Analisi. Genocidio, sì o no? La diatriba e il rischio di non riconoscere il male (Avvenire 02.08.25)

Dopo il confronto tra Grossman e Segre, andiamo alle origini di una parola che, coniata nel 1944 dal polacco Rafael Lemkin, continua a far discutere. Il rischio è sempre la propaganda
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«Mi sono sempre opposta e continuo a oppormi a un uso del termine genocidio che non ha nulla di analitico, ma ha molto di vendicativo». Lo spiega sulle pagine di Repubblica la senatrice a vita Liliana Segre commentando le parole dello scrittore israeliano David Grossman, che pensa invece che si possa usare il termine genocidio per descrivere ciò che accade a Gaza. Per Segre invece questo termine «è uno scrollarsi di dosso la responsabilità storica dell’Europa, inventando una sorta di contrappasso senza senso, un ribaltare sulle vittime del nazismo le colpe dell’Israele di oggi dipinto come nuovo nazismo», prosegue. Ma cosa dice il diritto internazionale? E quando si può parlare di genocidio? Lo spiega qui Rosario Aitala, giurista e magistrato italiano, giudice della Corte penale internazionale dal 2018.

Il diritto internazionale, ha scritto Natalino Irti, si leva al tramonto, quando la giornata è conclusa o prossima a concludersi, intendendo dire che non anticipa ma segue le mutevoli vicende della storia. Nel fluire del tempo c’è però sempre un prima e un dopo. Il diritto che pigramente viene alla luce per sanzionare politicamente e moralmente persecuzioni e stermini già consumati, serve principalmente per prevenire e per punire atrocità future. Nel 1944, quando Rafael Lemkin coniò il neologismo genocidio associando al lemma greco génos, «genere», «stirpe», il suffissoide latino -cidium da caedere, «uccidere», le disumanità che intendeva stigmatizzare erano state già perpetrate. I nazisti avevano sterminato ebrei e romanì, gli ottomani gli armeni, i tedeschi gli herero e i nama, i coloni i popoli amazzonici, e via via fino all’inizio dei tempi.

Cresciuto in una regione della Polonia orientale a forte presenza ebraica, testimone di violenze antisemite, Lemkin si era indirizzato alle discipline giuridiche dopo avere assistito nel 1921 al processo a Berlino a un giovane armeno sfuggito allo sterminio della sua famiglia che aveva assassinato a revolverate il capo del triumvirato ottomano Talat pascià. Questi era stato condannato a morte in contumacia dalla Corte marziale straordinaria di Istanbul quale principale responsabile del massacro degli armeni, ma passeggiava libero e sereno. L’imputato fu assolto in considerazione del turbamento mentale derivante dalle angosciose memorie di deportazioni e stermini. Vent’anni più tardi Lemkin rifletteva sul destino degli armeni, sull’annientamento degli ebrei e l’imperativo di proibire nel diritto internazionale quei fenomeni che inizialmente definì barbarism, barbarie, poi genocidio: condotte sistematiche di persecuzione e distruzione fisica, biologica, politica, sociale, culturale, economica, religiosa e morale di collettività nazionali, religiose ed etniche sorrette dall’intento di annientarle. Il termine non entrò se non en passant nel processo di Norimberga, ma condusse alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio del 1948, che elenca le condotte. Omicidio, lesioni fisiche e mentali, misure per prevenire la procreazione, trasferimento forzato di bambini, inflizione di misure di «morte lenta» – condizioni esistenziali tali da condurre alla distruzione, come deportazioni, privazioni di cibo, acqua, cure mediche e abiti idonei e imposizione di lavori forzati. Gli atti sono tutti accomunati dall’intento di distruggere il gruppo, che i giudici desumono da dichiarazioni degli oppressori e modalità oggettive dei fatti.

Di genocidio non si parlò quasi più fino ai primi anni Sessanta, quando il tenente colonnello delle SS Otto Adolf Eichmann, uno degli organizzatori della «soluzione finale», fu processato a Gerusalemme e impiccato per «crimini contro il popolo ebraico», delitto creato allo scopo sul modello del genocidio. Le commemorazioni dell’eccidio degli armeni e azioni terroristiche su obiettivi turchi amplificarono l’interesse pubblico sul termine e sul fenomeno. Iniziarono controversie politiche e dottrinali, mai sopite.

In diritto internazionale non esiste una netta gerarchia di gravità fra genocidio, crimini contro l’umanità, di cui è una specie, e crimini di guerra. Le condotte materiali sono sovrapponibili. Eppure c’è un carattere che segna l’eccezionale disvalore del genocidio. Persino il più empio dei delinquenti, l’omicida, implicitamente riconosce l’umanità della vittima prima di sottrarle ingiustamente la vita. Il genocida invece nega in radice lo stesso diritto dei membri del gruppo di esistere e la loro dignità umana, considerandoli esseri subumani da sopprimere. Il razzismo, l’arbitraria attribuzione di diverso valore alle persone in base a caratteri fisici o culturali, veri o presunti, è sempre premessa del genocidio.

Lemkin si incentrò particolarmente sulla mostruosa e meticolosa sistematicità del programma nazista di annichilimento degli ebrei, di cui furono vittime anche 49 suoi familiari, ma si batté anche contro altre atrocità che qualificava genocidi, fra cui il massacro degli armeni e la morte per fame di milioni di contadini ucraini causata dalle politiche staliniane. La Convenzione si propone di «liberare l’umanità dal flagello del genocidio»: tutti i genocidi. Come ogni norma giuridica, parte da un’esperienza trascorsa e dispone per l’avvenire. Altrettanto dovrebbe fare la morale: guardare indietro per andare avanti. La Convenzione non è rimasta muta su eventi successivi che in diversi fori sono stati ricondotti a quel modello di atrocità di massa: lo sterminio delle minoranze e dei dissidenti dai Khmer rossi cambogiani, dei curdi in Iraq, dei tutsi dagli hutu in Ruanda, dei musulmani dai serbo-bosniaci, degli yazidi dallo Stato Islamico, dei rohingya dalla giunta birmana – elencazione esemplificativa.

Bisogna guardarsi anche dal pericolo opposto, dilatare smodatamente il lemma sminuendone gravità e specificità. Se tutto è genocidio, niente è genocidio. Simili contorsioni coinvolgono altre unità lessicali. L’espressione pulizia etnica emerse negli anni Novanta durante le guerre jugoslave per indicare uno strumento di trasformazione sociale violenta attraverso la rimozione di intere collettività e di minoranze da certi territori, come se fossero pattume, per lasciare spazio alla supremazia e pura identità dei carnefici. La locuzione oggi designa programmi di eliminazione e di allontanamento forzato di popolazioni identificate su base etnica, religiosa o razzista, attraverso stermini, omicidi, stupri, saccheggi, distruzioni, deportazioni, evacuazioni, espulsioni, sfollamenti e coercizioni di qualsiasi natura, anche mediante deliberata distruzione di abitazioni e infrastrutture necessarie alla vita umana alimentari, sanitarie, scolastiche, stradali, elettriche, idriche, fognarie, o per mezzo della procurata indisponibilità o insufficiente accesso a cibo, acqua, farmaci, aiuti umanitari e altri beni essenziali. Quando i giudici del tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia giudicarono degli eccidi e deportazioni dei musulmani a Srebrenica, nei diversi processi qualificarono le atrocità alternativamente o cumulativamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Nessuno si sognò di dire: «Non è genocidio, è solo sterminio, deportazione, tortura, stupro..».

Versare sangue innocente e praticare il male è vietato e disumano. Solo questo conta. Si rigetti la propaganda che manipola le parole per coprire le cose. Si lasci a giudici e storici il compito di interpretare gli eventi imparzialmente e nei giusti tempi, secondo categorie, norme e prove. Non si illudano i carnefici, in ogni angolo del mondo. Possono forse sfuggire ai tribunali degli uomini, non sottrarsi a quello della Storia. Non smarriscano i vinti la speranza. La ruota gira. Per tutti, trionfatori e sconfitti, vale una lezione vecchia di tre millenni: «Non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra… perché il tempo e il caso raggiungono tutti». Ecclesiaste, 9, 11.

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In Armenia il Concours Mondial de Bruxelles 2026 (Gist 02.08.25)

C’ è sempre una prima volta e, a questo giro, l’Armenia ospiterà la XXXIII edizione del rinomato Concours Mondial de Bruxelles (CMB), in programma a Yerevan dal 21 al 23 maggio 2026, dedicato alla sessione dei vini rossi e bianchi.

Il Concours Mondial de Bruxelles

È un prestigioso concorso enologico internazionale, istituito nel 1994, articolato in Sessioni e Selezioni. Valuta ogni anno oltre 15.000 campioni grazie a una giuria composta esclusivamente da degustatori professionisti, garantendo un processo di assaggio alla cieca focalizzato unicamente sulla qualità. La competizione è riconosciuta a livello mondiale per i suoi rigorosi standard e per l’impegno nell’individuare i migliori vini del mondo.

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Piana dell’Ararat con il monte e monastero Khor Virap

È questo un evento enologico di portata planetaria che riunirà oltre 370 degustatori professionisti provenienti da 50 paesi che offrirà l’opportunità di assaggiare e valutare circa 7.500 vini da tutto il mondo.
La scelta dell’Armenia come paese ospitante riflette la crescente reputazione internazionale del suo settore vitivinicolo nazionale.

L’Armenia vanta una delle più antiche tradizioni vinicole al mondo: nella grotta di Areni-1, situata nella regione di Vayots Dzor, gli archeologi hanno scoperto i resti della più antica cantina conosciuta, risalente a oltre 6.100 anni fa.

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Questo primato storico si intreccia oggi con una nuova era di rinascita produttiva, alimentata da investimenti, tecnologie moderne e riscoperta dei vitigni autoctoni. Le cantine armene—molte delle quali fondate nell’ultimo decennio—si stanno facendo notare per la qualità dei loro vini, spesso ottenuti da uve locali coltivate ad alta quota.

Il turismo del vino in Armenia è in rapida espansione

Numerose cantine—soprattutto nelle regioni di Vayots Dzor, Armavir, Aragatsotn e Tavush—sono oggi attrezzate per accogliere visitatori internazionali con degustazioni guidate, tour nei vigneti, esperienze gastronomiche e strutture ricettive di charme immerse tra i filari. L’interesse dall’estero è ulteriormente rafforzato da eventi come gli Yerevan Wine Days e l’Areni Wine Festival, così come dalla crescente partecipazione dell’Armenia alle principali fiere vinicole internazionali.

Oggi, il Paese si sta affermando come una meta imperdibile per chi è in cerca di autenticità, gusto e cultura.

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La viticoltura armena si distingue per la ricchezza dei suoi vitigni autoctoni, molti dei quali coltivati esclusivamente all’interno del Paese. Tra i più noti c’è il Sev Areni, uva rossa simbolo dell’Armenia, che dà origine a vini eleganti, dai sentori fruttati e speziati, spesso affinati in anfore o botti di rovere. Altri vitigni rossi autoctoni includono Haghtanak, Sireni e Karmrahyut, mentre tra i bianchi spiccano il Kangun e il Voskehat, quest’ultimo spesso definito “la regina delle uve armene”.

Le vigne sono generalmente coltivate tra i 900 e i 1.800 metri di altitudine, conferendo ai vini freschezza naturale e un forte legame con il territorio. Accanto ai vitigni tradizionali, si fanno strada anche blend innovativi e spumanti metodo classico, a conferma di un settore dinamico e orientato alla qualità.

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Il vino: priorità strategica per l’Armenia

Il Ministero dell’Economia della Repubblica d’Armenia ha recentemente dichiarato il comparto vinicolo una priorità strategica per lo sviluppo economico e turistico del Paese.
Esiste per tutelare questo patrimonio nazionale la Vine and Wine Foundation of Armenia  Ospitare il Concours Mondial de Bruxelles nel 2026 rappresenta una tappa simbolica e concreta di questo percorso: un’occasione per valorizzare i produttori locali, rafforzare il profilo internazionale dei vini armeni e posizionare l’Armenia come destinazione d’eccellenza per il turismo del vino.

Armenia: amb. Ferranti ospite di ICC Camera di Commercio Internazionale (Giornale Diplomatico 02.08.25)

GD – Jerevan, 2 ago. 25 – La Camera di Commercio Internazionale dell’Armenia-ICC Armenia ha ospitato Alessandro Ferranti, ambasciatore d’Italia nel Paese, insieme ad una delegazione della sede diplomatica. L’incontro ha rappresentato un momento significativo per il rafforzamento delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, con particolare attenzione alle opportunità di crescita economica e culturale che potrebbero emergere da una cooperazione più strutturata e sistematica.
La riunione si è concentrata sul consolidamento della cooperazione bilaterale in settori strategici di comune interesse, con particolare attenzione al commercio internazionale, dove esistono margini considerevoli per l’espansione degli scambi commerciali tra Armenia e Italia. Gli investimenti reciproci sono stati identificati come una priorità, con potenzialità ancora largamente inesplorate in diversi settori industriali e tecnologici che potrebbero beneficiare di sinergie transnazionali. Il turismo è emerso come un settore chiave per il rafforzamento dei legami tra i due Paesi, considerando che l’Armenia, con il suo ricco patrimonio storico e culturale, rappresenta una destinazione di crescente interesse per i visitatori italiani, mentre l’Italia continua a essere una meta privilegiata per i cittadini armeni. La valorizzazione del patrimonio culturale è stata discussa come elemento fondamentale per promuovere una maggiore comprensione reciproca e creare opportunità di sviluppo sostenibile che possano giovare a entrambe le nazioni.
Entrambe le parti hanno sottolineato l’importanza strategica dei voli diretti esistenti tra Armenia e Italia, riconoscendo che questi collegamenti rappresentano un fattore cruciale per la crescita del turismo e per un maggiore coinvolgimento delle imprese dei due Paesi. Particolare attenzione è stata dedicata ai recenti sviluppi nel settore del trasporto aereo, con l’avvio delle nuove rotte Wizz Air che collegano l’Armenia con Napoli dal 15 ottobre e con Bari dal 26 ottobre.

L’accessibilità tra i due Paesi ha già mostrato risultati positivi nell’incremento dei flussi turistici e nella facilitazione di missioni commerciali, aprendo nuove prospettive per settori diversificati come l’agricoltura, la tecnologia, l’artigianato di qualità e i servizi specializzati.
L’incontro ha evidenziato come le due economie possiedano caratteristiche complementari che potrebbero essere sfruttate per creare valore aggiunto attraverso partnership strategiche, joint venture e progetti di cooperazione internazionale che favoriscano lo scambio di competenze e risorse.
Tra le idee più innovative presentate durante l’incontro spicca la potenziale formazione di una Task Force Armenia-Italia sotto l’egida di ICC Armenia, un’iniziativa che mira a facilitare il dialogo costruttivo e promuovere iniziative congiunte future tra i due Paesi. La Task Force fungerebbe da ponte istituzionale per identificare e sviluppare opportunità di business concrete, coordinare missioni commerciali e eventi di networking, facilitare lo scambio di best practices tra le imprese, promuovere la conoscenza reciproca dei mercati e delle normative, e sostenere l’innovazione e il trasferimento tecnologico attraverso meccanismi di collaborazione strutturata.

Castiglione del Lago: la cultura del folklore torna dal 10 al 15 agosto (Centritalianews 31.07.25)

nternazionale del Folklore di Castiglione del Lago dal 1978 si propone come occasione d’incontro, di confronto e di scambio culturale tra gruppi folkloristici di tutto il mondo allo scopo di promuovere la conoscenza delle tradizioni, sviluppare l’amicizia tra i popoli e operare assieme a favore della pace e della fratellanza, mantenendo e valorizzando le ricchezze immateriali di ogni popolo. Per il “Gruppo Folkloristico Agilla e Trasimeno” è stata una missione perfettamente riuscita, a detta di tutti, in questi 47 anni di spettacoli che hanno portato sulle rive del lago la musica e le tradizioni da ogni parte del mondo. Introduce la XLVI edizione della RIF il presidente storico di Agilla e Trasimeno Giancarlo Carini. «La RIF ha un forte valore culturale in quanto rappresenta un momento significativo di incontro, scambio e conservazione delle tradizioni popolari di diverse comunità del mondo. La nostra rassegna contribuisce alla preservazione del patrimonio immateriale (danze, canti e musiche) che rischierebbe altrimenti di scomparire. In più il suo carattere internazionale permette l’incontro tra gruppi proveniente da diversi Paesi, favorisce la conoscenza reciproca, educa alla tolleranza e al rispetto delle differenze culturali attraverso il contatto umano. La rassegna diventa quindi un luogo dove la diversità è vista come ricchezza, e non come ostacolo. Eventi di questo tipo hanno un valore educativo specialmente per le nuove generazioni: avvicinano i giovani alla storia e antropologia delle culture, favoriscono una formazione civica basata sull’inclusione e il rispetto, stimolano la curiosità verso il mondo». Ma la Rassegna del Folklore è molto di più di uno spettacolo: da quasi 50 anni ha anche un ruolo importante nella promozione del territorio portando al Trasimeno tanto pubblico eterogeneo che può vedere sul palco culture vive e vitali; la RIF è un ponte tra culture, un custode della memoria collettiva e uno strumento potente di educazione e coesione sociale. Nell’edizione 2025 si celebra l’incontro tra culture, musiche e tradizioni di tre Paesi ricchi di storia e identità: Italia, Ucraina e Armenia. «Proprio in questi anni segnati da sanguinosi conflitti bellici – afferma Carini – abbiamo bisogno più che mai di occasioni che uniscano, che facciano riscoprire la bellezza dell’incontro, del dialogo e della condivisione. E quale linguaggio è migliore di quello del folklore per raccontare ciò che siamo?». In questa edizione prosegue il gemellaggio all’interno dei paesi membri dell’associazione “I Borghi più belli d’Italia”: è la volta di Castiglione del Lago e Spello che insieme danno ancora più forza al valore culturale e ambientale dell’iniziativa: un modo per unire tradizioni, paesaggi e comunità in una unica narrazione di bellezza e appartenenza, valorizzando anche i territori, il paesaggio e l’identità profonda dei luoghi.

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Giubileo dei giovani: la parola ai giovani dei paesi in guerra (Rondine), “la pace è un cammino difficile . Si costruisce passo dopo passo” (AgenSir 30.07.25)

“La pace è un cammino difficile fatto di incontri sinceri. Si costruisce passo dopo passo. Ci si lavora quando riesci a metterti in ascolto dell’altro senza paura, senza preconcetti, senza giudicare”. È la voce timida di  Ofelya, 25 anni, armena, a parlare. È stata invitata insieme a Bernadette, 25 anni, del Mali a dare la loro testimonianza questa mattina ai 1.000 giovani italiani nella prima catechesi del Giubileo. Entrambe stanno vivendo un periodo di esperienza a Rondine Cittadella della Pace.

Siamo nella parrocchia romana di Ognissanti sulla via Appia Nuova e qui oggi si è parlato della parola “abbraccio” e soprattutto di pace. Ofelya ha ancora negli occhi e nel cuore la grande guerra scoppiata nel settembre del  2020 tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Lei si trovava lì, lungo la linea di confine. “Ho perso amici e parenti”, ha raccontato. “Persone con cui sognavamo un futuro ma la guerra ci ha portato via tutto anche i sogni e i piani futuri. Tante domande – prosegue Ofelya – rimangono ancora oggi senza risposta. Fino a quando? Fino a quando ci saranno persone obbligate a vivere sotto il peso di una guerra? Quante promesse di vite saranno ancora spezzate? Quanti sogni interrotti? E arrivato il momento del cambiamento. È arrivato il tempo di mettere in pratica quello che mi aveva detto una mia insegnante a scuola, ‘sono i piccoli passi a cambiare le grandi cose’”.

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Ha poi preso la parola Bernadette, 24 anni, del Mali. Altro continente, stessa esperienza. “Sono nata nella capitale del Mali ma sono cresciuta nella paura”, esordisce la ragazza. Aveva 11 anni e stava andando a scuola quando improvvisamente viene fermata dagli spari. “Sento il cuore battere fortissimo ed esplodere di paura”, racconta. “Fu quello il momento in cui qualcosa si è spezzato per sempre. La mia infanzia era finita. Le risate si sono trasformate in grida di dolore. La luce in buio. Ma la cosa peggiore non è il rumore delle armi. È il silenzio. Il silenzio di un padre che non torna a casa e di una madre che fa di tutto per trattenere le lacrime e il pianto davanti ai figli”. Nonostante il dolore, la mancanza della famiglia, la preoccupazione per il fratello minore, Bernadette riesce ancora a dire: “Credo in un mondo in cui i giovani non saranno obbligati a imbracciare le armi. Credo ancora possibile un mondo di pace. Vorrei allora rivolgermi a voi: portate via da questo incontro un messaggio di speranza e non fate mai mancare attorno a voi un abbraccio di pace a chi ve lo chiede e a chi ne ha più bisogno”.

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Giubileo dei giovani: la testimonianza sul conflitto in Libano dei membri del Consiglio dei giovani del Mediterraneo

[ REPORTAGE ] Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni (Turismoitalianews 31.07.25)

Giuseppe Botti, Yerevan / Armenia

Un altopiano affacciato sul fiume Azat custodisce uno dei siti archeologici più affascinanti del Caucaso. È Garni, antica fortezza e culla di civiltà millenarie, dove storia, religione e natura si intrecciano tra le pieghe del tempo. Siamo nel cuore dell’Armenia, ad appena 28 chilometri dalla capitale Yerevan. E questo è molto più di un monumento.

(TurismoItaliaNews) Collocata su una spettacolare terrazza triangolare ai piedi dei monti Geghama, la cittadella di Garni costituisce una delle testimonianze più significative dell’Armenia precristiana. Il nome stesso deriva dai Giarniani, popolo insediato in questa regione già nell’VIII secolo a.C., ma le tracce di presenza umana risalgono addirittura all’ultimo quarto del IV millennio a.C. Un luogo che ha resistito a secoli di guerre, invasioni e cataclismi, e che oggi offre un raro affaccio sulla stratificazione culturale dell’Armenia.

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Il tempio di Mihr, icona dell’Armenia pagana

Il simbolo indiscusso del sito è il Tempio di Garni, l’unico tempio greco-romano colonnato ancora esistente in Armenia. Costruito nel I secolo d.C. dal re Tiridate I in onore del dio del sole Mihr, rappresenta un capolavoro architettonico in stile ionico, armoniosamente integrato nel paesaggio montano che lo circonda. Dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo nel IV secolo, il tempio venne probabilmente riadattato come residenza estiva per la nobildonna Khosrovidukht, sorella di Tiridate III. Altri studi suggeriscono che potesse trattarsi di una tomba reale, spiegando così la sua sopravvivenza alla sistematica distruzione dei luoghi di culto pagani. Nel 1679, un terremoto ha raso al suolo il tempio, che è stato ricostruito solo nel ventesimo secolo (tra il 1969 e il 1975) grazie ad un progetto archeologico ambizioso. Oggi è uno dei principali poli turistici del Paese e sede rituale del neopaganesimo armeno, che qui trova il suo santuario più emblematico.

La fortezza di Garni: bastione millenario

Oltre al tempio, Garni custodisce i resti di un’intera fortezza strategica, citata dallo storico romano Tacito come Gorneas. Posta in posizione dominante sulla valle dell’Azat, la struttura fu un punto nevralgico per la difesa della piana dell’Ararat. Le incursioni tra il XIII e il XVII secolo la danneggiarono gravemente, e fu solo nel 1830, dopo le guerre russo-persiane e russo-turche, che alcuni profughi armeni provenienti da Maku, in Persia, ne ripopolarono l’area. L’intero complesso monumentale comprende le rovine del tempio di Mitra, resti di mura, un palazzo reale, bagni termali di epoca romana decorati con mosaici, una stele Vishap (drago in lingua armena), fondamenta di una chiesa del VII secolo e diverse costruzioni di valore storico-artistico.

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Il Palazzo reale e il torchio vinario

A pochi metri dal tempio si estende l’antico complesso di palazzo, costruito su un costone roccioso con vista mozzafiato. Gli scavi hanno portato alla luce una grande sala ad arco e numerose stanze dai diversi usi, alcune delle quali ancora conservano frammenti di intonaco rosa scuro, testimonianza delle originarie decorazioni parietali. Di particolare interesse è il torchio a tre sezioni, che racconta un frammento inedito della vita quotidiana dei sovrani armeni: il mosto d’uva veniva raccolto, filtrato e trasferito da una brocca all’altra attraverso un ingegnoso sistema di tubi in terracotta. Sotto le rovine del palazzo si trovano le basi della chiesa di S. Sion, una delle prime costruzioni cristiane della zona, a pianta circolare tetraconca e dotata di cupola centrale. Un altro indizio della continua trasformazione religiosa e culturale del sito, passato dal culto di Mihr alla spiritualità cristiana.

Una meta per viaggiatori consapevoli

Garni non è solo un museo a cielo aperto, ma un invito a riflettere sulla resilienza culturale di un intero popolo. Ogni pietra, ogni rilievo e ogni restauro raccontano storie di distruzione e rinascita, tra religione, arte e ingegneria. Immerso in un paesaggio di rocce basaltiche, gole profonde e vegetazione rigogliosa, il sito rappresenta una delle tappe imprescindibili per chi visita l’Armenia. Il villaggio moderno di Garni, con i suoi 8.000 abitanti, accoglie i visitatori con strutture turistiche, artigianato locale e una cucina che affonda le radici in secoli di tradizione.

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Armenia, alle origini della civiltà: viaggio tra pietra, mito e storia nella fortezza di Garni

Garni è dunque più di un monumento: è un viaggio nel tempo che attraversa epoche e civiltà, ideale per chi cerca nel turismo un’esperienza autentica, tra natura incontaminata e grande storia.

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Armenia: amb. Ferranti con viceministro Amministrazione Territoriale, Simonyan (Il Giornale Diplomatico 31.07.25)

GD – Jerevan, 31 lug. 25 – L’ambasciatore d’Italia in Armenia, Alessandro Ferranti, è stato ricevuto dal viceministro dell’Amministrazione Territoriale e delle Infrastrutture della Repubblica d’Armenia, Armen Simonyan.
Nel dare il benvenuto all’amb. Ferranti, il viceministro Simonyan ha espresso la sua gratitudine per l’interesse dimostrato dall’Italia verso i vari progetti di sviluppo infrastrutturale in corso in Armenia.
Durante l’incontro sono state trattate questioni relative alle infrastrutture di trasporto aereo e terrestre, con particolare riguardo alla rete ferroviaria, e alle potenziali opportunità di investimento e coinvolgimento di aziende italiane nel settore.

Armenia: amb. Ferranti con presidente Comitato Investigativo, Poghosyan (Il Giornale Diplomatico 31.07.25)

GD – Jerevan, 31 lug. 25 – L’ambasciatore d’Italia in Armenia, Alessandro Ferranti, è stato ricevuto dal Presidente del Comitato Investigativo della Repubblica di Armenia, Artur Poghosyan.
Nel corso dell’incontro il presidente Poghosyan ha sottolineato l’importanza di una stretta collaborazione tra i sistemi giudiziari dei due Paesi, esprimendo soddisfazione per l’efficacia delle iniziative di assistenza legale reciproca.

L’amb. Ferranti, nel sottolineare il grande e significativo potenziale per l’ulteriore approfondimento dei legami bilaterali nel settore giudiziario e della sicurezza, ha ringraziato il presidente del Comitato per la disponibilità a promuovere la continuità di tale cooperazione.
Il presidente Poghosyan ha inoltre fatto riferimento alle richieste di assistenza giudiziaria reciproca inviate dal Comitato Investigativo alle Autorità pertinenti italiane, osservando che in diversi casi tali richieste sono state di significativa importanza per la risoluzione di procedimenti penali di rilevanza pubblica.
Durante il colloquio sono state infine discusse nuove opportunità di scambio di esperienze nel settore della perizia forense e delle tecniche investigative e delle relative tecnologie applicate, nonché sul piano della formazione professionale congiunta.

Viaggio a Syunik, il silenzio di un paese (La Ragione 30.07.25)

Qui, nella provincia di Syunik, la popolazione è calata del 20% in pochi anni, a causa dei conflitti e della fuga verso altre località

Tegh – Otto uomini seduti nella piazza centrale vegliano sul silenzio di un paese che appare vuoto. Ogni passo suona violento in questa assenza di rumori. Nessuno vuole parlare, si scambiano occhiate e fanno melina. Hasmik, che mi accompagna, prova a soffiare sul loro orgoglio: «Non capita tutti i giorni di avere un reporter internazionale da queste parti». «Se è per questo, neppure quelli armeni mettono piede qui» risponde Artur, l’unico loquace del gruppo. Cede, ci guida pochi metri più in là e giustifica i suoi amici: «Non parleranno, temono problemi con il governo». Indica le postazioni azere sulle montagne davanti a noi: «Una volta erano a più di 100 km da qua, ora a poche centinaia di metri. Occupano le terre coltivate dai nostri nonni e – continua – sentiamo i loro spari ogni notte».

Fino al 2020 la linea di contatto fra armeni e azeri era infatti ai piedi del confine naturale del Piccolo Caucaso, a Est. Ma dopo la cosiddetta guerra dei 44 giorni, le Forze armate dell’Azerbaigian avevano circoscritto la presenza armena nel Karabakh montuoso alla sola enclave dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Quest’ultima era collegata alla Repubblica di Armenia da un corridoio – garantito dai russi fino al 2023 – che coinvolgeva anche Tegh. Qui, nella provincia di Syunik, la popolazione è calata del 20% in pochi anni, a causa dei conflitti e della fuga verso altre località. Chi resta ha paura di perdere il poco che ha. «Abbiamo un pezzo di terra. Possiamo coltivare patate e qualcosa per l’inverno. In città (a Yerevan) cosa andremmo a fare?» sostiene Artur.

Le grida di bambini che giocano più in là rompono la quiete di Tegh. La gioia per un goal si riconosce ovunque e in qualunque lingua. Hanno dai 9 ai 14 anni e corrono su un campetto di cemento coperto da teli di sintetico consumato. Tra quelli in panchina c’è Gayane, 10 anni. Vorrebbe diventare una dottoressa, ma non qui. Sogna Yerevan. In campo Samvel, 12 anni, sfida da solo Movses (14) e Vardan (10). «Vuoi fare il calciatore?» gli chiediamo. Fa spallucce, dribbla Movses e segna. In dieci minuti si è portato sul 4 a 1. Movses e Vardan vengono ‘salvati’ da un improvviso acquazzone. Tutti scappano, tranne gli uomini che ci avevano accolto all’arrivo. Sotto una tettoia anche loro giocano. Forse a morra, forse a carte. Non sono più silenziosi.

L’unico riparo per noi è a una ventina di metri dal campetto: un ombrellone di lamiera all’interno del cimitero dei caduti fra il 2020 e il 2023. Scorrendo le lapidi, il più vecchio aveva 32 anni e il più giovane 19. Sotto un altro ombrellone si ripara una signora accompagnata da due bambine. È una dei 120mila rifugiati dell’Artsakh, quell’exclave armena sgomberata con la forza dall’esercito dell’Azerbaigian tra il 19 e il 20 settembre 2023: la fine della presenza millenaria armena nel Nagorno-Karabakh. La signora dice di avere quattro figli e che il marito fa la sentinella in una delle forze di difesa locale: «È l’unico introito della nostra famiglia». E per far quadrare le cose, anche loro coltivano patate.

Incurante della pioggia, ci raggiunge Armine, molto attiva in paese. Anche lei segnala che da Tegh si sentono gli spari dei soldati azeri «ogni notte a orari fissi: alle 22.20, alle 23.00, a mezzanotte, a mezzanotte e venti, alle 2.00 e alle 4.00». Dice di averci fatto l’abitudine. La preoccupa di più il taglio dell’Usaid, l’agenzia Usa pressoché smantellata dal (fu) duo Trump-Musk. «Una telefonata un venerdì ci anticipava che lunedì avremmo ricevuto una mail per ufficializzare la cancellazione dei fondi», sgrana gli occhi come fosse ora. «Mettevamo a terra molti progetti di sviluppo per contenere lo spopolamento. Abbiamo dovuto ridimensionare tutto. Ora sarà davvero difficile».

Nel confronto successivo con Hasmik, figlia di questa provincia, è chiaro che neppure lei fosse fino in fondo a conoscenza della pressione azera su questa linea di confine. Il silenzio iniziale del ‘comitato di benvenuto’ di Tegh trova un senso.

di Giacomo Ferrara

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Armenia: amb. Ferranti in visita al Museo Matenadaran di Jerevan (Giornale Diplomatico 30.07.25)

GD – Jerevan. 30 lug. 25 – L’ambasciatore d’Italia in Armenia, Alessandro Ferranti, è stato in visita al Museo dei manoscritti Matenadaran di Jerevan su invito del direttore, Ara Khzmalyan.
Nel corso della visita è stato possibile ammirare una tra le più ricche e vaste collezioni di manoscritti e documenti armeni esistente al mondo, la quale comprende anche numerosissimi preziosi codici in altre lingue, tra cui il latino e l’italiano.
L’ambasciatore italiano ha inoltre assistito alle varie fasi in cui si esplicano le operazioni di ricerca e restauro dei testi e dei manoscritti antichi, esprimendo profondo apprezzamento per le attività del Matenadaran.
Durante il colloquio avuto con il direttore Khzmalyan, entrambe le parti hanno sottolineato l’importanza di continuare a coltivare ed approfondire la proficua collaborazione già esistente con l’Italia in materia di conservazione, valorizzazione e restauro dei manoscritti antichi, quale straordinario e inestimabile patrimonio dell’umanità.