A 20 minuti da Venezia, c’è un posto misterioso con tesori di valore inestimabile (Funweek 18.02.22)

Un luogo misterioso ricco di fascino e con tesori dal valore inestimabile. Si trova a soli 20 minuti di vaporetto da Piazza San Marco a Venezia. È l’Isola di San Lazzaro degli Armeni, dove ancora oggi vivono i Padri Armeni Mechitaristi.

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Si tratta di una piccola isola non distante dalla costa ovest del Lido di Venezia che dal 1717 è la casa dell’Ordine mechitarista, oltre che uno dei più importanti centri della cultura armena a livello mondiale.

Prima dell’arrivo dei padri, l’Isola fu abitata dai benedettini, divenne poi una casa per lebbrosi e malati fino a versare in uno stato di abbandono. Padre Mechitor, fondatore dell’ordine, la scoprì nel 1717. Era in fuga dall’armante perseguitata dai Turchi. Le strutture esistenti vennero così trasformate nel bellissimo monastero. A convincere Padre Mechitor a fermarsi qui anche il fatto che Venezia, all’epoca, era uno dei centri di stampa più importanti a livello europeo. Essendo una delle missioni principali dell’Ordine quello di preservare la cultura del popolo armeno, il luogo era perfetto. Venne aperta una tipografia poliglotta che ben presto divenne un importante centro di cultura. La Biblioteca del monastero, è una delle più importanti dell’Occidente con i suoi 4500 manoscritti originali.

I tesori di inestimabile valore

Ma i tesori di questo luogo misterioso e affascinante non finiscono qui. Ci sono manufatti provenienti dalla Cina e dal Giappone e una mummia egizia perfettamente conservata e risalente all’VIII sec. a.C. Bellissima la tela del Tiepolo, la statua di Canova e il roseto. I monaci con i petali di questi fiori realizzano la marmellata alle rose, chiamata vartanush.

L’Isola di San Lazzaro degli Armeni, con decreto ufficiale di Napoleone venne risparmiata dai saccheggi. L’imperatore impose che l’isola non fosse toccata, in quanto accademia scientifica. Se siete curiosi di scoprire questo luogo, sappiate che è possibile visitarlo solo su prenotazione. Per informazioni potete consultare il sito Mechitar.

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Profanata, bombardata, ricostruita, abbandonata: il caso emblematico della chiesa armena di Raqqa (Agenzia Fides 18.02.22)

Raqqa (Agenzia Fides) – A quasi 5 anni dalla cacciata delle milizie jihadiste da Raqqa, la chiesa dei Martiri, che era stata ridotta in macerie, si staglia di nuovo nel centro città in tutto il suo splendore. È stata per lungo tempo in mano ai miliziani dello Stato islamico, che la trasformarono in tribunale, e anche da lì dettavano legge e imponevano la loro “giustizia” jihadista. Poi è stata devastata dai bombardamenti a guida occidentale, che hanno raso al suolo buona parte del centro urbano, quando si doveva espugnare quella che era stata per anni la capitale-roccaforte siriana del Califfato nero. Negli ultimi anni è stata ricostruita come nuova da un singolare movimento para-militare, i Free Burma Rangers, formatosi nei conflitti tra milizie etniche e esercito birmano, per iniziativa di un pastore evangelico statunitense. Ma i pochi cristiani autoctoni che vivono ancora in città non la frequentano, non vi si celebrano messe, e a utilizzarla di tanto in tanto sono gruppi cristiani evangelici di formazione recente.
La sequenza di cose avvenute negli ultimi anni dentro e intorno a quella chiesa, un tempo officiata da sacerdoti della Arcidiocesi armeno-cattolica di Aleppo, rende quel luogo di culto una specie di emblema delle pressioni, degli interessi contrastanti e dei fattori enigmatici che condizionano la presenza dei cristiani in Siria e in altri scenari mediorientali. «In quella vicenda c’è qualcosa di strano, non si capisce cosa c’è dietro», confida all’Agenzia Fides Boutros Marayati, Arcivescovo armeno cattolico di Aleppo -.
Quella dedicata ai martiri era e rimane la chiesa più importante e visibile di Raqqa. Prima della guerra, era un punto di riferimento per le più di 150 famiglie cristiane della città, che contava anche due altri luoghi di culto appartenenti alla Chiesa armena apostolica e alla Chiesa cattolica greco-melchita. Nel 2014, quando la città viene conquistata dai miliziani del sedicente Stato Islamico (Daesh), i jihadisti si impossessano della chiesa e degli edifici di servizio, ponendovi la sede del tribunale islamico. Nel 2017, anche la chiesa dei Martiri viene sventrata dai bombardamenti a tappeto messi in atto dalla coalizione anti-Daesh per piegare la resistenza delle milizie jihadiste. A liberare la città sono le Forze Democratiche Siriane (SDF, coalizione di milizie a prevalenza curda) appoggiate e armate dagli Stati Uniti. Da allora, tutta la Siria nord-orientale – area che comprende anche Raqqa – diventa terra contesa e instabile in cui si confrontano e scontrano i progetti autonomisti curdi, le rivendicazioni del potere di Damasco, le perduranti sacche di resistenza jihadista, le incursioni e occupazioni turche in chiave anti-curda. A Raqqa il potere va nelle mani di un Consiglio civile dominato da forze curde e protetto militarmente dagli USA, che anche grazie al sostegno logistico, militare e finanziario statunitense inizia a ricostruire la città distrutta. Tra le prime opere messe in cantiere c’è la ricostruzione della distrutta chiesa dei Martiri, anche con lo scopo dichiarato di manifestare la sollecita vicinanza del nuovo potere nei confronti dei cristiani, perseguitati e maltrattati sotto il regime jihadista dello Stato Islamico. A farsi carico della ricostruzione del luogo di culto armeno cattolico si fanno avanti i Free Burma Rangers, singolare organizzazione non governativa comparsa alla fine degli anni Novanta in Myanmar, come elemento di supporto ai gruppi di resistenza dell’etnia Karen contro le offensive dell’esercito birmano. Le attività dei Rangers sono ispirate dal loro fondatore, il pastore evangelico statunitense Dave Eubank, educato al Fuller Theological Seminary (considerato tra i più influenti istituti di formazione evangelici) e nel contempo ex Ufficiale delle forze speciali dell’esercito USA. Dopo aver trascorso diversi anni come missionario in Birmania, Eubank aveva avuto l’intuizione di sfruttare il suo mix di competenze militari e forti motivazioni idealiste per dar vita a un nuovo modello di intervento sugli scenari di conflitto. I Free Burma Rangers da lui istituiti operano sui fronti aperti di guerra come gruppi ausiliari di supporto umanitario, sanitario e mediatico a guerriglie, milizie e eserciti impegnati in battaglie contro forze e apparati identificati come incarnazioni dell’oppressione, del sopruso e della violenza.
Dopo il coinvolgimento sui fronti di scontro in Myanmar, le squadre dei Burma Rangers hanno operato anche a fianco dell’esercito iracheno nella battaglia per liberare Mosul dai miliziani di Daesh. Poi, a Raqqa, hanno offerto i loro servizi alle milizie curde che con l’appoggio USA hanno liberato la città dai jihadisti, con la cosiddetta “guerra di annichilimento”. I Rangers non partecipano direttamente alle offensive militari, ma per garantirsi l’auto-difesa si muovono armati sui fronti di guerra, perché – ha spiegato il fondatore in un’intervista – «non siamo dei pacifisti».
In Siria, dopo il 2017, l’impegno dei Burma Rangers si è concentrato anche verso i simboli della presenza cristiana, sfigurati negli anni di guerra. In coordinamento con il locale Consiglio civile, a guida curda, le squadre di Burma Rangers avviano a Raqqa il progetto di ricostruire la chiesa dei Martiri. Prima di avviare il cantiere, chiedono all’Arcidiocesi armeno-cattolica di Aleppo di poter avere le piante del luogo di culto, per poterlo ricostruire secondo il disegno e le planimetrie originali. Ma le richiesta cade di fatto nel vuoto. La chiesa viene ricostruita senza che dalla Chiesa armeno-cattolica giunga alcun segnale di consenso o di apprezzamento per l’iniziativa. I lavori procedono con lentezza anche a causa della pandemia, ma a novembre 2021 la chiesa appare pronta. All’esterno si distinguono rifiniture e dettagli più curati rispetto a quelli della chiesa di prima, ma non vengono ricostruite la casa del parroco e la scuola, i cui resti vengono demoliti e rimossi lasciando un ampio spazio vuoto. All’interno, non c’è l’altare, ma un ambone per la predicazione, in accordo con il modello prevalente nei luoghi di culto delle comunità evangeliche. Dopo l’inaugurazione, le poche decine di cristiani presenti a Raqqa vengono invitati a recarsi nella chiesa ricostruita. Ma il luogo di culto rimane vuoto anche nei giorni di Natale. Nessuna messa, nessun prete per celebrare e confessare. «Dicono che è la nostra chiesa, che l’hanno ricostruita per i cristiani di Raqqa» confida l’Arcivescovo Marayati «ma noi non ne sappiamo niente. L’iniziativa punta a lanciare un messaggio: ricostruiamo chiese, e difendiamo i cristiani. Ma noi non c’entriamo con operazioni di questo tipo». Il luogo di culto viene frequentato episodicamente solo da appartenenti a comunità evangeliche di recente formazione, che accolgono anche curdi convertiti dall’islam. Mentre tanti cristiani originari di Raqqa, fuggiti in Libano, in Turchia o in Occidente, hanno già deciso di non tornare più.
Nel caos politico lasciato in eredità dalla guerra, soprattutto nel nord-est siriano, anche la “protezione dei cristiani” diventa terreno di contesa e argomento di propaganda. Si presenta come protettore dei cristiani il sistema che fa capo al Presidente Bashar al Assad. Mentre i curdi indipendentisti che controllano buona parte della Siria del Nord-Est con l’appoggio USA puntano a accreditare quella regione come modello e prototipo di una Siria democratica, pluralista, tollerante e multietnica. Il loro antagonismo rispetto al regime di Damasco rende complicato l’invio di sacerdoti e religiosi nelle zone da loro controllate. Così, le comunità delle Chiese autoctone si assottigliano e si disperdono in diaspora ogni giorno di più, mentre sembrano aprirsi nuovi spazi per l’attivismo di gruppi evangelici e pentecostali, anche grazie a sponde e sostegni espliciti garantiti da forze politiche e militari operanti sul campo, come la dirigenza politico-militare dei curdi e la perdurante presenza militare USA schierata in loro appoggio sul territorio siriano.
Le squadre addestrate da Eubank e dai suoi collaboratori attribuiscono grande importanza alla registrazione e al rilancio mediatico delle loro imprese. Il film Rambo 4, quarta pellicola della saga del soldato-eroe interpretato da Sylvester Stallone, rappresentava i militari birmani nella parte degli “oppressori malvagi”. E gli spunti per la trama e la sceneggiatura del film furono tratti in gran parte dai report e dai filmati realizzati sul campo dalle squadre dei Free Burma Rangers.
Alcuni risvolti dell’operazione di ricostruzione della chiesa di Raqqa si possono avvertire meglio se si tiene conto del pensiero che guida il fondatore e la dirigenza dei Burma Rangers, spingendoli a giustificare con motivazioni religiose la loro azione sui fronti di guerra. «Una volta» ha raccontato lo stesso David Eubank in una intervista dell’ottobre 2020 «una tribù del Myanmar chiamata Wa venne in Thailandia a chiedere aiuto. Incontrarono i miei genitori, che erano missionari lì, e videro una mia foto con il mio berretto verde. Dissero: “Siamo guerrieri; se lui è un guerriero, e sta seguendo Gesù, per favore, mandatelo da noi…».
(GV) (Agenzia Fides 18/2/2022).

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Nagorno Karabakh, il patrimonio cristiano ancora a rischio? (AciStampa 17.02.22)

Nell’ultimo atto di quella che sembra una guerra combattuta prima di tutto sul piano culturale, Anar Karimov, ministro della Cultura dell’Azerbaijan, ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro per le aree riconquistate del Nagorno-Karabakh per “rimuovere le tracce fittizie di armeni su siti religiosi albaniani”. Dichiarazione che rilanciano la preoccupazione degli armeni per il patrimonio cristiano in Artsakh, il nome storico armeno del Nagorno Karabakh.

Per comprendere le dichiarazioni del ministro della cultura si deve fare un passo indietro. Il territorio del Nagorno Karabakh era stato assegnato all’Azerbaijan dall’Unione Sovietica, e si era poi proclamato indipendente al momento della dissoluzione dell’URSS, proclamando la sua identità armena. Nel corso del secolo scorso, è stata più volte denunciata la sistematica distruzione di patrimonio cristiano storico nel territorio, definito da alcuni studiosi come un genocidio culturale, come è stata denunciata anche la volontà azera di riscrivere la storia etnica del territorio esaltandone le radici albaniano-caucasiche.

Da parte azera, si lamenta invece che l’Armenia reclami una presenza che è solo successiva alla presenza degli albaniani, e viene denunciata la distruzione di moschee durante il periodo in cui il Nagorno Karabakh aveva mantenuto una autonomia, sebbene mai riconosciuto come Stato nemmeno dall’Armenia.

L’ultimo conflitto tra Azerbaijan e Armenia si è concluso con un doloroso accordo che ha portato la perdita di diversi territori da parte dell’amministrazione armena, dove tra l’altro c’erano storici monasteri la cui integrità è sorvegliata dalle truppe di pace russe. Gli azeri da una parte sottolineano di voler tutelare i cittadini armeni nel loro territorio, ma dall’altro alcuni gesti, come la visita del presidente Alyeev alla bombardata cattedrale di Shushi, avevano comunque suscitato preoccupazione.

Lo scorso 14 dicembre, la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato all’Azerbaijan di prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione contro l’eredità culturale armena in Nagorno Karabakh. Come potranno essere considerate, dunque, le ultime dichiarazioni del Ministro della Cultura azero?

Il gruppo di lavoro annunciato da Karimov dovrebbe prima esaminare i siti, e poi discutere se e cosa eventualmente rimuovere. Non si sa chi comporrà il gruppo, se non che saranno “esperti locali e internazionali”.

Le affermazioni di Karimov si riferiscono alla teoria secondo cui le antiche strutture nell’area dell’Azerbaigian e del Nagorno-Karabakh sono l’eredità dell’Albania caucasica, un antico regno che esisteva sul territorio dell’attuale Azerbaigian fino all’inizio del IX secolo. Secondo questa teoria, sviluppata dallo storico azerbaigiano Ziya Buniyatov negli anni ’50, le iscrizioni armene sulle chiese in Azerbaigian sono aggiunte successive e il risultato dell'”armenizzazione” sulla scia dell’emigrazione armena nell’area dell’inizio del XIX secolo. Questa teoria è respinta dalla maggior parte degli storici, ma propagata dagli storici nazionalisti azerbaigiani e dall’attuale governo azerbaigiano.
Durante una visita alla città di Hadrut nel Nagorno-Karabakh nel marzo 2021, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha dichiarato che gli armeni volevano armenizzare le chiese con le loro iscrizioni.

Riferendosi a una chiesa armena del XII secolo ad Hadrut, ha definito come “false” tutte le iscrizioni che si trovavano lì. Mentre Karimov ha affermato persino che il monastero armeno medievale di Dadivank è una delle “migliori testimonianze dell’antica civiltà albanese caucasica”.

Nel maggio 2021 le autorità azere hanno anche iniziato a ristrutturare la cattedrale di Shushi del XIX secolo, che era stata danneggiata durante la guerra, per riportarla alla sua presunta “forma originale”, vale a dire senza la cupola: secondo gli azeri, questa sarebbe stata aggiunta solo negli Anni Novanta, ma ci sono testimonianze che la cupola era in realtà presente prima del periodo sovietico.
La Chiesa apostolica armena ha condannato le azioni dell’Azerbaigian come un “atto antiumano e anti-civiltà”. Ha anche lamentato la continua “ostilità e odio” nei confronti dell’Armenia, del Nagorno-Karabakh e del popolo armeno, sottolineando che “l’identità armena dei santuari cristiani del Nagorno Karabakh è stata scientificamente provata”.

Più e più volte, il Catholicos Karekin II, capo della Chiesa apostolica armena, ha invitato la comunità internazionale ad agire. La parte armena fa sempre riferimento all’enclave azerbaigiana di Nakhichevan, dove negli ultimi anni migliaia di siti storici cristiani sono stati rasi al suolo. .
L’esperta dell’Armenia di Salisburgo Jasmin Dum-Tragut, che ora ha una posizione di consulente ufficiale presso la sede del Catholicossato a Etchmiadzin, ha avvertito più di un anno fa in un’intervista a Kathpress che l’Azerbaigian aveva iniziato da tempo a riscrivere i contenuti sul cristianesimo in Karabakh su Internet. Così “cristiani armeni” diventerebbero “albanesi caucasici”. I libri di scuola azerbaigiani forniscono anche informazioni errate o del tutto assenti sui cristiani in Azerbaigian e nel Karabakh. Ci sono anche esempi in cui l’Armenia viene chiamata “Azerbaigian occidentale”.

Ma le preoccupazioni internazionali hanno visto il ministero della Cultura azero rispondere con una stigmatizzazione delle notizie di “mass media stranieri di parte”, sottolineando che l’Azerbaijan ha sempre “trattato il suo patrimonio storico e culturale con rispetto, indipendentemente dalla sua origine religiosa ed etnica”.

Il Nagorno Karabakh fu cristianizzato nel IV secolo ed ebbe un ruolo importante nell’autonomia culturale degli armeni tra il X e il XIX secolo. Un catholicossato indipendente armeno fu fondato nella regione fu fondato già nel V secolo.

Prima della Prima Guerra Mondiale, il Karabakh, annesso all’impero zarista russo, aveva 222 chiese e monasteri. Con l’indottrinamento sovietico e ateo e la soppressione stalinista della cultura nazionale, la Chiesa armena perì nel 1930 e si risvegliò solo nel corso della prima guerra del Karabakh e della dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Nel 1991, la Repubblica Autonoma dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh) popolata da armeni all’interno dell’Azerbaigian si è dichiarata indipendente. La prima guerra del Karabakh che seguì durò fino al 1994 e si concluse con un cessate il fuoco. Le milizie dell’Artsakh riuscirono a preservare la maggior parte della piccola repubblica con la storica capitale Stepanakert e, in collaborazione con l’esercito armeno, presero anche il controllo di sette province azere tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, assicurando così il collegamento tra l’Artsakh e l’Armenia Repubblica.

Al 10 novembre 2020, la diocesi del Karabakh ha mantenuto più di 30 chiese e monasteri “funzionanti”. L’Ufficio dei monumenti della Repubblica del Karabakh ha elencato un totale di 4.403 monumenti culturali cristiani per la regione: da siti archeologici preistorici e antichi a chiese medievali, monasteri e fortezze a palazzi principeschi, innumerevoli croci di pietra e lapidi riccamente decorate.

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Armenia-Azerbaigian: per una narrazione lineare (Gente e Territorio 17.02.22)

Spett. redazione, abbiamo avuto modo di leggere lo scambio di interventi degli ultimi giorni riguardo la contrapposizione tra armeni e azeri.

Avendo i nostri canali di comunicazione denunciato le improvvide esternazioni della senatrice Papatheu che, senza alcuna cognizione di fatto, aveva lanciato un “appello a tutti i parlamentari italiani ed europei contro le provocazioni armene”, ci sentiamo in qualche modo parte in causa nella diatriba e ci permettiamo alcune considerazioni.

La senatrice in questione, nel suo slancio di simpatia per l’Azerbaigian – Paese che “Reporter senza frontiere” colloca al 168° posto su 180 nazioni per la libertà di informazione nel mondo (come dire che Aliyev sta giusto qualche gradino sopra il nordcoreano Kim Jong-un…) – aveva etichettato come “provocazioni armene” gli scontri tra reparti dei due eserciti. Senza alcuna verifica documentale, semplicemente rilanciando la tesi ufficiale del governo azero, trascurando la circostanza che gli scontri erano avvenuti alcuni chilometri dentro il territorio della repubblica di Armenia.

Non comprendiamo quindi per quale motivo il prof. Pommier Vincelli si sia sentito in dovere di giustificare la posizione della senatrice (“ella appartiene a un organismo parlamentare che ha nella sua mission contribuire a disinnescare le crisi internazionali”) il cui ruolo di parlamentare della repubblica italiana dovrebbe indurre piuttosto alla massima cautela quando si parla di relazioni estere.

Quanto alle sue valutazioni sulla storia del Caucaso meridionale ci sia concesso di suggerire la necessità di una narrazione che deve seguire sempre un ragionamento lineare evitando citazioni e omissioni dei fatti a seconda di una propria convenienza interpretativa.

Il dibattito storico è sempre utile e opportuno, ciascuno difendendo le proprie posizioni e i propri interessi in un chiaro posizionamento di campo; sicché davvero stona, in questa discussione,quella patente di aurea imparzialità (“il mio lavoro cerca di basarsi sulle evidenze scientifiche e non sul sostegno di una parte contro l’altra”) che il prof. Pommier Vincelli si autoriconosce e che cozza con il suo evidente sostegno alla causa dell’Azerbaigian e con certe affermazioni come quella sul genocidio degli armeni (“sofferenze del 1915”) che possono essere interpretate come un’offesa a un popolo che ha conosciuto pagine drammatiche della propria storia e che non merita, un secolo dopo, simili parole negazioniste.

La storia delle relazioni fra armeni e azeri nel Caucaso è molto complicata, sicuramente non può essere analizzata a senso unico. L’importante è farlo con obiettività e senza alcun recondito interesse che non sia il puro amore per la verità.

Consilgio per la comunità armena di Roma

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La Chiesa di Nardò-Gallipoli in festa per San Gregorio Armeno. Mons. Pezzuto in cattedrale (Portalecce 17.02.22)

Quest’anno sarà l’arcivescovo Luigi Pezzuto, già nunzio apostolico in Bosnia ed Erzegovina e Montenegro a presiedere la concelebrazione eucaristica nella solennità di San Gregorio Armeno, patrono della diocesi di Nardò-Gallipoli.

 

 

 

Ad accoglierlo nella basilica cattedrale di Nardò, sabato 19 febbraio alle 18,30, giorno della solennità diocesana, sarà il vescovo Fernando Filograna che concelebrerà con lui insieme con il presbiterio diocesano. La messa verrà trasmessa in diretta sul canale 601 del digitale terrestre e sul canale Youtube della diocesi neretina.

La comunità di Nardò si sta preparando con un solenne settenario ogni sera in cattedrale. Domenica 20 febbraio alle 17,15 – in memoria del terremoto del 20 febbraio 1743, quando la statua posta in Piazza Salandra resistette alle forti scosse e salvò la città dalla distruzione – la cerimonia dei 100 tocchi, quest’anno sostituita con uno spettacolo pirotecnico di cento colpi secchi

Nardò è l’unica città italiana che ha scelto San Gregorio Armeno come protettore principale

Le reliquie del santo vennero portate inizialmente nel villaggio armeno di Tharotan, ma in seguito si sparsero in varie località, la sua mano destra si troverebbe a Etchmiadzin e con essa viene benedetto ogni nuovo Katholikos, quella sinistra a Sis. Il cranio si trova a Napoli nella chiesa di San Gregorio Armeno, trasportato da Costantinopoli per sottrarlo alla furia iconoclasta. Nella cattedrale di Nardò è custodito un pregevole busto argenteo, di fattura napoletana e un’insigne reliquia dell’avambraccio del santo, donata dall’allora arcivescovo di Napoli Card. Corrado Ursi, già vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli dopo che la reliquia, con il suo contenitore, fu trafugata la notte del 5 marzo 1975, dalla chiesa di San Domenico dove era temporaneamente custodita a causa dei lavori di restauro della cattedrale.

 

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Cardinale Agagianian, la Chiesa armeno-cattolica avvia le procedure per la canonizzazione (AciStampa 16.02.22)

Il Sinodo della Chiesa armeno-cattolica riunitosi a Roma nei giorni scorsi, dopo la concessione della comunione ecclesiastica da parte del Papa al  nuovo Patriarca Raphaël Bedros XXI Minassian, ha deciso di procedere all’avvio formale della causa di canonizzazione del Cardinale Krikor Bedros Agagianian.

La Chiesa armeno-cattolica provvederà alla raccolta del materiale utile in linea con le disposizioni previste dalla Congregazione per le Cause dei Santi.

Il Cardinale Agagianian, nato a Akhaltsikhe il 18 settembre 1895, fu ordinato sacerdote il 23 dicembre 1917.

Vescovo dal 1935, nel 1937 divenne patriarca di Cilicia degli Armeni e venne creato Cardinale nel 1946 da Pio XII.

Nel 1960 Giovanni XXIII lo ha nominato Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide.

Mantenne l’incarico fino al 1970 quando  Paolo VI lo ha promosso Cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Albano.

E’ morto a Roma il 16 maggio 1971.

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Jerevan: l’ambasciatore Di Riso accompagna il ministro armeno Sanosyan alla mostra “Tracce” di Patrizia Posillipo (Aise 16.02.22)

JEREVAN\ aise\ – Nella giornata di ieri, 15 febbraio, il ministro dell’Amministrazione Territoriale e delle Infrastrutture della Repubblica di Armenia, Gnel Sanosyan, accompagnato dall’ambasciatore d’Italia, Alfonso Di Riso, e dalla direttrice del Museo, Nune Avetisyan, si è recato in visita della mostra “Tracce”, inaugurata il 20 gennaio scorso presso il Museo di Arte Moderna di Jerevan.
La mostra fotografica di Patrizia Posillipo, curata da Isabella Indolfi e organizzata dall’Ambasciata d’Italia in Armenia, rimarrà a Jerevan fino al 20 febbraio 2022.
Al termine della visita alla mostra, il ministro Sanosyan e l’ambasciatore Di Riso, accompagnati dalla direttrice Avetisyan, hanno visitato anche le sale di esposizione permanente del Museo di Arte Moderna. (aise)

Si acuisce la crisi politica armena (Asianews 15.02.22)

Dimissioni del presidente Sarkisyan lasciano il campo libero al premier Pašinyan. Il primo ministro sotto accusa per essere troppo cedevole nei confronti di Azerbaigian e Turchia. I timori di una deriva autoritaria a Erevan.

Mosca (AsiaNews) – Le dimissioni a fine gennaio del presidente Armen Sarkisyan hanno ulteriormente acuito gli scontri politici nella giovane democrazia armena. L’ex capo dello Stato ha spiegato nei giorni scorsi di essersi dimesso per “carenza di poteri” attribuiti al suo ruolo, e si è trasferito sulle isole caraibiche di Saint Kitts and Nevis, dove si è scoperto fosse già in possesso di una terza cittadinanza, oltre a quella britannica che era già nota.

Sulla Novaja Gazeta l’ex ambasciatore armeno in Russia, ora politologo, Stepan Grigoryan sostiene che “in certi Paesi come il nostro, oltre agli accordi scritti, sono molto importanti quelli verbali, come avvenuto nel passaggio di presidenza tra Serž Sargsyan e Armen Sarkisyan, a cui era stato promesso che da presidente si sarebbe occupato di attirare investimenti in Armenia, e avrebbe avuto un ruolo importante nella politica estera”.

Sarkisyan era stato eletto nel 2018, e in questi anni ha dovuto trovare un modo di collaborare con il premier Nikol Pašinyan, protagonista della “rivoluzione di velluto” e poi della sconfitta con l’Azerbaigian nel Nagorno Karabakh, quindi confermato alle elezioni anticipate del 2021. Il governo di Pašinyan ha bloccato tutte le iniziative del presidente, usando la legittimazione popolare di cui ancora gode nonostante le molte contraddizioni. Grigoryan avverte però che “anche a un governo rivoluzionario serve un controllo da parte degli altri poteri dello Stato”.

L’amministrazione Pašinyan è fortemente criticata, tra le altre cose per le scarse competenze dei suoi componenti, scelti dalla “società civile”, che non sembrano in grado di affrontare le sfide tremende di questi anni. “Ho parlato con un membro importante del partito al governo”, spiega Grigoryan, “e mi ha detto: se l’Azerbaigian ha 1.000 carri armati, la Turchia 10mila e noi solo 300, siamo costretti a fare quello che vogliono loro. Io gli ho risposto che il Lussemburgo non ne ha neanche uno, ma vive in pace tra Francia e Germania”.

Dopo la conferma di Pašinyan, il presidente dimissionario non ha avuto la forza di continuare il confronto, e si è unito alle critiche distruttive delle opposizioni, insieme alla Chiesa armena, all’università di Erevan e all’Accademia delle Scienze. Proprio la rigidità dell’élite intellettuale, culturale e politica ha ulteriormente rafforzato il consenso popolare al primo ministro, di cui si chiedevano soltanto le dimissioni, senza proporre alternative e compromessi.

Sarkisyan ha inviato la lettera di dimissioni da Londra, prima di volare nei Caraibi, e questo atteggiamento sprezzante ha attirato ancora più il malumore nella popolazione. Pašinyan ha avuto buon gioco a esasperare l’ex presidente dopo la sconfitta bellica del 2020, quando è apparso chiaro che intendeva liberarsi di lui, ciò che non avrebbe potuto fare per vie parlamentari dove sarebbe servito il 75% dei consensi (ora controlla comunque il 67%).

Secondo Grigoryan e diversi altri commentatori, la crisi si è acuita poiché Pašinyan è in procinto di concludere nuovi accordi sul Nagorno Karabakh cedendo su molti punti, pur di chiudere i contenziosi con azeri e turchi. Soprattutto pare inevitabile il riconoscimento del Karabakh come parte dell’Azerbaigian, “visto che ormai tutto il mondo lo riconosce”, come ha recentemente affermato lo stesso premier armeno, cosa che invece l’opposizione e l’alta società armena non è disposta ad accettare.

Con la Turchia il capo del governo sarebbe disposto a non insistere più sulla denuncia del genocidio dell’inizio del ‘900, sostenendo che “di questo se ne deve occupare la diaspora armena, più che le istituzioni nazionali”. Verrebbero aperti gli accessi stradali verso Nakhičevan, permettendo quindi alla Turchia di comunicare direttamente con l’Azerbaigian. Infine, Pašinyan potrebbe cercare di sostituire Sarkisyan con una persona a lui fedele, compiendo un “corto circuito” democratico simile a quelli che lui denunciava ai tempi della “rivoluzione di velluto”. In questo modo, conclude Grigoryan, “anche lui si trasformerebbe in una specie di autocrate, e non credo che godrebbe ancora a lungo del consenso attuale”.

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Armenia e Turchia: Riavvicinamento tra pugnalate e compromessi (L’Opinione delle libertà 14.02.22)

Dopo quasi un anno e mezzo dalla “crisi caucasica” in Nagorno-KarabakhArmenia e Turchia il 2 febbraio hanno ristabilito i voli commerciali tra Yerevan, capitale armena e Istanbul. Intanto, continuano i fragili colloqui incentrati sull’ipotesi di riaprire il loro comune confine terrestre, sbarrato dal 1992. Già a settembre 2021, a un anno esatto dall’inizio della seconda guerra del Nagorno-Karabakh, il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan e il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, fecero capire che un “colloquio” sarebbe stato possibile. Ricordo che nello scontro tra armeni ed azeri, durato un mese e mezzo, ebbe ragione l’Azerbaigian ma solo grazie alla Turchia, che supportò le forze azere impiegando i propri mercenari, ex jihadisti siriani filo-turchi e i droni Bayraktar 2 prodotti dalla società di cui uno dei proprietari è Selçuk Bayraktar, genero di Erdogan. L’Azerbaigian senza la Turchia avrebbe perso nuovamente. Ciononostante, la vittoria dell’Azerbaigian, o meglio di Erdogan, non portò i guadagni geopolitici sperati dalla Turchia, che non fu invitata ai negoziati i quali, sotto l’egida del presidente russo Vladimir Putin, condussero al cessate il fuoco del 9 novembre 2020.

In questo momento non è semplice, per le autorità armene, percorrere la strada della normalizzazione dei rapporti con uno Stato, la Turchia, che con Baku, capitale dell’Azerbaigian, aveva previsto nel suo progetto pan-turkista un piano di annessione della Repubblica del Nagorno-Karabakh (comunità armena) all’Arzerbaigian. Tuttavia, qualcosa nei rapporti diplomatici si è mosso. Infatti, un primo segnale di un riavvicinamento armeno-turco si è avuto a fine gennaio 2022, quando la Turkish Airlines nelle rotte commerciali per Baku è stata autorizzata a sorvolare il territorio armeno. Un passo importante, visti gli atavici e pesanti “debiti” gravanti tra le due nazioni. Comunque, dopo decenni di ostilità, Turchia e Armenia stanno gradualmente normalizzando le loro relazioni. A oggi i risultati più significativi si scorgono in una riapertura degli incontri tra i rispettivi corpi diplomatici, con la revoca dell’embargo armeno sui prodotti turchi, e ora sulla ripresa dei voli commerciali tra Istanbul e Yerevan. Così, dal 2 febbraio, la compagnia FlyOne e la compagnia privata turca Pegasus forniscono tre collegamenti settimanali ciascuna tra Turchia e Armenia, facilitando la mobilità degli armeni, circa sessantamila, di cui millecinquecento con doppio passaporto, turco e armeno, e di numerosi armeni che si sono trasferiti a Istanbul per cercare lavoro. Prima di questi collegamenti, il viaggio tra Armenia e Turchia era lungo e oneroso, dovendo attraversare la Georgia o Iran.

Gli incontri che hanno creato questo riavvicinamento sono iniziati a gennaio sotto la determinante egida di Mosca, dove si sono celebrati i primi colloqui utili tra Armenia e Turchia. Questo processo di normalizzazione procede lentamente e senza “precondizioni”. Ciò significa che il complesso tema del Genocidio degli armeni non compare nell’agenda dei dibattiti. Nel vertice di Mosca, Turchia e Armenia hanno avviato colloqui definiti “costruttivi”, condividendo che, anche in assenza di una riconciliazione, è necessaria l’instaurazione di relazioni, di buon vicinato, concretizzate con l’apertura di relazioni diplomatiche e il programma di riaprire il comune confine terrestre.

Già nel 2009 Yerevan e Ankara avevano concluso accordi per la riapertura del confine, ma non sono mai stati ratificati. Se ora l’Armenia e la Turchia riusciranno ad accordarsi per riaprire e ripristinare i canali di comunicazione caduti in disuso in conseguenza del primo conflitto del Nagorno-Karabakh negli anni Novanta, le popolazioni – che vivono in quest’area di confine comune – potrebbero trarre forti benefici, dato che attualmente questo territorio si presenta come un vicolo cieco dove dominano rancori etnici povertà. Ricordo, brevemente, che il genocidio del popolo armeno avvenne in due fasi: la prima, che potremmo definire propedeutica, tra il 1890 ed il 1896, dove l’antica comunità cristiana degli armeni iniziò a subire una prima forte oppressione da parte ottomana, e la seconda iniziata il 23-24 aprile 1915 con l’arresto, a Costantinopoli, di quasi 3mila armeni. Fu decapitato il motore economico e culturale della comunità e segnò l’inizio del “genocidio”. Questa “pulizia etnica” conta, nel secondo massacro, 2,5 milioni di morti, fonti armene, contro le fonti turche, quelle non negazioniste, che sbarrano il numero delle vittime a duecentomila. Ma oltre i “numeri” l’anima degli armeni è minata profondamente dalla drammatica storia, considerando che il genocidio non è riconosciuto dal modesto erede dell’Impero ottomano, la Turchia.

Tuttavia, se una normalizzazione vera delle relazioni tra Armenia e Turchia non si dovesse concretizzare, sarebbe una “anomalia strategica” in quanto, al momento, alternative più fruttuose pare non esistano a meno di una deflagrazione globale che mischierebbe globalmente le carte.

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Presentazione del libro sulle pitture murali del monastero di Dadivank (Amicodelpopolo 14.02.22)

L’appuntamento, con la presenza di Antonia Arslan, famosa scrittrice di origine armena, si terrà sabato 19 febbraio, alle ore 16 a Belluno, nel Salone di Palazzo Fulcis.

Sabato 19 febbraio, alle ore 16, nel Salone nobile di Palazzo Fulcis, a Belluno, Antonia Arslan presenterà il libro «Dadivank – La conservazione e il restauro delle pitture murali datate 1297 nella chiesa Kathoghike costruita nel 1214», dell’architetto Arà Zarian e della restauratrice Christine Lamoureux.

«Quando penso al monastero di Dadivank, che ho avuto la fortuna di visitare, fermandomi abbastanza per percepirne con tutta me stessa l’incredibile atmosfera e la forza spirituale – scrive Antonia Arslan, famosa scrittrice di origine armena, nell’introduzione del libro che verrà presentato sabato – mi vengono subito in mente i bellissimi angeli quasi disincarnati che sono riapparsi dopo la pulitura sul muro nord, nella parte superiore della pittura murale che rappresenta il martirio di Santo Stefano Protomartire. Sono tornati alla luce – per la nostra conoscenza, la nostra gioia e il nostro incanto – grazie alla dedizione senza limiti di Arà e Christine, silenziosi e generosi scopritori di un mondo sepolto attraverso la fatica di un lavoro lungo, minuzioso, accurato e competente: i miti angeli della pittura medievale armena».

Oltre a quello della Arslan, alla presentazione di sabato sono previsti gli interventi degli autori, dell’assessore alla cultura del Comune di Belluno, Marco Perale, e del Conservatore dei Musei civici, Carlo Cavalli.
L’ingresso all’evento è libero fino a esaurimento dei posti. Per la partecipazione è necessaria la presentazione del green pass rafforzato e l’uso della mascherina Ffp2.
Per informazioni: Museo di Palazzo Fulcis: 0437 956305.

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