Perché si parla ancora di Nagorno-Karabakh (Il Venerdì di Repubblica 30.09.22)

 

Ci sono ferite della Storia che sanguinano da millenni e non conoscono pace. Popoli divisi da barriere così remote da perdersi nella notte dei tempi: cambiano persino le religioni senza sanare i conflitti. Così dietro ogni cannonata che in questi giorni armeni e azeri si scambiano nel Caucaso c’è lo scontro di etnie, culture e interessi incapaci di dialogare, convivendo a fatica soltanto sotto il giogo imperiale, che si trattasse delle fulminanti conquiste di Alessandro Magno o della lunga oppressione sovietica. Gli armeni: eredi orgogliosi di un regno più antico di Roma, convertiti da due degli apostoli e diventati il primo Stato in assoluto ad adottare il cristianesimo, per poi animare una diaspora senza confini. Gli azeri: culla dello zoroastrismo con il fuoco eterno che spunta dalla montagna, indizio della futura ricchezza petrolifera, eternamente in bilico tra il rapporto con la Persia e quello con i conquistatori turchi venuti dall’Asia, passati dagli sciamani all’Islam. In comune hanno pochissimo. Nella mitologia di entrambi però compare una figura, il Peri, che talvolta è angelo e talvolta è demone. Nel corso dei secoli azeri e armeni si sono alternati nel ruolo di vittime e carnefici, rendendo difficile distinguere le responsabilità.

Il richiamo delle armi

Si sono sfidati con le lance, adesso lo fanno con i droni. Ma la dinamica geopolitica che innesca le guerre tra Armenia e Azerbaijan è più o meno la stessa: da una parte ci sono la Russia e l’attrazione dell’Occidente; dall’altra la Turchia e l’influsso dell’Iran. Il richiamo delle armi è testimoniato dalle statue che svettano nelle due capitali. A Baku c’è Koroghlu, il condottiero che sfodera la scimitarra guidando l’orda turca attraverso le steppe: gli azeri lo hanno voluto di ventitré metri; uno in più di “Madre Armenia”, che impugna una spada gigantesca e ricorda a tutta Erevan che la pace si costruisce soltanto con la forza.

“Madre Armenia” ha preso il posto di un altrettanto colossale Stalin nel 1967, segnando forse il primo rigurgito di nazionalismo nell’Urss. All’epoca a Mosca il fatto che riproducesse le fattezze di un’eroina della resistenza contro i massacratori turchi non ha destato preoccupazione: tutto sommato si trattava di una partigiana e Ankara era la testa di ponte della Nato in terra asiatica. Mano a mano che l’impero sovietico si sgretolava, però, quel simbolo ha assunto un significato sinistro. Perché prima ancora che Gorbaciov ne decretasse la fine, la compattezza dell’Urss si è infranta in una piccola regione ignota ai più: il Nagorno Karabakh. Un’enclave armena all’interno della repubblica azera, dove gli abitanti scendono in strada già il 20 febbraio 1988 invocando l’indipendenza senza che nemmeno l’intervento dell’Armata Rossa riesca a riportare la calma. Quando il primo gennaio 1992 la bandiera con la falce e martello viene definitivamente ammainata, le neonate Armenia e Azerbaijan si impadroniscono degli arsenali sovietici e in trenta giorni comincia la battaglia. Che prosegue ancora oggi.

 

Stile Corto Maltese

In fondo, la radice del problema è la stessa del Donbass. Né Lenin, né Stalin avevano dedicato attenzione alle comunità intrappolate nei confini delle repubbliche sovietiche, ucraini o russi, maomettani o cristiani non facevano differenza perché contava l’universalità bolscevica. Alla caduta degli zar, nel novembre 1917 azeri, armeni e georgiani avevano addirittura provato a unirsi in una Federazione Transcaucasica d’impronta rivoluzionaria ma l’esperimento è durato poche settimane. Baku era il cuore di uno dei rari giacimenti noti di petrolio, decisivo per le sorti del conflitto mondiale. Quando gli ottomani marciano sulla città, gli azeri si schierano dalla loro parte. Allora bolscevichi e armeni se ne impossessano, facendo strage dei mercanti musulmani. Sono vicende raccontate da Peter Hopkirk in Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, appena pubblicato da Settecolori: l’autore de Il Grande Gioco descrive l’intreccio di spie e avventurieri in stile Corto Maltese che hanno segnato la metamorfosi del Caucaso.

Effetto glasnost

La vittoria finale di Lenin nel 1921 schiaccia le etnie e le priva di significato politico, incastrandole nelle frontiere artificiali tracciate sulla mappa come in un puzzle che per settant’anni resta compatto. La glasnost di Gorbaciov ricomincia a far pulsare le ferite della Storia e il Nagorno Karabakh è la prima dove scorre il sangue. Le milizie armene saccheggiano i villaggi azeri. Nel 1992 Baku parte all’attacco e c’è un continuo rovesciamento di fronti, con le sorti della battaglia che sembrano a lungo incerte. Solo dopo due anni i secessionisti ottengono una serie di risultati decisivi e si arriva al cessate il fuoco. Il prezzo è terribile: le stime parlano di 30 mila morti, 80 mila feriti e quasi 400 mila profughi con i belligeranti che si scambiano accuse reciproche di brutalità.

Non è una vera pace. E nessuna azione diplomatica riesce a consolidare la tregua. Nel frattempo il mondo cambia e poco alla volta l’Armenia si ritrova geograficamente isolata da Mosca. Sul suo confine settentrionale la Georgia si lega agli Stati Uniti e accresce la pressione su altre enclave contese. Lo scenario si complica. Perché Putin vuole mantenere l’alleanza con Erevan ma pure fare affari con Baku. Teheran invece dopo avere benedetto la nascita dello Stato azero in nome della comune confessione sciita, rompe i rapporti e aiuta gli armeni. Di questo approfitta Israele, che diventa partner militare dell’Azerbaijan e ottiene una posizione straordinaria per tenere d’occhio l’Iran.

Fragili tregue

Il protagonista del Risiko è però l’ambizione di Erdogan. Ha bisogno di energia per la crescita turca e costruisce un oleodotto che parte da Baku passando dalla Georgia: quel tubo sigilla un patto di ferro tra i due Paesi e arricchisce l’Azerbaijan. Dal 2005 il Pil decuplica, superando i 70 miliardi di dollari l’anno, e poi si assesta: nel 2020 è di 42 miliardi. Può permettersi di spendere cifre enormi per modernizzare esercito e aviazione: turchi, russi e israeliani fanno a gara per rifornirlo. Di fatto, l’Armenia è chiusa in un angolo sopra a una bomba ad orologeria.

L’intensità delle scaramucce nel Nagorno Karabakh aumenta in proporzione al benessere azero. E all’improvviso il 2 aprile 2016 parte l’assalto, che coglie di sorpresa le milizie armene. È un blitz pianificato con cura grazie ai consiglieri turchi, con un’ondata di incursioni appoggiate da aerei ed elicotteri. Erdogan dice di essere pronto a sostenere il suo alleato “fino alla fine”. In quel momento però le relazioni tra Ankara e Mosca sono pessime e il Cremlino non è disposto a cedere spazio: Putin impone la tregua dopo quattro giorni di battaglia feroce.

Carosello infernale

È soltanto una pausa. La distensione tra Russia e Turchia convince presto il governo di Baku a rimettersi in marcia. Il 27 settembre 2020 torna all’attacco, scatenando raid tecnologici senza precedenti. Riempie il cielo di droni turchi e israeliani. Sistemi da ricognizione individuano ogni movimento avversario e lo segnalano al tiro di precisione dell’artiglieria. Bombardieri teleguidati Bayraktar lanciano missili sui tank. Esordisce persino un’arma inedita: le loitering munitions o droni kamikaze, che restano in volo finché non scoprono i bersagli e ci si gettano sopra.

Un carosello infernale di macchine hitech decima le basi armene. Putin questa volta non ha fretta: è già concentrato sulla prova di forza in Ucraina e non vuole irritare Erdogan. Interviene solo quando le colonne azere rischiano di dilagare: dopo la caduta della città chiave di Susha, convoca i due presidenti rivali e ferma i combattimenti. In 44 giorni il bilancio ufficiale conta 6.731 morti tra i soldati dei due eserciti. Baku riconquista la totalità dei territori persi vent’anni prima: a unire Armenia e Nagorno Karabakh resta una strada di montagna – il Corridoio di Lachin – presidiata da una “brigata di pace” mandata da Mosca. Per Erevan è uno choc, con ripercussioni enormi sull’intera società: scendono in piazza partiti filo-occidentali e filo-russi, la folla irrompe nel parlamento e le proteste vanno avanti per mesi. Tutti gridano al tradimento del premier Nikol Pashinyan e pure Putin prende le distanze, dichiarando pubblicamente che il capo del governo avrebbe potuto accettare il cessate il fuoco un mese prima, limitando i danni.

Due anni dopo Pashinyan è rimasto al suo posto. La bilancia delle armi pende ancora di più verso Baku. Perché la Turchia è sempre più influente mentre il Cremlino si è impantanato nell’invasione dell’Ucraina. Poche ore dopo la sconfitta russa a Izyum, l’Azerbaijan coglie l’attimo per colpire. Dal 12 settembre droni e artiglieria martellano le truppe armene, costrette a una inesorabile ritirata: le tregue negoziate da Mosca vengono ignorate. Ma adesso c’è chi è intenzionato a mettersi di mezzo tra Erdogan e Putin: la Casa Bianca. La presidente della Camera Nancy Pelosi vola a Erevan, il segretario di Stato Antony Blinken convince le diplomazie a parlarsi. Può essere l’inizio di una speranza. Oppure il segnale di quanto siano diventati pericolosi i conflitti ereditati dall’era sovietica, focolai di un’infezione bellica che oggi rischia di contagiare potenze vecchie e nuove.

Sul Venerdì del 30 settembre 2022

Pashinyan ha accusato la Russia di non aver rispettato l’accordo sulla fornitura di armi (Avio 29.09.22)

l primo ministro armeno ha accusato la Russia di aver violato gli obblighi sulla fornitura di armi all’Armenia.

Nikol Pashinyan ha dichiarato che l’Armenia ha pagato per la fornitura di armi, tuttavia, la Russia non ha rispettato i termini dell’accordo, a causa del quale l’esercito armeno è rimasto senza le armi previste. Le accuse dell’Armenia contro la Russia sono molto gravi e, a giudicare dalla recente retorica del partito al governo armeno, Yerevan intende muoversi verso una cooperazione molto più stretta con l’Occidente e gli Stati Uniti.

“Ieri le Forze armate azere hanno dato vita ad un’altra provocazione aprendo il fuoco sui militari delle Forze Armate della RA, svolgendo lavori di ingegneria sul territorio sovrano dell’Armenia. La nostra posizione è inequivocabile e immutata: le forze armate azere devono lasciare il territorio dell’Armenia. Abbiamo iniziato la riforma delle Forze Armate e l’Azerbaigian sta cercando di impedircelo con simili provocazioni. Sfortunatamente, hanno un certo successo in termini di nostri alleati e, ove possibile, stanno cercando di impedire la fornitura di armi all’Armenia. Abbiamo un caso in cui abbiamo pagato centinaia di milioni di dollari, ma gli obblighi per la fornitura di armi all’Armenia non sono adempiuti dall’alleato. Questa è una realtà dolorosa, ma dobbiamo correggere e comprendere quanto segue, tutto ciò viene fatto per costringerci a rinunciare alla sovranità, all’integrità territoriale e a fare concessioni”., – ha detto Nikol Pashinyan.

Il primo ministro armeno non ha specificato alcun dettaglio, tuttavia Yerevan continua a criticare attivamente la Russia, il che è probabilmente dovuto alle intenzioni dell’Armenia di raggiungere un più stretto riavvicinamento con i paesi occidentali.

La parte russa non ha ancora commentato le accuse mosse contro di essa, tuttavia le azioni di Yerevan sono provocatorie, il che può danneggiare gravemente le relazioni tra i due paesi.

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Il partito al governo armeno ha iniziato a discutere del ritiro dalla CSTO a causa delle armi promesse dagli Stati Uniti


Nuovi scontri sono scoppiati al confine tra Azerbaigian e Armenia

Aliyev, chi è il dittatore azero (alleato dell’Italia) reso più forte dalla guerra in Ucraina (Today.it 30.09.22)

In Europa c’è un Paese che forse più di tutti stra traendo enorme vantaggio dalla guerra in Ucraina. È l’Azerbaijan di Ilham Aliyev, che dallo scoppio del conflitto da una parte sta aumentando le sue vendite di gas all’Europa, e dall’altra, sfruttando il disimpegno della Russia di Vladimir Putin nella regione, sta approfittando per serrare la sua morsa sul Nagorno-Karabakh e alzare il livello dello scontro con l’Armenia sempre più abbandonata a se stessa.

Quest’estate l’Unione europea ha siglato un’intesa con Baku che permetterà di raddoppiare in poco tempi i flussi di gas che dal Paese asiatico arrivano in Europa attraverso il Corridoio meridionale, che arriva in Italia dalla Puglia, tramite la Tap, la Trans Adriatic pipeline. Dopo solo un mese, ad agosto, violando i patti sottoscritti nel novembre del 2020, il Paese ha rotto il cessate il fuoco con Yerevan per riappropriarsi della regione di Lachin, dove si trova il corridoio che collega l’Armenia con il territorio popolato da armeni e che dal 1992 si è proclamato indipendente dall’Azerbaigian, costituendosi nella Repubblica dell’Artsakh.

Così Europa e Italia finanziano la nuova guerra tra Azerbaigian e Armenia

A inizio settembre Aliyev è poi volato in Italia, dove è stato ricevuto in pompa magna dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e da quello del Consiglio, Mario Draghi. Lo scopo della visita era rafforzare il Partenariato strategico tra le due nazioni, partenariato che comprende diversi campi, dall’economia all’istruzione e naturalmente all’energia, visto che lo Stivale importa dal Paese ex sovietico oltre il 13% del suo gas e che l’Azerbaigian, insieme all’Iraq, è il nostro maggior fornitore di greggio, con circa 5,5 miliardi di euro di media nell’ultimo decennio. L’Italia è da diversi anni il primo partner commerciale al mondo del Paese, con le nostre importazioni che sono in continua crescita, e sono passate dai 2,9 miliardi di euro del 2016 ai circa 5 miliardi a fine 2019, a fronte di esportazioni pari a circa 300 milioni di euro ed un valore di commesse vinte da aziende italiane intorno ai 7 miliardi negli ultimi 15 anni.

La visita in Italia di Aliyevè stata anche l’occasione per inaugurare la nuova ambasciata del Paese a Roma, in uno sfarzoso edificio a sei piani vicino VIlla Torlonia. E a breve  sarà inaugurata anche l’Università Italia-Azerbaigian di Baku, una realtà che coinvolge cinque dei principali atenei italiani: Luiss, Sapienza, Politecnico di Milano, Politecnico di Torino, Università di Bologna, in partnership con L’Ada University. Il prestigio che Aliyev gode nel nostro Paese è stato dimostrato anche dal fatto che il presidente azero è stato anche uno degli ospiti d’eccellenza del Forum internazionale di Cernobbio.

L’Azerbaigian è formalmente una democrazia ma di fatto è nelle mani della dinastia Aliyev dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, di cui faceva parte. E anche da prima. Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente, è stato a capo del partito comunista al governo nella nazione prima di diventare presidente dell’Azerbaigian nel 1993, dopo l’indipendenza da Mosca. Da allora ha governato ininterrottamente fino alla sua morte nel 2003. In quell’anno il potere è passato nelle mani di suo figlio, che da allora guida la nazione con fare autoritario. Nelle quattro elezioni che si sono succedute dalla morte del padre, tutte tacciate di brogli dall’opposizione e da diversi organismi internazionali, Ilham Aliyev è stato eletto con percentuali stratosferiche: 76, 87, 85 e 86 percento.

L’Assemblea nazionale è saldamente nelle mani del suo Partito del Nuovo Azerbaigian (Yap) e i pochi seggi occupati da altre formazioni fanno un’opposizione fittizia. Un referendum del 2009 ha abolito il limite di mandato per la presidenza, permettendo di fatto ad Aliyev di restare in carica quanto gli pare, cosa possibile in Europa solo nella Bielorussia di Alexander Lukashenko. La gestione dello Stato è talmente familiare che nel 2017 il leader azero ha scelto come vice presidente sua moglie, Mehriban Aliyeva.

La sua famiglia si è arricchita grazie agli stretti legami con le imprese statali, e possiederebbe quote significative di diverse importanti banche azere, imprese di costruzione e di telecomunicazioni, oltre a parte delle le industrie del petrolio e del gas del Paese, la vera ricchezza della nazione, rappresentando circa il 40 % del suo prodotto interno lordo e oltre il 90% delle sue esportazioni di merci nel 2019. I Pandora Papers del 2021 hanno mostrato che gran parte della ricchezza di Aliyev è nascosta in una vasta rete di società offshore create per nascondere il suo denaro.

L’Azerbaigian ha legami linguistici e culturali con la Turchia, che si riflettono nella formula “una nazione, due Stati” usata da Aliyev, e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan è un suo potente alleato, soprattutto nel conflitto per il Nagorno-Karabakh. I legami economici sono altrettanto forti: l’Azerbaigian ha costruito una serie di oleodotti che collegano l’Asia centrale alla Turchia, e che poi arrivano appunto in Europa e in Italia. La nazione, islamica ma laica, è una delle più stabili della regione e questo, insieme alla necessità di acquistare i suoi idrocarburi, ha sempre fatto chiudere un occhio da parte dell’Occidente su questioni come il rispetto dei diritti umani.

Secondo il Democracy index dell’Economist, quello di Baku è un regime autoritario che si piazza al 141esimo posto su 167 Paesi analizzati per lo stato delle democrazia. La Russia, per fare un confronto, è 121esima . Amnesty International ha denunciato nel suo ultimo report, tra le altre cose, che “le proteste pacifiche su questioni politiche e sociali vengono continuamente interrotte dalla polizia con un uso non necessario ed eccessivo della forza, con manifestanti che hanno dovuto affrontare accuse amministrative e penali arbitrarie”, e che “restrizioni eccessive sia nella legge che nella pratica continuano a ostacolare il lavoro dei difensori dei diritti umani e delle Ong”. L’opposizione politica è repressa, con figure chiave che finiscono regolarmente in prigione. Tra gli esempi più eclatanti quello del giornalista Afgan Mukhtarli, critico verso il regimen che nel 2017 fu rapito dalla sua residenza in Georgia, dove era scappato per sfuggire dalle persecuzioni, per poi riapparire in una prigione azera.

Anche il Parlamento europeo ha condannato nel corso degli anni in diverse risoluzione le violazioni dei diritti umani nel Paese e Human Rights Watch ha denunciato casi di tortura e maltrattamenti da parte della polizia, attuati per estorcere confessioni, negando ai detenuti l’accesso alla famiglia, ad avvocati indipendenti o a cure mediche autonome.

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“Noi intellettuali suoniamo la cetra mentre l’Occidente brucia” (Newsletter di Meotti 30.09.22)

Intervista a Siobhan Nash-Marshall, studiosa americana autrice di un romanzo sulla crisi. “Non ci resta che batterci: la verità è senza tempo e dà gioia. Impariamo dagli Armeni, che resistono”

Esce in Italia per le edizioni Ares George, il primo romanzo della filosofa e saggista americana Siobhan Nash-Marshall, docente al Manhattanville College di New York. Ispirandosi a Cormac McCarthy, Flannery O’Connor e Walker Percy (gli ultimi tre grandi scrittori religiosi americani), Nash-Marshall ci porta in un mondo contaminato da morte e distruzione, dove un misterioso Drago chiede continui sacrifici ai superstiti. I politici vogliono una tregua, fare accordi “e in un post pieno di emoji arcobaleno riferirono: ‘Il Drago negozierà se tutti si conformeranno’”. Ma c’è qualcuno che non si arrende al male che dilaga e pervade le menti: George, il cui viaggio in cerca della verità e della libertà lo porterà fuori dalla “nuova normalità” in cui gli uomini conducono esistenze opache, chiusi ermeticamente nelle loro case. Nella sua lotta contro il Drago, George incontrerà una misteriosa compagnia di uomini che lo accoglieranno e gli mostreranno un altro modo di pensare e di vivere: sarà l’inizio della sua liberazione. Già autrice del saggio per Guerini I peccati dei padri – straordinario viaggio nelle colpe europee sul genocidio armeno – Siobhan Nash-Marshall è qui a colloquio per la newsletter. E’ una delle saggiste più audaci che conosca.

Perché scegliere il romanzo e non un saggio per penetrare la crisi?

Alcuni anni fa, prima della ‘clausura’ forzata, amavo andare ai convegni, seguire i meandri delle elucubrazioni dei colleghi sui problemi più reconditi. Amavo articolare lunghe dimostrazioni forbite, con proposizioni tutte ben formulate per stabilire con precisione perché l’uno o l’altro non comprendeva il libro B della Metafisica, la Quaestio X della Summa, e così via. Amavo dibattere con i colleghi: rispondere alle citazioni di Locke, di Moore, di Cartesio, di Plantinga, di Kant, di Frege, di Wittgenstein con una falange di altre citazioni, soprattutto di San Tommaso, che le confutavano. La mia era la gioia della caccia: sentirmi i muscoli mentali messi alla prova, correre a fianco degli amici nei boschi, far parte della giostra. E noi, gli amici della giostra, ci consideravamo ‘i buoni’, quelli che ancora nel pensiero ci credono. La mia gioia ai convegni aveva però sempre una punta di amaro. Neanche durante i dibattiti più avvincenti riuscivo a scrollarmi di dosso il sospetto che noi, i pensatori di professione, i paladini della verità, gli eredi di una tradizione millenaria, stavamo suonando la cetra mentre il mondo bruciava attorno. Peggio ancora, non riuscivo a convincermi che una delle cause di quel fuoco non fosse proprio questa nostra giostra. E poi venne la ‘clausura’, e vidi con chiarezza non solo che il fuoco c’era, ossia c’è, ma che noi paladini ne siamo anche almeno in parte responsabili. Un crollo così veloce non poteva che indicare che i nostri dibattiti avevano tanto a che fare con la realtà quanto le leggendarie (e false) brioches di Marie Antoinette con la fame. Perché, allora, non scrivere un altro saggio, un altro libro, in cui articolare i perché della nostra cecità? Rispondo alla domanda con un’altra domanda: perché fare una nuova giostra? Perché rimettermi a suonare la cetra con loro? Perché non aggiungere una postilla in un dibattito accademico? La risposta è semplice: i problemi di oggi sono ovvii, concreti, reali, urgenti, e un ennesimo tomo di mille pagine scritto per pochissimi non serve.

Quale crisi culturale stiamo vivendo? Molti la sentono, anche se pochi sanno dargli un nome. Quasi un nemico oscuro, alla Tolkien.

Quello che stiamo ormai vedendo chiaramente è il collasso di una scena teatrale, lo smascheramento di una sceneggiatura, il rantolo del sogno moderno, rantolo pericolosissimo perché gli attori in scena sanno bene che l’opera è ormai giunta all’aria finale. Chi è stato convinto che lo spettacolo teatrale è la realtà non può che inorridire di fronte alle vicende di oggi: alle guerre in atto, alle guerre ignorate, ai capi di stato infantili, ai loro pronunciamenti incomprensibili, alla loro incoerenza, alla ferocia intestina dei paesi dell’Occidente, e così di seguito. E per quelli che sono stati convinti non intendo solamente gli intellettuali che nella sceneggiatura ci credono pure e tentano di tenere saldo il loro posto sul palcoscenico, di allungare l’ultimo atto, aggiungerne nuove battute. Intendo anche quelli a cui l’opera proprio non piace, ma che la credono comunque la realtà. Sono inorriditi da entrambe le parti. Gli intellettuali perché c’è chi ancora si ostina a credere che di generi ce ne sono solamente due, che il clima ha sempre avuto cambiamenti epocali, che la benzina non è la radice di tutti i mali, che ai bambini non si devono cambiare le fiabe. I contestatori perché vedono crescere le pretese degli intellettuali e le restrizioni governative. Per chi, invece, sa distinguere una scena teatrale dalla realtà, la nostra crisi non è che un’altra puntata nella battaglia di sempre. Basta leggere Platone, la Genesi, Il Libro dei Re, le Cronache, la Città di Dio, la Consolazione della Filosofia, Le Morte d’Arthur, la Divina Commedia, per riconoscerne i segni.

Il nostro “vecchio mondo” sta cedendo, ha già ceduto o ci sono fondamenta che reggeranno al sisma?

La verità dura veramente e dà veramente gioia. Lo ammetteva anche Huxley nel suo cupissimo Brave New World/Il Nuovo Mondo. Il Selvaggio, John, amava Shakespeare, per quanto scritto mille anni prima della sua nascita vivipara. Helmholtz era grato perché veniva esiliato dalla Londra eugenicamente costruita di Mustafa Mond: avrebbe finalmente conosciuto persone vere. Non è un caso che il Gorgia di Platone sembra scritto oggi, o che la Divina Commedia sembra raccontare la nostra stessa storia intima. –  Quante volte mi sono ritrovata in una selva oscura che la diritta via era smarrita? – La verità dura: è senza tempo. Dà gioia. Perché è importante questo fatto? Le fondamenta del nostro “vecchio mondo” sono il ricono­scimento dell’esistenza della verità e la ricerca di essa. Il cedimento del nostro “vecchio mondo”, quindi, non è segno di una debolezza intrinseca alle nostre fondamenta. È invece segno del nostro avere ignorato e tradito le nostre fondamenta. Ed è anche, ironicamente, dimostrazione della loro verità. Se le fondamenta non fossero vere e fonte di gioia, l’averle tradite non ci avrebbe condotto allo stagnante e cupo presente.

Ubi vita veritas.

Cos’è questo “Occidente” che tutti difendono almeno a chiacchiere?

L’Occidente è il luogo in cui confluirono la rivelazione ebraica, la filosofia greca, e la legge romana, e in cui poi nacque la capacità di comprendere che ogni uomo è per natura unico, di valore immisurabile, libero, ricercatore della felicità, e che la felicità è un attività concreta in cui l’uomo contempla e ama ciò che per natura desidera, e gli rende grazie. L’Occidente è il luogo in cui nacquero i concetti di persona, di sostanza, di diritti naturali. L’Occidente è il luogo dove la donna in quanto donna viene onorata. Di più, è il luogo dove si insegna che la più alta delle creazioni è una donna. L’Occidente è luogo dove si celebra a tal punto il valore inestimabile della persona che si considera il dare la propria vita per un altro il più grande atto di amore. L’Occidente è il luogo in cui si ama la verità e si passa la vita a cercarla giosoamente. Non è facile essere figlio dell’Occidente. È una sfida quotidiana. Vedere nell’altro sempre una persona sembra a volte impossibile, come lo è rispettare ciò che si è per natura. Non è facile amare la verità e cercarla sempre. Ecco perché l’Occidente, come Camelot, non ha luogo geografico.

Intanto prolifera indisturbata una storica nemesi della civiltà europea: l’Islam…

La proliferazione indisturbata di una dei volti della nemesi dell’Occidente all’interno dell’Europa è uno dei risultati diretti del tradimento occidentale delle proprie fondamenta: dell’avere gettato la spugna. Essere figlio dell’Occidente non è cosa per i deboli di cuore, per i viziati, per quelli che delegano ad altri la responsabilità di capire o di essere chi si è, per quelli che si crogiolano nell’essere vittima, per quelli che vorrebbero imporre ai più deboli un’ideologia, per gli ipocriti. Non lo è mai stato. Essere figlio dell’Occidente significa non chiudere gli occhi alla verità, alla realtà, ma di cercarla ed amarla con tutto se stesso, anche quando fa male. Essere figlio dell’Occidente significa proteggere ciò che è, e non avere la pretesa di poterlo sostituire con il progresso. Non vediamo, oggi, molti occidentali di spicco sul palcoscenico del mondo. Non abbiamo molti vigorosi figli della terra, come li chiamava il grande poeta armeno Daniel Varujan. Abbiamo invece molti sofisti, i Gorgia moderni, che non sembrano capire che le azioni hanno conseguenze. Quando l’imperatore Valentiniano fece assassinare Ezio condannò a morte Roma. Quando l’Europa tradì i Cristiani d’Oriente fece la stessa cosa a se stessa. Sono passati 144 anni dal Congresso di Berlino, dove le grandi potenze decisero di ignorare gli Armeni, gli Assiri, i Caldei… Sono passati 113 anni dal massacro degli Armeni ad Adana. Sono passati 107 anni da quando furono emanati gli ordini di sterminare gli Armeni, gli Assiri, i Caldei, i Greci: di cancellarli dalla faccia della terra. Sono passati 100 anni dal fuoco di Smirne. Oggi gli stessi Armeni sono ancora nel mirino dei Turchi e degli Azeri, e noi non ne parliamo neppure. Chi oggi parla dell’Artsakh?

Se i nuovi cattivi maestri avranno successo, che tipo di civiltà ci aspetta? Dove troveremo conforto? La fede? Un libro? I figli? 

I cattivi maestri stanno avendo successo da molto molto tempo sul palcoscenico del mondo. Abbiamo parlato del tradimento occidentale dei cristiani d’Oriente che risale a più di 144 anni fa. Non è il primo tradimento occidentale delle proprie fondamenta. Si pensi al vandalismo napoleonico, alla Vandea, e così via. Eppure noi siamo qui ancora oggi a cercare ed amare la verità, e a gioirne. Platone ed Aristotele dimostrarono l’esistenza di Dio. I testi sacri – per non dire i miracoli – costituiscono evidenza incredibile che ciò che la mente umana vede come impossibile è invece realtà. Il conforto È, e non passa. E la gioia che ci sorge dentro quando lo scopriamo ogni giorno basta per rendere irresistibili le persone che la conoscono.

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Il Primo Ministro armeno: «L’aggressione dell’Azerbaigian ha lo scopo di interrompere le riforme nelle forze armate armene e impedire la fornitura di armi all’Armenia» (Korazym 30.09.22)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 30.09.2022 – Vik van Brantegem] – L’Azerbajgian si ostina – conforme alla sua ideologia espansionistica – a far saltare periodicamente la tregua con l’Armenia, lanciando ciclicamente con artiglieria, mortai e armi pesanti degli attacchi provocatori lungo i confini sul territorio sovrano dell’Armenia. In questa situazione, gli Armeni – e noi con loro – non perdono la speranza nella pace. Da ogni angolo della terra si innalzi verso il cielo il grido della pace.

L’Armenia ha offerto più volte all’Azerbajgian il ritiro reciproco, in modo speculare, delle forze armate, ha detto il Viceministro degli Esteri armeno, Mnatsakan Safaryan, agli ambasciatori accreditati a Erevan, durante un incontro a Vardenis. “Abbiamo offerto il ritiro speculare per diverse volte. Abbiamo informato anche i nostri partner di questo”, ha affermato. Il Ministro dell’amministrazione territoriale e delle infrastrutture, Gnel Sanosyan, ha affermato, la vicinanza così vicine delle truppe dell’una e dell’altra parte, potrebbe presentare un fattore aggiuntivo per scontri locali, soprattutto quando le forze armate azerbajgiane provocano frequentemente gli scontri. “È anche per questo che la leadership armena propone regolarmente il ritiro delle truppe in modo specolare”.

Nonostante le continue provocazioni belliche dell’Azerbajgian, l’Armenia ha accettato di partecipare all’incontro del prossimo 2 ottobre 2022 a Ginevra fra i Ministri degli Esteri. Non porterà la pace ma è pacifico che riceveremo il solito comunicato di invito alla pace, seguito dopo qualche giorno da altri bombardamenti azere contro l’Armenia e contro gli Armeni, che desiderano solo di vivere in pace nella loro Nazione democratica.

Le provocazioni dell’Azerbajgian hanno lo scopo di interrompere le riforme nelle forze armate armene e impedire la fornitura di armi all’Armenia, ha affermato il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, durante la riunione del Consiglio dei Ministri di ieri. I commenti arrivano dopo che soldati armeni sono state uccise mercoledì 28 settembre nel nuovo attacco azerbajgiano, mentre stavano svolgendo lavori di ingegneria. “I lavori di ingegneria erano in corso nel territorio dell’Armenia e anche le unità azerbajgiane sono posizionate nel territorio dell’Armenia. Questa è la continuazione dell’attacco, il territorio dell’Armenia è invaso e la nostra posizione è inequivocabile: le forze armate azere dovrebbero essere ritirate dal territorio della Repubblica di Armenia”, ha affermato Pashinyan. Ha osservato che le provocazioni dell’Azerbajgian mirano a interrompere le riforme su larga scala nelle forze armate armene. Sfortunatamente, ha detto, l’Azerbaigian è riuscito nelle sue relazioni con i Paesi partner dell’Armenia. “Ove possibile, stanno cercando di impedire la fornitura di armi e munizioni all’Armenia. Abbiamo casi in cui i pagamenti sono stati effettuati, ma le armi non sono state consegnate, anche dai Paesi partner”, ha affermato Pashinyan. Deve essere fatta un’analisi approfondita della situazione, ha detto, aggiungendo che tutto ciò viene fatto con l’obiettivo di vasta portata di farci rinunciare alla nostra statualità, sovranità e integrità territoriale. “Nonostante tutti gli eventi, siamo risoluti a difendere la nostra indipendenza, sovranità e integrità territoriale”, ha affermato Pashinyan e ha aggiunto che il lavoro attivo è in corso con tutti i partner internazionali. “In qualità di membro responsabile della comunità internazionale, accettiamo e concordiamo con tutti gli appelli a risolvere i problemi in modo diplomatico e pacifico. Ma, come si vede, l’Azerbajgian continua a ricorrere ad azioni aggressive”, ha sottolineato Pashinyan, osservando che il dispiegamento di una missione di monitoraggio internazionale al confine armeno-azero potrebbe essere una soluzione, che si tratti di una missione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dell’OSCE o di qualsiasi altro altra missione internazionale.

Il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha affermato che oggi l’ordine mondiale sta affrontando un processo di collasso. “In effetti, l’ordine mondiale, o per dirla in volgare, il mondo sta crollando davanti ai nostri occhi. Non c’è alcuna esagerazione in questo”, ha detto nel suo intervento alla riunione del Consiglio dei Ministri. “In questo processo di collasso dovremmo essere doppiamente flessibili, doppiamente intellettuali e doppiamente resilienti per poter traghettare il nostro Paese attraverso questo oceano in tempesta verso un porto pacifico”, ha detto Pashinyan, sottolineando che tutto questo richiede una volontà speciale, una saggezza speciale, un duro lavoro speciale e una coerenza speciale. “Per me è ovvio che dobbiamo andare avanti secondo tre direzioni strategiche principali. Naturalmente, le tre direzioni non escludono altre, ma voglio evidenziare tre direzioni: in primo luogo, dovremmo compiere tutti gli sforzi per stabilire una pace e una stabilità durature intorno all’Armenia; in secondo luogo, dovremmo continuare costantemente le nostre riforme nel settore dell’istruzione e abbiamo bisogno di ingenti investimenti statali in questo settore; in terzo luogo, coerentemente le riforme dovrebbero essere fatte nell’esercito.Queste tre priorità all’ordine del giorno devono diventare la locomotiva che dovrebbe guidare l’Armenia in questa tempesta globale”, affermato il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan.

La proposta di bilancio statale 2023 dell’Armenia prevede un forte aumento delle spese in conto capitale volte a migliorare la sicurezza e le infrastrutture economiche. Ciò comprenderà 557 miliardi di dram (circa 1,5 miliardi di euro), ovvero circa 200 miliardi di dram (circa 510 milioni di Euro) in più rispetto al bilancio statale 2022. Nel 2023 questa cifra raggiungerà il 5,9% del PIL, contro il 4,5% inizialmente previsto per quest’anno, ha affermato il Ministro delle Finanze, Tigran Khachatryan. Presentando al Consiglio dei Ministri il disegno di legge del bilancio statale 2023 ha affermato che, come risultato del finanziamento a spese dei propri redditi e dei fondi in prestito, il costo totale delle spese del 2023 sarà di 2.590 miliardi di dram (8,5 miliardi di euro) o il 27,8% del PIL. Gli stanziamenti per le infrastrutture di sicurezza aumenteranno in modo significativo, gli stanziamenti finanziari per il miglioramento delle infrastrutture economiche continueranno a rimanere elevati, aumenteranno i lavori per la costruzione e il rinnovamento delle infrastrutture sociali, delle strutture educative e sanitarie”, ha affermato.

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L’alleato storico ha deluso l’Armenia, ma sostituirlo è difficile (Osservatorio Balcani e Caucaso 29.09.22)

La lunga alleanza di Yerevan con Mosca è diventata sempre più insignificante, come dimostra l’inazione della Russia nel recente conflitto con l’Azerbaijan. Tuttavia, non è chiaro quali siano le alternative a disposizione dell’Armenia

29/09/2022 –  Ani Avetisyan

(Pubblicato originariamente su OC Media  il 23 settembre 2022)

Dopo gli attacchi azeri all’Armenia del 13 settembre, il Presidente della Russia, Vladimir Putin, si è limitato a dichiarare che “qualsiasi conflitto tra stati a noi vicini ci preoccupa seriamente”. Sebbene ciò sia in linea con le espressioni di “profonda preoccupazione” proferite dagli organismi internazionali, per gli armeni le sue parole e le sue azioni sono state decisamente insufficienti.

L’Armenia ha sottoscritto un patto difensivo bilaterale con la Russia ed è anche membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), un’alleanza militare simile alla NATO tra sei stati post-sovietici, tra cui la Russia. L’articolo 4 del trattato OTSC stabilisce che un attacco a un membro sarà considerato un attacco a tutti e obbliga gli altri membri a fornire supporto militare.

In questo contesto, gli armeni speravano comprensibilmente in un sostegno più sostanzioso, dato che l’Azerbaijan, per la prima volta nella storia post-sovietica dei due paesi, ha attaccato l’Armenia all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale – conquistando territori, bombardando 36 insediamenti e lasciando 207 soldati armeni morti o dispersi.

Ma le parole miti di Putin e il suo rifiuto di nominare l’aggressore in un conflitto che è costato circa 300 vite umane – su entrambi i lati del confine –  sono state in realtà molto coerenti con i pregressi della Russia e della OTSC nel partenariato con l’Armenia.

Nonostante il duplice vincolo russo a fornire assistenza militare all’Armenia, tutto ciò che è stato dato sono raccomandazioni su come “normalizzare” la situazione, la promessa che la OTSC avrebbe inviato una missione conoscitiva e, naturalmente, “seria preoccupazione” espressa pubblicamente.

Il punto di rottura

Per molti armeni questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sia il governo che la popolazione hanno rotto il protocollo e hanno iniziato a denunciare pubblicamente le carenze del loro principale “alleato strategico”, un alleato che sembra non fare nulla che meriti questo titolo.

Il Segretario del Consiglio di Sicurezza ha dichiarato che Yerevan non aveva “alcuna speranza” che la OTSC fornisse assistenza militare all’Armenia, mentre gli armeni sono scesi in piazza per protestare.

Specularmente all’inazione della Russia, gli Stati Uniti hanno mostrato un impegno senza precedenti e inaspettato nel conflitto. Sono stati gli Stati Uniti a mediare il cessate il fuoco, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha mantenuto i contatti con i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia nei giorni di tensione successivi all’armistizio e, infine, ancora Blinken ha organizzato il primo incontro tra i ministri degli Esteri dei due paesi, meno di una settimana dopo lo scoppio dei combattimenti.

Altrettanto degna di nota è stata la visita a Yerevan della presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi – il terzo funzionario più alto in grado degli Stati Uniti – pochi giorni dopo gli scontri.

Il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto ha fatto sperare a molti armeni e commentatori stranieri che fosse imminente un cambiamento storico nella politica estera dell’Armenia. Alcuni si sono spinti a suggerire che l’Armenia dovrebbe aderire alla NATO e all’UE, rifiutando una volta per tutte l’alleanza con la Russia.

Queste speranze di un rapido allontanamento dall’alleanza con la Russia sono comprensibili, ma è improbabile che si concretizzino a breve. Anche se dovesse verificarsi, è improbabile che tale cambiamento sia del tutto positivo per l’Armenia, poiché il paese porta con sé l’eredità di trent’anni di colonizzazione russa.

200 anni di truppe russe

Sebbene la rabbia nei confronti della Russia sia salita a livelli mai visti in Armenia a memoria d’uomo, con numerose proteste anti-russe e anti-OTSC che hanno avuto luogo dopo la guerra, è probabile che sciogliere gli stretti legami del paese con Mosca si riveli nel migliore dei casi doloroso.

La completa rottura dei legami con la Russia significherebbe liberarsi delle truppe russe di stanza in Armenia, una presenza militare che persiste nel paese da oltre due secoli.

Insediatesi per la prima volta in Armenia nel XIX secolo, le truppe russe non hanno lasciato il paese dopo il crollo dell’Unione Sovietica, a differenza che in altri paesi del Caucaso meridionale. Alla fine del 1993, circa 9.000 effettivi di truppe russe erano di stanza in basi militari armene.

Nel 2022, i numeri rimangono più o meno gli stessi: la Russia ha almeno 10.000 soldati all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale dell’Armenia, tra cui circa 4.500 guardie di frontiera e circa 5.000 truppe a Gyumri.

Le guardie di frontiera sono per lo più dislocate lungo i confini tra Armenia e Turchia e tra Armenia e Iran, per un totale di 375 chilometri. I restanti 5.000 operano dalla base militare del Cremlino a Gyumri, con il permesso di stazionare in Armenia per almeno altri 22 anni, e la possibilità di un’ulteriore estensione.

Se le truppe russe si ritirassero dall’Armenia, il confine tra Armenia e Turchia rimarrebbe senza protezione. L’esercito armeno, notevolmente indebolito dalla guerra del 2020, avrebbe enormi difficoltà a presidiare i confini e a rimanere pronto a gestire il rischio concreto di conflitti di frontiera con l’Azerbaijan o addirittura di una guerra su larga scala.

Inutile dire che se l’Armenia dovesse chiedere la partenza delle truppe russe senza avere un altro alleato internazionale a garantire la sua sicurezza, gli eventi potrebbero concludersi tragicamente per il paese. Tenendo conto dell’ulteriore dipendenza economica dell’Armenia dalla Russia, la decisione di mantenere o meno stretti legami con il suo stato partner non è una decisione che l’Armenia può prendere con leggerezza.

Mantenere la pace nel Nagorno Karabakh

Quando nel 2020 si è svolta la seconda guerra del Nagorno Karabakh, i paesi occidentali si sono mantenuti distanti dal conflitto, non impegnandosi attivamente per porre fine alla guerra o per normalizzare le relazioni tra i due paesi. Questo ha dato alla Russia ampio spazio per agire come mediatore chiave e assumere il ruolo di “salvatore” della popolazione armena del Nagorno Karabakh. Così facendo, la Russia si è anche assicurata la sua presenza nell’unico conflitto post-sovietico in cui non era ancora coinvolta, dispiegando oltre 2.000 peacekeepers nella regione.

Dopo il ritiro postbellico dell’esercito armeno dalla regione contesa, le truppe russe sono diventate l’unico garante della sicurezza degli oltre 120.000 armeni che vivono nel Nagorno Karabakh. Tuttavia sono state le già limitate forze armene, ulteriormente indebolite a seguito della guerra, a continuare a  proteggere i confini del Nagorno Karabakh con l’Azerbaijan e a combattere in diversi scontri dopo il 2020, con scarso o nullo supporto da parte delle forze di pace.

Sebbene il dislocamento delle truppe russe dopo il cessate il fuoco del 2020 non abbia impedito lo scoppio delle ostilità nel Nagorno Karabakh, né abbia impedito all’Azerbaijan di prendere il controllo di tre insediamenti che avrebbero dovuto essere sotto il controllo russo, la loro presenza è ancora considerata vitale per la sicurezza della popolazione armena locale.

Tuttavia, dopo gli ultimi attacchi si è registrato un netto cambiamento di umore nella regione, con l’inazione della Russia che si è aggiunta ai crescenti dubbi sul ruolo che il paese svolge nella regione.

In risposta, Arayik Harutyunyan, presidente del Nagorno Karabakh, ha definito i sentimenti anti-russi come propaganda di forze straniere e ha espresso la speranza che le truppe russe rimangano nella regione il più a lungo possibile.

Da molto prima che le sue truppe fossero stanziate nel Nagorno Karabakh, la Russia ha usato il conflitto come leva per estendere la sua influenza sull’Armenia. Sebbene fosse vista come il principale alleato dell’Armenia contro l’Azerbaijan, i punti di vista di Armenia e Russia sulla risoluzione del conflitto non sono sempre stati allineati. Questa differenza di approccio si è accentuata dopo la seconda guerra del Nagorno Karabakh. Ora, alla luce dell’incapacità della Russia di intervenire nell’interesse dell’Armenia nei conflitti di settembre, i paesi sembrano lavorare su schemi completamente diversi.

Dipendenza economica

L’influenza militare della Russia in Armenia è già sufficiente a rendere molto difficile per lo stato armeno cambiare il proprio orientamento di politica estera. In più l’economia armena è strettamente legata al mercato e allo stato russi.

L’Armenia e la Russia hanno forti legami economici, sia bilaterali che multilaterali, questi ultimi all’interno dell’Unione economica eurasiatica (UEEA) guidata dalla Russia. Nel 2013, nonostante la possibilità di un accordo di associazione con l’Unione europea (UE) fosse stata inizialmente ventilata, l’Armenia ha deciso di aderire all’UEEA, chiudendo di fatto la porta a un’ulteriore integrazione con l’UE. L’attuale Accordo di partenariato globale e rafforzato (CEPA) tra l’Armenia e l’UE rappresenta il più alto livello di cooperazione accessibile all’Armenia finché rimarrà parte dell’UEEA.

Nonostante la limitata diversificazione degli scambi commerciali dell’Armenia negli ultimi anni, la Russia è ancora il principale importatore ed esportatore di beni da e verso l’Armenia; la diversificazione degli scambi richiederebbe cambiamenti significativi nell’economia armena.

Infine, ma non meno importante, lo stato e le imprese russe detengono quote in quasi tutti i settori centrali dell’economia e delle infrastrutture armene: gas, elettricità, ferrovie e centrali nucleari. Nomi di uomini d’affari russi si trovano anche tra gli azionisti delle maggiori compagnie minerarie armene, il settore industriale più rilevante e sviluppato del paese.

La situazione in cui si trova oggi l’Armenia è il risultato delle decisioni prese dal governo armeno negli ultimi tre decenni di indipendenza, e del processo di deliberata colonizzazione da parte della Russia.

Può sembrare che l’Armenia abbia ora l’opportunità storica di guardare a occidente e trovare partner che mantengano i loro impegni, ma la situazione è piena di rischi. Qualsiasi decisione avventata da parte del governo armeno potrebbe essere non solo dannosa, ma anche suicida per l’Armenia e la popolazione armena del Nagorno Karabakh.

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Fino a quando Aliyev rimarrà impunito? #StopAllaGuerraDiAzerbajgian #DifendiLaDemocraziaArmena!! (Korazym

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 29.09.2022 – Vik van Brantegem] – A partire dalle ore 18.00 locali di ieri, 28 settembre 2022, le forze armate dell’Azerbajgian dispiegato illegalmente nel territorio sovrano della Repubblica di Armenia, hanno ancora una volta gravemente violato il regime di cessate il fuoco. Hanno aperto il fuoco con mortai e armi da fuoco di grosso calibro in direzione delle postazioni di combattimento armene nella zona di Jermuk, in direzione est del confine armeno-azero. Tre soldati armeni sono stati uccisi a seguito di questa nuova provocazione azerbaigiana. Le forze armate armene hanno fatto ricorso ad azioni di ritorsione. La situazione è relativamente stabile dalle ore 22.00 locali di ieri sera, ha riferito il Ministero della Difesa dell’Armenia.

Difendi la democrazia armena!!

Il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato in un post su Twitter: «A seguito di un nuovo attacco azerbajgiano, tre soldati armeni sono stati uccisi oggi nel territorio dell’Armenia. Questo è un attacco contro l’indipendenza, la sovranità e la democrazia armena. L’invasione azerbajgiana deve essere condannata e fermata. #DifendiLaDemocraziaArmena!! Il ritiro delle truppe azere e il dispiegamento di una missione di osservazione internazionale sui territori armeni interessati dall’occupazione azerbajgiana e nelle aree confinanti, è una necessità assoluta».

Le forze armate dell’Azerbajgian devono lasciare il territorio sovrano dell’Armenia

«La nuova provocazione effettuata dall’Azerbajgian, che è la continuazione dell’aggressione su larga scala contro l’integrità territoriale dell’Armenia lanciata il 13 settembre, è un chiaro disprezzo per gli appelli della comunità internazionale e degli Stati membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU a mantenere il regime di cessate il fuoco raggiunto. Ciò riafferma le preoccupazioni della parte armena che l’Azerbajgian continuerà la sua politica di uso della forza e massimalista», ha affermato il Ministero degli Esteri armeno. Inoltre, ha aggiunto, l’analoga provocazione dell’Azerbajgian mira a interrompere l’incontro dei Ministri degli Esteri dei due Paesi, di cui si sta discutendo. «Nella situazione attuale, esortiamo la comunità internazionale a fare pressione sulla leadership militare e politica dell’Azerbajgian, adottando misure efficaci e avviando meccanismi appropriati per mantenere rigorosamente il regime di cessate il fuoco, per lasciare il territorio sovrano della Repubblica di Armenia e prevenire nuove aggressioni», ha dichiarato il Ministero degli Esteri armeno. «La Repubblica di Armenia continuerà a proteggere la sua sovranità e integrità territoriale con tutti i mezzi definiti dalla Carta delle Nazioni Unite», ha concluso.

La pace non si può forzare

Il Rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Caucaso meridionale e la crisi in Georgia, Toivo Klaar, ha commentato la provocazione di ieri dell’Azerbaigian sul territorio sovrano dell’Armenia. «Oggi ci sono state di nuovo notizie di tre soldati armeni uccisi e un azerbajgiano ferito. Queste e molte altre vittime insensate alimentano odio e instabilità. La sicurezza è veramente possibile solo se i confini sono rispettati e le truppe non si affrontano a distanza ravvicinata. La pace non si può forzare», ha scritto in un post su Twitter.

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Fuga dalla Russia e venti di guerra tra Azerbaijan e Armenia (Eco del Sud 29.09.22)

Quello che sta avvenendo ai confini tra Russia e Georgia con migliaia di russi in fuga per tentare di sottrarsi al rischio di essere arruolati contro l’Ucraina, riaccende l’attenzione su quell’area asiatica dove altri due paesi confinanti, Azerbaigian e Armenia sono da tempo in belligeranza.

Adesso l’Azerbaijan chiede all’Armenia di osservare i “principi fondamentali” del diritto internazionale, in particolare “la sovranità, l’integrità territoriale e l’inviolabilità dei confini internazionali” per “garantire pace, sicurezza e prosperità nella regione” e di “rispettare i suoi obblighi internazionali”. In una dichiarazione del ministero degli Esteri azerbaigiano, diffuso in occasione della Giornata della Memoria, Baku sottolinea che l’Armenia dovrebbe “adottare misure autentiche e costruttive”. “Non c’è altra alternativa per lo sviluppo pacifico della regione”. Questi pericolosi venti di guerra sono tornati a soffiare nel Caucaso meridionale e le premesse sono illustrate in questo articolo del generale di corpo d’armata Salvatore Carrara, messinese, che tra i vari incarichi di comando ha operato per lunghi anni all’estero.

Salvatore Carrara *

Tutti oggi conoscono gli sconvolgenti eventi della Shoah e i massacri degli italiani perpetrati dai Titini nelle foibe, il cui riconoscimento è avvenuto solo di recente. Poca attenzione dell’opinione pubblica è stata invece sempre dedicata al genocidio degli armeni del 1915, quando Enver Pasha, capo del movimento rivoluzionario dei Giovani Turchi, ordinò lo sterminio dei soldati armeni che servivano nell’esercito turco e, successivamente, l’arresto, la deportazione in Anatolia e lo sterminio degli intellettuali, compresi i membri del Parlamento.

L’Armenia, per la sua posizione sulle rotte commerciali e militari di collegamento fra Oriente e Occidente, è stata sempre meta di conquista, costringendo i suoi abitanti alla ricerca di sempre nuovi territori. La sua storia è stata caratterizzata da personaggi leggendari, grandi civiltà e drammatici eventi dovuti alla nascita del Cristianesimo.
Tralasciando la nascita, le alterne vicende e l’evoluzione del popolo armeno dell’antichità, verranno presi in esame soltanto gli eventi cruenti della storia più recente.

Il genocidio ad opera dell’Impero Ottomano cominciò con i primi massacri della popolazione verso la fine degli anni 1880 e l’inizio dei 90, dopo la citata deportazione dei militari e degli intellettuali, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale, iniziò la deportazione e lo sterminio della popolazione maschile seguita da quella delle donne, dei bambini e degli anziani, con privazione di cibo e acqua, stupri e continue immotivate esecuzioni. Si stima in almeno un milione e mezzo il numero dei morti. I più furono sterminati durante le marce della morte, la quasi totalità degli armeni fu cancellata, con grande determinazione criminale, dalla terra abitata da più di duemila anni e i loro beni confiscati. Il popolo armeno fu perseguitato e quasi completamento sacrificato da un odio razziale. Questi eventi criminali rappresentano il primo genocidio moderno, quasi a premessa del massacro degli ebrei perpetrato dai nazisti.

La Turchia si è sempre opposta e si oppone all’uso del termine genocidio, giustificando i fatti con l’avanzata dei russi che inglobavano i battaglioni composti da armeni contro il Paese e accusando questi ultimi di atrocità nei confronti delle popolazioni musulmane.
Il 1918 segnò la sconfitta dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale e la dichiarazione di indipendenza dell’Armenia, che nel 1922 entrò a far parte dell’Unione Sovietica dalla qualene uscirà nel 1991.

La storia dimostra che il popolo armeno non si è mai arreso anche se ha dovuto e deve sempre combattere per difendersi.
Il Nagorno Karabakh, un’enclave di 4400 km² nell’Azerbaijgian, popolato prevalentemente da armeni, è sempre stato terreno di contesa e di guerra con l’Armenia , al termine della quale gli armeni assunsero il controllo della regione conquistando anche alcuni territori per assicurarsi una continuità territoriale.

Nel 1991, poco prima della caduta dell’USSR, un referendum sancì l’indipendenza del Nagorno Karabakh dall’Azerbaijan con l’elezione dei parlamentari e la costituzione di un governo.
L’Azerbaijan continuò a osteggiare questa indipendenza con azioni militari sino al maggio 1994, quando la mediazione della Federazione Russa riuscì a far cessare le ostilità, senza , peraltro, raggiungere alcun accordo di pace.

Nel 2009 l’ Armenia e la Turchia stabilirono dei rapporti diplomatici senza la ratifica di un accordo pieno.
Non esiste un preciso piano di pace ma soltanto un cessate il fuoco sine die, spesso violato da entrambe le parti, mentre prosegue la corsa al riarmo, specialmente da parte dell’Azerbaijgian, resa possibile dagli effetti del boom petrolifero del Paese.
Nonostante i numerosi negoziati delle Organizzazioni Internazionali, gli scontri continuano e la situazione risente anche dell’attuale conflitto siriano e dei Paesi mediterranei e gli interventi con mire espansionistiche di Recep Tayyip Erdogan.

La storia dell’Armenia si ripete, ritornano le vecchie rivalità etnico culturali tenute sempre “sotto la cenere”.
Oggi la guerra aperta è tornata dopo le continue violazioni del cessate il fuoco del 1994. Le operazioni militari si sono estese e a nulla sono serviti gli interventi della Comunità Internazionale, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dell’OSCE, che invitano le parti ad interrompere gli scontri e a riprendere i negoziati. L’unica possibilità di successo è trovare un compromesso diplomatico politico.

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L’Armenia denuncia nuovi attacchi al confine con l’Azerbaigian:tre morti (Askanews 29.09.22)

Roma, 29 set. (askanews) – Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affermato che l’Azerbaigian ha effettuato nuovi attacchi alla sovranità e alla democrazia dell’Armenia. Il ministero della Difesa armeno ha accusato l’Azerbaigian di colpi di mortaio contro posizioni armene al confine, aggiungendo che tre soldati armeni sono stati uccisi. A sua volta, il ministero della Difesa azerbaigiano ha affermato che l’esercito azerbaigiano è stato preso di mira dalle forze armate armene e Baku ha confermato che un soldato azerbaigiano è stato ferito.

“A seguito di un nuovo attacco dell’Azerbaigian, 3 soldati armeni sono stati uccisi oggi nel territorio dell’Armenia. Questo è un attacco contro l’indipendenza, la sovranità e la democrazia armena. L’invasione dell’Azerbaigian deve essere condannata e fermata”, ha scritto Pashinyan su Twitter.

Il ministero degli Esteri armeno ha affermato che “il 28 settembre, unità delle forze armate azere, dislocate illegalmente nel territorio sovrano dell’Armenia, utilizzando mortai e armi di grosso calibro, violando ancora una volta gravemente il cessate il fuoco, hanno aperto il fuoco sulla direzione orientale del confine armeno-azero”.

Il ministero ha definito l’incidente “un’altra provocazione, che è una continuazione dell’aggressione su larga scala lanciata il 13 settembre contro l’integrità territoriale dell’Armenia”. “Inoltre, una tale provocazione da parte dell’Azerbaigian mira a interrompere l’incontro dei ministri degli Esteri dei due paesi, la cui organizzazione è in discussione”, si legge in una nota.

“Nella situazione attuale, chiediamo alla comunità internazionale di fare pressione sulla leadership politico-militare dell’Azerbaigian, adottando misure efficaci e applicando meccanismi appropriati per osservare rigorosamente il cessate il fuoco”, ha affermato il ministero degli Esteri.

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BRUXELLES NON SACRIFICHI L’ARMENIA IN NOME DEGLI INTERESSI ENERGETICI (Gariwo 28.09.22)

L’appello di decine di intellettuali armeni e internazionali ai leader europei

In una lettera aperta, che Gariwo ha deciso di condividere, personalità armene e sostenitori della causa armena esortano i leader europei a porre la massima attenzione verso la situazione in Nagorno Karabakh, dove le truppe azere continuano ad ammassarsi ai confini, dal nord al sud dell’Armenia, in preparazione di un’imminente offensiva. Tra i firmatari c’è anche lo storico Raymond Kévorkian, da sempre sostenitore dell’impegno di Gariwo nella valorizzazione delle storie dei Giusti di tutti i genocidi. 

Le truppe turco-azere ammassate ai confini dell’Armenia e sul territorio armeno stesso sono pronte ad attaccare. L’Armenia e la sua popolazione rischiano l’annientamento da parte della coalizione dei governi turco e azero. Questa minaccia di crimine contro l’umanità pone una responsabilità storica all’Occidente e soprattutto all’Europa.

La mattina del 20 settembre 2022, le autorità di Baku hanno reso pubblica la nuova bandiera delle regioni meridionali dell’Armenia che intendono annettere e che hanno rinominato: “Repubblica di Goycha-Zangazur”. Ciò avverrà a costo di una pulizia etnica. Per terrorizzare la popolazione, l’esercito azero commette atrocità che vengono filmate e trasmesse sui social network. Una barbarie che riporta ai crimini perpetrati nel 1915 e ad altri genocidi che hanno segnato il XX secolo. Non essendo stato condannato dopo il genocidio del 1915, il razzismo anti-armeno alimenta ancora i circoli di potere in Azerbaigian e in Turchia.

La recente visita in Armenia della Speaker della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, ha fatto sperare in una tregua dagli attacchi azeri. Ma l’immediata ripresa dei bombardamenti dimostra che l’Azerbaigian e la Turchia non hanno rinunciato a una nuova guerra.

Nonostante gli appelli pressanti dell’Europa e degli Stati Uniti, l’Azerbaigian continua a concentrare le truppe in prima linea, da nord a sud dell’Armenia, in preparazione di un’imminente offensiva, con la complicità almeno “passiva” della Russia. Il Presidente Aliyev ha pubblicamente definito gli armeni “cani che devono essere cacciati dalla regione”, dimostrando così le sue intenzioni di pulizia etnica. Dobbiamo agire oggi per salvare questo Paese. Domani potrebbe essere troppo tardi. Molte speranze sono state riposte nell’Europa. Ma tutto lascia pensare che Bruxelles sia pronta a sacrificare l’Armenia ai suoi interessi energetici.

Il 18 luglio 2022, il Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è recata a Baku per chiedere ulteriori forniture di petrolio. Gli accordi sono stati stipulati nonostante sia noto che l’Azerbaigian commercializzi petrolio russo, aggirando così le sanzioni dell’UE con la complicità delle sue autorità. Temiamo che, di fronte al rischio di crimini contro l’umanità che incombe sull’Armenia, l’Europa stia adottando una diplomazia della rinuncia.

L’Azerbaigian sta approfittando dell’incertezza diplomatica e dell’interesse dell’Unione Europea per i suoi idrocarburi per moltiplicare le sue azioni sul campo. È quindi necessario abbandonare la neutralità e puntare chiaramente il dito contro l’aggressore.

È anche necessario, Presidenti, che vi rechiate a Yerevan per dissuadere Baku dal lanciare quello che considera l’assalto finale, approfittando di un equilibrio militare di potere che le è molto favorevole. Vi esortiamo a usare tutta la vostra influenza per garantire che l’Europa eviti quella che potrebbe diventare la più grande catastrofe umanitaria dell’inizio di questo secolo; che denunci l’aggressione turco-azera; che preservi l’integrità territoriale dell’Armenia; che acceleri il rafforzamento dei legami con l’Armenia, in vista dell’adesione all’Unione Europea.

Ognuno di noi è responsabile nei confronti della storia. In primo luogo, i politici che lo scrivono con le loro azioni. Per questo vi chiediamo, signori Presidenti, di fare tutto il possibile affinché l’Armenia continui a vivere secondo i valori di pace e democrazia che sono propri dell’Europa e che difende alle porte del nostro continente.

I firmatari: Raymond H. Kévorkian, storico, Università di Parigi 8-Saint-Denis; Vincent Duclert, storico, Sciences-Po, EHESS; Stephane Audouin-Rouzeau, storico, EHESS; Jean Pierre Chrétien, storico, CNRS; Hamit Bozarslan, storico, EHESS; Michel Marian, filosofo, SciencePo; Hélène Dumas, storica, CNRS-EHESS; Marcel Kabanda, storico, ex presidente di Ibuka France; François Robinet, storico, Università di Versailles-Saint-Quentin; Françoise Thebaud, storica, Università di Avignone; Boris Adjémian, storico, Biblioteca Nubar; Stephan Astourian, storico, Università di Berkeley; Thomas Hochmann, giurista, Università di Parigi-Nanterre; Dzovinar Kévonian, storico, Università di Caen; Yves Ternon, storico; Julien Zarifian, storico, Università di Poitiers; Claire Mouradian, storica, CNRS; Patrick Donabédian, storico, Università di Aix-en-Provence; Claude Mutafian, storico; Chantal Morelle, storica; Ariane Ascaride, attore, regista; Serge Avédikian, attore, regista; Vincent Baguian, autore, compositore, interprete; Jean-Christophe Buisson, giornalista; Sophie Devedjian; René Dzagoyan, scrittore; Patrick Fiori, autore, compositore, interprete; Mathieu Madenian, attore; Gilbert Sinoué, scrittore; Valérie Toranian, caporedattore della Revue des Deux Mondes, scrittore; Tigrane Yegavian, giornalista, analista politico.

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