Armenia-Azerbaigian: Consiglio per la comunità armena di Roma, in corso campagna di disinformazione da parte di Baku (Agenzia nuova 28.07.20)

Roma, 28 lug 11:25 – (Agenzia Nova) – Il Consiglio per la comunità armena di Roma sostiene che in merito alla situazione di tensione tra Armenia e Azerbaigian sarebbe in corso una campagna di disinformazione da parte delle autorità di Baku. “In questi giorni l’Azerbaigian, dopo aver aggredito lo scorso 12 luglio militarmente l’Armenia cercando di violare il suo confine di Stato, ha dato avvio a una campagna di disinformazione in tutto il mondo, cercando di addebitare all’Armenia tale incursione e accusando, per ultimo, anche la Diaspora armena di aggressione verso i cittadini azeri. Come invece la cronaca di questi ultimi giorni ci sta evidenziando le informazioni diffuse dalle sedi diplomatiche e dagli ambasciatori azeri presso gli stati stranieri si sono verificate del tutto infondate e menzognere, perché sono proprio gli attivisti turco azeri, incitati da Baku e dal presidente dittatore Aliyev, a compiere atti di violenza verso le sedi diplomatiche armene e verso gli armeni”, si legge in un comunicato diffuso dal Consiglio per la comunità armena di Roma. “Gli azeri prima aggrediscono, ricorrono ad atti di violenza per poi correre ai ripari con accuse infondate, mistificando addirittura la storia e la realtà, come sta facendo da qualche giorno l’ambasciatore azero in Italia sua eccellenza Mohammad Ahmadzada, inviando lettere piene di fake news a testate giornalistiche e politici. L’Armenia vuole la pace, l’Azerbaigian la guerra. D’altronde da un Paese che ha portato in trionfo come eroe nazionale un proprio ufficiale condannato per aver decapitato un soldato armeno durante un corso Nato a Budapest non c’era da aspettarsi un diverso atteggiamento”, si aggiunge nel comunicato. (segue) (Com)

Caucaso. Aldo Ferrari (Unive): “Focolaio di crisi dimenticato da anni ma altamente esplosivo” (Agensir 28.07.20)

Prima il Papa con un appello alla pace lanciato all’Angelus. Poi il Patriarca di Mosca Kirill con una dichiarazione firmata personalmente per chiedere una risoluzione di pace al conflitto armeno-azero. I leader religiosi, ma non solo, guardano con preoccupazione all’acuirsi della tensione nella regione del Caucaso. Per fortuna gli scontri – scoppiati il 12 luglio scorso al confine tra Armenia e Azerbaijan – si sono esauriti in pochi giorni perché il rischio di coinvolgere attori forti, come Russia e Turchia, sarebbe troppo alto. Intanto però la popolazione in Armenia è allo stremo

(Foto ANSA/SIR)

Il Caucaso: un focolaio di crisi dimenticato da anni che torna a far preoccupare non solo la comunità internazionale ma anche i leader religiosi. Una regione al confine tra l’Europa cristiana e l’Oriente musulmano che può da un momento all’altro rimettere in discussione i rapporti fra due grandi potenze, Russia e Turchia. Sono ricominciati il 12 luglio scontri violenti di artiglieria al confine tra l’Armenia, storicamente appoggiata da Mosca, e l’Azerbaijan sostenuto da Ankara, riaccendendo un pericoloso conflitto congelato dal ’94. Domenica 19 luglio, all’Angelus, il Papa lancia un appello per il riacuirsi delle tensioni armate auspicando che “attraverso il dialogo e la buona volontà delle parti, si possa giungere ad una soluzione pacifica duratura, che abbia a cuore il bene di quelle amate popolazioni”. Il 23 luglio, a scendere in campo è il Patriarca di Mosca Kirill che in una Dichiarazione invoca “una risoluzione di pace al conflitto armeno-azero”, invitando i popoli dell’Armenia e dell’Azerbaigian, a trovare “la forza e la saggezza per porre fine all’inimicizia, ridurre la sfiducia e raggiungere soluzioni reciprocamente accettabili ai problemi di divisione”. L’appello del Patriarca russo è stato rilanciato il 27 luglio anche dal Consiglio mondiale delle Chiese dalla sua sede di Ginevra. Era dall’aprile del 2016 che la tensione non era così alta. Ad aggravare il quadro c’è un dato aggiuntivo, osserva subito Aldo Ferrari, esperto per l’Ispi della Regione del Caucaso e professore all’Università Ca’ Foscari di Venezia: “Questi scontri, anziché essere avvenuti nel Karabakh che è la regione contesa tra i due Paesi, sono avvenuti nel Tavushh che invece si trova in Armenia e questa è una novità che preoccupa molto”.

Perché in Tavushh?

È quello che si stanno chiedendo tutti. Ed è il punto di domanda principale perché si teme un’estensione del conflitto. Per fortuna gli scontri si sono esauriti perché il rischio di coinvolgere attori forti, come Russia e Turchia, sarebbe troppo alto. L’Armenia fa parte di un’Alleanza militare a guida russa e l’Azerbaigian non può evidentemente sfidare la Russia. Da parte sua, la Russia deve essere prudente perché l’Azerbaijan è appoggiata dalla Turchia che è uno Stato molto potente e membro della Nato. Quindi proprio perché la situazione è potenzialmente gravissima, questi scontri si esauriscono di solito – e così è successo – in tempi brevi.

L’arcivescovo armeno cattolico Minassian lamenta l’assenza dell’Europa. Perché l’UE guarda con disinteresse al Caucaso?

L’Europa guarda con disinteresse non solo al Caucaso ma anche ad altre situazioni di crisi come la Libia dove si sono insediati turchi e russi. Economicamente l’Unione Europea funziona ma in ambito di sicurezza e politica internazionale, no. Ci può dispiacere ma non sorprendere questa inefficacia.

E l’Italia?

L’Italia non ha e non può avere una posizione equilibrata perché noi abbiamo grossissimi rapporti economici con l’Azerbaijan, fatti di scambio di petrolio e presto anche di gas. Questi interessi in qualche modo impediscono rapporti di equilibro dell’Italia con questa area.

Quali conseguenze sta avendo questo conflitto “congelato” sulle popolazioni armene e azere?

La situazione è molto diversa tra i due Paesi. L’Azerbaijan è un Paese ricco di risorse energetiche. Grazie ai suoi preziosi pozzi petroliferi con annessi oleodotti, la sua economia si sta rapidamente sviluppando e questa ricchezza consente a Baku di avere molte carte da giocare nelle partite geo-politiche ed economiche a livello internazionale. L’Armenia invece non ha risorse. È senza sbocco sul mare. Ha i confini bloccati e vive prevalentemente di rimesse degli emigrati e del sostengo della diaspora. Anche il turismo, che è il fiore all’occhiello di questo Paese, è stato fortemente colpito dal Coronavirus e questo ha portato ad un ulteriore aggravamento della situazione dell’Armenia che sta vivendo quindi in una condizione molto difficile e problematica.

Cosa spinge, a suo parere, Papa Francesco e il Patriarca Kirill ad interessarsi a questa Regione?

Dal punto di vista religioso, il Caucaso è un patrimonio straordinario. L’Armenia è stato il primo paese al mondo a diventare ufficialmente cristiano, e la Georgia il secondo, prima ancora cioè dell’Impero Romano. Sono quindi paesi di antichissima tradizione cristiana, gli unici in quella Regione a non essersi convertiti all’islam. Hanno quindi sviluppato una cultura letteraria e artistica meravigliosa. L’identità cristiana è nel cuore stesso dell’identità nazionale. Questo spiega perché sia il Papa sia il Patriarca russo siano cosi attenti a quanto accade in questi due Paesi.

Quanto il fattore religioso influisce sul conflitto armeno-azero?

Non credo che in questo scontro tra l’Armenia (cristiana) e l’Azerbaijan (tiepidamente musulmano) la dimensione religiosa sia decisiva. Si tratta piuttosto di uno scontro da due Stati per il controllo di un territorio, il Karabakh. Le dinamiche dei conflitti sono sempre complesse e complicate e vanno studiate distinguendo Paese per Paese e caso per caso. Sicuramente la Turchia con Erdogan sta assumendo un volto sempre più islamico. Spuntano moschee ovunque non solo in Turchia ma anche, finanziate dalla Turchia, nei Balcani: in Kosovo, Albania, in Bosnia. È un processo reale al quale assistiamo con preoccupazione. Vedere però nel conflitto armeno-azero un confronto tra civiltà religiose, è sbagliato.

Vai al sito

Colloquio telefonico Putin-Erdogan, in primo piano Siria, Libia e riapertura dei confini (Sputniknews 28.07.20)

La presidenza turca ha reso noto che il presidente del paese Recep Tayyip Erdogan ha avuto oggi un colloquio telefonico con il suo omologo russo Vladimir Putin.

Putin e Erdogan hanno discusso la situazione in Siria e Libia, nonché l’escalation delle relazioni tra Armenia e Azerbaigian, ha riferito la presidenza turca.

Un altro argomento di conversazione sono stati passi per consolidare le relazioni tra Turchia e Russia.

Il colloquio tra i due capi di stato ha riguardato tutti i temi delle relazioni bilaterali tra i due paesi, in particolare è stato dato un voto positivo alla cooperazione dei due paesi nell’ambito della lotta al coronavirus, che ha reso possibile il ripristino a partire dal 1° agosto del collegamento aereo fra i due paesi.

Il servizio stampa del Cremlino ha dichiarato che, parlando della questione Armenia-Azerbaigian, le parti si sono pronunciate a favore di una soluzione pacifica del conflitto nella Transcaucasia. I leader dei due paesi hanno convenuto che non esiste un’alternativa a un accordo politico-diplomatico nell’interesse dei popoli di Armenia e Azerbaigian.

L’ultima conversazione tra Putin e Erdogan ha avuto luogo il 15 luglio. I due avevano discusso il riavvio dei voli tra i paesi. Dal primo agosto i voli tra Russia e Turchia riprendono.

Vai al sito

Armenia-Azerbaigian: Consiglio per la comunità armena di Roma, in corso campagna di disinformazione da parte di Baku (Agenzianova 28.07.20)

Roma, 28 lug 11:25 – (Agenzia Nova) – Il Consiglio per la comunità armena di Roma sostiene che in merito alla situazione di tensione tra Armenia e Azerbaigian sarebbe in corso una campagna di disinformazione da parte delle autorità di Baku. “In questi giorni l’Azerbaigian, dopo aver aggredito lo scorso 12 luglio militarmente l’Armenia cercando di violare il suo confine di Stato, ha dato avvio a una campagna di disinformazione in tutto il mondo, cercando di addebitare all’Armenia tale incursione e accusando, per ultimo, anche la Diaspora armena di aggressione verso i cittadini azeri. Come invece la cronaca di questi ultimi giorni ci sta evidenziando le informazioni diffuse dalle sedi diplomatiche e dagli ambasciatori azeri presso gli stati stranieri si sono verificate del tutto infondate e menzognere, perché sono proprio gli attivisti turco azeri, incitati da Baku e dal presidente dittatore Aliyev, a compiere atti di violenza verso le sedi diplomatiche armene e verso gli armeni”, si legge in un comunicato diffuso dal Consiglio per la comunità armena di Roma. “Gli azeri prima aggrediscono, ricorrono ad atti di violenza per poi correre ai ripari con accuse infondate, mistificando addirittura la storia e la realtà, come sta facendo da qualche giorno l’ambasciatore azero in Italia sua eccellenza Mohammad Ahmadzada, inviando lettere piene di fake news a testate giornalistiche e politici. L’Armenia vuole la pace, l’Azerbaigian la guerra. D’altronde da un Paese che ha portato in trionfo come eroe nazionale un proprio ufficiale condannato per aver decapitato un soldato armeno durante un corso Nato a Budapest non c’era da aspettarsi un diverso atteggiamento”, si aggiunge nel comunicato. (segue) (Com)

Mkhitaryan con i soldati armeni: magliette in regalo ai militari feriti (Corrieredellosport 28.07.20)

ROMAMkhitaryan leader dentro e fuori dal campo. Il trequartista della Roma, come testimoniano alcuni post su Instagram, ha regalato la sua maglia della nazionale e ha spedito una lettera di solidarietà ai soldati feriti nel conflitto delle scorse settimane al confine tra Armenia e Azerbaigian.

Dieci giorni fa il giocatore aveva pubblicato sulla sua pagina ufficiale Facebook un post esprimendo il proprio sostegno ai soldati delle forze armate dell’Armenia al cui confine nord orientale da domenica si registrano violenti scontri a fuoco con le forze armate dell’Azerbaigian. “Sto seguendo le notizie con grande preoccupazione sulle recenti tensioni ai confini della nostra patria e sugli insediamenti civili sotto tiro e desidero esprimere il mio sostegno ai nostri coraggiosi soldati che stanno sacrificando le loro vite per difendere la nostra patria con i loro atti eroici. Con profondo dolore, esprimo le mie condoglianze alle famiglie dei nostri eroici martiri e prego per la pronta guarigione dei soldati feriti. Auguro pace alla nostra patria! Sono con voi. Heno”, ha scritto Mkhitaryan.

Vai al sito

La Basilica di Siponto, punto d’incontro tra l’Oriente e l’Occidente (ilsipontino 02 luglio 2020)

Sull’importanza che la Puglia ha rappresentato,per la sua collocazione geografica, nel passato come ponte tra le culture d’Oriente e d’Occidente,tutti gli storici sono d’accordo.

Siponto è stata uno dei più importanti pilastri di questo ponte e la Basilica di Santa Maria Maggiore ne è la più bella e straordinaria testimonianza. E’ noto che sin dai primi tempi apostolici a Siponto fu attiva una comunità ebraica ,forse la più importante  e, intorno al X Secolo una  comunità Armena  attestata in una zona tra Manfredonia e Foggia :  Casale  Faziosi. Gli Armeni furono, secondo gli storici i primi veri costruttori di chiese Cristiane sia a volta che a cupola di cui furono i precursori. Tante  e bellissime le testimonianza di un  Popolo,quello Armeno, sfortunato e perseguitato, che seminò cultura e religiosità cristiana autentiche. Furono, gli armeni,  costruttori fortissimi di chiese e architetti e teologi insuperabili.

La chiesa di santa Maria Maggiore di Siponto, eretta  nella metà dell’XI Sec. ha infatti dei peculiari influssi architettonici armeni, impreziositi e completati dallo straordinario Romanico Pugliese.                                                            

                                          Chiesa di Santa Maria di Siponto   

Non è escluso che maestranze Bizantine, che eressero la Santa Maria, abbiano preso a modello le note chiese Armene (Ani,Marmashen,Bagaran,Edmjadsin,ecc.).

Stretti, peraltro, furono i legami dell’Arcivescovo Leone con le gerarchie bizantine nelle quali con tutta probabilità,figuravano dei funzionari armeni. Attinenze architettoniche tra la santa Maria e le chiese armene si possono riscontrare sulle facciate: colonne e arcatelle

Cattedrale Ani                                Cattedrale di Marmashen (o Marmachen)

ma anche dall’impostazione della pianta quadrata e della cupola appoggiata su quattro colonne centrali.      

Della originaria cupola della chiesa di Siponto non si sa nulla perché essa crollò  in due eventi sismici successivi: nel 1223  e  nel 1225.  L’attuale copertura  ad una unica volta a crociera è stata realizzata in epoca successiva e con evidenze barocche.

Le foto delle cupole delle chiese armene coeve alla Santa Maria, ci danno cupole poggianti su quattro pilastri centrali   e mi inducono a pensare (è solo un mio pensiero) che anche la Santa Maria avesse una cupola centrale secondo i motivi architettonici  armeni.

E’ questo un altro esempio, se ce ne fosse ancora bisogno, di come la nostra Basilica ,quella in pietra bianca,   merita una  giusta attenzione perché venga sempre di più  tutelata e dovrebbe essere  senza alcun dubbio    annoverata   tra i monumenti dell’UNESCO  come   “Patrimonio dell’Umanità”.

Aldo Caroleo Archeoclub Siponto

Vai al sito

Quale regia dietro i nuovi scontri tra armeni e azeri? (Analissidifesa 27.07.20)

Nei giorni scorsi si è riacceso un focolaio di crisi dimenticato da anni, la cui recrudescenza potrebbe, alla lunga, rimettere in discussione i rapporti fra due grandi potenze come Russia e Turchia. Stiamo parlando del confine tra l’Armenia cristiana, storicamente appoggiata da Mosca, e l’Azerbaijan musulmano sostenuto da Ankara. Da quando il 12 luglio 2020 sono ricominciati fra le opposte truppe scontri che non si erano visti su vasta scala da quelli dell’aprile 2016, è tornato alla ribalta il Caucaso, con le sue fratture etniche sovrapposte a preziosi pozzi petroliferi con annessi oleodotti. A differenza del 2016, ad aggravare il quadro c’è un dato aggiuntivo.

ffdaffbe421d57efd26c7677b6cdaa11_800

Oggi infatti i rapporti Mosca-Ankara, che parevano essersi aggiustati negli scorsi tre anni, dopo gli attriti in Siria, ricominciano a traballare già a causa di un altro scacchiere, quello libico in cui, come noto, i russi appoggiano, insieme a egiziani, francesi ed emiratini l’esercito cirenaico di Khalifa Haftar e del Parlamento di Tobruk, mentre i turchi, insieme ai qatarini, aiutano le milizie tripolitane del presidente Fayez Serraj. Come si vede, dunque, i nuovi scontri armeno-azeri si verificano nel momento meno opportuno. O forse, al contrario, più opportuno secondo la logica di chi può averli fomentati dietro le quinte.

 

Chi ha cominciato?

L’origine degli scontri degli ultimi giorni sembra avvolta nel mistero date le reciproche accuse fra le parti, ma un dato interessante e irrefutabile è che, per la prima volta, grossi scontri hanno luogo fra Armenia e Azerbaijan lungo un tratto settentrionale della loro frontiera, peraltro molto montuosa, anziché a ridosso della zona meridionale del Nagorno-Karabakh, il territorio a maggioranza armena che Yerevan sottrasse con le armi a Baku in concomitanza col crollo dell’Unione Sovietica, tanto da fondarvi uno Stato armeno chiamato Artsakh, non riconosciuto dall’ONU. Più avanti rammenteremo i pregressi storici della situazione, ma vediamo anzitutto di ricostruire quando accaduto nelle ultime settimane.

450843ecf7aff84ca9aaf02e941604f7

A partire dalle 16.00 del pomeriggio di domenica 12 luglio 2020, dapprima è stato il Ministero della Difesa dell’Azerbaijan, a segnalare scambi di artiglieria con gli armeni sul tratto di confine presso il villaggio armeno di Movses, dove sul lato azero si estende la provincia di Tovuz, mentre sul lato armeno la provincia, dal nome molto simile, di Tavush. Secondo i comunicati da Baku: “Unità delle forze armate armene, violando pesantemente il cessate il fuoco nella direzione della regione di Tovuz, sul confine azero-armeno, hanno sottoposto al fuoco con pezzi d’artiglieria le nostre posizioni.

Ci sono state perdite su entrambi i lati. Come risultato di adeguate contromisure il nemico ha sofferto perdite e si è ritirato”. Quasi contemporaneamente, però, gli armeni diffondevano la loro versione dei fatti, che, semmai il dettaglio potesse contribuire a darle più credito, si segnalava per essere più precisa nel ricostruire una esatta meccanica degli eventi, ciò che invece non trova riscontro nelle assai più vaghe ricostruzioni diffuse dalla parte azera.

In rappresentanza del ministro della Difesa armeno David Tonoyan, la sua portavoce Shushan Stepanyan riportava che nell’area di Movses, all’improvviso un autoveicolo UAZ di fabbricazione russa con a bordo soldati azeri avrebbe violato la frontiera fra i due Stati, al che gli armeni avrebbero “ammonito”, forse sparando in aria. I soldati azeri a quel punto avrebbero abbandonato il veicolo e sarebbero ritornati sul loro lato della frontiera. Ma la scaramuccia non è stata lasciata cadere e l’artiglieria azera ha iniziato a sparare, suscitando la parallela reazione armena.

84045_NagornoKarabakhlatest_1595241391696

Nel corso dei primi scambi di granate, veniva distrutto anche il veicolo UAZ lasciato abbandonato nella “terra di nessuno”. Nonostante Baku abbia sostenuto che fin dal primo giorno ci sarebbero stati morti da entrambe le parti, gli armeni hanno negato perdite per tutte le prime 48 ore della crisi, mentre gli azeri, fin dal giorno 12 avrebbero sofferto la morte di almeno tre militari, i soldati Khayyam Mahammad Oglu Dashdemirov e Elshad Donmaz Oglu Mammadov e il sergente Vugar Latif Oglu Sadigov.

Il vero consolidamento della crisi si è forse avuto dalla mattina di lunedì 13 luglio, quando, dopo circa tre ore di pausa, gli azeri hanno ripreso decisamente il martellamento d’artiglieria nel settore “caldo”, suscitando la reazione armena e impedendo che l’incidente si risolvesse come un effimero episodio limitato alla giornata precedente. Nel secondo giorno, gli azeri hanno accusato gli armeni di aver bersagliato con mortai da 120 mm i villaggi di Agdam e Dondar Kuscu, mentre a loro volta sostenevano di aver distrutto veicoli e depositi armeni, nonché una stazione radar uccidendo “ben 20 soldati avversari”.

53fafa03ef73f290c788e9f6f7f29fbe

Nelle stesse ore la Turchia, da anni ferrea alleata dell’Azerbaijan, esprimeva la sua solidarietà al paese musulmano senza se e senza ma, distinguendosi dalla maggior parte degli altri paesi, che invece, più equamente, cercavano di richiamare entrambe le parti alla tregua, senza specifiche accuse. Da Ankara una nota del Ministero degli Esteri, contribuendo probabilmente a imbaldanzire gli azeri, recitava: “La Turchia, con tutte le sue strutture, continuerà a stare al fianco dell’Azerbaijan nella sua lotta per proteggere la propria integrità territoriale”.

E poco dopo lo stesso ministro Mevlut Cavusoglu, senza alcun dubbio affermava che “ciò che ha fatto l’Armenia è inaccettabile”. Dal canto suo, lo stesso 13 luglio, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan accusava espressamente gli azeri: “La classe dirigente politica e militare dell’Azerbaijan sarà pienamente responsabile per le conseguenze della destabilizzazione regionale.

Siamo preoccupati per la posizione della Turchia, mirata a provocare la destabilizzazione nella regione, posizione riflessa nelle dichiarazioni del Ministero degli Esteri di quel paese, che esprime appoggio incondizionato alle azioni dell’Azerbaijan secondo l’ovvia e tradizionale logica anti-armena”.

a6f7829329d6ef91f3b4473ef9620329-800x

Fin dall’inizio della crisi, il governo di Yerevan avrebbe cercato di mantenere limitata e proporzionata la propria reazione. Quel giorno il ministro della Difesa Tonoyan ha infatti reso noto al rappresentante dell’OSCE, Andrzej Kasprzyk, che le forze armene si sarebbero tenute “relativamente frenate reagendo solo se strettamente necessario”. Ancora il 13 gli armeni non dichiaravano caduti, mentre nel corso della giornata gli azeri lamentavano la prima morte di un ufficiale, il tenente Rashad Rashid Oglu Mahmudov.

Sulle perdite azere, tuttavia, è sorto un giallo poiché quel giorno è stato improvvisamente arrestato dalle autorità l’ex-ministro della Difesa Rahim Gaziyev, in carica poco dopo l’indipendenza dall’URSS, fra il 1992 e il 1993, perchè ha affermato che i soldati azeri morti erano già 12, anziché i 4 fino a quel momento ammessi. Pur essendo ormai anziano, Gaziyev è stato così incarcerato con l’accusa di “aver diffuso false informazioni indebolendo la difesa del paese”.

a712780d34800d8d8cc1ea5dc7cf30c6

I duelli d’artiglieria sono proseguiti il 14 luglio, quando gli azeri hanno lamentato fra i caduti la perdita di un generale, subito elevato a rango di eroe del nuovo cimento contro il nemico storico armeno.

Secondo il viceministro della Difesa azero, Karim Valiev, infatti: “Circa 100 soldati nemici e una significativa quantità di equipaggiamento militare sono stati eliminati. Anche l’esercito dell’Azerbaijan ha sofferto danni.

Il generale Polad Gashimov e il colonnello Ilgar Mirzyaev sono morti eroicamente negli scontri della mattinata”. La rivendicazione azera di aver “eliminato” ben 100 fanti armeni, senza specificare se uccisi, feriti o semplicemente ricacciati indietro, non trova conferme dall’altra parte del fronte. Per quel giorno, infatti, il Ministero della Difesa di Yerevan ha ammesso i primi caduti armeni accertati, in numero di soli quattro uomini, ovvero il maggiore Garush Ambartsumyan, il capitano Sos Elbakyan e i sergenti Smbat Gabrielyan e Grisha Matevosyan.

Martedì 14 gli azeri, oltre ai citati generale Gashimov e colonnello Mirzayev, piangevano altri cinque uomini: i maggiori Anar Gulverdi Oglu Novruzov e Namig Hazhan Oglu Ahmadov, i marescialli Ilgar Ayaz Oglu Zeynalli e Yashar Vasif Oglu Babayev e il soldato Elchin Arif Oglu Mustafazade.

Lo stesso giorno, la portavoce armena Stepanyan annunciava che un drone azero è stato abbattuto dalla contraerea, come confermato da filmati diffusi da Yerevan. Si trattava di “un drone usato per controllo di fuoco” del tipo israeliano Elbit Hermes 900 (nelle due foto sotto), che gli azeri hanno comprato in circa 15 esemplari e che assicura la capacità di controllo di un settore del fronte fino a un massimo di 36 ore circuitando a una quota massima superiore ai 9000 metri. Il Ministero della Difesa armeno ha inoltre cercato di minimizzare la messa in allerta degli almeno quattro caccia supersonici Sukhoi Su-30SM che la Russia ha consegnato da pochi mesi all’aeronautica di Yerevan.

47085_src

Stando alla portavoce Stepanyan, i Su-30SM “sono impegnati nell’attività di addestramento quotidiano, ciò non ha nulla a che fare con l’escalation con l’Azerbaijan”. Il che potrebbe anche corrispondere al vero poiché è presumibile che i piloti armeni si stiano ancora abituando a operare col nuovo velivolo, giudicando prematuro impiegarlo in azioni belliche.

In quelle ore, da Mosca il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov esprimeva l’ansia russa per il riesplodere dell’annosa crisi: “Richiamiamo entrambe le parti affinchè mostrino contegno e osservino le condizioni del cessate il fuoco. Come abbiamo già espresso a vari livelli, la Russia è pronta ad agire come mediatore in quanto membro del gruppo di Minsk. Sapete che il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha tenuto intense conversazioni telefoniche con le sue controparti di Baku e Yerevan”.

azerbaijan-israeli-hermes-900-male-uav-c-june-2018-e1530299430821

Anche l’organizzazione militare che accomuna Russia e Armenia, la CSTO, Collective Security Treaty Organization, ha chiesto per bocca del suo segretario Vladimir Zaynetdinov “l’immediata restaurazione del cessate il fuoco”, sottolineando che l’Armenia fa parte dell’organizzazione, da cui invece l’Azerbaijan è uscito una ventina d’anni fa. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto che la crisi sia disinnescata, ma invano.

 

Ricatto radioattivo

Il 15 luglio il presidente azero Ilham Aliyev sosteneva in un discorso davanti ai suoi ministri che “il fatto che gli armeni vadano a piangere presso la CSTO dimostra la loro codardia”, gli azeri dichiaravano di aver distrutto “un caposaldo di forze armene vicino a Tovuz”. Il governo di Baku si è sentito in quelle ore sempre più sotto pressione anche da parte della piazza, dato che almeno 30.000 manifestanti nazionalisti hanno invaso le strade della capitale chiedendo a gran voce una estesa guerra contro l’Armenia, inneggiando al recupero del Karabakh. Sventolando bandiere azere, gridavano: “Il Karabakh è nostro e rimarrà nostro”.

33750.ngsversion.1463479287012.adapt.1900.1

Mentre Aliyev li rabboniva dichiarando l’Armenia “stato fascista”. In questa guerra di propaganda, il premier armeno Pashinyan ha dal canto suo postato un video in cui si vede il decollo di due Su-30 armeni, commentando che “sono pronti ad assicurare l’inviolabilità dei cieli armeni”. Un potenziale aggravamento della crisi emergeva poche ore dopo a causa di dichiarazioni altamente irresponsabili da parte azera.

La mattina del 16 luglio, infatti, fonti ufficiali di Baku si sono spinte addirittura a minacciare un attacco aereo contro l’unica centrale nucleare dell’Armenia, l’impianto di Metsamor, a 36 km da Yerevan, risalente ai tempi sovietici, ma ancora tenuto in piena operatività con l’aiuto russo, tanto che i suoi due reattori VVER-440 da 407,5 MegaWatt ciascuno assicurano essi soli il 40% di tutta l’elettricità del paese.

Per quanto si tratti di una centrale coriacea, costruita per resistere fino a terremoti di magnitudine 7 della scala Richter, non infrequenti nel Caucaso, se investita ripetutamente da missili tattici con testate ad alto esplosivo può chiaramente subire gravissimi danni, giustificando i timori di possibili nubi radioattive sul tipo di quella di Chernobil del 1986.

E’ stato evocando un puramente ipotetico “attacco armeno alle riserve idriche dell’Azerbaijan” e in particolare “alla diga di Mingechevir”, che il portavoce del Ministero della Difesa di Baku, colonnello Vagif Dargyakhly, si è lasciato prendere dalla foga, affermando che il suo paese potrebbe reagire nella maniera più catastrofica: “La parte armena non deve dimenticare che i sistemi missilistici allo stato dell’arte di cui dispone il nostro esercito sono capaci di lanciare un attacco di precisione sulla centrale nucleare di Metsamor, e sarebbe una grande tragedia per l’Armenia poiché porterebbe a una vera catastrofe”.

download

L’accenno ai “sistemi missilistici allo stato dell’arte” fa pensare che il funzionario azero si riferisse al recente missile tattico della israeliana IAI, il cosiddetto LORA (Long Range Attack), lanciabile da compatti container, con vantaggi in flessibilità e trasporto con gittata di almeno 300 o forse fino a 400 km, che l’Azerbaijan avrebbe acquistato da Israele nel 2018 in circa 50 esemplari come reazione al possesso armeno di una ventina di missili Iskander comprati dalla Russia.

La precisione del LORA (nella foto sotto), a guida GPS e televisiva, è accreditata nell’ordine dei 10 metri di CEP (Circular Error Probable, errore circolare probabile) che è ampiamente accettabile nel caso in cui l’obbiettivo fosse una struttura molto grossa come una centrale atomica, o in genere un complesso di edifici, tantopiù che la testata bellica da 570 kg è relativamente pesante e compatibile con una versione in grado di perforare il cemento armato.

Tecnicamente, quindi, la minaccia azera di causare una “mini-Chernobil” fra gli armeni, è fattibilissima. Non lo è però, fortunatamente, dal punto di vista dell’opportunità strategica e politica, dato che una eventuale nube radioattiva giostrata in modo imprevedibile dal vento finirebbe con lo spingersi anche sullo stesso Azerbaijan oppure sulla sua alleata Turchia, al cui confine la centrale atomica è vicina.

https___api.thedrive.com_wp-content_uploads_2017_06_lora-11

Per quanto abbia il sapore della spacconata, la “sparata” azera evoca comunque un pericolo potenziale tale che il Ministero degli Esteri armeno non poteva esimersi dal rispondere duramente, nel tardo pomeriggio dello stesso 16 luglio: “Le azioni minacciate dall’Azerbaijan sono una flagrante violazione della Legge Umanitaria Internazionale, in generale, e del 1° Protocollo Addizionale della Convenzione di Ginevra, in particolare. Queste minacce sono l’esplicita dimostrazione del terrorismo di Stato e degli intenti di genocidio dell’Azerbaijan. E sono una minaccia a tutti i popoli della regione, incluso il loro stesso popolo”. L’evocare un “genocidio”, peraltro, significa per gli armeni toccare un tasto molto delicato, dato che questo popolo soffrì nel 1915 di una tremenda carneficina per mano della soldataglia turco-ottomana, tanto che quel massacro è considerato il “primo genocidio del XX secolo”, macabro apripista dello sterminio degli ebrei fra il 1942 e il 1945.

A giustificare una certa vigilanza su eventuali colpi di testa azeri, comunque, ci sono dubbi sull’affidabilità e la tenuta dello stesso governo dell’Azerbaijan, se è vero quanto verificatosi il 16 luglio, con il licenziamento improvviso del ministro degli Esteri Elmar Mammadyarov, sostituito dal giorno successivo con Jeyhun Bayramov.

8b45b311b03cd152f4e580f14bd500b7

Motivo? Il presidente Aliyev(nella foto sopra) si sarebbe spazientito perchè Mammadyarov ha disertato una teleconferenza del consiglio dei ministri, quasi insinuando che preferisse starsene a casa a dormire anziché lavorare. In verità, dietro le quinte, pare possa essersi trattato di un mero pretesto perchè il ministro licenziato, di notevole esperienza diplomatica in sedi europee e ONU, non sarebbe stato sufficientemente aggressivo e forse, in cuor suo, intendeva lavorare per risolvere al più presto la crisi.

Che Baku fatichi a far credere di essere in buona fede, del resto, sembra ampiamente dimostrato da numerose prese di posizione. In Francia, tanto per cominciare, fin dal 15-16 luglio il Parlamento si è schierato apertamente dalla parte dell’Armenia, parlando di “aggressione azera” e di “ripresa delle ostilità come conseguenza delle intenzioni del dittatore Aliyev”.

Negli Stati Uniti d’America, se la posizione ufficiale di Washington cerca di essere equidistante, dato che l’Azerbaijan è in rapporti di partnership con la NATO, numerosi senatori e deputati, sia democratici che repubblicani, come Ed Markey, Andreas Borgeas e Brad Sherman hanno invocato il diritto dell’Armenia a difendersi, proponendo emendamenti al National Defense Authorization Act 2020 affinchè gli aiuti militari americani all’Azerbaijan siano congelati se diretti ad azioni contro Yerevan.

1594622215_snimok

Negli Stati Uniti, del resto, è presente una cospicua comunità di origine armena, valutata fra 470.000 e 1,5 milioni, a seconda dei criteri genealogici, e i cui membri sono talvolta famosi e influenti. E’ il caso di una star come la famosa attrice e modella Kim Kardashian, che ha postato il 16 luglio sul suo profilo Instagram, seguito in tutto il mondo da ben 179 milioni di persone, un notevole assist ai compatrioti, in termini di influenza sull’opinione pubblica internazionale, contribuendo a riequilibrare le accuse a senso unico azere sull’origine degli incidenti di frontiera: “A dispetto della pandemia globale in corso, l’Azerbaijan ha violato l’appello dell’ONU per un cessate il fuoco mondiale mediante attacchi non provocati alla Repubblica d’Armenia.

Sono state bersagliate strutture civili in Armenia e l’Azerbaijan ha ora minacciato di bombardare la centrale nucleare. Intanto verranno votati emendamenti al National Defense Authorization Act per assicurare che gli Stati Uniti non diano all’Azerbaijan aiuti militari che possano essere usati contro l’Armenia o l’Artsakh. Premo per una soluzione pacifica per questi attacchi senza motivo durante una già difficile pandemia”.

 

Uno stillicidio dalle radici antiche

Il 16 luglio gli azeri parlavano di altri 20 armeni uccisi, nonché della distruzione di un veicolo corazzato e di un veicolo comando radio. Si dichiarava inoltre l’abbattimento di un drone armeno X-55 in ricognizione con rotta verso Tovuz. L’X-55 (nella foto sotto) è uno dei non pochi droni progettati e costruiti autonomamente in Armenia negli ultimi anni. In sé poco appariscente, è un piccolo aereo a elica telecomandato, lanciabile mediante catapulta dal pianale di un camion dell’esercito. Lungo appena 3,8 m, per un’apertura d’ali di 2,6 m, pesa 50 kg e ha una velocità massima di 130 km/h, potendo volare fino a una quota di 4500 m e con un’autonomia di 320 km.

20160407074458-90673-3

Nulla di eccezionale, ma se non altro notevole come realizzazione del piccolo stato caucasico, potendo fornire immagini ottiche e anche infrarosse grazie alla sua torretta con sensori. Mentre gli azeri ammettevano l’ultimo loro caduto in ordine di tempo, il soldato Nazim Afgan Oglu Ismaliyov, gli scontri seguitavano nei giorni successivi soprattutto con uno scambio di artiglieria a singhiozzo fra le due parti, soprattutto con colpi diurni mentre durante la notte la situazione si manteneva calma.

Il 19 luglio gli armeni hanno decisamente respinto la specifica accusa azera di essere in procinto di sferrare un attacco alle infrastrutture petrolifere avversarie, come ha spiegato il portavoce del Ministero della Difesa di Yerevan, Artsrun Hovhannisyan: “Tecnicamente le forze armate armene avrebbero potuto farlo già da molto tempo, ma non abbiamo mai avuto, né abbiamo adesso, simili piani. Crediamo che i collegamenti in olio e gas che passano attraverso questa regione appartengano alle compagnie internazionali e queste compagnie dovrebbero confidare nel fatto che l’Armenia è un garante e non un consumatore di sicurezza. L’Armenia può garantire la sicurezza meglio di chiunque altro nella regione”.

KarabakhArmy

Il 21 luglio due droni armeni di tipo imprecisato sarebbero stati distrutti dall’antiaerea azera vicino a Tovuz, e il giorno dopo un altro drone X-55 è stato abbattuto su Agdam (nella foto sotto) . Fra le azioni più eclatanti degli ultimi giorni, la mattina del 22 luglio il governo armeno ha denunciato un attacco condotto la sera precedente da “forze speciali azere” contro postazioni militari ad Anvakh.

Secondo gli armeni, erano le 22.30 del 21 luglio quando commandos azeri hanno tentato un azzardo, ma sono stati sopraffatti dai militari di Yerevan. Secondo il Ministero della Difesa: “Le unità delle forze armate armene hanno respinto l’attacco del nemico, infliggendogli perdite significative”. Sarebbero stati presi anche dei prigionieri, ma da Baku negano tutto e sostengono che si tratta di “disinformazione”.

download

L’incertezza è d’obbligo, nel continuo confronto fra verità e propaganda, ma soppesando da un lato l’ipotetica invenzione di sana pianta da parte armena di una inesistente azione nemica respinta, dall’altro la negazione azera di una incursione di proprie forze speciali effettivamente compiuta, ma andata storta e dunque da tenere nascosta, sembra più plausibile il secondo scenario.

Il giorno 23 luglio, ancora segnato da scambi di cannonate è stato ucciso il soldato armeno Arthur Muradyan, ultima vittima accertata almeno fino al momento in cui scriviamo, il che porta, dal 12 al 23 luglio il totale dei caduti “sicuri” a 5 per l’Armenia e a 12 per l’Azerbaijan. La situazione resta fluida ed è difficile prevedere come si evolveranno le cose. Certo è che il bilancio, finora, sembra relativamente limitato al confronto con il passato.

Armenia e Azerbaijan si affrontarono in una lunga guerra fra il 1992 e il 1994 che causò forse 30.000 morti, per il possesso della regione del Nagorno Karabakh, (“Karabakh Superiore”) che esisteva come oblast autonomo all’interno dell’URSS, assegnata alla Repubblica Sovietica dell’Azerbaijan ma in realtà popolata in maggioranza da armeni. I primi scontri etnici erano cominciati fin dal febbraio 1988, quando l’assemblea locale del Karabakh aveva votato l’annessione alla Repubblica Sovietica dell’Armenia, suscitando la repressione degli armeni locali da parte delle autorità azere.

 

azerbaijan-2018-military-parade-khrizantema-atgms-e1530297756784

Con l’appoggio della madrepatria armena si ebbe il 6 gennaio 1992 la dichiarazione di indipendenza da parte del Nagorno Karabakh, col nome armeno di Artsakh, dando vita a un piccolo staterello, mai riconosciuto dall’ONU, di circa 150.000 abitanti. Fu la miccia per la guerra scoppiata poche settimane dopo, il 31 gennaio 1992, e durata per oltre due anni, fino al cessate il fuoco del 17 maggio 1994, raggiunto grazie alla mediazione operata da un gruppo di lavoro interno all’OSCE, il Gruppo di Minsk guidato da Francia, USA e Russia

Il sanguinoso conflitto conclusosi nel 1994 con una sostanziale vittoria armena, poiché, nonostante gli azeri fossero sulla carta più numerosi e più armati, le loro offensive si arenarono in sostanza a causa della strenua difesa avversaria arroccata in un teatro montuoso. Così lo stato ufficioso dell’Artsakh sopravvive da quasi trent’anni sotto l’ala protettrice dell’Armenia, potendo contare anche su forze armate proprie, armate e “innervate” da militari armeni.

azerbaijan-dana-155mm-self-propelled-howitzer-c-june-2018-e1530297094328

L’Azerbaijan non ha mai rinunciato a riprendere il territorio, e perciò l’opera di mediazione e di promozione di difficilissimi colloqui fra Yerevan e Baku da parte del Gruppo di Minsk si trascina fin dagli anni Novanta senza risultati. La parola, anzi, è spesso passata alle armi in incidenti di frontiera di varia entità, di cui citeremo a esempio solo quelli più sanguinosi degli ultimi anni. Dal 27 luglio all’8 agosto 2014, scontri nel settore di Agdam-Tartar, un distretto per metà sotto sovranità dell’Azerbaijan, per metà inglobato dall’Artsakh, fra opposte squadre di incursori e “sabotatori” si conclusero con la morte di 6 militari armeno e 13 azeri.

Già pochi mesi dopo si ripeteva un altro grave episodio, con l’abbattimento il 12 novembre 2014 di un elicottero da combattimento armeno Mil Mi-24 da parte di un soldato azero con un missile spalleggiabile Igla-S, proprio sul confine che taglia l’Agdam-Tartar, e con la morte di tutti e tre i membri dell’equipaggio.

medium (1)

Particolarmente violenti furono poi i combattimenti concentratisi in quella che fu battezzata Guerra dei Quattro Giorni, fra il 1° e il 5 aprile 2016, lungo un fronte di 257 chilometri.

In quella occasione, entrambi si scambiarono le accuse di aver rotto il cessate il fuoco, ma gli azeri erano già pronti a una offensiva su larga scala, altrimenti non avrebbero potuto in un pugno di giorni sottrarre all’Artsakh un territorio che Baku ha dichiarato in 20 km quadrati e che Yerevan ha ammesso perlomeno in 8 km quadrati. Gli scontri del 2016 hanno visto un largo impiego da entrambe le parti di carri armati e di razzi Grad, nonché di elicotteri e il loro bilancio è stato finora il più pesante fra tutte le violazioni successive alla tregua del 1994, anche perchè sono stati i primi scontri che hanno portato a un apprezzabile modifica del confine, in tal caso a favore degli azeri.

Gli azeri hanno dichiarato di aver pianto 94 soldati e 6 civili, nonché di aver ucciso 560 soldati armeni distruggendo 33 carri nemici e 25 pezzi d’artiglieria. Gli armeni, dal canto loro, hanno rivendicato di aver perso solo 91 soldati, 9 civili e 14 carri, ma di aver ucciso fra 500 e 1500 nemici, distruggendo 26 carri, due elicotteri, 14 droni e un pugno di veicoli da fanteria.

Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno valutato che gli scontri armeno-azeri dell’aprile 2016 siano costati la vita a circa 350 persone di ambedue le parti.

edcfdf8613ad85dc7936b761543ce4f9-480x

E senza contare il fatto che, nonostante il cessate il fuoco del 5 aprile, scaramucce continuarono nei giorni successivi, tanto che ancora fino al 21 aprile 2016 furono registrate le ulteriori morti di 5 militari armeni dell’Artsakh e di un azero.

L’incertezza delle cifre, peraltro, può far pensare che anche nel caso degli scontri di questi giorni, il vero bilancio possa essere assai più pesante di quanto dichiarato dai governi. Da allora, gli armeni hanno sempre chiesto che nei colloqui di pace si tenesse conto del governo locale del Karabakh/Artkash, il che è però sempre stato rifiutato dagli azeri.

E’ abbastanza evidente che la meccanica geopolitica della nascita e dello sviluppo dell’Artsakh ripropone un certo parallelismo con la situazione delle repubbliche russofone di Lugansk e Donetsk, nel Donbass, riconosciute dalla Russia come stati fratelli sulla base del fatto che quei territori originariamente russi, furono regalati alla Repubblica dell’Ucraina nei tempi sovietici.

image

Anche se la Russia non riconosce l’Artsakh, è interessante che siano tre stati non-ONU, tutti di origine filorussa, ovvero Abkazia, Ossezia del Sud e Transnistria, gli unici a riconoscerlo come stato. Altri riconoscimenti sono assicurati a questa piccola “Armenia minore”, se così possiamo definirla, da due regioni della Spagna con grande tradizione autonomista, ovvero i Paesi Baschi e la Navarra oltre allo stato australiano del Nuovo Galles del Sud e, a conferma dell’influenza della causa armena negli Stati Uniti, numerosi singoli stati dell’Unione, per la precisione: Rhode Island, Massachusetts, Maine, Louisiana, California, Georgia (quella USA, appunto, non quella caucasica), Hawaii, Michigan e Colorado.

 

La bilancia strategica

E’ difficile pensare che Armenia e Azerbaijan possano davvero andare alla guerra totale, dato che gli incidenti di questi giorni sembrano il risultato di impulsi esogeni, primariamente di ispirazione turca, come messaggio indiretto alla Russia, ma non sarà vano passare brevemente in rassegna le rispettive forze. Sulla carta l’Azerbaijan appare indubbiamente più possente, anche perchè il business del petrolio e del gas gli ha permesso di investire negli ultimi anni molto di più nel settore militare.

e4e2fa0cdf022b8e83d3612f1265a47a

Con una superficie territoriale di 86.600 km quadrati (un quarto dell’Italia) e una popolazione di 10 milioni di persone, il governo di Baku vanta senza dubbio una base più ampia rispetto all’Armenia, che è estesa solo 29.800 kmq ed è abitata da 3 milioni di persone. Le forze armate azere, guidate dal capo di Stato Maggiore generale Najmaddin Sadigov beneficiano di una spesa arrivata a circa 2,2 miliardi di dollari l’anno, pari al 5% del Pil, e contano 56.000 uomini nell’Esercito, 7900 nell’Aviazione e 2.200 nella Marina, che sfrutta l’ampia costa orientale sul Mar Caspio, sbocco marittimo negato invece all’Armenia che non dispone di una forza navale.

dcbd57359bab8a0e9a98a0e755ad06d6

Gli azeri contano inoltre su 20.000 uomini di altre milizie interne, secondo il vecchio modello sovietico, pure essi mobilitabili come riserve. In fatto di armamenti gli azeri contano fino a 380 carri armati operativi di cui, a parte la massa di datati T-72, i migliori sono un centinaio di T-90 comprati dalla Russia e ai quali si aggiungeranno in un prossimo futuro 50 carri sudcoreani K2 Black Panther.

Vi sono poi fino a 595 blindati e veicoli da fanteria, ma è da ricordare che in un teatro montuoso come il Caucaso, e specialmente come la zona fra Armenia e Karabakh, il carro tradizionale è meno importante rispetto alle grandi pianure e semmai serve da appoggio alla fanteria più nella funzione di “scudo” e artiglieria semovente.

771977

L’aeronautica azera conta 29 aerei da combattimento, in maggioranza caccia Mig-29 e assaltatori Su-25, più qualche residuo Mig-21, ma sarebbe in attesa di caccia cinesi JF-17 per i quali è in trattativa con Pechino. Vi sono poi 17 elicotteri d’attacco Mi-35.

L’antiaerea conterebbe fino a 200 missili S-300 PMU di fornitura russa, oltre a tipi più piccoli, mentre i missili balistici a corto raggio comprenderebbero gli israeliani LORA, già citati, che fanno parte di un generale afflusso di armamenti israeliani che annovera anche lanciarazzi e droni. La Marina conta un pugno di navi nel Caspio, fra cui una dozzina di fregate, le quali però nulla peserebbero in un confronto con l’Armenia nell’entroterra caucasico.

Sulla Marina azera c’è però da precisare che è stata addestrata negli ultimi anni dagli americani e comprende forze speciali modellate un po’ sugli SEAL della US Navy, i selezionatissimi uomini della 641° Unità Speciale di Guerra Navale, allenati anche a incursioni lampo tra le file nemiche. Non è dato sapere se appartengano a questa unità le “forze speciali azere” la cui incursione è stata denunciata, e bloccata, dagli armeni il 22 luglio, ma non sarebbe impossibile a priori.

8_Su-30SM_Armenia-Elaborazione-Grafica-002

Per contro, l’Armenia ha un apparato militare più limitato, ma tutto sommato non di molto, proporzionalmente al fatto che il paese, sia come area sia come abitanti, è un terzo dell’avversario. Allo Stato Maggiore del generale Onik Gasparyan rispondono 45.000 soldati dell’Esercito, più 7000 uomini dell’Aeronautica, alimentati da una spesa di soli 634 milioni di dollari, ma che rappresenta oltre il 5,5% del Pil armeno.

Nelle vere e proprie forze armene ci sono fra 140 e 160 carri armati fra cui i più numerosi sono ancora i vecchi T-72, pur modernizzati con il supporto russo, più 31 T-90S. Ai mezzi corazzati si aggiungono ben 460 blindati da fanteria e ricognizione, fra cingolati e ruotati, la cui varietà tocca un po’ tutta la serie dei BMP, BTR e BRDM di origine sovietica. L’artiglieria conta fra i vari razzi e missili, i citati Iskander russi, in numero di almeno 25, che assicurano la capacità di colpire fino a 300-400 km. Quest’anno sono stati acquisiti anche mortai, armi leggere e munizioni serbe per un valore di circa un milione di euro.

Quanto all’aviazione, limitandoci ai soli velivoli da combattimento, parliamo di 14 aerei, di cui 10 Sukhoi Su-25 d’attacco e i primi 4 Su-30 (nella foto sopra) da intercettazione ricevuti nel 2019, ai quali si aggiungeranno nei prossimi mesi altri 8 Su-30.

image

Ci sono inoltre 16 elicotteri Mil Mi-24. L’Armenia conta però anche su forze armate addizionali che sono quelle dell’Artsakh, in pratica una sua provincia. La milizia di difesa del Nagorno-Karabakh conterebbe almeno 20.000 uomini, con ben 316 carri e 324 blindati anche a voler contare i tank più datati di epoca sovietica, tenuti in efficienza con filo di ferro e buona volontà. Una piccola componente aerea del Karabakh schiera un paio di Su-25 e cinque elicotteri Mi-24.

L’Armenia ha un vantaggio teorico sull’Azerbaijan dovuto all’appartenenza all’alleanza CSTO e alla presenza sul suo territorio di una guarnigione russa. Nella cosiddetta 102a Base Militare a Gyumri trovano sede 3000 soldati di Mosca con carri armati, veicoli corazzati, artiglieria e missili antiaerei S-300, mentre nella Base Aerea 3624 di Erebuni, vicino Yerevan, stazionano 1.500 uomini con 18 caccia Mig-29 con elicotteri Mi-8MT e Mi-24..

image (1)

La Russia, per il momento, attende e osserva, ma mantiene sul chi vive le sue truppe schierate lungo i confini meridionali. Il 17 luglio grandi porzioni delle forze russe dei comandi occidentali e meridionali, per un totale di 150.000 uomini, sono state mobilitate e sottoposte a controlli di prontezza operativa (“snap check”). Il giorno dopo, il viceministro della Difesa, generale Alexander Fomin, ha rifiutato di mettere in collegamento le manovre col deteriorarsi della situazione nel Caucaso, ma non c’è dubbio che massima è la vigilanza poiché la nuova crisi armeno-azera pone ai russi un dilemma assai più delicato che ai turchi.

 

Il contesto geiopolitico

La posizione di Ankara è ben chiara, tanto che il 20 luglio è intervenuto lo stesso “sultano”, il premier Recep Tayyp Erdogan: “La Turchia non lascerà mai solo l’Azerbaijan in un eventuale conflitto con l’Armenia. Il Karabakh superiore è occupato. Il gruppo di Minsk dell’Osce ha lasciato la questione sul tavolo per 25-30 anni”. Erdogan può permettersi un lusso che, al momento, il suo omologo presidente Vladimir Putin non può permettersi, cioè stare nettamente dalla parte di uno dei due contendenti, accreditando l’interpretazione che vuole gli incidenti “suggeriti” a Baku da Ankara per indurre a più miti consigli i russi e i loro alleati nella partita della Libia.

Infatti, le scaramucce scoppiano proprio mentre nel paese africano l’intervento turco in favore del governo di Tripoli guidato da Fayez Serraj ha oltrepassato il livello oltre il quale il “sultano” non può ritirarsi senza perdere la faccia.

image (2)

Ma sa anche che se l’Egitto, coi russi e gli emiratini, farà muro a Sirte intervenendo nel paese, rischia grosso. La carta da giocare è cercare di far sfilare almeno i russi dalla Libia, inducendoli a riflettere con questa mossa in Armenia. Non è nemmeno un caso che gli azeri abbiano aperto il fuoco, ammesso che siano stati loro i primi, sul confine nell’area di Tovuz/Tavush e non più a Sud, nel Karabakh.

Così facendo si dà alla reciproca percezione della minaccia una dimensione più marcata perchè riguarda i territori metropolitani, di appartenenza più assodata, e non un’area più periferica e contesa, come quella su cui l’Armenia ha edificato uno staterello di tutela dei compatrioti. Inoltre si va a toccare un territorio in cui transita anzitutto l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che lungo oltre 1700 km porta 50 milioni di tonnellate di greggio azero all’anno fino al porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo, passando per l’anti-russa Georgia per scavalcare il territorio armeno.

E poi vi passa il parallelo gasdotto Baku-Tblisi-Erzurum, che porta 25 miliardi di metri cubi di metano all’anno seguendo un tracciato simile al precedente oleodotto, ma che si arresta dopo 692 km appunto a Erzurum, dove si connette al TANAP, il gasdotto transanatolico, che verrà presto collegato alla TAP per l’immissione nella rete italiana presso Brindisi. Sono infrastrutture fondamentali per l’approvvigionamento energetico dell’Europa e se è vero che un loro sabotaggio potrebbe tornare comodo anche ai russi e agli armeni, per lo stesso motivo Ankara e Baku hanno buon gioco per utilizzarli come moventi di un piano armeno di sabotaggio.

lachin-11

La Russia, invece, non può permettersi di schierarsi apertamente solo con l’Armenia ed è per questo che il suo atteggiamento è assai diverso da quello turco. Ancora il 21 luglio il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha interpellato gli ambasciatori azero e armeno a Mosca, rispettivamente Polad Bulbul Ogly e Vardan Toganyan, per cercare una soluzione pacifica e sta proseguendo su questa strada.

Per quanto i russi mantengano due basi militari in Armenia e la considerino un alleato nell’ambito CSTO, tanto da essere pronti a difenderla se invasa, non vogliono però rinunciare ai rapporti con l’Azerbaijan, che resta un importante cliente in fatto di tecnologia, militare e un socio per Transneft per quanto riguarda un altro grande oleodotto che parte dai campi petroliferi azeri, il Baku-Novorossiysk che porta 5 milioni di tonnellate di greggio fino all’omonimo terminal russo sul Mar Nero.

E senza contare i legami che risalgono all’era sovietica, per quanto oggi un po’ deteriorati dalla crescente riscoperta dell’identità turcomanna da parte dell’Azerbaijan, a cui non sono estranei la propaganda neo-ottomana di Erdogan e gli accordi commerciali e militari con Ankara.

Mentre i turchi non avrebbero quindi remore nel giocare il tutto per tutto a fomentare l’Azerbaijan pur di presentarsi ai russi come gli arbitri del loro fronte Sud, gli “osti (russi) con cui fare i conti” vogliono evitare di rompere con loro e con gli azeri, almeno in apparenza, sebbene sia intuibile che dietro le quinte stiano masticando molto amaro.

 

Giochi pericolosi

A rafforzare queste interpretazioni ci sono ovviamente le fonti armene. Ed è certo interessante citare parti di una bella intervista uscita il 20 luglio su “Il Sussidiario” e realizzata da Paolo Vites, che ha sentito il console onorario armeno in Italia, Pietro Kuciukian, che fra le altre cose osserva: “È possibile che il presidente azero abbia ricevuto un suggerimento da parte turca, la quale ha voluto così mettere pressione alla Russia per quanto riguarda la situazione in Libia, dove i due paesi mirano a spartirsi il territorio”. E poi: “Hanno attaccato quattro villaggi, ma era tanto tempo che il presidente azero incitava il suo ‘invincibile esercito’ a farlo.

20180112075142voennie

La causa specifica di questo attacco per adesso non la sappiamo, qualcuno può avergli suggerito di attaccare oppure no, però è stato un fatto molto grave.

L’attacco è partito attorno a un villaggio azero per far sì che se gli armeni avessero reagito, ci sarebbero state vittime tra a civili, il solito deterrente di certi popoli consistente nell’usare come scudi i civili”.

Kuciukian ha anche evocato un possibile movente tutto interno all’Azerbaijan che può aver contribuito alla decisione di far cercare al suo popolo una valvola di sfogo contro il tradizionale nemico esterno: “Teniamo conto che l’Azerbaijan è sotto attacco del Covid in modo molto grave anche se non si conoscono le cifre, lanciare un attacco militare con una situazione interna così è molto pericoloso, ma può essere un modo per distrarre la popolazione”.

Sempre il 20 luglio l’ambasciatore azero in Italia, Mammad Ahmadzada, ha diffuso un comunicato in cui ribadisce la versione del suo governo che accusa l’Armenia di essere l’iniziatore dei recenti incidenti, citando proprio le infrastrutture energetiche della regione come possibile obbiettivo. In particolare, sostiene Ahmadzada: “L’obiettivo dell’Armenia è volto anche a destabilizzare questa area e impedire il funzionamento di questi progetti fondamentali, che creano accesso a nuovi mercati e a fonti di energia alternative per l’Europa. Non è un caso che l’Armenia abbia avviato un’operazione militare contro l’Azerbaijan tre mesi prima dell’inizio delle forniture di gas dell’Azerbaijan in Europa, inclusa l’Italia”.

Prosegue il diplomatico azero: “Questa avventura militare della leadership dell’Armenia è anche il risultato della mancata distinzione, da parte della comunità internazionale, tra aggressore – l’Armenia, che ha occupato i territori dell’Azerbaijan, e la vittima – l’Azerbaijan, che subisce oggi e da quasi 30 anni l’aggressione dell’Armenia. Finché la comunità internazionale non eserciterà una forte pressione sull’aggressore, affinché rinunci alla sua politica di aggressione, l’Armenia continuerà i suoi atti criminali, perché crimini impuniti aprono la strada a nuovi crimini”.

large

Anche l’interpretazione azera sembra plausibile, senonchè, almeno a prima vista sembra assai più difficile che gli armeni abbiano deciso da soli di scatenare una crisi senza essere sicuri a priori di avere le spalle coperte da una potenza protettrice, nel loro caso la Russia. La quale invece, come sta dimostrando la sua diplomazia, cerca di risolvere la crisi con la mediazione e l’equidistanza, piuttosto che il contrario.

Possibile quindi che a iniziare le ostilità abbiano volutamente provveduto gli azeri, forti del palese appoggio turco dimostrato dalle ferme parole di solidarietà di Ankara fin dai primi giorni delle sparatorie ma, naturalmente, non è da escludersi la possibilità che quel 12 luglio da una parte o dall’altra del confine tutto si sia originato per banali errori di valutazione di soldati sul terreno, per fatalità che esulano dalla volontà dei governi.

6f40b56c11b556c5725724b736440314

Ma il momento particolare delle relazioni russo-turche, in Libia e altrove, indica che poco o nulla è stato lasciato al caso. L’assertività di Erdogan in Africa e anche nel Mediterraneo contro la Grecia e Cipro, specie in fatto di perforazioni petrolifere del fondo marino, per non parlare di un messaggio altamente simbolico come la riconsacrazione a moschea della basilica-museo di Santa Sofia a Istanbul, sono tutti segnali inquietanti che sembrano voler impostare i rapporti con la Russia da una posizione di forza relativa, contando sul ricatto della stabilità di tutta la fascia Sud del mondo russo.

Ankara sembra voler porre le sue condizioni all’amicizia con la Russia poiché ritiene di aver la chiave per destabilizzarne i confini meridionali. Al tempo stesso, Erdogan sa anche che fra i componenti della coalizione pro-Haftar che combatte in Libia, la Russia è proprio l’unica che, per ragioni geografiche, è pienamente ricattabile dalla Turchia, a differenza dell’Egitto e degli Emirati, meno esposti nei confronti di Ankara.

5da80a653c99d

Del resto, i turchi sanno bene che la generale superiorità militare russa su di loro, che sulla carta sarebbe ovviamente incolmabile, e senza nemmeno bisogno di prendere in considerazione anche le armi nucleari, è di fatto annullata dall’appartenenza alla NATO che fornisce al paese erede degli ottomani un sufficiente scudo,

Si conferma quindi l’ormai assodata tendenza di Ankara a perseguire i propri interessi imitandosi a usare l’Alleanza Atlantica come una “coperta” in grado di fornire garanzie di impunità. Perciò, ammesso sia corretta la versione della Turchia come “regista” delle azioni azere sul confine armeno, il fine sarebbe quello di impedire che i russi possano ripetere in Libia ciò che hanno già attuato in Siria, quando nel 2015 arrivarono a rompere le uova nel paniere a Erdogan, spingendolo, dopo iniziali contrasti, a mostrare a Putin sorrisi a denti stretti.

download

E’ un gioco altamente pericoloso, specialmente nella polveriera del Caucaso e, più a Oriente, nei vari “stan” turcofoni corteggiati da Ankara, che un tempo formavano l’Asia Centrale Sovietica.

E se, alla lunga, non causerà disastri, sarà in gran parte merito della preparazione e cautela di una classe diplomatica come quella russa, che già è riuscita a superare a suo tempo 45 anni di “equilibrio del terrore” al tempo della Guerra Fredda.

Ma è anche un gioco forse al limite delle possibilità turche, se si considera che a suo tempo non sono riusciti, perlomeno non in maniera compiuta, i giochi nella vicina, attigua Siria. Più difficile sarà farli riuscire in Libia, più lontana, oltre il mare, mentre lo schieramento avversario conta sul vicino Egitto come retroterra strategico sicuro. Perciò, portare incertezza nel Caucaso, alle spalle di Mosca, è forse l’unica vera alternativa strategica che resta al “sultano”.

Le evoluzioni statuali e i conflitti irrisolti della regione caucasica. Recensione della pubblicazione scientifica “Building and Conflict Resolution in the Caucasus” di Charlotte Hille (Ossrevatorio Balcani e Cuacaso 27.07.20)

Vale la pena rispolverare o scoprire le vicende politiche del Caucaso attraverso l’agile lettura di State Building and Conflict Resolution in the Caucasus , di Charlotte Hille. Pubblicata per la prima volta nel 2010, mai tradotta in italiano, la trattazione presenta il già raro merito di considerare il Caucaso come unica regione, quindi spazia nella ricostruzione delle vicende sud e nord caucasiche integrandole e correlandole ove possibile.

Il confine fisico e il diverso sviluppo post-sovietico fra nord e sud Caucaso porta infatti buona parte degli studi a concentrarsi su una delle due regioni: o le repubbliche facenti parte della Federazione Russa a nord della catena caucasica (Adighea, Cabardino Balcaria, Carachaevo-Circassia, Cecenia, Daghestan, Ingushezia, Ossezia del Nord,) o le repubbliche indipendenti di Armenia, Azerbaijan e Georgia. Questo approccio, frutto di una esigenza di sintesi, limita la comprensione di fenomeni transcaucasici che sono sia storici, come la comune permanenza nella statualità russa prima zarista poi sovietica, sia sociali che culturali, come per esempio la rilevanza del sistema clanico nella società.

Lo state building

È proprio con l’analisi del sistema clanico che si apre il testo, nel capitolo dedicato a una panoramica del Caucaso. Oltre le note geografiche, storiche, linguistiche e sociali, viene approfondito il ruolo dei clan e come essi si inseriscono nella costruzione dello stato, con un approfondimento sulla Cecenia, ma che spazia anche verso la Georgia e tratteggia il ruolo della donna, della legge, dell’onore e del rapporto con le istituzioni.

Per quanto riguarda la ricostruzione storica della nascita delle forme statuali caucasiche, si parte dal IV secolo. Si tenga presente nell’affrontare il testo che questa è una trattazione di scienza politica, non un testo di storia. Per cui non si trovano attente ricostruzioni di vicende e personaggi quanto piuttosto una presentazione di evoluzioni statuali e della relativa produzione normativa, soprattutto dal momento che la genesi degli stati hanno portato all’adozione della Legge Fondamentale, appunto la Costituzione.

Proprio sulla riflessione su cosa è e come si costituisce uno stato è dedicato il secondo capitolo, il più teoretico del libro, che va dai criteri della Convenzione di Montevideo ai parametri della Commissione Badinter istituita in seno europeo per far fronte alla secessione sovietica e stabilire chi poteva essere riconoscibile.

Conflict Resolution

Strettamente legato al discorso del riconoscimento c’è infatti la questione dei conflitti che sono esplosi alla dissoluzione dell’URSS. Il Caucaso è percorso da irrisolte dispute storico-territoriali frutto delle mutazioni politiche degli ultimi due secoli: l’effetto della russificazione, degli ingenti travasi demografici, delle deportazioni e degli esodi, nonché della fase di indipendenza fra la prima dominazione russa – gli anni della guerra civile che portano dalla monarchia pietroburghese alla repubblica sovietica moscovita – delle nuove geografie umane del periodo sovietico e della seconda guerra mondiale, per finire con la disgregazione dell’ordine sovietico, collassato proprio quando stavano nascendo i primi strumenti legali di compensazione per le deportazioni, e una nuova tendenza nel rispetto dei diritti delle autonomie dei popoli. Il testimone per la soddisfazione per le violazioni subite è passata ai governi post-sovietici che non sempre hanno saputo come gestire le rivendicazioni ereditate da uno stato scomparso verso cui si erano maturate letture differenti in area caucasica.

Tutti questi fenomeni si sono concretati in un’area di estrema complessità e hanno portato alla rottura periodica di equilibri provvisori, con tizzoni ardenti a volte rimasti a covare sotto le ceneri della repressione, a volte esplosi in guerre.

Nella ricostruzione delle vicende caucasiche è proprio sulle guerre che il testo di Charlotte Hille si fa più puntuale. La guerra è un passaggio importante nella nascita delle identità caucasiche: per esempio guerrieri come Shamil, Uzun Haci che invitto 89enne fonda l’Emirato del Caucaso del Nord, la guerra per Prigorodny svolgono un ruolo importante nel senso di nazionalità cecena, e nei progetti di stato cui vi si ambisce.

Le guerre del Caucaso

Non solo per la Cecenia, tristemente nota per i conflitti che l’hanno dilaniata dopo la fine dell’URSS, la scelta dell’autrice è di trattare i territori sulla base dei confini frutto di guerre, non in base alle peculiarità fisiche o storico-culturali. Si inizia quindi la trattazione più dettagliata delle nuove geografie politiche del Caucaso da inizio dell’800 e ci si sofferma più approfonditamente sul periodo 1917-1921, quello della fase di autonomia dal controllo russo quando hanno preso forma conflitti tutt’ora irrisolti. Le guerre locali che si sono inserite nel conflitto mondiale, nella guerra civile, per il Karabakh, la condizione dell’Abkhazia, dell’Ossezia, ma anche i conflitti per Lori e Akhalkalaki, del Nakhichevan, la questione dell’accesso al Mar Nero e il controllo del porto di Batumi, le guerre armeno-turche, ma anche prodotti di pressioni geopolitiche, come la scomparsa Repubblica del Sud Ovest Caucasico voluta dalla Turchia, sono pezzi di un affresco novecentesco senza i quali non si può leggere il Caucaso di oggi.

Dall’URSS al post

Il testo si muove agilmente nel quadro degli accordi che hanno portato gli attori locali, Russia, Turchia, Iran, a concordare l’attuale distribuzione territoriale del Caucaso, per quanto dal 2008 la Russia abbia cominciato a mettere in discussione l’assetto che la regione aveva assunto dagli anni ’20, con il riconoscimento dei secessionismi georgiani.

Oltre a una non approfondita ma chiara ricostruzione geopolitica, il testo di Charlotte Hille offre una cronaca di vicende e presidenze post-URSS. Per ognuna delle Repubbliche nord e sud caucasiche si ripercorrono i principali eventi politici e protagonisti elettorali o ad incarico da parte del governo centrale. Queste cronologie per paese rappresentano un strumento chiaro e sintetico per ripercorrere il periodo post-sovietico, e se anche non sono precise ed esaurienti della varietà locale sicuramente guidano il lettore attraverso un’analisi compilativa di sicura efficacia.

Un intero capitolo, il quattordicesimo, è dedicato a cosa significhi essere stato oggi, e alla dimensione internazionale del riconoscimento. Questo tema che ricorre nel testo in più occasioni, declinato in base ai vari periodi storici e gradi di autonomia delle varie entità politiche e.g. la Transcaucasia rispetto alla Russia Sovietica, viene contestualizzato nel quadro delle Organizzazioni Internazionali, dall’ONU, al Consiglio d’Europa, all’OSCE, all’UE, alla NATO, alla Black Sea Economic Cooperation, al GUAM. Qui come altrove l’autrice compila un rapido elenco che è un buon promemoria per chi conosce approfonditamente la regione, e un ottimo punto di inizio per chi la vuole conoscere meglio.

Non ultimo: trovano nel testo uno spazio anche le varie organizzazioni non governative e il loro ruolo.

Un testo consigliato per una visione schematica ma – nei ragionevoli spazi di circa 350 pagine – completa di un mosaico inesauribile come il Caucaso.

Vai al sito

Speciale infrastrutture: Armenia-Azerbaigian, Medveded invita le parti ad “evitare azioni incaute” (Agenzianova 27.07.20)

Mosca, 27 lug 16:15 – (Agenzia Nova) – L’Armenia e l’Azerbaigian dovrebbero evitare azioni incaute: lo ha dichiarato il vice presidente del Consiglio di sicurezza nazionale russo, l’ex premier Dimitri Medvedev, scrivendo su Facebook. Ieri anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha invitato i leader di Azerbaigian e Armenia a ridurre la tensione ai confini e tornare ai negoziati. Fra Armenia e Azerbaigian la tensione da anni non era così elevata: la recrudescenza degli scontri fra i due paesi – storicamente divisi dalla disputa territoriale del Nagorno-Karabakh – si svolge tuttavia in un’area di confine che non è solitamente teatro di combattimenti. Dal 12 luglio, infatti, e per circa una settimana i due paesi si sono scontrati a Tavush, provincia dell’Armenia di circa 134 mila abitanti, un territorio strategicamente importante perché vi transitano l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc) e il gasdotto Corridoio meridionale del gas, due infrastrutture fondamentali per l’approvvigionamento energetico dell’Europa. (Rum)

Il “grazie” della Toscana all’aretino in missione in Armenia: “Straordinario nella battaglia al Covid” „Il “grazie” della Toscana all’aretino in missione in Armenia: “Straordinario nella battaglia al Covid”“ (Arezzonotizie.it 26.07.20)

Il “grazie” della Toscana all’aretino in missione in Armenia: “Straordinario nella battaglia al Covid”

Per chi l’ha vissuta è una di quelle esperienze che non si dimenticano, perché non c’è nulla che ripaghi più del sentirsi utili e tendere una mano a chi è in difficoltà. A pensarlo sono i professionisti del team sanitario italiano, scelti per una missione di soccorso nella Repubblica di Armenia, il Paese sudcaucasico tra i più duramente colpiti dal Covid-19.

La squadra sanitaria, partita il 26 giugno e rientrata il 17 luglio scorso, è stata selezionata con accuratezza per l’esperienza, altamente qualificata, maturata sul campo: in tutto 11 professionisti tra anestesisti, rianimatori, infermieri e un infettivologo, provenienti da tre Regioni (Toscana, Lombardia, Piemonte). La Toscana ha dato il suo contributo con il dottor David Redi, infettivologo dell’ospedale “San Donato” di Arezzo dell’Asl sud Est, molto apprezzato per professionalità, impegno e dedizione al lavoro.

“Siamo orgogliosi che la Toscana sia stata scelta per fare parte del team sanitario italiano, coordinato dal dipartimento della Protezione civile nell’ambito del Meccanismo unionale di protezione civile, per supportare le strutture ospedaliere armene nella lotta alla pandemia – commenta l’assessore regionale al diritto alla salute Stefania Saccardi -. Nei mesi scorsi siamo stati impegnati nel gestire un’emergenza sanitaria senza precedenti. Abbiamo superato il momento difficile con il contributo di tutti, e acquisito un’esperienza che riteniamo doveroso mettere al servizio degli altri, con spirito di solidarietà, e favorendo lo scambio dei saperi in ambito sanitario. Al professionista che ha rappresentato così bene la Toscana e al resto del team va il nostro più sentito ringraziamento per il lavoro straordinario, che è stato svolto. L’aiuto umanitario verso Paesi in difficoltà – conclude Saccardi – è sempre stato il tratto distintivo della nostra Regione. Una tradizione che donne e uomini del nostro sistema sanitario hanno sempre onorato al meglio anche attraverso la cooperazione internazionale”.

In particolare, il team, specializzato nel trattamento di pazienti affetti da Covid-19, ha supportato i colleghi armeni della capitale Erevan nella realizzazione di programmi di formazione per utilizzo dell’ecografia polmonare in caso di urgenza, nello sviluppo di corsi di terapia antibiotica, soprattutto in relazione alla patologia polmonare e agli approcci terapeutici, e nelle attività di valutazione e di consulenza della autorità sanitarie del posto.

Tutte le attività, gestite dal gruppo di esperti, sono state svolte in coordinamento con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Ambasciata d’Italia in Armenia.

Gli esperti italiani hanno operato in tre strutture ospedaliere della capitale armena, convertite in veri e propri Covid–Hospital, il Surb Grigor Lusavanovih Medical Centre, lo Scientific Center of Traumatology and Orthopaedy, il Surb Astvatsamayr Medical Center.

Potrebbe interessarti: https://www.arezzonotizie.it/benessere/salute/toscana-grazie-david-redi-armenia.html