ambasciatore dell’Azerbaigian in Italia, citando la presunta abilità armena di contraffare la verità che a suo dire genera “ilarità”.

Fossimo in lui, rappresentante diplomatico di una delle peggiori dittature al mondo (Freedom press index colloca l’Azerbaigian al 167° posto su 180 nazioni, poco sotto la Corea del nord…), ci preoccuperemmo delle sorti del suo Paese dove l’opposizione è inesistente, i giornalisti e i membri delle ong non allineati vengono sbattuti in galera.

Nonostante i tanti soldi che regala in giro per l’Europa (Italia compresa), Aliyev rimane un dittatore al pari di Lukashenko o Kim Jong-un e la sua famiglia governa da più di trenta anni una nazione fatta crescere nell’odio contro gli armeni.

Accusa gli armeni, prima nazione al mondo ad aver abbracciato ufficialmente la fede cristiana nel 301, di essersi “appropriati della Chiesa dell’Albania caucasica” ma non spiega perché allora l’Azerbaigian ha distrutto tutti i monumenti e le chiese armene in Nakhichevan, comprese diecimila croci di pietra (katchkar) di epoca medioevale a Julfa. Come i barbari talebani in Afghanistan con i buddha di Bamiyan…

E non sono gli armeni a proclamarsi primo popolo cristiano ma lo dice la storia della Chiesa.

Bugie continua a ripetere la feluca azera sulla storia armena e su quella del Nagorno Karabakh-Artsakh (che non è mai stato storicamente un territorio azero e che giusto un secolo or sono vantava il 95% della popolazione di etnia armena) mescolando a caso informazioni e propaganda, tanto su un tema così complicato e delicato il lettore medio difficilmente riesce a raccapezzarsi.

Sorvola sui massacri e le pulizie etniche che gli armeni residenti in Azerbaigian dovettero subire nei decenni scorsi da Sumgayt in poi e mente sugli antefatti storici della guerra che l’Azerbaigian scatenò contro la piccola repubblica del Nagorno Karabakh, territorio di circa

4000 km2 gentilmente donato da Stalin agli azeri negli anni Venti del secolo scorso.

Un tavolo negoziale per la soluzione pacifica del contenzioso è stato istituito con il Gruppo Minsk dell’OSCE ma dalle affermazioni dell’Ambasciatore si evince che il suo Paese è contrario al dialogo e non accetta il principio che la questione del Nagorno Karabakh possa arrivare a conclusione senza l’uso della forza.

“L’Armenia è un aggressore e l’Azerbaigian è una vittima” scrive l’esimio Ambasciatore al quale rinnoviamo due domande molto semplici:

“Cosa ci faceva il 12 luglio scorso un veicolo militare azero nella zona cuscinetto sul confine azero armeno? Una gita fuori porta?”  E la

seconda: “Cosa ci facevano i soldati azeri nella stessa buffer zone? Un pic-nic?”.

L’Azerbaigian deve capire che deve arrendersi all’evidenza che la Storia non può essere raccontata a suon di petrodollari…

Ma invero, se una ricostruzione di parte può anche essere scontata (visto il recente richiamo del dittatore Aliyev ai propri ambasciatori perché si diano da fare a livello di comunicazione…), appare tuttavia moralmente inaccettabile il richiamo negazionista – d’altronde buon sangue turco non mente – quando parla degli “eventi della prima guerra mondiale” riferendosi evidentemente al genocidio armeno perpetrato dall’impero ottomano contro la minoranza armena.

Ecco, vedere riportato su una testata italiana l’intervento di un rappresentante di uno Stato dittatura che mistifica la realtà e pronuncia frasi negazioniste sul genocidio di un milione e mezzo di armeni senza che la redazione senta il dovere di prendere un minimo di distanza da certe affermazioni fa male.

Quale reazione vi sarebbe, chiediamo, se l’ambasciatore di un Paese non democratico inviasse una nota nella quale tra l’altro nega l’Olocausto?

Viviamo in una nazione, l’Italia, nella quale per fortuna tutti hanno diritto di parola e la libertà di informazione è garantita. Ciò però non significa avallare pedissequamente un crimine contro l’umanità.

Distinti saluti

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA

 

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Diplomazia pontificia… Il punto di vista dell’ambasciatore armeno presso la Santa Sede. (Acistampa 29.08.20)

CITTÀ DEL VATICANO , 29 agosto, 2020 / 4:00 PM

FOCUS CAUCASO

Conflitto armeno-azero, il punto di vista dell’ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede

A seguito dell’escalation che c’è stata ad inizio luglio nella regione del Nagorno Karabach, le ambasciate di Armenia ed Azerbaijan presso la Santa Sede hanno definito la posizione delle loro nazioni in delle dichiarazioni rilasciate ad ACI Stampa. Prima l’ambasciata di Azerbaijan presso la Santa Sede aveva accusato gli armeni di essere responsabili dell’escalation, affermando tra l’altro che in questo modo l’Armenia voleva mettere in gioco l’idea che l’Azerbaijan potesse essere un partner affidabile nella gestione del gas. L’ambasciatore armeno aveva invece rimandato al mittente le accuse, sottolineando invece le responsabilità dell’Azerbaijan e puntando anche il dito contro una longa manus turca dietro le attività azere.In una successiva dicahiarazione, l’ambasciata di Azerbaijan presso la Santa Sede ha parlato di “provocazione armata” da parte dell’Armenia e sottolineato che questa era contro le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Garen Nazarian, ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede, risponde alle osservazione dell’ambasciatore Mustafayev con una dichiarazione inviata ad ACI Stampa

L’ambasciatore Nazarian sottolinea che “è deludente vedere gli sforzi dell’ambasciatore azerbaigiano presso la Santa Sede nell’interpretare in maniera errata le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 1993”.

Secondo l’ambasciatore Nazarian, “il collega azerbaigiano, nel tentativo di abortire la possibilità di raggiungere una soluzione di compromesso, cerca di giustificare la posizione del suo paese di procrastinare i negoziati e di accusare i mediatori – i copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE”.

L’ambasciatore Nazarian nota che “non il processo di pace, ma la cessazione delle ostilità è stato l’obiettivo principale di quelle risoluzioni che, tra l’altro, sono state ripetutamente violate dall’Azerbaijan e alcune di queste violazioni sono riportate nelle risoluzioni stesse”. L’ambasciatore nota poi che “in quei documenti adottati 27 anni fa non ci sono riferimenti al cosiddetto ‘ritiro delle forze armate dell’Armenia’ come riporta l’ambasciatore azerbaigiano”.

Rifacendosi alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, l’ambasciatore armeno sottolinea che “l’Azerbaijan finge che siamo ancora nel 1993 e che non vi sia stato un accordo trilaterale di cessate il fuoco firmato da Azerbaijan, Nagorno-Karabakh e Armenia nel 1994”. Ma, nota, “ironicamente nel fare ciò, l’ambasciatore dell’Azerbaijan fa riferimento alla decisione del Vertice OSCE di Budapest che ha accolto con favore il cessate il fuoco e ha riconosciuto i firmatari, compreso il Nagorno-Karabakh, come parte nel conflitto”.

Secondo l’ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede “il rifiuto dell’Azerbaijan di negoziare con il Nagorno-Karabakh è in netta contraddizione con la sua affermazione ‘che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la decisione del Vertice OSCE di Budapest’ sono il quadro giuridico e politico per il processo di pace”.

L’essenza del problema sta, sottolinea l’ambasciatore “nell’attuazione da parte del popolo del Nagorno-Karabakh del suo diritto inalienabile all’autodeterminazione, nel pieno rispetto delle norme del diritto internazionale e del diritto interno dell’Unione Sovietica prima del suo crollo nel 1991”, e che “il conflitto tra Azerbaijan e Nagorno Karabakh è scoppiato in risposta all’autodeterminazione di quest’ultimo, come risultato di politiche di potere portate avanti dalla leadership dell’Azerbaijan e dimostrate dai massacri brutali e dalle pulizie etniche dell’intera popolazione armena di 400.000 persone dell’Azerbaijan, così come dall’inizio di un’aggressione militare su vasta scala contro la Repubblica del Nagorno-Karabakh”.

L’ambasciatore Nazarian sottolinea inoltre che “l’aggressione dell’Azerbaijan è stata condannata dalla comunità internazionale all’epoca. La politica dell’Azerbaijan di rifiuto dei principi del diritto internazionale, in particolare i principi del non uso della forza o della minaccia dell’uso della forza e il diritto dei popoli all’autodeterminazione, sta ancora continuando a minare il processo di pace”.

Nazarian invita poi a non distorcere l’appello di Papa Francesco del 19 luglio, e afferma che è “fuorviante” il “tentativo di ricercare divergenze tra la comunità internazionale e la co-presidenza del gruppo di Minsk dell’OSCE”, dato che questa “detiene il mandato della comunità internazionale e delle parti in conflitto di guidare il processo di pace del Nagorno-Karabakh”.

Insomma, conclude Nazarian, “se l’Azerbaijan è disposto a riconsiderare il suo accordo al Processo di Minsk dell’OSCE, i suoi rappresentanti diplomatici dovrebbero avere il coraggio e la capacità di formulare le loro richieste in modo ufficiale e chiaro, anziché distorcere le parole di Sua Santità”.

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Roma, Armenia nella black list: Mkhitaryan no nazionale (Ilmessaggero 29.08.20)

Il romanista Henrikh Mkhitaryan non è stato convocato per le partite della nazionale armena in Nations League contro Macedonia ed Estonia, del 5 e 8 settembre. Lo ha annuncoato il ct dell’Armenia Joaquin Caparros, sull’account Twitter della federcalcio locale. «Ho parlato con Henrikh al telefono – ha spiegato Caparros – e mi ha detto che al momento non può unirsi alla Nazionale. Ha promesso che farà di tutto per esserci a ottobre». Il giocatore della Roma resterà quindi a Trigoria per allenarsi con la sua squadra di club. Il motivo della mancata convocazione è che nella ‘black list’ dei paesi ai quali l’Italia ha chiuso i confini, per evitare di importare nuovi contagi da coronavirus, c’è anche l’Armenia, e quindi se Mkhitaryan fose andato in nazionale poi, al rientro in Italia, avrebbe dovuto rimanere per due settimane in autoisolamento. Per questo ha preferito rinunciare.
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Coronavirus, Mkhitaryan non convocato dall’Armenia

ROMA – Il romanista Henrikh Mkhitaryan non è stato convocato per le partite della nazionale armena in Nations League contro Macedonia ed Estonia, del 5 e 8 settembre. Lo ha annuncoato il ct dell’Armenia Joaquin Caparros, sull’account Twitter della federcalcio locale. “Ho parlato con Henrikh al telefono – ha spiegato Caparros – e mi ha detto che al momento non può unirsi alla Nazionale. Ha promesso che farà di tutto per esserci a ottobre“. Il giocatore della Roma resterà quindi a Trigoria per allenarsi con la sua squadra di club. Il motivo della mancata convocazione è che nella ‘black list’ dei paesi ai quali l’Italia ha chiuso i confini, per evitare di importare nuovi contagi da coronavirus, c’è anche l’Armenia, e quindi se Mkhitaryan fose andato in nazionale poi, al rientro in Italia, avrebbe dovuto rimanere per due settimane in autoisolamento. Per questo ha preferito rinunciare.

Morta dopo 237 giorni di sciopero della fame in carcere l’avvocata Ebru Timtik, paladina dei diritti umani in Turchia (Ilmessaggero 28.08.20)

Ha resistito per 238 giorni Ebru Timtik senza toccare cibo. Protestava per chiedere un processo equo. Il suo cuore alla fine non ha retto, un arresto cardiaco ha posto fine alla sua giovane vita. La coraggiosa avvocata per i diritti umani, membro del People Right Bureau (HHB) è morta il 27 agosto, nel tardo pomeriggio, nell’ospedale dove era stata ricoverata, dopo il trasferimento dalla prigione numero 9 a Silivri.

La sua morte ha avuto una eco mondiale e ha riportato i riflettori sul fatto che in Turchia il 21 settembre prossimo si terrà il processo a una ventina di avvocati turchi detenuti da due anni con l’accusa di terrorismo solo per avere preso le difese di persone accusate di terrorismo.

Ebru era stata arrestata insieme a altri 18 colleghi per il suo impegno nella difesa dei diritti civili in Turchia. La Corte costituzionale turca aveva respinto la richiesta di rilascio a scopo precauzionale sia per lei sia per il collega Aytaç Ünsal, entrambi in sciopero della fame, nonostante le loro condizioni di salute fossero già molto critiche. Per la Corte non ci sarebbero state «informazioni o reperti disponibili in merito all’emergere di un pericolo critico per la loro vita o la loro integrità morale e materiale con il rigetto della richiesta per il loro rilascio».

Alcuni membri del Partito popolare repubblicano (Chp) della opposizione avevano criticato la magistratura per non aver rilasciato Timtik. «Fino a quando saremo costretti ad assistere a queste morti?».

Il Consiglio nazionale forense italiano ha espresso il proprio cordoglio alla famiglia della collega turca Ebru Timtik, e la propria vicinanza e solidarieta’ agli avvocati turchi. «Il Cnf – si legge in una nota – continuera’, in sinergia con il Consiglio degli ordini forensi europei (Ccbe) e con l’Osservatorio internazionale avvocati in pericolo (Oiad), la propria azione di denuncia e di sostegno ai colleghi che si battono per il libero esercizio della professione di avvocato, compromesso anche dalla recente riforma degli ordini professionali in Turchia, e chiede alle autorita’ turche il rispetto dei diritti della difesa, inibiti e reiteratamente violati nei processi in cui sono stati coinvolti i colleghi».

Gli avvocati italiani invitano le autorita’ turche a rispettare i principi dell’ONU a sostegno del ruolo degli avvocati adottati a L’Avana nel 1990 e all’immediata scarcerazione di Aytac Unsal, collega coimputato condannato a 10 anni e 6 mesi di reclusione, che versa in gravi condizioni di salute.

Il deputato della Lega, Giulio Centemero – membro dell’assemblea parlamentare del Mediterraneo – ha criticato la Turchia per avere calpestato la dignità umana. Chi si macchia di tali crimini nega l’uomo e non si merita di essere chiamato tale e commette gli stessi errori del passato».

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Mongolia e Armenia, quelle vite di donne narrate al femminile (L’Arena 28.08.20)

«Che importa se le capre muoiono» della franco-marocchina Sofia Alaoui è per ammissione della stessa giovanissima regista un approccio al dogma, «non solo religioso, ma a tutti i dogmi che regolano la vita civile», sostiene nell’intervista che viene mandata sullo schermo a fine proiezione. Il film è bello, con una fotografia invidiabile ma criptico: non si capisce cosa succeda dal momento in cui il giovane Abdellah lascia il padre e il suo allevamento di capre sulla catena dell’Atlante per andare a cercare del grano, che integri nell’alimentazione il magro pascolo ai margini del deserto. Da quel momento è tutto un mistero di persone non trovate, di risposte non date, di eventi celesti non visti, ma che spaventano (un tuono, un uragano, un meteorite?). Finisce senza che se ne sappia di più. Nata a Mosca nel 1978, Nataliya Kharlamova si propone in «Accampamento sulla via del ritorno», suo progetto di diploma per la scuola di cinema, di raccontare la vita di un anziano capo di una accampamento nomade nella steppa ai confini con la Mongolia e con il quale ha avuto l’opportunità di coltivare l’amicizia negli anni. Solo che al momento di girare il film il soggetto principale muore, ma la regista non rinuncia al suo progetto, registrando invece quello che succede nell’accampamento a capo assente, dalla cerimonia funebre al rito sciamanico che gli succederà. Protagonista del film diventa così la figlia Belekmaa, che si assume in maniera inattesa la direzione dell’azienda e pare l’unica con la testa sulle spalle in un posto popolato di maschi inetti e alcolizzati. Brava lei a interpretare se stessa e brava la regista a restare indenne in un ambiente simile. Ci sono altre protagoniste femminili in «Villaggio di donne» della regista e sceneggiatrice armena Tamara Stepanyan, che ha scelto di registrare un intero anno di vita di un paese abitato solo da donne, vecchi e bambini. I mariti e i giovani sono a lavorare in Russia dalla primavera all’autunno, in quello che tutti definiscono “esilio”, mentre madri e mogli assicurano la continuità di vita per i figli, gli animali e la campagna. Fanno tutto quello che farebbero le donne di casa e in più i lavori dei maschi. Una condizione difficilissima ritratta dal vero, in un documentario che mette a nudo ansie, problemi, contraddizioni di chi resta e di chi torna. L’intima complicità della macchina da presa è stata possibile perché la regista ha fatto tutto da sola, entrando da ospite prima e da amica poi nelle case delle donne che hanno accettato di raccontarsi e mostrare come sopportano l’attesa, restando avvinghiate alla loro terra che per il popolo armeno ha un significato forte quanto quello degli affetti familiari. I momenti di contatto sono telefonate spesso interrotte dalla copertura assente o anche da discorsi vacui che non hanno più argomenti, come capita fra una donna sposata 17enne e lasciata dal marito ventenne dopo pochi mesi per il lavoro in Russia, condizione che va avanti da oltre vent’anni. «Per me quando tornava era sempre un estraneo e ho faticato anni ad accettarne la presenza in casa», ammette. Neanche sull’altra sponda è facile: gli uomini vivono insieme in cameroni di una decina di persone per risparmiare sui costi dell’alloggio; lavorano da mattina a sera sfruttati al massimo per i mesi in cui è possibile lavorare in agricoltura o nell’edilizia, poi scaricati alle loro famiglie e al loro Paese: «Mi sento come un mulo che lascia l’erba fresca di casa per andare a mangiare quella secca fuori casa», confessa un marito. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Modella Gucci vittima di body shaming: viene derisa per la sua bellezza anticonvenzionale (105.net 28.08.20)

Armine Harutyunyan è una modella 23enne di origine armene molto affermata nel mondo della moda: oggi sfila per Gucci, che l’ha inclusa tra le 100 modelle più sexy del mondo. La giovane ha già sfilato su passerelle molto importanti ma, nonostante il suo successo, è vittima di body shaming.

In particolare, Armine è stata ricoperta da insulti e critiche dopo la sua partecipazione alla Fashion Week di Parigi lo scorso settembre; in seguito i messaggi denigratori sono proseguiti sui social da parte di misogini, razzisti, haters di tutti i tipi, tra i quali purtroppo anche tante donne e questo è ciò che stupisce di più. Molte donne, infatti, anziché mostrarsi solidali, diventano spesso perfide nei confronti di altre donne.

Armine viene così tanto criticata perché la sua bellezza non rispetta i canoni convenzionali: in tanti l’hanno definita brutta e considerano il suo aspetto non adatto al mondo della moda. Ma lei, con grande coraggio, se ne infischia e continua a fare il lavoro che ama.

A credere in Armine è stato Alessandro Michele, attuale direttore creativo di Gucci che da tempo punta proprio su scelte estetiche anticonvenzionali: secondo alcuni detrattori si tratta solo di scelte di marketing, ma in realtà l’intento è quello di veicolare una nuova idea di apertura verso la diversità e la bellezza al di fuori da ogni schema prestabilito.

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Armenia: c’è chi è rimasto in Thailandia (Osservatorio Balcani e Caucaso 27.08.20)

Varda Avetisyan, nota ristoratrice armena, e il suo compagno, lo scorso 28 gennaio erano in viaggio per l’isola di Koh Samu, per una vacanza in Thailandia. Non avrebbero mai immaginato che la loro vacanza di due mesi si sarebbe trasformata in un progetto imprenditoriale a tempo indeterminato. Le frontiere chiuse a causa del coronavirus hanno portato la vita della 38enne Varda in una nuova direzione.

“Era la fine di gennaio quando io e il mio ragazzo siamo partiti per una vacanza. Era da tanto che non staccavamo e avevamo programmato di rimanere in Thailandia per 2 mesi. Avevamo un biglietto di ritorno per il 2 aprile. Ero incinta di tre mesi in quel momento. Avevamo programmato di fare yoga, per rilassarci completamente. Insomma, sono andata in cerca di relax, ma tutto ha assunto un andamento diverso”, racconta.

Già all’inizio di marzo la coppia si era resa conto che i loro piani sarebbero dovuti cambiare. A marzo i voli internazionali hanno iniziato a subire progressivamente ritardi. “Quindi i visti sono stati automaticamente prorogati di tre mesi, in modo che il servizio immigrazione non fosse affollato. Proprio da quel momento ci siamo resi conto che saremmo rimasti qui per molto tempo e che c’erano delle sfide a cui trovare soluzione”, ricorda Varda.

Varda è nata a Yerevan, la capitale dell’Armenia, ma ha vissuto negli Stati Uniti per una parte della sua vita. Ancora adolescente ha fatto domanda per un programma di studi negli Stati Uniti, venendo accettata. È andata a studiare in America e ha vissuto lì per 13 anni.

Un piatto del Vegan Villa

È qui che è entrata per la prima volta nel mondo della ristorazione: prima lavava i piatti, poi è passata a fare la cameriera, poi è diventata manager. Le piace entrare in un ristorante, scrivere un nuovo menu, selezionare nuovo personale e immergersi nella cucina locale. Anni dopo ha proseguito la stessa attività in Armenia. Ha creato diversi piccoli ristoranti in Armenia con una cucina colorata e deliziosa.

Dice che si sente molto a suo agio in questo lavoro. “Qui in Thailandia data la situazione avevamo bisogno di soldi per continuare a vivere sull’isola. Dovevamo lavorare. Avevamo speso tutto quello che avevamo. E non siamo stati gli unici a trovarci in questa situazione. Proprio in quel momento ho deciso che avrei dovuto guadagnare con l’attività che più mi stava a cuore, la cucina. Ho creato il gruppo ‘Vegan Villa’ su Internet, pubblicato video e foto dei miei piatti, segnato i prezzi e aspettato ulteriori sviluppi. Dopo pochissimo tempo sono arrivati ​​gli ordini, abbiamo avuto il tutto esaurito e il lavoro è iniziato …”.

Anche alcuni loro amici, che li avevano raggiunti in vacanza da Russia e Stati Uniti, li hanno aiutati nel lavoro. Tutti assieme hanno affittato una grande casa, si sono spostati dall’hotel dove alloggiavano ed hanno sviluppato la loro attività.

“Avevano tutti lavori diversi, ma sono entrati presto nel ruolo. Non è stata una cattiva esperienza, era un’attività che rendeva, siamo riusciti a guadagnare abbastanza denaro per poter coprire tutti i costi. Era anche interessante cucinare con i prodotti che ci offriva l’isola, ero affascinata dall’infinito numero di colori che potevo dare ai nostri piatti”.

Varda ricorda che sull’isola era stato anche introdotto un coprifuoco e che quindi loro lavoravano solo nelle ore consentite, i clienti erano turisti rimasti bloccati come loro.

“Non vi è nulla di impossibile nella vita. Questo è un ulteriore esempio che è possibile avviare un’attività dal nulla e non morire di fame. Sono grata a ciò che la vita mi dà e questa è stata una delle varie opportunità concesse”.

Poi il ristorante on-line di Varda è stato chiuso: i voli sono stati riaperti, i turisti che erano bloccati sull’isola sono tornati a casa.

Lei e il compagno sono rimasti un po’ di più. Prima era stato loro rinviato il volo e poi essendo all’ultimo mese di gravidanza non hanno più potuto prendere un aereo. Il bimbo sarebbe potuto nascere in ogni momento e sarebbe stato troppo rischioso.

Per Varda però era molto importante tornare in Armenia, cosa che è riuscita a fare un mese dopo la nascita del figlio. L’aspettavano molte cose. I suoi ristoranti a Dilijan, una delle più belle città turistiche dell’Armenia, hanno dovuto chiudere causa coronavirus. L’affitto era troppo alto, Varda non aveva risorse per pagarlo. Ne ha però altri due, uno dei quali è stato temporaneamente chiuso ma ora è già riaperto, con clienti soprattutto nei fine settimana.

“I miei ristoranti sono piccoli e colorati. Sono ottimista. Spero tutto vada bene”, conclude Varda.

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