Silvio Magliano parla dell’Armenia (Russiaprivet-org 10.03.21)

Intervista al Consigliere della Regione Piemonte Silvio Magliano. Silvio Magliano torinese di nascita e di cultura nel 2011 è stato eletto nel Consiglio Comunale di Torino, nuovamente eletto nel giugno 2016. Dal 9 gennaio 2015 al febbraio del 2019 é stato Presidente di Vol.To, il Centro Servizi per il Volontariato del territorio della provincia di Torino, di cui è attualmente Vice Presidente. In precedenza è stato presidente del Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Torino V.S.S.P. Ha lavorato come Consulente per il Volontariato e le Politiche Sociali della Presidenza della Regione Piemonte. E’ tra i fondatori di Polis Policy – Accademia di Alta formazione. Attualmente é Capogruppo dei Moderati in Consiglio Comunale, Consigliere per la Lista Città di Città presso il Consiglio della Città Metropolitana di Torino e Presidente del Gruppo dei Moderati presso il Consiglio Regionale del Piemonte

Quali sono i motivi ispiratori della tua azione politica? Credo nelle persone, nel Volontariato, nella famiglia, nella solidarietà, nel dono, nell’accoglienza, nel costruire insieme la società che vorremmo, credo nel valore del lavoro di squadra, della condivisione.

Lei è riuscito recentemente a far approvare un importante ordine del giorno al Consiglio Regionale del Piemonte “PER UNA PACE DURATURA NELLA REGIONE DELL’ARTSAKH (NAGORNO KARABAKH)” di cosa si tratta? Ai sensi dell’articolo 18, comma 4, dello Statuto e dell’articolo 103 del Regolamento interno ho presentato un Ordine del Giorno per chiedere al Presidente e alla Giunta Regionale di avviare le opportune interlocuzioni con le Autorità nazionali per garantire che il popolo dell’Artsakh e la sua rappresentanza politica e istituzionale possano sedere al tavolo per la pace della Copresidenza del Gruppo di Minsk dell’OSCE. Ritengo cruciale un impegno istituzionale a tutti i livelli, regionale compreso, volto a spronare le Autorità nazionali affinché intervengano con ogni possibile iniziativa volta a ripristinare una verità storica e a creare le condizioni per una pace duratura, per la quale il riconoscimento dei diritti della popolazione dell’Artsakh costituisce un prerequisito.

Da cosa nasce questo ordine del giorno? La ragione è che per settimane – nel periodo compreso tra lo scoppio della guerra dell’Artsakh (27 settembre 2020) e il cessate il fuoco del 9 novembre 2020 – la popolazione civile e tutte le strutture (compresi gli ospedali, le scuole, le abitazioni e i centri di protezione civile) del territorio dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) sono state bersaglio degli attacchi missilistici da parte delle forze armate dell’Azerbaigian, con l’acclarato supporto dei militari dell’esercito della Turchia e con il dispiegamento di combattenti terroristi provenienti dal Medio Oriente.

Ha parlato con testimoni diretti? Sì, in questi anni ho conosciuto molti armeni che venivano a Torino per studio e mi hanno raccontato storie atroci. Lo scontro è tra un esercito moderno dotato di droni, quello azero, e un esercito di terra male armato e poco organizzatro, quello armeno. È stato uno scontro dagli esiti scontati e mi lascia molte perplessità il fatto che nessuno sia intervenuto. Tra i miei amici armeni alcuni sono morti nella guerra e questo mi addolora molto. Soprattutto mi fa soffrire la sensazione di impotenza di fronte a questa tragedia che non posso fermare.

Chi sono gli abitanti del Nagorno Karabakh? La popolazione armena dell’Artsakh è un simbolo per tutto il popolo armeno, disperso nel mondo a causa del Primo Genocidio del XX secolo perpetrato dalla Turchia Ottomana. L’antichissima civiltà armena si è tramandata nei secoli e tra le montagne armene hanno preso avvio, in diversi momenti storici, iniziative di rinascita culturale e movimenti per l’autonomia e l’integrazione nazionale. La popolazione armena dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) da più di un secolo rivendica la propria annessione all’Armenia, dopo essere stata prima sotto la Repubblica Sovietica e da trent’anni ormai autodeterminatasi autonomamente.

Quali compiti ha la comunità internazionale? È fondamentale che si riconosca ufficialmente questo territorio – che è già de facto una Repubblica con la propria forma di Stato e di Governo con democratiche elezioni – e la sua popolazione.

Come ha reagito la comunità armena che vive in Italia? L’Unione degli Armeni d’Italia ha chiesto all’Italia di riconoscere questo piccolo Paese, affinché divenga un interlocutore diretto del nostro Governo; nel frattempo proseguono, pur tra notevoli difficoltà, le interlocuzioni e gli incontri del Gruppo di Minsk, nel tentativo di trovare una mediazione diplomatica.

Ci può spiegare cos’è il il Gruppo di Minsk? È una struttura di lavoro creata nel 1992 dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE), dal 1995 Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata dei conflitti nel Nagorno-Karabakh.

Da cosa nasce il suo interesse per l’Armenia? Ho letto “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Franz Werfel, romanzo che racconta l’inizio dello sterminio degli Armeni cristiani, perpetrato dal Governo dei Giovani Turchi.

Ciò che mi ha profondamente impressionato è che il piano criminale turco ha anticipalo lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Il parallelo è inevitabile. La piccola comunità di Armeni stanziati vicino al Mussa Dagh (Montagna di Mosè), una montagna nel Vilayet di Aleppo nell’Impero Ottomano è stata un esempio.

Si trattava di un gruppo di sette villaggi armeni di circa 5.000 persone, che non si sono arresi e hanno combattuto per difendere la loro terra e la loro identità. Mi ha fortemente emozionato che siano riusciti a resistere per 40 giorni all’esercito turco per poi essere salvati da una nave da guerra francese. Il fatto interessante è che la prima edizione del libro esce in Italia con la Mondadori nel 1935. Poi ho cominciato ad interessarmi della storia e delle tradizioni di questo popolo straordinario e tenace. Nel 301 l’Armenia, prima al mondo, ha adottato il Cristianesimo come religione di Stato; i missionari armeni diffusero la fede cristiana. Gregorio Illuminatore istituì la Chiesa Apostolica Armena, che si separò dalle altre chiese cristiane dopo il Concilio di Calcedonia del 451.

Santa Sofia è stata riaperta al culto islamico dalla preghiera del venerdì. Cosa rappresenta questa decisione nell’equilibrio dei balcani e del Mediterraneo? È la logica conseguenza del piano del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Il Premier turco il 31 marzo 2018 aveva recitato il primo versetto del Corano nella Basilica di Santa Sofia, dedicandola a “coloro che hanno contribuito a costruirla, ma in modo particolare a chi l’ha conquistata”. Un dichiarazione significativa e drammaticamente evocativa di un passato che si vuol riesumare Nel marzo 2019 il presidente Erdoğan ha dichiarato che avrebbe cambiato lo status di Hagia Sophia da museo a luogo di culto musulmano, aggiungendo che era stato un “errore molto grande” trasformarla in un museo. Il 10 luglio 2020 il Consiglio di Stato turco ha annullato il decreto di Atatürk del 1934, cancellando la trasformazione della moschea in museo. Erdoğan personalmente ha riaperto al culto islamico la Basilica con un decreto presidenziale e il 24 luglio successivo é stata celebrata la prima preghiera islamica del venerdì. In pratica il processo di modernizzazione iniziato con Mustafa Kemal Ataturk è stato interrotto con un’inversione di prospettive politiche e religiose.

Quali sono state le reazioni alla decisione di Erdogan? Tiepide, forse troppo. La ragione a mio parere è che l’Europa non ha una politica estera. Mi aspettavo molto di più sia dall’Europa, sia dell’Italia che dall’Unesco. Una voce isolata la Grecia, in una situazione molto difficile, ha definito la decisione del Consiglio di stato turco sulla riconversione di Santa Sofia in moschea «una provocazione al mondo civilizzato». Il ministro della Cultura di Atene, Lina Mendoni ha dichiarato che il verdetto del Consiglio di Stato «conferma che non c’è una giustizia indipendente» e che «il nazionalismo mostrato da Erdogan riporta il suo Paese indietro di sei secoli».

Cosa succederà adesso? Mi auguro come tutti che si torni a discutere e a trovare una soluzione pacifica anche se la situazione mi sembra complessa. Credo comunque che la buona volontà possa risolvere anche i conflitti più difficili. È un nostro dover sperare e lottare per la pace.

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Erevan, migliaia di manifestanti davanti al Parlamento armeno: chiedono le dimissioni di Pashinyan (Euronews 10.03.21)

Migliaia di sostenitori dell’opposizione armena hanno bloccato, martedì sera, il Palazzo del Parlamento nella capitale Erevan, chiedendo a gran voce le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan (45 anni).

Pashinyan, un eroe: appena tre anni fa. Poi…

Il premier, acclamato dalla folla appena tre anni fa come uomo del cambiamento (Euronews realizzò un servizio dal suo paese d’origine, Idjevan), ora è nell’occhio del ciclone, dopo l’accordo di pace di novembre, forzatamente accettato, che ha messo fine a sei settimane di combattimenti dell’Armenia con l’Azerbaigian per la regione contesa del Nagorno-Karabakh.

“Un tentativo di colpo di Stato”

Le tensioni politiche si sono ulteriormente intensificate da quando, a fine febbraio, un gruppo di ufficiali militari ha scritto una lettera, chiedendo al primo ministro di dimettersi. Pashinyan ha rifiutato e ha definito la lettera dell’esercito “un tentativo di colpo di Stato”, ordinando la rimozione dall’incarico del capo dello Stato Maggiore.

Sempre colpa del Nagorno-Karabakh

Al centro dei disordini, l’accordo mediato dalla Russia, che Pashinyan ha firmato (annunciandolo con un post su Facebook…), e che ha messo fine ai combattimenti con l’esercito dell’Azerbaigian, sostenuto dalla Turchia, dopo che le forze armene aveva subito molte vittime e notevoli perdite territoriali sul campo di battaglia.

Hayk Baghdasaryan/PHOTOLURE
Nikol Pashinyan insieme alla moglie Anna Akobyan.Hayk Baghdasaryan/PHOTOLURE

In base all’accordo, l’Armenia ha ceduto il controllo su parti del Nagorno-Karabakh e su tutti i sette distretti circostanti l’Azerbaigian, che erano stati occupati dalle forze armene fin dai primi anni ’90.

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Comabbio racconta l’Armenia. A casa di Lucio Fontana si studia l’antica cultura mediorientale (artslife.com 10.03.21)

Ricco programma di incontri con scrittori, giornalisti, fotografi, armenisti, storici, musicisti, architetti, artisti provenienti da Italia, Armenia, Stati Uniti e Turchia

Negli ambienti culturali Comabbio è nota soprattutto per essere la cittadina di Lucio Fontana. Qui c’è il suo atelier, situato nella casa familiare dove visse gli ultimi anni della sua vita e dove morì nel 1968. E qui produsse i suoi ultimi Tagli, Attese, Concetti spaziali. Ma il centro del varesotto ora si candida ad un altro importante riconoscimento: quello di essere una delle capitale della cultura armena in Italia. Fino al 23 maggio infatti Comabbio promuove la rassegna “Racconta l’Armenia”, un ricco programma di incontri online, ai quali si aggiungeranno alcuni appuntamenti in presenza, compatibilmente con l’evolversi della pandemia.

Un progetto ambizioso che ha raccolto il contributo dei più importanti rappresentanti, studiosi e conoscitori della cultura armena. Scrittori, giornalisti, fotografi, armenisti, storici, musicisti, architetti, artisti e altre personalità provenienti da Italia, Armenia, Stati Uniti e Turchia. Tra i nomi più noti, la scrittrice di origini armene Antonia Arslan, autrice del romanzo “La Masseria delle Allodole”. Tradotto in oltre 20 lingue, ha riportato alla ribalta il tema del genocidio armeno.

 

Il Monastero Geghard (foto Nadia Pasqual)
Il Monastero Geghard (foto Nadia Pasqual)

Molto attesi anche gli interventi di Shushan Martirosyan, dalla capitale armena Yerevan, Siobhan Nash-Marshall del Manhattanville College di New York, e Monsignor Levon Zekiyan, Arcieparca degli armeni cattolici di Istanbul e di Turchia e Delegato Pontificio per la Congregazione Mechitarista. Fra gli interventi previsti quelli di Alberto Elli, studioso di lingue e religioni, autore di un volume dedicato ad arte, storia e itinerari dell’Armenia, dello scultore Mikayel Ohanjanyan e dell’architetto Gaianè Casnati.

https://comabbioraccontalarmenia.blog/

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Armenia: generale Gasparyan, processo per rimuovermi dall’incarico è incostituzionale (Agenzia Nova 10.03.21)

Erevan, 10 mar 10:10 – (Agenzia Nova) – L’intero processo volto a cercare di rimuovere dall’incarico il capo di Stato maggiore delle Forze armate armene, generale Onik Gasparyan, è incostituzionale. È stato lo stesso Gasparyan ad affermarlo in una nota diffusa dai vertici delle Forze armate, aggiungendo che quindi la sua posizione “resta invariata”. Secondo il generale, questa fattispecie “conferma ancora una volta che una soluzione patriottica alla crisi attuale può essere assicurata solo a seguito delle dimissioni del primo ministro e da elezioni parlamentari anticipate”. “Continuerò a servire la madrepatria e il popolo armeno con uno status differente”, ha aggiunto il generale. “La missione esclusiva delle Forze armate è garantire la sicurezza della patria, quindi vi esorto a continuare il vostro servizio disinteressato e patriottico esclusivamente alla patria e al popolo per lo sviluppo delle Forze armate e il rafforzamento dell’Armenia e dell’Artsakh (così si definisce l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh)”, ha aggiunto Gasparyan. Le sue parole giungono dopo che questa mattina il premier, Nikol Pashinyan, ha affermato che da oggi è ufficiale l’estromissione di Gasparyan. (Rum)

Il paese è spaccato in due dopo la sconfitta nel Nagorno Karabakh (Internazionale 10.03.21)

Nel novembre del 2020, dopo la devastante sconfitta dell’Armenia nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, il futuro politico del primo ministro armeno Nikol Pashinyan sembrava finito. Come è riuscito a rimanere al potere, nonostante le recenti proteste di piazza e le richieste di dimissioni da parte dei generali del paese, e nonostante sia diventato noto come l’uomo che è costato all’Armenia la maggior parte del territorio conteso e che ha infranto l’illusione della potenza militare del paese?

All’inizio di dicembre 2020, i leader di diciassette partiti di opposizione sono riusciti ad accordarsi e a eleggere un leader: Vazgen Manukyan, un veterano che aveva servito come ministro della difesa durante la prima guerra del Nagorno Karabakh tra il 1992 e il 1994, quando vennero conquistati i territori ora persi. L’opposizione unita aveva lanciato un ultimatum chiedendo le dimissioni di Pashinyan. Il primo ministro, tuttavia, si è limitato a ignorarlo.

L’opposizione ha poi pianificato a lungo un’ambiziosa protesta per il 20 febbraio. Ma alla fine il numero effettivo dei partecipanti è stato di 13-20mila persone, e la colpa è stata attribuita al cattivo tempo. La sera sono seguite diverse piccole manifestazioni. Il 25 febbraio è poi arrivata quella che è sembrata la resa dei conti, quando i generali armeni hanno firmato una lettera collettiva che chiedeva le dimissioni di Pashinyan. Ma anche questa mossa non ha avuto alcun effetto. E Pashinyan è riuscito a far scendere in piazza i suoi sostenitori in un numero almeno uguale a quelli dell’opposizione.

Il primo ministro ha definito le proteste un “tentato colpo di stato militare”, ma tutto è nato da una sua stessa gaffe. Pashinyan aveva detto in un’intervista che, durante l’ultima guerra con l’Azerbaigian, i missili russi Iskander usati dalle forze armate armene “o non sono esplosi affatto o lo hanno fatto solo al dieci per cento”. Non è chiaro se intendesse dire che era esploso solo un missile su dieci, o che la maggior parte delle componenti di un missile non era riuscita a esplodere.

Con ogni probabilità non era vera nessuna delle due cose. L’Azerbaigian non ha mai denunciato di essere stato attaccato con missili Iskander, anche se ha parlato diffusamente di altri missili. E la risposta del ministero della difesa russo all’affermazione di Pashinyan è stata che non è stato registrato nessun lancio di Iskander, e che tutti i missili sono rimasti nei depositi di armi armeni.

Un vicecapo di stato maggiore armeno, interpellato dai giornalisti per spiegare la dichiarazione di Pashinyan, l’ha liquidata con una risata. Pashinyan lo ha licenziato, provocando il “colpo di stato” che alla fine si è ridotto alla lettera collettiva. Il primo ministro ha anche cercato di licenziare il capo di stato maggiore, ma senza successo: il presidente della repubblica, Armen Sarkissian, ha fatto valere il suo diritto di respingere l’ordine.

Le dichiarazioni di Mosca suggeriscono che il Cremlino rimarrà fuori dalla crisi armena, a condizione che il cessate il fuoco resti in vigore

Nessuna delle due parti è stata in grado di fare ulteriori progressi. L’opposizione ha chiesto una sessione straordinaria del parlamento per revocare la legge marziale e far dimettere Pashinyan, ma senza successo: i sostenitori del primo ministro sono ancora la maggioranza in parlamento.

Una teoria diffusa in Armenia è che i generali si siano espressi contro Pashinyan per volere di Mosca, che si sarebbe infuriata a causa delle critiche del primo ministro alle sue armi. Tuttavia, se fosse così, i generali non si sarebbero limitati a una lettera. Inoltre, quella stessa sera, il presidente russo Vladimir Putin ha parlato con Pashinyan e ha fatto un appello a “mantenere la pace e l’ordine” e a “risolvere la situazione in maniera legale”.

Le dichiarazioni di Mosca suggeriscono che il Cremlino rimarrà fuori dalla crisi armena, a condizione che l’accordo di cessate il fuoco del 9 novembre 2020 rimanga in vigore: e non ci sono ragioni per dubitare che sarà così. Il Cremlino sta cominciando a vedere l’Armenia come vede il Kirghizistan e l’Abkhazia: può darsi che la situazione nel paese non sia chiara, ma non c’è pericolo che prendano il potere dei politici non graditi a Mosca. Il Cremlino riconosce Pashinyan come il politico più popolare d’Armenia, e desidera quindi mantenere lo status quo.

I sondaggi mostrano anche che Pashinyan mantiene un buon livello di sostegno nel paese: nonostante l’atmosfera tesa, la società armena non è unificata dall’odio per il regime attuale. Regna, piuttosto, l’apatia. Anche lo scorso novembre, quando le emozioni per la sconfitta erano al massimo, circa il trenta per cento della popolazione sosteneva Pashinyan. I risultati di un recente sondaggio sono ancora più interessanti. Agli intervistati è stato chiesto di valutare i politici su una scala da 1 a 5: Pashinyan ha ricevuto un punteggio di 2,8, contro il 2 dell’ex presidente Robert Kocharyan, l’1,7 di un altro ex presidente, Serzh Sargsyan (entrambi gli ex presidenti avevano espresso sostegno ai generali), e all’ 1,6 del leader dell’opposizione Manukyan (che si è alleato con Kocharyan).

In altri termini, può darsi che Pashinyan non sia molto popolare, ma i suoi rivali lo sono ancora meno. Una delle ragioni principali è l’incapacità dell’opposizione di proporre una reale alternativa politica.

Basta con la guerra
Anche se l’opposizione riuscisse a esautorare Pashinyan, non sarebbe in grado di cambiare i risultati della seconda guerra del Nagorno Karabakh: non solo a causa delle circostanze geopolitiche ma anche perché il popolo armeno non vuole più essere in guerra.

I sondaggi mostrano che solo il 31 per cento degli armeni è favorevole a cercare di riconquistare i territori persi nella guerra. Il 28 per cento è disposto ad accettare una “stabilizzazione nel quadro dei confini esistenti”, e un altro 3 per cento sarebbe pronto a cedere Stepanakert, capitale dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh controllata dagli armeni, solo per porre fine al conflitto.

Per questo l’opposizione non era entusiasta all’idea di organizzare elezioni anticipate, una prospettiva che subito dopo la sconfitta sembrava inevitabile e logica. Ma l’opposizione ha capito che se il duo Kocharyan-Manukyan dovesse salire al potere, dovrebbe andare avanti nel solco segnato da Pashinyan. I compiti che riserva il futuro sono complessi: delimitare un nuovo confine con l’Azerbaigian in villaggi che appena sei mesi fa erano a settanta chilometri dalle posizioni azere; coordinare le vie di trasporto verso l’exclave azera di Nakhchivan e verso la Turchia attraverso l’Armenia; e trovare un compromesso sulle aree rimanenti del Nagorno Karabakh per mantenere una qualche presenza armena in loco.

In un momento come questo, è meglio rimanere all’opposizione che mettere a repentaglio la propria posizione nelle stanze del potere. L’opposizione preferirebbe che fosse Pashinyan a fare il lavoro pesante.

Il popolo armeno può probabilmente percepire questa mancanza di una vera alternativa, ed è per questo che delle proteste propagandate come storiche hanno una partecipazione così limitata. Ciò che spinge la gente in piazza è la visione di un futuro migliore: un futuro in cui non c’è corruzione, il governo ascolta il popolo e i nemici sono sgominati. Pashinyan aveva promesso questa “Armenia del futuro” nel 2018. Non è stato all’altezza delle aspettative, ma è anche difficile credere che chi è venuto prima di lui avrebbe potuto costruire un simile paradiso terrestre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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Il corridoio di Zangezur, la chiave per la pace tra Armenia e Azerbaigian (Insideover 09.03.21)

Il futuro del processo di pacificazione tra Armenia e Azerbaigian non si sta giocando soltanto nel sensibile Nagorno Karabakh, perché, invero, c’è un’altra vena scoperta, facile al sanguinamento, che ha storicamente complicato le relazioni tra i due Paesi: lo Zangezur.

Adeguati rimedi – in questo caso un corridoio di trasporto internazionale – se accompagnati da una ferrea volontà d’azione risolutoria, potrebbero trasformare questa fonte secondaria di conflitto e divisione (letterale) in un potente magnete in grado di attrarre mutui benefici in termini di prosperità, investimenti, crescita e, soprattutto, pace.

Le origini del corridoio di Zangezur

Fra le clausole presenti nella dichiarazione tripartita del 9 novembre, che ha determinato la fine delle ostilità nel Nagorno Karabakh a mezzo dell’entrata in vigore di un cessate il fuoco permanente, una risalta in maniera particolare. Questa condizione, la numero nove, ha gettato le basi per il ritorno in funzione di tutti i collegamenti economici e di trasporto attraversanti tutta la regione contesa e spinto l’Armenia a garantire all’Azerbaigian l’agognata costruzione di una connessione via terra con l’exclave azerbaigiana della Repubblica autonoma di Nakhchivan.

Trascorsi i mesi di novembre e dicembre, fra malumori di piazza a Erevan e schermaglie intermittenti in alcune zone dei territori liberati dell’Azerbaigian, nella giornata dell’11 gennaio aveva avuto luogo un’ulteriore trilaterale fra Vladimir PutinIlham Aliyev e Nikol Pashinyan, allestita a Mosca, per discutere del concretamento del fatidico punto nove della dichiarazione di cessate il fuoco.

Il vertice si era concluso con la firma di una dichiarazione congiunta riguardante lo sviluppo di progetti infrastrutturali nella regione contesa, fra i quali una linea ferroviaria per connettere Armenia e Russia traversante il territorio azero e la nascita di un gruppo di lavoro congiunto con l’obiettivo di monitorare e gestire ogni fase della loro implementazione. I lavori di ripristino dei canali di trasporto su gomma e rotaia, a partire da quel momento, hanno ricevuto un impulso significativo, specialmente nel territorio azero, e la ragione è una: il corridoio di Zangezur.

Il corridoio, che cos’è

Lo Zangezur è il paragrafo della regione più ampia di Syunik, la provincia armena che funge da parete divisoria permanente fra l’Azerbaigian e la sua exclave, sul quale dovrebbe sorgere l’agognata linea ferroviaria Baku–Nakhchivan. Se non politicizzato dalle parti in gioco, e i rischi in tal senso provengono sostanzialmente dall’Armenia – la quale vede il corridoio come una manifestazione del panturchismo sul proprio territorio –, lo Zangezur sarebbe in grado di generare ricadute benefiche la cui portata andrebbe ben al di là della dimensione puramente sudcaucasica.

Connettere Nakhchivan e Baku attraverso lo Zangezur equivale a creare un collegamento potenzialmente inglobabile nella già esistente Baku–Tbilisi–Kars (BTK), che, a sua volta, è inserita in una realtà infrastrutturale di gran lunga più estesa, poiché di caratura transcontinentale, connessa ai mercati russo (attraverso la Ankara–Baku–Mosca), cinese (tramite la Cina–Azerbaigian), turkestano (a mezzo del corridoio dei lapislazzuli, ma non solo) e indo-iranico (mediante il Corridoio Nord–Sud).

Lo Zangezur è, in estrema sintesi, la migliore esemplificazione di quel che è il Caucaso meridionale: la geografizzazione letterale del concetto geopolitico di pivotalità. Perché Azerbaigian e Turchia potrebbero commerciare ad alti livelli anche senza il corridoio di Zangezur, come dimostra la BTK, ma il soprascritto elenco (parziale) di potenziali ripercussioni ne illustra e spiega l’importanza.

Quali sarebbero i benefici per l’Armenia

L’Armenia teme per la propria sovranità, perché preda di un comprensibile stress post-traumatico, o meglio post-guerra, sotto forma di sindrome di Alamo, ma il corridoio di Zangezur potrebbe rappresentare la chiave di volta per una stabilizzazione durevole ed egualmente benevola per ogni attore ivi coinvolto.

In primo luogo, avallando i lavori di unificazione infrastrutturale tra Baku e Nakhchivan, Erevan dimostrerebbe al proprio garante (Mosca) affidabilità, rispettando i patti, e propensione alla pace, sostituendo lo scontro con l’incontro. In secondo luogo, mettendo momentaneamente da parte le animosità politiche, l’Armenia potrebbe cogliere una verità incontestabile e per nulla trascurabile: i benefici superano di gran lunga i costi.

Erevan è rimasta diplomaticamente isolata dopo l’occupazione dei territori dell’Azerbaigian e, soprattutto, è stata esclusa dai processi trasformativi che stanno plasmando e riscrivendo la realtà economica, commerciale e infrastrutturale del Caucaso meridionale, globalizzandolo per mezzo di reti transregionali collegate o collegabili ad Anatolia, Asia centrale, Russia, Medio Oriente, Asia meridionale e Cina. L’Armenia potrebbe entrare a far parte di questo nuovo mondo, di cui il Caucaso meridionale rappresenta l’ombelico, in luogo di esserne estranea e di essergli ostile, iniziando a commerciare in maniera significativa con un mercato sterminato.

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Armenia e Azerbaijan: attiviste per la pace raccontano il post-confitto (Osservatorio Balcani E Caucaso 08.03.21)

Le donne non sono solo vittime dei conflitti, ma anche della discriminazione di genere, che si accentua in tempo di guerra. Ne parlano attiviste per la pace di Armenia e Azerbaijan

08/03/2021 –  Claudia Ditel

Il cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh dello scorso 10 novembre, che ha posto fine alla guerra dei 44 giorni tra Armenia ed Azerbaijan, difficilmente porterà una pace di lungo periodo. Le misure post-conflitto sono focalizzate principalmente su questioni militari e di sicurezza, con il recente lancio dell’unità militare  congiunta tra Turchia e Russia in Azerbaijan e la missione di peacekeeping russa  impegnata nel prevenire il sorgere di nuove tensioni e al contempo gestire la protezione dei rimpatriati e lo scambio dei prigionieri e dei corpi. Tuttavia, il dilemma di sicurezza nella regione si rafforza inevitabilmente, specialmente dopo la circolazione dei video che testimoniano crimini di guerra  e dopo il dichiarato piano  da parte dell’Azerbaijan di citare in giudizio l’Armenia per i costi di ricostruzione. Le tensioni  nella regione di Syunik tra i gli abitanti di un villaggio armeno e le autorità azere sono solamente la punta di un iceberg che rivela quali sfide bisogna aspettarsi nel decennio in corso. La struttura verticale dei negoziati, che hanno recentemente visto i leader di Armenia, Azerbaijan e Russia incontrarsi a Mosca  per discutere la costruzione di nuove infrastrutture congiunte, servirà a ben poco per ridurre le tensioni alla radice.

Tale gestione autoritaria dello scenario post-conflitto non solo finisce per porre in secondo piano le questioni umanitarie, ma genera anche due società cristallizzate e isolate. Ai negoziatori sfugge il nodo della questione, con la creazione di progetti transfrontalieri che sbloccano i movimenti interregionali senza affrontare prima la questione di preparare la popolazione alla coesistenza. Sarà questa la parte più difficile, una volta che alla popolazione di sfollati verrà permesso di tornare nei rispettivi territori. Le necessità delle donne, spesso dimenticate, diventano un forte denominatore comune nella creazione di iniziative congiunte transnazionali. Secondo alcune attiviste per la pace provenienti dall’Azerbaijan e dall’Armenia, che sono state intervistate da OBC Transeuropa, le donne vengono trattate come una minoranza quando si tratta di fronteggiare i bisogni della popolazione locale, divenendo così non solo vittime del conflitto, ma anche di una cultura di genere discriminante, che viene persino accentuata in tempo di guerra.

Una tragedia umanitaria transgenerazionale

Al suono delle sirene in seguito ai bombardamenti, le popolazioni dei territori circostanti il Nagorno-Karabakh sono state costrette a fuggire in Armenia. La maggior parte delle persone sono state sistemate in rifugi improvvisati, costrette a dormire nelle macchine od ospitate in qualche casa insieme ad altre famiglie. Le donne lamentano la mancanza di un’assistenza umanitaria che tenga in considerazione le questioni di genere. “Molti sfollati sono stati sistemati in alcune scuole, che hanno rivestito un ruolo importante come rifugi nell’immediato; tuttavia le scuole non sono un posto in cui vivere per un lungo periodo, in particolare perché alcune hanno scarse strutture sanitarie”, racconta Afag Nadirli, consulente presso l’Azerbaijan Youth Foundation, dipartimento di relazioni internazionali. “Alla gente non viene garantita un’assistenza sanitaria di base. La maggior parte degli sfollati temporanei, le cui case sono state distrutte dai bombardamenti, non hanno potuto farsi una doccia da quando sono stati sfollati. Le donne sono certamente un gruppo vulnerabile tra questi, specialmente quelle con bambini piccoli, proprio per la mancanza di un accesso alle cure sanitarie. I numeri sono elevati e le missioni di valutazione sia del governo che delle agenzie delle Nazioni unite necessitano di tempo prima di essere finalizzate”.

Il carattere transgenerazionale della crisi umanitaria emerge nelle parole di Saadat Abdullazada, attivista azera impegnata nell’organizzazione di training sui diritti delle donne, tra cui le questioni legate alla salute sessuale e riproduttiva: “I miei amici hanno visitato alcuni rifugi e hanno detto che specialmente le donne sono disperate. Loro da bambine furono costrette a lasciare le proprie abitazioni e adesso sono i loro figli a dover fare lo stesso, il che è difficile dal punto di vista psicologico”. Saadat Abdullazada descrive poi la situazione di una donna incinta, sistemata in un rifugio, che le aveva raccontato che sin da quando era piccola era cresciuta in un campo per rifugiati e che suo figlio era nato a sua volta come rifugiato. “Per me sarebbe davvero dura”, aggiunge Saadat, “non riesco neppure ad immaginare cosa stiano vivendo”.

Fare più figli per sostenere l’esercito

La violenza contro le donne va al di là dell’impatto diretto del conflitto sulle loro condizioni di vita; la violenza è strutturale e ha a che fare con il processo di “securitizzazione” perpetuato dai governi, che ha reso l’apparato militare il pilastro del sistema politico, economico e culturale. Gli ideali militaristi e la cultura machista si riversano sulle donne sotto forma di una struttura patriarcale, influenzando le loro vite quotidiane non solo durante la guerra, dunque provocando quello che la studiosa femminista Cynthia Cockburn definisce “un continuo di violenza”. Eppure ciò non significa che le donne siano consapevoli degli effetti dannosi della cultura di guerra sui loro diritti e le loro libertà.

“C’era così tanto fomentare la guerra in Armenia anche da parte delle donne”, spiega Arpi Bekaryan, attivista di pace e giornalista freelance. “Incitavano gli uomini ad andare a combattere. Se non eri nell’esercito, se non avevi servito, se non avevi combattuto, non eri un vero uomo. Alcune donne postavano su Facebook frasi del tipo: ‘Perché non vai? Perché sei ancora qui?’. C’era anche un altro gruppo su Facebook in cui alcune donne condividevano foto di soldati. Domandavano: ‘Chi è più bello?’, questo genere di cose”.

“In Azerbaijan”, racconta Saadat, “molte donne vogliono la guerra, dicono ‘rivogliamo indietro le nostre terre! Dobbiamo continuare la guerra!’. Ricordo che quando avevano preso uno dei villaggi e i notiziari avevano riportato l’evento, ho sentito un sacco di persone affacciarsi dai balconi e urlare. Molte di quelle erano voci di donne, che strillavano ‘il Karabakh è Azerbaijan!’. Non sono riuscita a dormire quella notte. Ciò non è sorprendente, siccome la maggior parte di quei discorsi è propaganda fatta nelle scuole. Noi non avevamo altra scelta. Le donne sono state cresciute pro-guerra”. Saadat riporta anche di alcuni post di Facebook scioccanti, pubblicati da donne e uomini azeri durante i giorni della guerra, che incitavano le donne a sposare i soldati disabili che tornavano dal fronte e a dare alla luce più figli per sostenere l’esercito, anche dietro compenso da parte del governo.

“Durante la guerra, ho iniziato a notare come molti in Armenia iniziassero a parlare di questioni di sicurezza nazionale, nel senso che noi dovevamo partorire più bambini per non avere problemi coi numeri della popolazione”, racconta Knarik Mkrtchyan, coordinatrice di progetti relativi all’agenda Donne, Pace e Sicurezza. “Il militarismo patriarcale considera i nostri corpi come se fossero degli incubatori – per dare alla luce dei soldati. Ho sentito da alcune mie amiche ‘non mi interessa se non mi sposo, io voglio un figlio, perché altrimenti avremo una crisi demografica’. Questo affermato in una società patriarcale! Davanti alla retorica militarista avere un figlio e non essere sposate non è poi una questione così importante, perché si ritiene che la gente capirebbe. D’altra parte, molti stanno iniziando a parlare di servizio miliare obbligatorio per le donne”.

Le donne hanno aderito all’angosciante e dolorosa responsabilità di essere madri della nazione prima che dei loro figliaccettando la morte dei figli da soldati come necessario sacrificio alla madrepatria, fino al punto che loro stesse hanno considerato di sacrificare le loro stesse vite. E tuttavia, questa mentalità pro-guerra influisce sui loro diritti riproduttivi. Non è un caso che sia l’Armenia che l’Azerbaijan si classificano tra le prime dieci posizioni su scala mondiale per rapporto  numerico maschi/femmine, con 113 bambini per 100 bambine, indice di un elevato numero di aborti selettivi.

L’integrazione di genere come prospettiva di cambiamento

Armenia e Azerbaijan presentano allarmanti tassi  di violenza di genere, che tendono ad aumentare in tempi di stress emotivo e frustrazione. In entrambi i paesi, le associazioni femministe hanno organizzato proteste per esortare i governi a ratificare la Convenzione di Istanbul del 2011 contro la violenza contro le donne. Ciò dimostra come la cultura anti-machista di alcune donne possa costituire un terreno comune per coinvolgere parte delle due popolazioni e decostruire la narrativa filo-militarista. Tuttavia, le questioni di genere non sono una priorità dei governi. Secondo Saadat: “La guerra è iniziata a settembre e noi dovevamo fare training sulle questioni di genere e sulla salute riproduttiva. Sarebbero dovuti terminare alla fine di novembre, ma sin da settembre non abbiamo potuto organizzare nulla poiché dovevano cooperare con un centro che dipende dal governo. Tale centro per i giovani ci ha detto che dovevano organizzare training su questioni storiche e militari e che non sarebbero stati disponibili ad organizzare training su questioni di genere. Avrebbero rischiato di indispettire la popolazione: ‘C’è la guerra e voi parlate di questioni di genere?’. Questo è quello che dicono”.

“In Armenia”, spiega Knarik, “fare peacebuilding non è ben visto al momento; è davvero un lavoro infame, poiché i peacebuilder vengono molto criticati. A questo punto, il lavoro del peacebuilder sta tutto nell’identificare le conseguenze della guerra, illustrare le conseguenze della guerra alla popolazione e, indirettamente, far notare che la pace è l’unica soluzione. Non usiamo un lessico diretto. Non è sicuro, la legge marziale è ancora in vigore in Armenia. Dobbiamo fare attenzione alle parole che scegliamo,  a qualsiasi cosa, alle interviste…”. Aggiunge: “Non c’era nemmeno una donna ai negoziati ufficiali. Non c’era interesse nel coinvolgere le donne. La mia visione è di incentivare un dialogo su livelli differenti se davvero vuoi ottenere una pace duratura. Questa è la soluzione che noi vogliamo per la pace”.

È proprio questo tipo di politiche a porte chiuse e tra élites che mina le prospettive di stabilizzazione nella regione, esacerbando la sfiducia e l’odio reciproco. Il nuovo assetto post-conflitto è una vittoria per le parti vincenti, ovvero Azerbaijan, Russia e Turchia. Allo stesso modo appare una sconfitta per le organizzazioni internazionali e primi tra tutti l’OSCE e il gruppo di Minsk, che hanno visto il loro ruolo politico da mediatori nel conflitto drasticamente ridotto. L’OSCE potrebbe rilanciarsi adottando un approccio integrato multi-livello, ovvero aprendo diversi canali di comunicazione tra mediatori e società civile, così come sottolineato dall’esperto di Caucaso Thomas De Waal  . Allo stesso modo, approcci innovativi dovrebbero andare oltre la visione tipicamente occidentale della pace liberale, secondo la quale il rafforzamento dello stato di diritto e della democrazia rappresenta l’unica strada verso la stabilizzazione. I donatori internazionali, anziché rivolgersi a gruppi ristretti, ad esempio tramite incontri transnazionali esclusivamente tra giornalisti o figure politiche di rilievo, dovrebbero fare fronte ai bisogni primari della popolazione in uno scenario post-conflitto. I progetti dovrebbero essere pragmatici e bottom-up, così da riprodurre delle comunità di pratiche, ovvero comunità di persone che condividono dei vantaggi dall’essere coinvolte in iniziative congiunte su base quotidiana.

Le attuali questioni  umanitarie critiche nello scenario post-conflitto sono anzitutto il processo di ricostruzione e la gestione del gran numero di sfollati e rifugiati, inclusi alcuni aspetti di natura psicologica come l’assistenza alle vittime di traumi da guerra. A questi si aggiungono e si intrecciano altre questioni delicate come la riabilitazione di terre arabili e pascoli, la cooperazione per la condivisione delle risorse idriche tra i villaggi armeni e azeri lungo i confini internazionali e infine, ma non per questo di minore importanza, il contrasto agli episodi di discriminazione di genere, che chiaramente si aggravano in seguito alla guerra. Prestare ascolto alle donne locali può suggerire agli attori internazionali quale direzione dovrebbe prendere un approccio incrementale. “Parlare di questioni veramente basilari, come l’elettricità, l’educazione dei bambini e non direttamente del conflitto”, suggerisce Afag, “sono queste le cose buone per costruire un terreno comune. Spero che le problematiche delle donne siano una di queste”.

Al momento in cui si scrive, è irragionevole immaginare una convergenza tra le due popolazioni. I processi di sminamento e ricostruzione saranno probabilmente completati prima della fine del decennio. Allora i contatti tra le popolazioni si intensificheranno e alcuni armeni e azeri si ritroveranno inevitabilmente vicini di casa. È tempo di iniziare a emancipare la popolazione locale attraverso progetti transnazionali. I bisogni delle donne potrebbero rappresentare un trampolino di lancio in questa direzione. Le donne potrebbero riscontrare diversi benefici nel venire coinvolte in progetti sensibili alle tematiche di genere di comune interesse su questioni critiche. Tali progetti possono consistere in coordinamento di case rifugio per vittime di violenza e programmi di supporto sia fisico che psicologico, sviluppo di un sistema di allarme rapido teso a contrastare la violenza di genere e campagne di sensibilizzazione. Infine, attori internazionali quali l’OSCE dovrebbero promuovere la creazione di un consiglio di donne che assista il processo negoziale. Mai prima d’ora l’adozione di una prospettiva di genere per la risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh rappresenta non solo una questione umanitaria, ma anche una possibilità di cambiamento.

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ZABEL YESSAYAN 1978 – 1943 scrittrice femminista e pacifista nell’Impero Ottomano e nell’Impero Sovietico (Gariwo 08.03.21)

Zabel Yessayan, armena di Costantinopoli, intellettuale impegnata e scrittrice, appartiene alla schiera dei disobbedienti, di quelle persone dotate di coraggio, fedeli a sé stesse, disposte a rischiare la libertà e la vita per testimoniare la verità. La sua prosa asciutta, priva di amplificazioni retoriche, rispecchia la sua personalità. Una lucida intelligenza si accompagna alla forza interiore, all’esercizio di una critica che la porta a cogliere in anticipo, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, i segni di un passaggio epocale e di grandi cambiamenti a livello politico, sociale e culturale.

Zabel Yessayan nasce a Costantinopoli nel 1878, e ancora bambina rivela la sua vocazione alla scrittura. Conseguito il diploma a 17 anni, grazie ad una borsa di studio offerta dalla comunità armena, prosegue gli studi a Parigi. Si iscrive alla Sorbona dedicandosi alla letteratura e alla filosofia. Collabora con articoli e traduzioni a numerose riviste letterarie francesiMercure de FranceHumanité NouvelleEcrit pour l’Art e con le riviste armene TzolkMer Uginaderisce ai movimenti femministi, sostenendo con particolare impegno e passione la causa della pace, che vede non disgiunta dall’obiettivo di creare le condizioni perché le donne possano accedere a tutti i livelli dell’istruzione. Un primo poema in prosa, Ode alla notte, viene pubblicato nel 1895 nel periodico armeno, “Tsaghig”, diretto da Arshak Chobanian.

Nel 1902, forse intuendo di vivere il momento cruciale della fine di un’epoca e la necessità di esserne testimone, da Parigi rientra a Costantinopoli, sola con una bambina in braccio, affrontando la reazione scandalizzata della comunità armena e turca per non essere accompagnata dal marito. Vive in casa della madre e insegna francese e letteratura nelle scuole armene di Costantinopoli; scrive sui giornali della capitale, fatto inconsueto per una donna in Turchia.

Entusiasta del nuovo regime parlamentare dei Giovani Turchi che ha preso il potere nel 1908, parla dalle tribune e organizza comizi politici, carica di speranze per il futuro. Si attiva anche nella fondazione di un circolo per riunire tutte le donne dell’Impero Ottomano di diverse religioni e etnie. In una lettera al marito Dikran scrive di avere incontrato il principe Sultanazade Mehmed Sabâhaddin discendente della dinastia Osman, definito la più importante voce liberale nel tramonto dell’Impero, presto costretto all’esilio; si è confrontata con lui sui temi della democratizzazione del Paese e il principe ha accolto con entusiasmo l’idea di Zabel di fondare una “Lega della pace”.

Dopo pochi mesi, tutto precipita nel buio della violenza e dei massacri. La rivoluzione dei Giovani turchi porta con sé un’anima autoritaria, violenta che presto avrà il sopravvento e schiaccerà sul nascere il progetto di cambiamento all’insegna della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. Era nato “il secolo delle idee assassine”. Nel 1909 in Cilicia, 30.000 armeni vengono brutalmente attaccati e sterminati. Ad Adana figure spettrali di sopravvissuti si aggirano tra le rovine di quella che era stata una città fiorente, ricca di fermenti economici, politici, culturali.

I Giovani Turchi, divisi al loro interno, avviano una indagine e Zabel è invitata dal Patriarcato a far parte di una delegazione per ricostruire in loco i fatti atroci scatenati in un mercoledì di Pasqua dall’irrompere di un odio incontrollabile. Ha anche l’ingrato compito redigere le liste degli orfani e dei sopravvissuti.

Dal giugno 1909 trascorre tre mesi tra Adana, Mersin e Kilis e alla fine di settembre torna a Costantinopoli. Scrive concentrata sulla tragedia del suo popolo il libro Nelle rovine, che pubblica prima dell’inizio del genocidio armeno. Testimonianza terrificante, non una semplice cronaca della tragedia di Cilicia, come precisa il traduttore, perché la narrazione degli eventi è diventata “pura letteratura” (Z. Yessayan, Nelle rovine, Ed. peQuod. Ancona 2008, traduzione di Haroutioun Manoukian).

Nell’introduzione Zabel osserva: Vorrei che la personalità dell’autrice fosse dimenticata, per ricordare che in queste pagine parlano talora il dolore, talora l’agitazione, talora l’angoscia, talora la disperazione provocata solamente da sentimenti umani. E conclude: Queste pagine devono essere considerate più che il risultato della sensibilità di una donna armena, le impressioni spontanee e sincere di qualsiasi essere umano. (Nelle rovine, pp.8-9). È, una riprova del livello universale a cui si è elevata la scrittura di Zabel Yessayan che guarda con dolore al fatto che tra turchi ed armeni si siano rafforzati sospetti e conflitti proprio nel momento in cui vivevano insieme “la grande gioia per la libertà nascente”. Zabel continua ad essere convinta che è possibile far nascere lo spazio in cui vivere insieme in pace.

Nel 1912 il ritorno degli immigrati musulmani profughi dai Balcani che si erano rifugiati a Costantinopoli suscita in lei sentimenti di condivisione dell’esilio: Privati della propria terra, della propria patria e clandestini Cosa hanno in comune con noi?  Le loro espressioni di dolore mi ricordano sofferenze profonde difficili da dimenticare, che dentro di me si stavano affievolendo (Melissa Bilal, Pavagan E- Yeter: Zabel Yesayan’ın Barış Çağrısını Duyabilmek, Kültür ve Siyasette Feminist Yaklaşımlar, Marzo 2009, Numero 7).

Zabel coglie i segni del male al loro sorgere. Si sta avvicinando la guerra, e non sopporta la mancanza di comprensione della catastrofe mondiale che si sta abbattendo sull’umanità. Ognuno vede solo il proprio dolore, mentre si imporrebbe una visione del sangue innocente che scorre negli schieramenti nemici: Da ambo le parti la gente dovrebbe gridare “Basta! Basta!” così forte da coprire il rumore dei fucili. (Zabel Yesayan, Pavagan E – Yeter, 1912, p.162).

Il 24 aprile del 1915 nell’Impero Ottomano si dà inizio al genocidio degli armeni da parte del governo dei Giovani Turchi con l’arresto e l’eliminazione degli intellettuali armeni, prima a Costantinopoli e poi nel resto dell’Impero. Diventata l’intellettuale più odiata per la pubblicazione del libro sui massacri di Adana e per il suo impegno pacifista; il suo nome è nella lista di proscrizione assieme a quello di poeti e intellettuali celebri subito eliminati. Sfugge alla caccia affannosa della polizia turca, e riesce fortunosamente a raggiungere prima la Bulgaria e poi il Caucaso, dove lavora con i rifugiati e raccoglie le testimonianze dei pochi sopravvissuti al genocidio.

Nel 1918 è a Baku, poi in Cilicia dove cerca di organizzare il trasferimento degli orfani. Continua il suo impegno di scrittura nelle novelleL’ultima coppa e La mia anima in esilio, dove narra le molte tragedie a cui ha assistito.

Dopo la presa del potere dei Soviet in Armenia alla fine del 1920, la Yessayan rientra a Parigi, dove partecipa al movimento letterario armeno dirigendo il giornale “Erevan”, e cercando di sostenere quella che definisce l’unica patria armena. A Parigi avverte la cocente delusione di una diaspora armena silente, fiaccata e prostrata. Per lei la letteratura armena occidentale è morta con il genocidio. Dello stesso parere sarà lo scrittore Hagop Oshagan,che a proposito della letteratura armena occidentale dirà che i talenti autentici di Parigi si logorarono “soggiogati dalle proprie disgrazie”.

Nel 1933 è di nuovo in Armenia, con i due figli. A coloro che le chiedono come ha potuto abbandonare gli agi di Parigi per una vita a Yerevan, Zabel risponde di avere scelto di lavorare per il futuro della sua patria.

A Mosca prende parte al primo Congresso degli Scrittori dell’Unione Sovietica. Insegna letteratura francese e armena all’Università statale di Yerevan e prosegue nella sua intensa produzione letteraria e poetica. Nel 1935 pubblica il suo capolavoro “I giardini di Silihdar” (Z. Yessayan, I giardini di Silihdar, Ed. pe Quod, Ancona 2010, traduzione di Haroutioun Manoukian),un’autobiografia e uno spaccato straordinario della vita della Costantinopoli cosmopolita di fine Ottocento. E’ presumibile che a questo testo si sia ispirato Orhan Pamuk per scrivere Istanbul.

Nel 1935 a Yerevan, il più grande poeta del tempo, Yeghishe Charents (1897-1937), comunista convinto, viene accusato di “nazionalismo”. Nel corso dell’interrogatorio condotto dal “Tribunale del popolo” dell’Armenia Sovietica, il grande poeta armeno non trovò nessun intellettuale che lo difendesse. Tutti conoscevano la devozione del poeta all’ideale del comunismo, ma la paura dominava i presenti. Zabel Yessayan, unica di 200 intellettuali, pronunciò una difesa appassionata di fronte ai colleghi che ascoltavano muti. Zabel conosceva il rischio al quale andava incontro con questo atto, ma in quel momento fece prevalere i valori in cui credeva e per i quali aveva lottato tutta la vita. Testimoniò in favore del poeta e scrisse il proprio destino. Fu un suicidio, ma non poteva ripensarsi diversa da ciò che sapeva di essere, una disobbediente testimone di verità. Charents fu condannato e imprigionato. Non si sa se sia morto in Siberia o a Yerevan in prigione. Zabel viene arrestata nel 1937deportata in Siberia dove muore, in circostanze sconosciute, si ipotizza nel 1943. L’Armenia volle dimenticare questo tragico episodio, portato alla luce recentemente dalla figlia di Charents. Il suo coraggio civile e la sua scelta di verità la resero vittima predestinata dello stalinismo.

Ho fotografato la casa natale in rovina di Charents a Kars, in Turchia, era in vendita, ma era proibito cederla a un armeno. Mi hanno riferito che ora è stata demolita. Un ennesimo episodio di “genocidio culturale” che accompagna i crimini contro l’umanità e che sino ad oggi viene attuato in Turchia per cancellare le tracce della presenza armena. Resta viva la voce del poeta e resta l’atto di coraggio di Zabel Yessayan, prima donna armena ad avere raggiunto le vette della letteratura universale, che voglio ricordare per le sue scelte di vita che testimoniano una fede incrollabile nella libertà e nella verità.

Nella quarta di copertina del libro Nelle rovine, la scrittrice turca Elif Shafak così si esprime: “Sto leggendo un libro eccezionale scritto da un’autrice eccezionale: parlo del romanzo di Zabel Yessayan Nelle rovine. Vissuta durante gli ultimi anni dell’Impero Ottomano, fu l’unica tra ben 234 intellettuali armeni che i Giovani Turchi temevano, al punto tale da farla fuori. Un’intellettuale autentica in perenne esilio”.

Ieri come oggi, gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, i Giusti ” testimoni di verità” sono perseguitati dai regimi autoritari. Per i disobbedienti non c’è via di scampo, è la fuga, l’esilio, la prigione, la morte. Sono la spina nel fianco del potere. La lista dei perseguitati continua ad allungarsi in tutti i paesi illiberali dove il nuovo nemico è l’autonomia di pensiero, la parola, la voce libera.

Nella giornata della donna ho voluto ricordare la storia poco nota di Zabel Yessayan, ma ricordo anche quella di tante donne in tanti paesi che hanno perso la vita, la libertà e la patria di origine per rimanere fedeli alle scelte di verità, per la lotta contro ogni forma di violenza e per l’aspirazione a migliorare il mondo.

Oggi, 8 marzo, il mio pensiero va alle donne armene, turche, azere: di ieri come Zabel Yessayan, di oggi come Pinar Selek, Ayse Nur Zarakolu, Eli Shafak, Arzu Geybullaieva. Alcune le abbiamo onorate al giardino dei Giusti di Monte Stella, e in altri giardini in Italia e nel mondo. Altre le onoreremo in futuro.

Biografia a cura di Pietro Kuciukian, Co-fondatore di Gariwo

Katerina Poladjan, La restauratrice di libri (Ansa 07.03.21)

ROMA, 07 MAR – KATERINA POLADJAN, LA RESTAURATRICE DI LIBRI (SEM, pp.224, 18 Euro). Ago e filo, e poi nodi e ancora nodi, tra carta, cuoio, legno e pigmenti naturali, per legare insieme la storia al presente.
Ma c’è soprattutto la memoria, personale e collettiva, come luogo in cui tornare per crescere, come strumento irrinunciabile per interrogarsi su quanto il passato sia ancora parte del presente e faccia da monito e, insieme, da guida. Ha un fascino discreto, spigoloso, che si insinua lentamente e costruisce un’atmosfera indimenticabile, l’ultimo libro di Katerina Poladjan “La restauratrice di libri”, edito da SEM. Con una penna che si distingue per l’intensa incisività dei dialoghi ma anche per il talento nel restare in bilico tra storia e finzione, l’autrice racconta di Helene, restauratrice di libri tedesca arrivata a Erevan per imparare le tecniche della legatoria armena. Mentre si trova a restaurare un evangeliario del XVIII secolo, passato di mano in mano fino ad arrivare, nel 1915, a una famiglia sulla costa del Mar Nero, la donna si lascia incuriosire dalla storia degli ultimi proprietari del libro, i fratelli Anahid e Hrant, in fuga dal genocidio armeno. Helene si trova di fronte all’enigma di una frase che si legge a malapena: “Hrant non vuole svegliarsi”.
Partendo da quelle parole, inizia per lei un viaggio dentro e fuori di sé, alla scoperta delle proprie radici e al tempo stesso delle vicende di un popolo che mai ha avuto pace nei secoli e che sempre ha lottato per esistere. Nel suo peregrinare, con lo sguardo sempre rivolto al maestoso Ararat, Helene conoscerà un Paese accogliente, dalla forte identità, ma sempre memore del proprio dolore: in Armenia è impossibile non toccare con mano quanto il genocidio, l’esilio, il senso di perdita ma anche la ferita per l’indifferenza degli altri riguardi ogni cittadino, nessuno escluso.
Indagando la storia dell’evangeliario e procedendo a restaurarlo (un’impresa tanto affascinante quanto complessa), la donna conosce e si innamora di Levon, un soldato impegnato nel secondo conflitto del Nagorno-Karabakh. Ogni passo fatto in avanti nelle ricerche per il libro, ogni persona incontrata nella sua permanenza in Armenia, sarà per la restauratrice un insegnamento di vita, su come non si possa mai davvero sfuggire alla propria storia, per quanto dolorosa possa essere. In un romanzo coinvolgente fin dalle prime pagine, in cui una narrazione “sdoppiata” e dal duplice finale alterna passato e presente, Poladjan trascina il lettore nell’Armenia di oggi e ne restituisce l’anima. La scrittrice dipana storie che si intrecciano e si uniscono esattamente come Helena annoda i fili dei libri che restaura: attraverso gli occhi della sua protagonista, Poladjan racconta il genocidio negato e ignorato degli armeni accanto ai conflitti attuali, per gridare non solo il loro diritto a esistere ma anche l’importanza della loro ricca eredità di tradizioni e cultura. Al tempo stesso, l’autrice celebra il libro come preziosa “patria portatile” sempre bisognosa di cure, che nei secoli custodisce proteggendo dall’oblio la storia dei popoli. (ANSA).

Comabbio racconta l’Armenia: il programma completo (Artslife 06.03.21)

È un’iniziativa di respiro internazionale la rassegna Comabbio racconta l’Armenia, del Comune di Comabbio, che si svolge da venerdì 5 marzo a domenica 23 maggio con un ricco programma di incontri online, ai quali si aggiungeranno alcuni appuntamenti in presenza, compatibilmente con l’evolversi della pandemia.

Un progetto ambizioso che ha raccolto il contributo dei più importanti rappresentanti, studiosi e conoscitori della cultura armena provenienti da Italia, Armenia, Stati Uniti e Turchia. Tra i nomi più noti, la scrittrice di origini armene Antonia Arslan, autrice del bestseller La Masseria delle Allodole, tradotto in oltre 20 lingue, che ha riportato alla ribalta il tema del genocidio armeno. Previste anche due conferenze online rivolte agli studenti delle scuole superiori, il 30 marzo e il 22 aprile, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Provinciale di Varese.

5 marzo

“Armenia l’altopiano delle sorprese”, un’introduzione all’Armenia a cura di Massimo Rolandi, docente, Shushan Martirosyan esperta di viaggi di Yerevan, e Aldo Oriani, naturalista ornitologo e teriologo.

12 marzo

Marco Ruffilli, membro dell’Association Internationale des Études Arméniennes, racconterà la storia e l’affascinante simbologia del khachkar, stele di pietra tipica dell’Armenia sulla quale è scolpita la croce con altri elementi.

Garni canyon, parete rocciosa in basalto a canne d’organo. Foto Nadia Pasqual
19 marzo

Antonia Arslan sarà in scena con “Ballata Caucasica”.

26 marzo

Lo chef armeno Sedrak Mamulyan parlerà di cucina tradizionale armena in collegamento dall’Armenia.

27 marzo

Siobhan Nash-Marshall, professore di filosofia al Manhattanville College di New York, affronterà i temi del genocidio armeno e del negazionismo turco.

9 aprile

L’architetto Paolo Arà Zarian racconterà il suo intervento per il restauro dei dipinti murali del monastero di Dadivank in Karabakh.

Lago Sevan ghiacciato. Foto Nadia Pasqual
16 aprile

Sarà dedicato a oltre due millenni di storia armena l’intervento di Aldo Ferrari, professore di storia, lingua e letteratura armena all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

23 aprile

Parlerà dell’attuale situazione politica e sociale in Armenia, anche alla luce delle conseguenze del recente conflitto per il controllo del Karabakh, il giornalista Simone Zoppellaro.

24 aprile

In occasione dell’anniversario del genocidio armeno, il pianista e musicologo Alberto Nones ci condurrà in un piccolo viaggio musicale
in Armenia con alcuni brani armeni.

30 aprile

Sarà invece un viaggio virtuale attraverso la Repubblica d’Armenia l’incontro con Nadia Pasqual, autrice della prima guida di viaggio italiana interamente dedicata al Paese, e Shushan Martirosyan, che faranno conoscere i luoghi più interessanti da visitare sotto il profilo storico, culturale e naturalistico.

Caravanserraglio, Selim, venditore locale. Foto Nadia Pasqual
7 maggio

Appuntamento con due insigni rappresentanti della diaspora armena in Italia, Pietro Kuciukian, Console onorario della Repubblica d’Armenia in Italia, e il prof. Baykar Sivasliyan, armenista e presidente dell’Unione Armeni d’Italia, che parleranno degli armeni, popolo di cerniera tra l’Occidente e l’Oriente.

15 maggio

Incontro con Mons. Levon Arciv. Zekiyan, Arcieparca degli armeni cattolici di Istanbul e di Turchia e Delegato Pontificio per la Congregazione Mechitarista, che celebrerà la Messa Vespertina e terrà una conferenza. Sempre il 15 maggio si svolgerà un laboratorio sull’alfabeto armeno e verranno inaugurate le mostre dei fotografi Emanuele Cosmo e Marco Ansaloni.

16 maggio

Concerti all’alba e al tramonto del trio Piovan-Fanton e un laboratorio sui khatchkar.

22 maggio

Spettacolo “Canta, gru, canta” reading-mise en espace della Compagnia CamparIPadoaN con la regia di Giulio Campari, interpretato dagli attori Natascha Padoan e Marco Balbi. Una ballata per l’Armenia, che darà voce alla memoria di donne e uomini armeni, vittime dimenticate del genocidio.

23 maggio

La rassegna si concluderà con una tavola rotonda.

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