L’eredità della guerra (Insideover 19.02.21)

E’ una notte senza fine quella che cala sull’ Armenia il 9 novembre 2020. La notizia della dichiarazione della fine della guerra e dell’accordo di pace trilaterale firmato da Russia, Armenia e Azerbaijan entra nella case di 3 milioni di cittadini armeni attraverso un post su facebook del premier Nikol Pashinyan: la guerra del Nagorno Karabakh è finita, la guerra è persa. Sarebbe una notte di estremo cordoglio e silenziosa pena se il furore collettivo maturato per l’ avvilente sconfitta non trascendesse il dolore e conferisse alle ore che seguono il cessate il fuoco una disperazione tragica e irata.

A Yerevan, all’annuncio delle condizioni della resa, segue infatti un’esplosione di rabbia corale. Centinaia di migliaia di persone, una marea orfana di risposte e votata all’impresa del rancore, occupa le strade della capitale, il parlamento, i palazzi governativi e la casa del premier. L’accettazione della sconfitta, lontana dallo scibile della gran parte dei cittadini, e il materializzarsi, di nuovo, nella storia del popolo armeno, di quell’anatema di morte che l’ha condannato nei secoli a privazioni territoriali, deportazioni e genocidi, sconvolgono e incendiano la popolazione che manifesta e chiede, in pasto alla folla e in pegno alla storia, il premier e il suo governo.

I manifestanti urlano mentre protestano contro un accordo per la fine dei combattimenti nella regione del Nagorno-Karabakh, presso il palazzo del governo a Yerevan, Armenia, martedì 10 novembre 2020. L’Armenia e l’Azerbaigian hanno annunciato martedì un accordo per porre fine ai combattimenti nella regione del Nagorno-Karabakh dell’Azerbaigian nell’ambito di un patto firmato con la Russia che prevede il dispiegamento di circa 2.000 peacekeeper e concessioni territoriali. (Foto AP/Dmitri Lovetsky)

Una notte che ancor oggi, a quasi due mesi di distanza dalla fine delle ostilità, continua a perdurare nel Paese caucasico che dalla guerra ha avuto in eredità oltre centomila sfollati, migliaia di vittime e una popolazione spaccata tra chi supporta il primo ministro e la sua decisione di non dimettersi, cercando così di preservare le traballanti impalcature democratiche che il suo esecutivo in due anni è riuscito a istituire, e chi invece lo accusa di aver tradito la nazione, di aver lasciato il Karabakh ai nemici, di aver mentito sull’andamento del conflitto, e di essere quindi il primo responsabile della morte di oltre 3000 giovani soldati.

La polizia arresta una donna durante una manifestazione contro l’accordo per la fine dei combattimenti nella regione del Nagorno-Karabakh, nella Piazza della Libertà a Yerevan, Armenia, mercoledì 11 novembre 2020. L’accordo prevede che le forze armene cedano il controllo di alcune zone che detenevano al di fuori dei confini del Nagorno-Karabakh, compresa la regione di Lachin, attraversata dalla strada principale che porta dal Nagorno-Karabakh all’Armenia (AP Photo/Dmitri Lovetsky)

Il 27 settembre l’Azerbaijan, con il supporto della Turchia di Erdogan, ha dato inizio a un’aggressione militare contro il Nagorno Karabakh, terra storicamente armena ma che nel 1921 è stata assegnata da Stalin all’Azerbaijan con l’obiettivo di fare del paese bagnato dal Mar Caspio un avamposto da cui esportare la rivoluzione bolscevica sia verso est che verso la Turchia. Alla fine degli anni Ottanta le richieste di indipendenza da parte di decine di migliaia di armeni sono state respinte e la convivenza tra la comunità azera e quella armena si è fatta sempre più difficile tanto che hanno incominciato a registrarsi scontri e massacri da ambo le parti che hanno portato a un inevitabile conflitto che dal ’92 al ’94 ha causato la morte di oltre 20mila persone. Solo un flebile cessate il fuoco ha fermato la guerra negli anni ’90 che si è conclusa con la vittoria finale degli armeni che hanno occupato l’intera regione e proclamato la nascita della repubblica dell’Artsakh, non riconosciuta ad oggi da nessuno Stato al mondo. Formalmente però, in base agli accordi e alle risoluzioni internazionali, il Nagorno Karabakh è sempre appartenuto all’Azerbaijan ed è questo il motivo per cui la regione è stata di nuovo il teatro di una doloroso e sanguinario conflitto, dal 27 settembre al 9 novembre 2020. E dopo 44 giorni di duri combattimenti, Baku ha conseguito la vittoria militare prendendo di nuovo il controllo di 7 distretti contesi della regione caucasica, della storica e iconica città di Shushi e di altri importanti centri del Karabakh.

Un uomo azero balla mentre altri tengono bandiere nazionali mentre celebrano il passaggio della regione di Lachin sotto il controllo dell’Azerbaigian, come parte di un accordo di pace che ha richiesto alle forze armene di cedere i territori azeri che detenevano fuori dal Nagorno-Karabakh, ad Aghjabadi, Azerbaigian, martedì 1 dicembre 2020. L’Azerbaigian ha completato la restituzione del territorio ceduto dall’Armenia in base a un accordo di pace mediato dalla Russia che ha messo fine a sei settimane di feroci combattimenti nel Nagorno-Karabakh. Il presidente azero Ilham Aliyev ha salutato il ripristino del controllo sulla regione di Lachin e altri territori come un risultato storico. (AP Photo/Emrah Gurel)

E’ mattina, una leggera neve imbianca la capitale armena, oggi però non ci sono comizi o scioperi, non ci sono maggioranza ed opposizione, c’è solo il dolore assoluto per le vittime della guerra. Il governo ha proclamato tre giorni di lutto cittadino e nella piazza Hanrapetutyan Hraparak il vento smuove la bandiera armena issata a mezz’asta sopra il parlamento. Migliaia di persone marciano in silenzio sino a Yerablur, il cimitero militare di Yerevan dove, da più di un mese, quotidianamente, vengono celebrati i funerali di tutti i ragazzi caduti.

I parenti di Mkhitar Beglarian, un soldato di etnia armena dell’esercito del Nagorno-Karabakh ucciso durante un conflitto militare, piangono durante il suo funerale in un cimitero di Stepanakert, la regione separatista del Nagorno-Karabakh, domenica 15 novembre 2020. Le forze di etnia armena detenevano il controllo del Nagorno-Karabakh e dei territori adiacenti dalla fine di una guerra separatista nel 1994. I combattimenti sono nuovamente esplosi alla fine di settembre e si sono ora conclusi con un accordo che prevede che l’Azerbaigian riprenda il controllo dei territori periferici e che gli consente di mantenere le parti del Nagorno-Karabakh conquistate durante i combattimenti. (AP Photo/Sergei Grits)

E’ una collina di sepolcri irrequieti sui pendii della quale la realtà riduce in polvere l’idea stessa di speranza: in ogni dove ci sono foto di ragazzi sorridenti che sembrano, in quei sorrisi, ricordare a loro stessi e al mondo tutto, quando e quanto erano felici e vivi. Albert, aveva diciott’anni, il suo ritratto è divenuto un’immagine iconica del conflitto e oggi il suo sorriso è inciso su una lastra di marmo ricoperta da un manto di rose bianche. Ed è lo stesso sorriso che hanno Arman, Karen, Grigor e gli oltre tremila ragazzi di 18,19,20 anni che ora giacciono in un camposanto somma di tutte le insensatezze con cui è impossibile venire a patti. Non c’è più, qui a Yerevan, il canglore della propaganda dei giorni della guerra e neppure la canea dei proclami irredentisti che strabordanti di storia semplice e vendetta immediata invitavano alla lotta ad oltranza sulle montagne del Karabakh. C’è invece Anna, un’anziana madre, che accende incensi e bacia le lettere del nome del proprio bambino. C’è poco distante un padre, un militare, che con una dolcezza inaspettata dalle pieghe dure del volto, accarezza il ritratto del figlio e osserva la foto con due occhi asciutti privi persino della consolazione di un pianto. E sono occhi vuoti, lontani, persi nel paesaggio dei propri ricordi, quelli di un uomo che statuario, solo, tra la moltitudine dei presenti, accarezza il monumento di suo fratello. Non ci sarà altro orizzonte per questi genitori e questi fratelli se non quello del passato, costretti a scontare in solitudine la propria condanna di sopravvissuti con soltanto la memoria come unico ed estremo conforto dai torti della storia e dalle ingiustizie della vita.

I parenti di Aram Azumanyan, 19 anni, vittima del conflitto, piangono sulla sua tomba nel cimitero di Stepanakert, capitale della regione separatista del Nagorno-Karabakh, domenica 22 novembre 2020. In tutta l’Armenia e nel Nagorno-Karabakh si tengono funzioni religiose e manifestazioni commemorative per onorare la memoria delle persone morte durante il conflitto. (AP Photo/Sergei Grits)

E le ingiustizie della vita sono ben visibili anche all’Ospedale militare di Yerevan dove oltre 200 ragazzi, rimasti gravemente feriti o mutilati durante i combattimenti ricevono cure e attenzioni. ”Qui la maggior parte dei ragazzi ha tra i 18 e i 20 anni. Sono giovani ragazzi che hanno appena iniziato la loro vita adulta e per loro il fatto di essere qui, in queste condizioni, è estremamente drammatico”, racconta la direttrice del centro, la dottoressa Lucine Poghosyan, che prosegue spiegando: ”Noi cerchiamo non solo di dare loro un aiuto medico ma anche di creare un ambiente famigliare e di dare supporto psichiatrico. In molti soffrono di disturbi psichici dovuti agli orrori che hanno vissuto e di cui sono stati vittime”. Nel reparto di fisioterapia ci sono ragazzi che hanno perso gambe e braccia, alcuni non riescono più a camminare e avere pieno controllo dei propri arti, altri ancora, a causa delle lesioni muscolari dovute alle schegge, devono reimparare a stare in equilibrio e la dottoressa Poghosyan confida: ”Una volta è stato portato qui un giovane di soli 19 anni, non aveva le braccia e neppure le gambe e aveva una terribile ferite al ventre. Lui era cosciente e noi non sapevamo come aiutarlo: una tragedia”.

Un soldato viene portato in ospedale dopo essere stato ferito al fronte nella periferia di Stepanakert, Nagorno-Karabakh, venerdì 6 novembre 2020. (AP Photo/Ricard Garcia Vilanova)

Alcuni dei giovani pazienti ricoverati conservano nei tratti malinconici del volto il ricordo dei ragazzini che sono stati sino a pochi mesi fa, altri invece sembrano essere invecchiati all’improvviso in margine alla morte, e poi c’è un ragazzo, un militare di leva, ha solo 21 anni e durante gli scontri ha perso entrambe le gambe da sopra il ginocchio. Il giovane soldato non vuole ricordare i giorni della guerra e dei combattimenti, e il perchè del suo silenzio lo esterna con una lapidaria, drammatica e commovente domanda…

Vaccino Covid, il presidente di Moderna: «Contro le varianti testiamo la terza dose» (Corriere della Sera 19.02.21)

«A noi bastano due settimane per sviluppare un vaccino diretto contro una variante del coronavirus». Noubar Afeyan, cofondatore e presidente di Moderna, è l’anima dell’azienda statunitense che produce uno dei due vaccini anti-Covid a base di Rna messaggero già disponibili per la popolazione (l’altro è di BioNTech/Pfizer).

Come state affrontando il problema delle varianti e quanto tempo richiederebbe una eventuale riformulazione del vaccino?
«Dopo il sequenziamento di Sars-CoV-2, a gennaio 2020, abbiamo messo a punto il vaccino in due settimane. Un risultato senza precedenti. A fronte della comparsa di una nuova variante del virus, può essere modificato negli stessi tempi, due settimane o anche meno. Ci stiamo già lavorando e sta per partire lo studio sui volontari. Diverso è il discorso relativo ai tempi di approvazione: serve un certo numero di casi di infezioni da variante per poter svolgere i test».

E poi cosa succede?
«C’è il passaggio delle Agenzie regolatorie: penso si vada nella direzione di accelerare i tempi per eventuali formulazioni anti-varianti. La mia previsione è che avremo i risultati entro un paio di mesi. Ma non è detto che per affrontare le varianti servano nuovi vaccini. Stiamo per esempio ragionando sulla possibilità di somministrare una terza dose (booster) del vaccino sviluppato sulla sequenza originaria. Dopo la somministrazione, l’organismo produce anticorpi diretti verso molte parti della proteina Spike (che permette al virus di entrare nelle cellule, ndr): una variante può sfuggire in alcuni punti, ma non in tutti».

La tecnica dell’Rna messaggero (mRna) è nota dal secolo scorso, ma solo con la pandemia di Covid se ne sono comprese le potenzialità. Quando vi siete resi conto che avrebbe potuto rappresentare un’arma efficace contro il coronavirus?
«Studiamo questa tecnologia dal 2010, con l’obiettivo di creare una nuova classe di farmaci. Oggi abbiamo una ventina di programmi attivi: uno riguarda un vaccino antinfluenzale di nuova concezione, che speriamo possa raggiungere un’efficacia molto più alta rispetto al 50-60% offerto da quello che utilizziamo oggi. La piattaforma che utilizziamo, quella dell’Rna messaggero, permette di codificare velocemente migliaia di molecole, produrle e testarle. Abbiamo deciso di tentare questa strada anche per Covid. Non avevamo idea di quanto un vaccino contro un virus completamente nuovo avrebbe potuto essere efficace e se avremmo potuto produrne quantità sufficienti. Ma di certo non si è trattato di un colpo di fortuna: dietro il vaccino di Moderna ci sono anni di lavoro e un investimento di miliardi di dollari».

La piattaforma mRna è considerata da molti esperti «rivoluzionaria»: in che modo potrà essere utilizzata dopo la pandemia?
«Oltre all’antinfluenzale, stiamo studiando un vaccino contro il Citomegalovirus e in futuro vorremmo concentrarci sull’Hiv. Penso che questa tecnologia resterà protagonista anche in futuro».

L’impatto del vaccino anti Covid è stato paragonato a quello di Amazon nell’e-commerce: si riconosce in questa affermazione?
«Siamo onorati dal confronto con Amazon, ma il nostro lavoro è completamente diverso. Immaginiamo un nuovo modo di produrre farmaci, per cui non si debba ripartire ogni volta da zero. La piattaforma mRna può essere una base comune per molti prodotti diversi»

Da dicembre state testando Moderna anche sugli adolescenti: ci sono già i primi risultati?
«Non manca molto, stiamo andando avanti coi test e appena saremo pronti chiederemo l’approvazione per la fascia 12-18 anni. Inoltre abbiamo avviato un nuovo studio per i bambini dai 6 mesi ai 12 anni che include nuovi dosaggi, più bassi ovviamente rispetto a quelli degli adulti».

Come valuta la proposta — già attuata in Gran Bretagna — di allungare il tempo tra la prima e la seconda dose?
«Di fatto i Paesi che stanno prolungando l’attesa stanno sperimentando. E va bene, hanno il diritto di farlo. È sicuramente meglio che non vaccinare. Ma è difficile sia per gli scienziati sia per i produttori affermare che si tratti di una scelta efficace».

È possibile utilizzare vaccini diversi per le due dosi?
«Anche in questo caso non si può escludere a priori. Stiamo conducendo dei test. Ossia stiamo capendo se il nostro sistema mRna possa potenziare la prima dose somministrata con altri tipi di vaccino».

Due giorni fa la Commissione europea ha autorizzato un secondo contratto con Moderna, per 300 milioni di dosi aggiuntive. Che tempi di consegna prevedete?
«Si tratta di 150 milioni di dosi nel 2021. Inoltre l’Europa ha sottoscritto l’opzione di acquistarne altri 150 milioni nel 2022 che si vanno ad aggiungere ai 160 già acquista. Questo porta l’ordine totale dell’Ue a 310 milioni di dosi da consegnare nel 2021. Ci sono altre trattative in corso ma non ho libertà di parlarne».

E sulla produzione come contate di fare? Aprirete nuovi impianti?
«Al di fuori degli Stati Uniti abbiamo iniziato a produrre da zero con l’azienda Lonza in Svizzera. Non abbiamo in programma di aprire nuove sedi perché non potremmo farlo abbastanza velocemente, dunque tutto questo non servirebbe».

State pensando anche a mercati come l’Africa o il Sud America?
«Stiamo lavorando con il Covax (il programma di solidarietà per i Paesi in via di sviluppo, ndr) e con Unicef e siamo speranzosi di soddisfare il bisogno di questi Stati tra il 2021 e il 2022».

Lei è di origine armene, il suo popolo ha subito il genocidio e la diaspora. Che influenza ha avuto la storia della sua famiglia sulla sua vita?
«Sono nato in Libano perché mio nonno era arrivato qui dopo il genocidio. Poi siamo venuti via, durante la Guerra civile. Tutto ciò mi ha sempre fatto sentire un migrante e mi ha portato a voler dare delle radici a i miei figli. Da vent’anni a questa parte ho portato avanti progetti filantropici sia per l’Armenia che per i migranti. E continuerò a farlo».

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Il conflitto in Nagorno-Karabakh accende i riflettori sulle vendite di armi israeliane all’Azerbaigian (Globalvoices 19.02.21)

Dopo 44 giorni di guerra, un accordo negoziato dalla Russia ha condotto a una pace incerta in Nagorno-Karabakh [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione]. Il 27 settembre l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva per riconquistare questo territorio montuoso, che aveva perso a causa delle forze etniche armene nella guerra del 1988-1994. Baku ha vinto, ma la guerra è costata diverse migliaia di vite.

L’accordo di pace annunciato il 10 novembre ha ridisegnato la mappa del Caucaso meridionale. Nei prossimi due mesi, all’Azerbaigian verrà assegnato il controllo di tutti i distretti che circondano il Nagorno-Karabakh, caduto sotto il controllo degli armeni del Karabakh durante la prima guerra. Lo status di quella sezione del Nagorno-Karabakh che l’Azerbaigian non ha conquistato, compresa la capitale pesantemente bombardata di Stepanakert, rimane poco chiaro. Circa 2000 forze di pace russe pattuglieranno la regione, così come una strada strategicamente importante che la collega all’Armenia.

La vittoria dell’Azerbaigian è stata in gran parte dovuta al sostegno esterno. Lo stato membro della NATO, la Turchia, con cui l’Azerbaigian ha stretti legami culturali ed economici, si è schierato dalla parte di Baku, offrendo supporto politico, competenza militare e mercenari dalla Siria.  

Anche l’amicizia di Baku con Israele è stata cruciale per i suoi successi sul campo di battaglia. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (IIRPS), il 60% di tutte le importazioni di armi dell’Azerbaigian tra il 2015 e il 2019 proviene da Israele. Tra questi ci sono il veicolo corazzato SandCat e diversi modelli di fucili.

È importante sottolineare che queste importazioni hanno aiutato l’Azerbaigian a raccogliere una flotta di droni militari, che ha travolto i sistemi di difesa aerea dell’Armenia e ha ribaltato la situazione a favore di Baku. Come ha comunicato all’Asia Times il 14 ottobre una fonte importante dell’esercito israeliano, “l’Azerbaigian non sarebbe stato in grado di continuare la sua operazione a questo livello senza il nostro sostegno”.

Non tutti in Israele vedono in queste parole un motivo di orgoglio.

L’uso da parte dell’Azerbaigian di armamenti sofisticati come questi ha ucciso civili in Nagorno-Karabakh. Si ritiene che la maggior parte della popolazione etnica armena sia fuggita dal territorio. Nelle ultime settimane, i droni Harop di fabbricazione israeliana sono stati visti nei cieli sopra Stepanakert, mentre i residenti della città si sono riparati nei seminterrati. Questi cosiddetti “droni kamikaze” sono stati utilizzati anche dai militari azeri negli scontri in Nagorno-Karabakh nel 2016.

In Nagorno-Karabakh hanno fatto la loro comparsa anche le bombe a grappolo di fabbricazione israeliana. Nelle dichiarazioni del 5 e del 23 ottobre, Amnesty International e Human Rights Watch hanno affermato che in più occasioni l’esercito azero aveva sparato munizioni a grappolo M095 DPICM e LAR-160 fabbricate da Israele in aree residenziali della città (ci sono anche prove che suggeriscono che in un’occasione il 30 ottobre l’Armenia abbia lanciato un razzo con munizioni a grappolo Smerch contro la città azera di Barda). Né l’Armenia né l’Azerbaigian (né Israele) hanno firmato la Convenzione sulle bombe a grappolo, che vieta l’uso di tali armi indiscriminate.

Seppure il governo israeliano potrebbe non aver rilasciato alcun commento sul conflitto, gli armeni ritengono che questi accordi sulle armi dicano tutto ciò che debba essere detto.

La portavoce del ministero degli Esteri armeno @naghdalyan: “Per noi, la fornitura di armi ultramoderne da parte di Israele all’Azerbaigian è inaccettabile, soprattutto ora, data l’aggressione nei confronti dell’Azerbaigian supportata dalla Turchia”.

Dall’inizio del conflitto in Nagorno-Karabakh, giornalisti e controllori del traffico aereo in Israele hanno notato un aumento del numero di voli cargo della compagnia SilkWay Airlines, un vettore collegato al Ministero della Difesa dell’Azerbaigian che atterra alla base aerea militare di Ovda nel sud di Israele:

Terzo velivolo azero da Ankara questa settimana. Avvistato ieri in Israele un 4k-az40

L’Armenia ha reagito con forza. All’inizio di ottobre, appena due settimane dopo l’apertura di un’ambasciata a Tel Aviv, l’Armenia ha richiamato il suo ambasciatore per consultazioni. Quando in seguito gli è stato chiesto dal presidente israeliano Reuven Rivlin se l’Armenia accoglierebbe favorevolmente gli aiuti umanitari, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha esclamato: “Aiuti umanitari da un paese che vende armi ai mercenari, che le usano per colpire una popolazione civile pacifica? Propongo che Israele invii quegli aiuti ai mercenari e ai terroristi come logica continuazione delle sue attività”.

In un’intervista al Jerusalem Post del 3 novembre, Pashinyan ha paragonato Israele al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per il sostegno dato all’Azerbaigian, un po’ strano date le relazioni tese tra i due paesi. Tel Aviv, ha concluso, aveva aiutato e favorito il genocidio contro gli armeni in Nagorno-Karabakh e prima o poi la Turchia avrebbe rivolto le sue “ambizioni imperialistiche” verso Israele.

Affinità eccentriche

Per quasi trent’anni, il conflitto in Nagorno-Karabakh ha eluso i tentativi di estranei di adattarlo a modelli precisi. All’apparenza, Israele e Azerbaigian potrebbero non essere i partner più ovvi. Ma questo è esattamente ciò che rende la loro amicizia così simbolicamente importante.

Fino alla recente distensione di Israele con gli Stati del Golfo, l’Azerbaigian era uno dei pochi Stati a maggioranza musulmana nel Vicino Oriente con cui Tel Aviv poteva dire di avere rapporti veramente cordiali. Ci si può aspettare che Baku nutra una certa simpatia per la difficile situazione dei palestinesi, dato un parallelismo con le centinaia di migliaia di etnici azeri espulsi dal Nagorno-Karabakh negli anni ’90, azeri che finalmente torneranno alle loro case.

Eppure questa amicizia richiede altro. Come ha affermato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2016, Israele e Azerbaigian sono “un esempio di come le relazioni tra musulmani ed ebrei potrebbero e dovrebbero essere ovunque”. Per questo motivo, elogi all’Azerbaigian e al presidente Ilham Aliyev emergono periodicamente sulla stampa israeliana e sui giornali della comunità ebraica di tutto il mondo, sebbene siano più cauti riguardo al record abissale di violazione dei diritti umani dell’Azerbaigian.

Questi spesso riguardano la comunità ebraica dell’Azerbaigian, che conta decine di migliaia di persone, e gode di buoni rapporti con il resto della società azera. Nelle ultime settimane, le autorità azere si sono adoperate per giustapporre il multiculturalismo del loro Paese, con particolare riferimento alla sua comunità ebraica, con un’Armenia relativamente monoculturale. Un esempio calzante è questo video di Daniel, un giovane azero discendente dagli ebrei della montagna [it], che spiega perché era pronto a combattere per l’Azerbaigian:

L’#Azerbaigian ospita molte etnie e religioni, inclusi 30.000 #ebrei che hanno vissuto pacificamente nel Paese per 2000 anni. Ecco la storia di #Daniel, un ebreo di montagna, che si è offerto volontario per combattere per la sua patria, difendendo la sua integrità territoriale dall’invasione dell’#Armenia.

Inoltre, circa 70.000 ebrei azeri vivono in Israele, dove hanno condotto una campagna a sostegno di Baku durante la recente guerra.

Questa amicizia ha anche un carattere profondamente pratico, poiché l’Azerbaigian condivide un lungo confine con l’Iran, l’arcinemico di Israele.

Ciò fornisce a Tel Aviv molte opportunità strategiche, afferma Jeff Halper, analista israeliano, attivista e autore di War Against The People, un libro del 2015 sullo stato di sicurezza israeliano. Per decenni, ha osservato Halper in uno scambio di e-mail con GlobalVoices, Israele ha perseguito una “strategia della periferia” per circondare il mondo arabo di alleati politici e militari, che dagli anni ’90 includono Stati post-sovietici come l’Azerbaigian.

“Israele fornisce all’Azerbaigian consigli e armi per l’antiterrorismo, anche contro la sua opposizione interna, mentre l’Azerbaigian fornisce a Israele un laboratorio sul campo di battaglia per tecnologie militari all’avanguardia”, spiega Halper. Anche le forniture energetiche dell’Azerbaigian costituiscono un’attrazione; Baku ha iniziato ad esportare petrolio in Israele nel 1999 e ora costituisce il 37% di tutte le importazioni israeliane.

Secondo Zaur Shiriyev, ricercatore del Caucaso presso l’International Crisis Group, la svolta nelle relazioni israelo-azere è avvenuta nel 2010 e aveva poco a che fare con l’Iran. In questo periodo, ha detto Shiriyev a GlobalVoices, Baku ha riconosciuto l’urgenza di modernizzare le sue forze armate, mentre il deterioramento delle relazioni con la Turchia ha costretto Israele a cercare nuovi partner. “Israele è stato complementare alla Turchia in un altro ruolo: fare pressioni su Washington per gli interessi azeri”, ha aggiunto Shiriyev.

L’Armenia non poteva competere con quell’offerta.

Tuttavia, il popolo armeno e israeliano condividono qualcosa di non meno tangibile: il trauma delle più grandi atrocità del ventesimo secolo. Entrambi sono gli Stati-nazione dei sopravvissuti al genocidio. Sono anche entrambi gli Stati che, nei decenni più recenti, hanno trionfato sui loro vicini in violenti conflitti, acuiti dal timore che la storia potesse ripetersi.

Per gli armeni, ciò rende il rifiuto di Israele di riconoscere il genocidio armeno del 1915 particolarmente imperdonabile, portando le relazioni in un vicolo cieco. Ciò potrebbe benissimo alimentare gli atteggiamenti negativi nei confronti degli ebrei in Armenia, come registrato dal Pew Research Center in un sondaggio d’opinione del 2019. Alcuni nella piccola comunità ebraica del paese si sono sentiti molto combattuti per il sostegno di Israele all’Azerbaigian; come ha chiesto un intervistato ebreo armeno in un’intervista al quotidiano israeliano Ha’aretz, “l’Armenia è Davide. Perché Israele sta armando Golia?”

Una questione etica

I funzionari israeliani hanno proposto in diverse occasioni l’idea di riconoscere il genocidio armeno. Tuttavia, questi hanno in gran parte coinciso con i cambiamenti nelle relazioni con la Turchia, dove gli omicidi di massa sono definiti come “deportazioni”. Alcuni israeliani credono che il loro paese abbia un imperativo etico per il riconoscimento e che il rifiuto di farlo suggerisca una priorità della geopolitica rispetto alla giustizia.

Molte delle voci più autorevoli della società israeliana che si oppongono alla vendita di armi all’Azerbaigian sono due eminenti studiosi dei genocidi, Israel Charny e Yair Auron, che hanno chiesto a Israele di riconoscere il genocidio armeno. Nel 2014 Auron, autore di due libri su Israele e il genocidio armeno, ha suggerito in un editoriale per Ha’aretz che la vendita di armi all’Azerbaigian potrebbe rendere Israele complice della pulizia etnica nel Caucaso. Nel 2016, Charny ha approfondito ulteriormente l’argomento, chiedendo al Times of Israel se Israele avrebbe venduto armi ad Adolf Hitler.

Gli attivisti contro il commercio di armi da parte di Israele hanno anche lanciato sfide legali mentre infuriava la guerra in Nagorno-Karabakh. Tuttavia, il 12 ottobre l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione dell’attivista Elie Joseph per il divieto di vendite di armi all’Azerbaigian, rifiutando di tenere un’udienza in quanto non c’erano prove sufficienti che tali armi sarebbero state utilizzate in crimini di guerra contro gli armeni. L’avvocato israeliano per i diritti umani Eitay Mack ha tentato di integrare il caso legale con uno morale, sostenendo nella rivista +972 che le esportazioni di armi hanno incoraggiato le autorità azere a portare a termine le sue minacce bellicose nei confronti dell’Armenia.

Questa sfida legale è una delle tante lanciate da Elie Joseph, un attivista israeliano per i diritti umani nato in Gran Bretagna, che quest’anno ha portato avanti uno sciopero della fame contro le esportazioni di armi israeliane a chi abusa dei diritti umani.

“La gente all’estero sa di più su queste vendite di armi che la gente in Israele. Come ebrei ed esseri umani, dobbiamo smetterla di essere coinvolti in questo tipo di cose, per fermare il silenzio. C’è una connessione molto forte tra questo commercio e il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Ieri eravamo noi, domani potremmo essere di nuovo noi, e oggi è qualcun altro.”

In una telefonata con Global Voices, Joseph ha dichiarato di voler lanciare un terzo appello contro la vendita di armi israeliane in Azerbaigian e di essere disposto a portare avanti un altro sciopero della fame. Un giorno spera che lo Knesset, il parlamento israeliano, approvi una legge che vieti la vendita di armi a chi abusa dei diritti umani.

“Abbiamo deciso di risvegliare la nazione, che si tratti di vendita di armi in Azerbaigian, Myanmar, Sud Sudan o Vietnam”, ha dichiarato Joseph, sottolineando che la sua era una posizione pro-israeliana e patriottica.

Tuttavia Halper rimane dubbioso che tali esportazioni verranno fermate, almeno nel prossimo futuro. Il commercio è troppo redditizio e l’Azerbaigian troppo strategicamente importante per Israele. Inoltre, ha detto a GlobalVoices, attivisti come Mack e Joseph potrebbero affrontare una dura battaglia quando si tratta di aumentare il sostegno pubblico:

“Niente che riguardi le armi o lo schieramento israeliano è un problema in Israele, né nei Territori Palestinesi Occupati, né quando viene impiegato tra i palestinesi in Israele e né nell’uso internazionale. Non è un problema. Oppure, gli israeliani provano un grande orgoglio per le loro abilità militari e di sicurezza”.

In ogni caso la vittoria dell’Azerbaigian, supportata dalle armi israeliane, è una vittoria significativa anche per Ankara, che ha rafforzato il suo ruolo nel Caucaso meridionale. Per gli armeni, questo è un disastro. Per gli israeliani è un dilemma, soprattutto se lo stile politico bellicoso di Erdoğan vivrà ben oltre il suo mandato.

In una certa misura, Aliyev sarà in debito con la Turchia. Cosa significa questo per i legami di Israele con l’Azerbaigian?

Secondo Shiriyev, Baku ha molti anni di esperienza nel bilanciare i legami con Ankara e Tel Aviv, anche quando le tensioni sono al massimo. “Nel Caucaso meridionale, direi che il potere della Turchia sta crescendo e svolge un ruolo di bilanciamento tra l’Azerbaigian e altre potenze, in particolare la Russia. Non credo che Israele abbia questo stesso ruolo”.

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Una rotta per unire Armenia e Russia (passando dall’Azerbaigian) (Insideover 18.02.21)

 

Da quando la seconda guerra del Nagorno Karabakh è terminata, l’Azerbaigian si è trasformato in un cantiere a cielo aperto dalle mille sfaccettature dove si incrociano le strade di operai impegnati nell’estrazione di gas naturale, nella restaurazione di complessi di raffinazione del petrolio, nella costruzione di parchi tecnologici, centrali solari e idroelettriche e nell’inaugurazione di tratte ferroviarie internazionali, come la Ankara–Baku–Mosca, la Jiaozhou–Baku e la Nakhchivan–Baku.

Naturalmente, il dopoguerra è stato vissuto in maniera differente in Armenia, dove il malcontento nei confronti dell’esecutivo ha alimentato la tensione per le strade e Nikol Pashinyan ha posticipato la fine della propria esistenza politica ripiegando su un riallineamento tout court in direzione del Cremlino. Contrariamente all’Azerbaigian, il vincitore sul cui carro desiderano salire persino gli (ex?) alleati di Pashinyan, in Armenia – per il momento – si prefigura la materializzazione di un solo progetto degno di nota: la linea ferroviaria Yerevan–Mosca.

L’idea della rotta

Quando una guerra termina in maniera definitiva, con un chiaro vincitore ed un inequivocabile vinto, è compito del negoziatore – qualora ve ne sia uno – corteggiare il primo ed evitare l’umiliazione totale del secondo. Nel caso del Nagorno Karabakh, il negoziatore, ovvero il Cremlino, ha accordato all’Azerbaigian una serie di concessioni inevitabili, dalla ricomposizione della zona contesa alla Nakhchivan–Baku, e all’Armenia la salvaguardia del corridoio di Lachin ed un collegamento ferroviario diretto con la Russia.

La rotta Armenia–Russia rientra nell’ambito degli accordi siglati lo scorso 11 gennaio a Mosca fra Vladimir Putin, Ilham Aliyev e Pashinyan. I tre statisti si erano incontrati per discutere dei progressi avvenuti nel dopo-cessate il fuoco e concordare un piano d’azione comune che migliorasse le relazioni bilaterali fra Yerevan e Baku e incidesse positivamente sulle dinamiche postguerra nel Karabakh Superiore. Il vertice si era concluso con la firma di una dichiarazione congiunta riguardante lo sviluppo di progetti infrastrutturali nella regione contesa, fra i quali, appunto, una linea ferroviaria per connettere Armenia e Russia attraversante il territorio azero.

Da Yerevan a Mosca (attraverso Baku)

Il 15 febbraio, partecipando alla posa della prima pietra della tratta ferroviaria Horadiz–Agbend, nel distretto (nuovamente) azero di Fuzuli, Aliyev è tornato sull’argomento del collegamento armeno-russo spiegando come da parte azera vi sia la piena volontà di concretare il progetto e inquadrarlo nella rete di comunicazione regionale. Nello specifico, il presidente azero ha dichiarato che “i progetti di trasporto nella regione dovrebbero svolgere un ruolo speciale nello sviluppo a lungo termine della stessa, garantendo stabilità, riducendo a zero il rischio di guerra e facendo in modo che tutti i Paesi partecipanti ne traggano vantaggio”.

Inoltre, ha proseguito ancora Aliyev, “l’Azerbaigian sta avviando il collegamento con la repubblica autonoma di Nakhchivan e la Turchia. Allo stesso tempo potrebbe essere aperta una ferrovia dalla Russia all’Armenia. Questa linea può passare solo attraverso il territorio dell’Azerbaigian. Ci sarà anche un collegamento ferroviario tra Russia e Iran attraverso il territorio del Nakhchivan e un altro fra Iran e Armenia. Ci sarà un collegamento ferroviario tra Turchia e Russia. Ovvero tutti i Paesi della regione ne trarranno vantaggio”.

La linea, in realtà, potrebbe aggirare l’Azerbaigian e passare dalla Georgia – cosa che la renderebbe meno esposta alle turbolenze politiche e più efficace in termini di tempi di percorrenza –, ma le dichiarazioni del presidente azero sono da leggere come un promemoria alla controparte armena circa il contenuto degli accordi dell’11 gennaio: o via Baku, o progetto abortito.

Curiosamente, ma non casualmente, l’intervento di Aliyev avviene alla vigilia della bilaterale tra i ministri degli esteri di Russia e Armenia, Sergej Lavrov e Ara Ayvazyan, che si incontreranno a Mosca il 17 per discutere di “questioni nell’agenda bilaterale, regionale e internazionale […] [dedicando] particolare attenzione alle dichiarazioni trilaterali del 9 novembre e dell’11 gennaio”. I due capi diplomatici, in breve, parleranno (anche) della Yerevan–Mosca e Aliyev, pur non presenziando, ha lasciato nella loro segreteria il proprio messaggio.

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Fuga senza ritorno L’esodo del Nagorno Karabakh (Insideover 18.02.21)

Un esodo di migliaia di cittadini e case date alle fiamme per non lasciare i ricordi di sempre ai vincitori del conflitto: sono queste le immagini che hanno raccontato, meglio di tutte, la fuga di quasi 100mila persone dal Nagorno Karabakh pochi giorni prima della firma del cessate il fuoco.

Il fronte, nei primi giorni di novembre, era sempre più vicino a Stepanakert, la città di Shushi, lontana soltanto 8 chilometri dalla capitale, era cinta d’assedio e, nelle ore precedenti alla tregua, la gran parte dei cittadini dell’Artsakh abbandonava le proprie case e fuggiva in Armenia percorrendo il corridoio di Lachin.

Una casa in fiamme nel villaggio di Karmiravan, mentre gli armeni lasciano la zona prima che le forze azere prendano il controllo della regione separatista del Nagorno-Karabakh, giovedì 19 novembre 2020. Un cessate il fuoco mediato dalla Russia per fermare sei settimane di combattimenti sul Nagorno-Karabakh ha stabilito che l’Armenia ceda all’Azerbaigian il controllo di alcune aree che detiene al di fuori dei confini del territorio separatista. Gli armeni sono costretti a lasciare le loro case prima che la regione venga consegnata al controllo delle forze azere ( Foto AP/Sergei Grits)

“Eravamo in automobile, bloccati. Macchine e furgoni ovunque: davanti a noi, dietro di noi, ai lati; da tutte le parti. C’erano così tanti veicoli che si era formata una coda lunga chilometri“.

Nagorno-Karabakh, gli armeni costretti a lasciare le loro case (LaPresse)

È così che Roubina Margossian giornalista di Evn Report, e che ha coperto il conflitto in Karabakh sin dalle prime fasi della guerra, ricorda quel momento divenuto una rappresentazione iconica della tragedia umanitaria che ha colpito il Karabakh. “La cosa più impressionante è stata vedere le colonne di fumo che si alzavano dalle case che la gente stava incendiando. È stato davvero scioccante. Non una casa, non due, ma decine di case e fattorie, lungo tutta la strada che dal Karabakh porta in Armenia, bruciavano. Uomini e donne stavano dando fuoco alle proprie abitazioni per non lasciare nulla ai soldati azeri. Un momento che mi ha lasciata attonita, un gesto estremo che è difficile da commentare: dare fuoco a ciò che di più prezioso si ha, al luogo dove sono conservati i propri ricordi, la propria vita affinché la sacralità del proprio passato, della propria storia non possa essere violata e oltraggiata da nessuno: è un gesto molto doloroso che fa comprendere meglio di tanti altri l’assurdità e la disperazione che le guerre provocano”.

Un uomo si trova vicino alla sua auto che ha preso fuoco durante la salita lungo la strada di un valico, vicino al confine tra Nagorno-Karabakh e Armenia, domenica 8 novembre 2020. (LaPresse)

Una strada immersa nella campagna armena conduce oggi da Yerevan ad Aparan dove vive Volodia Tadevosyan, cittadino della regione di Karvachar, uno dei distretti passati sotto controllo azero al momento della cessazione delle ostilità, che prima di abbandonare per sempre la terra dove è cresciuto ed è vissuto ha compiuto l’irremeabile gesto di dare fuoco alla sua casa e ai ricordi di sempre. “Dove ho trovato il coraggio di cospargere di benzina i muri di casa mia e poi dare fuoco a tutto? Dalla rabbia che c’è in me e dal fatto che era la sola cosa da fare per potere vivere ancora con una dignità”.

Fumo e fiamme si alzano da una casa in fiamme in una zona un tempo occupata dalle forze armene (AP Photo/Dmitry Lovetsky)

 

Sono frasi potenti, lapidarie e caustiche e Volodia proseguendo con il racconto spiega: “La casa dove vivevo è stata la casa che abbiamo costruito generazione dopo generazione mio nonno, mio padre ed io. Giorno dopo giorno, pietra dopo pietra. Non erano semplici muri quelli che formavano quella casa, erano il sudore, il sangue, i sacrifici e la storia di un’intera famiglia. Avevamo un orto, delle api, un piccolo terreno che lavoravamo tutti insieme…Potevo accettare che quella casa venisse oltraggiata, che dei soldati si facessero foto trionfanti e poi imbrattassero e distruggessero tutto? Potevo accettare e permettere tutto questo? No, ovvio che no. Dare fuoco a casa mia è stato estremamente doloroso, ma se non l’avessi fatto qualcuno avrebbe potuto violare la mia casa e la memoria dei miei genitori, e quello sarebbe stato molto peggio delle fiamme e io, difronte a un fatto del genere, non avrei più avuto alcuna dignità”.

 

 

È un presente scritto al passato remoto quello della famiglia di Volodia. Tutto sembra essere stato sepolto per sempre sotto un cumulo di cenere e macerie, e il futuro è un coacervo di incognite e interrogativi senza risposte. E lo stesso dramma di precarietà e paura lo vivono anche Alyona e Gagik, madre e padri di Maria e Lyova, di sette e cinque anni.

Un uomo smonta una croce dal tetto della sua casa nel villaggio di Karmiravan, mentre gli armeni lasciano l’area prima che le forze azere prendano il controllo della regione separatista del Nagorno-Karabakh, giovedì 19 novembre 2020. ( Foto AP/Sergei Grits)

La famiglia è originaria di Hadrut e, a causa della guerra, è fuggita in Armenia e ora vive tra gli sfollati a Masis. I genitori erano entrambi professori, oggi la madre però fa la parrucchiera e il padre è disoccupato, ma ciò che preoccupa di più la coppia, molto più della precarietà economica e di aver visto tutti i loro sforzi e sacrifici andare in frantumi, è il futuro dei loro bambini.

Un soldato mostra un kalashnikov ad un ragazzo del Dadivank, un monastero della Chiesa Apostolica Armena del IX secolo, mentre gli armeni lasciano la regione separatista del Nagorno-Karabakh per l’Armenia, sabato 14 novembre 2020 (Foto AP/Dmitry Lovetsky)

“Mia figlia, Maria, un giorno ha fatto delle ricerche in internet e ha visto un video di soldati azeri che entravano nel nostro villaggio. Ha visto le immagini della casa distrutta ed è scoppiata in un pianto isterico che io non sono riuscita a fermare”. Confida Alyona, la mamma, che proseguendo aggiunge: “La guerra ha toccato i bambini. Anche se non hanno una piena comprensione di ciò che è successo comunque il conflitto li ha segnati. E quando mi chiedono chi sono gli azeri dico loro che sono persone come noi.

Firuza Bakhchyan, sorvegliata dal marito Sergei, taglia i fili nei pressi della loro casa nel villaggio di Karmiravan, mentre gli armeni lasciano la zona prima che le forze azere prendano il controllo della regione separatista del Nagorno-Karabakh (Foto AP/Sergei Grits)

Quando mia figlia mi chiede perchè hanno rotto la sua bicicletta dico che non l’hanno rotta ma che stavano giocando e che quando torneremo a casa ne troverà una ancora più bella. Io e mio marito abbiamo tantissime incognite e paure per i nostri figli. Quale sarà il loro futuro?

 


Una rotta per unire Armenia e Russia (passando dall’Azerbaigian) (Insideover 18.02.21)

Da quando la seconda guerra del Nagorno Karabakh è terminata, l’Azerbaigian si è trasformato in un cantiere a cielo aperto dalle mille sfaccettature dove si incrociano le strade di operai impegnati nell’estrazione di gas naturale, nella restaurazione di complessi di raffinazione del petrolio, nella costruzione di parchi tecnologici, centrali solari e idroelettriche e nell’inaugurazione di tratte ferroviarie internazionali, come la Ankara–Baku–Mosca, la Jiaozhou–Baku e la Nakhchivan–Baku.

Naturalmente, il dopoguerra è stato vissuto in maniera differente in Armenia, dove il malcontento nei confronti dell’esecutivo ha alimentato la tensione per le strade e Nikol Pashinyan ha posticipato la fine della propria esistenza politica ripiegando su un riallineamento tout court in direzione del Cremlino. Contrariamente all’Azerbaigian, il vincitore sul cui carro desiderano salire persino gli (ex?) alleati di Pashinyan, in Armenia – per il momento – si prefigura la materializzazione di un solo progetto degno di nota: la linea ferroviaria Yerevan–Mosca.

L’idea della rotta

Quando una guerra termina in maniera definitiva, con un chiaro vincitore ed un inequivocabile vinto, è compito del negoziatore – qualora ve ne sia uno – corteggiare il primo ed evitare l’umiliazione totale del secondo. Nel caso del Nagorno Karabakh, il negoziatore, ovvero il Cremlino, ha accordato all’Azerbaigian una serie di concessioni inevitabili, dalla ricomposizione della zona contesa alla Nakhchivan–Baku, e all’Armenia la salvaguardia del corridoio di Lachin ed un collegamento ferroviario diretto con la Russia.

La rotta Armenia–Russia rientra nell’ambito degli accordi siglati lo scorso 11 gennaio a Mosca fra Vladimir Putin, Ilham Aliyev e Pashinyan. I tre statisti si erano incontrati per discutere dei progressi avvenuti nel dopo-cessate il fuoco e concordare un piano d’azione comune che migliorasse le relazioni bilaterali fra Yerevan e Baku e incidesse positivamente sulle dinamiche postguerra nel Karabakh Superiore. Il vertice si era concluso con la firma di una dichiarazione congiunta riguardante lo sviluppo di progetti infrastrutturali nella regione contesa, fra i quali, appunto, una linea ferroviaria per connettere Armenia e Russia attraversante il territorio azero.

Da Yerevan a Mosca (attraverso Baku)

Il 15 febbraio, partecipando alla posa della prima pietra della tratta ferroviaria Horadiz–Agbend, nel distretto (nuovamente) azero di Fuzuli, Aliyev è tornato sull’argomento del collegamento armeno-russo spiegando come da parte azera vi sia la piena volontà di concretare il progetto e inquadrarlo nella rete di comunicazione regionale. Nello specifico, il presidente azero ha dichiarato che “i progetti di trasporto nella regione dovrebbero svolgere un ruolo speciale nello sviluppo a lungo termine della stessa, garantendo stabilità, riducendo a zero il rischio di guerra e facendo in modo che tutti i Paesi partecipanti ne traggano vantaggio”.

Inoltre, ha proseguito ancora Aliyev, “l’Azerbaigian sta avviando il collegamento con la repubblica autonoma di Nakhchivan e la Turchia. Allo stesso tempo potrebbe essere aperta una ferrovia dalla Russia all’Armenia. Questa linea può passare solo attraverso il territorio dell’Azerbaigian. Ci sarà anche un collegamento ferroviario tra Russia e Iran attraverso il territorio del Nakhchivan e un altro fra Iran e Armenia. Ci sarà un collegamento ferroviario tra Turchia e Russia. Ovvero tutti i Paesi della regione ne trarranno vantaggio”.

La linea, in realtà, potrebbe aggirare l’Azerbaigian e passare dalla Georgia – cosa che la renderebbe meno esposta alle turbolenze politiche e più efficace in termini di tempi di percorrenza –, ma le dichiarazioni del presidente azero sono da leggere come un promemoria alla controparte armena circa il contenuto degli accordi dell’11 gennaio: o via Baku, o progetto abortito.

Curiosamente, ma non casualmente, l’intervento di Aliyev avviene alla vigilia della bilaterale tra i ministri degli esteri di Russia e Armenia, Sergej Lavrov e Ara Ayvazyan, che si incontreranno a Mosca il 17 per discutere di “questioni nell’agenda bilaterale, regionale e internazionale […] [dedicando] particolare attenzione alle dichiarazioni trilaterali del 9 novembre e dell’11 gennaio”. I due capi diplomatici, in breve, parleranno (anche) della Yerevan–Mosca e Aliyev, pur non presenziando, ha lasciato nella loro segreteria il proprio messaggio.

Yerevan Park: un nuovo parco di divertimento in Armenia (Parksmania 18.02.21)

Da un articolo di Bea Mitchell pubblicato su Blooloop.com:

Lo Yerevan Park, che è stato concepito per la prima volta nel 2016, sarà il più grande centro di intrattenimento della regione, riferisce Zartonk Media. Dal 2016, gli sviluppatori del parco a tema hanno lavorato al fianco di esperti del settore dei divertimenti, tra cui Jeroen Nijpels di JNELC.

Yerevan Park sarà caratterizzato da aree interne ed esterne, con 25 giostre e attrazioni. Queste sono state realizzate da vari produttori internazionali, tra cui Zierer, Vekoma e Zamperla. Il parco vanterà quattro montagne russe. Due di queste saranno per il target famiglie, mentre le altre due saranno decisamente più thrill. Yerevan Park presenterà anche una ruota panoramica alta 40 metri creata dall’italiana Technical Park.

Garegin Nushikyan, fondatore di Yerevan Park, sta creando un classico parco a tema in stile fiabesco. I personaggi e le attrazioni con radici armene attireranno i visitatori locali. Lo Yerevan Park si estenderà su 276.000 metri quadrati, con 196.000 metri quadrati di giardini e più di 20.000 alberi e piante. Yerevan Park è ora nelle fasi finali di costruzione, con aree interne ed esterne in programma per il debutto nella primavera del 2021.

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Un film sul Nagorno Karabakh, opera prima della regista armena Martirosyan (Euronews 17.02.21)

Cala il vento è l’opera prima di Nora Martirosyan, regista armena.

È incentrato sul Nagorno Karabakh, enclave armena, emersa dalla sfoldamento dell’ex URRS e autoproclamatasi unilaterlmente repubblica autonoma. Salita nel 2019 alla ribalta della cronoca.

Nora Martirosyan ci racconta come le è venuta l’ispirazione:

“Mi ha colpito la situazione, l’assurdità della situazione, un Paese che è di fronte a me, ma non esiste sulla carta, non esiste giuridicamente, nonostante tutto i suoi abitanti e il suo governo fingono di vivere in una situazione normale. E ho pensato che fosse incredibile. Ci è voluto molto tempo per scrivere, perché è complicato scrivere un film che parla di geopolitica senza metterla in primo piano. Il film racconta la storia di 30 anni di tregua, di finta pace. È particolare guardarlo oggi che ci sono nuove frontiere”.

Il racconto del film si conclude all’inizio del 2020 prima che le truppe azere entrino nell’autoproclamata repubblica sostenuta dall’Armenia.

La mediazione russa ha portato a un cessate il fuoco insabbiando definitivamente le rivendicazioni della piccola Repubblica.

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San Gregorio Armeno, l’omaggio di Nardò al patrono in era Covid (Corrieresalentino 17.02.21)

NARDO’ (Lecce) – Il Covid condiziona il consueto programma dei riti religiosi e civili in onore di San Gregorio Armeno, il patrono della città. Rispetto alla consuetudine, la festa patronale 2021 non contempla la processione e la fiera, ma la città ovviamente renderà comunque omaggio a San Gregorio Illuminatore con un più scarno calendario messo a punto dal Comitato Feste Patronali in collaborazione con la Diocesi di Nardò Gallipoli e il Comune di Nardò.

Domani, giovedì 18 febbraio, alle ore 19:30, nella Basilica Cattedrale Maria SS. Assunta, è in programma la presentazione di 20 febbraio 1743: Nardò, una città che trema, libro scritto da Giovanni De Cupertinis, Paolo Sansò e Andrea Vitale e edito da Edizioni Grifo con il patrocinio della Fondazione Fare Oggi, braccio operativo della Caritas Diocesana Nardò-Gallipoli, in cui si racconta, per la prima volta, la macchina dei soccorsi post terremoto.

Venerdì 19 febbraio, alle ore 18, nella Basilica Cattedrale, è in programma la solenne celebrazione eucaristica presieduta da S. E. mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti. La cerimonia è aperta al pubblico, sebbene con le solite restrizioni anti-Covid, ma potrà essere seguita anche in tv, su Radio System TV (canale 601 DTT), e sul web al canale Youtube della Diocesi Nardò Gallipoli, al sito web della stessa Diocesi (www.diocesinardogallipoli.it) e ancora in radio su Radio Centrale (canale 688 DTT e app).

Nelle ore del mattino di sabato 20 febbraio, San Gregorio Armeno, il Nuovo Concerto Bandistico Terra d’Arneo Città di Nardò farà un giro per le vie del centro storico, mentre nel corso della stessa giornata verranno sparati alcuni colpi secchi per omaggiare il patrono. Le luminarie, simboliche, impreziosiranno il breve cammino tra la Basilica Cattedrale e piazza Salandra.  Sempre sabato, nella Basilica Cattedrale, saranno celebrate le messe alle ore 7:30, 9, 10:30 e 18:30.

“Una festa diversa dal solito nelle forme e nei riti – dice il sindaco Pippi Mellone – ma non nell’essenza dell’omaggio al nostro patrono. Quest’anno, più che mai, vogliamo stare almeno idealmente più vicini, vogliamo sentirci un’unica e forte comunità, in grado di superare, come Nardò ha già dimostrato di saper fare, un momento complicato dal punto di vista sanitario, sociale ed economico”.

San Gregorio Illuminatore nacque in Armenia nel 257 circa, giovanissimo si rifugiò in Cappadocia per sfuggire a una persecuzione e in quella terra venne educato al cristianesimo. Rientrato in patria e divenuto monaco, visse la persecuzione di Tiridate nei confronti dei cristiani in Armenia, che nel frattempo Gregorio aveva conquistato con l’efficace campagna di predicazione. Fu imprigionato nella fortezza di Artashat, dove restò tredici anni. Una lunga malattia del re si risolse con l’intervento di Gregorio, che da quel momento ottenne la conversione di Tiridate e il riconoscimento della religione cristiana in Armenia. Nel 302 Gregorio ricevette la consacrazione a Patriarca d’Armenia, divenendo riferimento principale per la comunità cristiana.

Dopo un’intensa campagna di evangelizzazione decise di ritirarsi a vita anacoretica. Morì in un eremo sul monte Sepouh all’incirca nell’anno 328. I resti vennero portati nel villaggio armeno di Tharotan e alcune sue reliquie sono sparse in vari luoghi del mondo. A Nardò si trovava una parte dell’avambraccio con la mano benedicente (secondo la tradizione trasportata da monaci armeni in fuga da una persecuzione iconoclasta), contenuta in un reliquario in argento trafugato negli anni ’70. Fu sostituito con una copia contenente un metacarpo, donata alla città dal cardinale Corrado Ursi, già vescovo della città.

La tradizione vuole che la statua del santo, posta sul Sedile, si sia miracolosamente spostata, quasi a rivolgersi verso l’epicentro del sisma che alle ore 16:30 del 20 febbraio 1743 aveva colpito Nardò, con ingenti danni a persone e cose. Per i fedeli il numero dei morti e la devastazione sarebbero stati più ingenti senza l’intercessione del santo. Risulta da vari documenti che già prima di questo episodio la comunità neretina era intimamente legata alla figura del vescovo venuto dall’Oriente e lo aveva “eletto” a patrono.

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>> San Gregorio Armeno, l’omaggio al patrono in era Covid (Ilpaesenuovo 18.02.21)

Dopo la guerra: ai confini dell’Armenia regna l’incertezza (Osservatorio Balcani e Caucaso 16.02.21)

“Tutti qui sono partiti volontari per la guerra. Anche chi aveva sessant’anni!”, racconta Vardan Hayrapetyan, dall’ufficio spartano del suo hotel nel sud dell’Armenia, vicino al confine iraniano. L’hotel si rivolge principalmente ai camionisti iraniani che trasportano gas e altre merci lungo la principale strada che attraversa la provincia di Syunik, una striscia di terra relativamente stretta che confina con il territorio azero su due lati, a est e ovest.

“La maggior parte degli uomini è andata a difendere il confine con il Nakhichevan e il sud del Karabakh”, ha aggiunto Vardan. “È lì che le battaglie sono state più cruente”.

Il Nakhichevan è l’enclave dell’Azerbaijan a ovest dell’Armenia, mentre il Nagorno-Karabakh è territorio conteso a est del paese. Per 44 giorni lo scorso autunno, l’Armenia ha combattuto con le unghie e i denti per difendere contro l’Azerbaijan il controllo del Nagorno-Karabakh, patria di migliaia di armeni (e prima di una guerra cataclismica negli anni ’90, patria di moltissimi azeri). Il 27 settembre, le forze azere hanno lanciato un’offensiva militare su vasta scala in Karabakh, costringendo i civili a lasciare le loro case con artiglieria e forze di terra e travolgendo le difese armene con l’aiuto di droni di fabbricazione turca.

Sono passati diversi mesi, migliaia di soldati sono morti o dispersi e molti civili sono sfollati. Sono stati documentati numerosi crimini di guerra. Un accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia, annunciato a novembre, ha provvisoriamente messo in pausa i combattimenti, riconoscendo le conquiste dell’Azerbaijan in Karabakh e nella “zona cuscinetto” dei territori che lo circondano. In sei settimane, quanto aveva guadagnato l’Armenia dalla guerra combattuta con l’Azerbaijan negli anni ’90 è stato in gran parte annullato.

In Armenia, la perdita di questi territori ha causato una significativa crisi politica: il governo riformista del paese è stato sottoposto a enormi pressioni per vincere la guerra. L’attuale primo ministro armeno Nikol Pashinyan è stato eletto in maniera schiacciante dopo la “Rivoluzione di velluto” del 2018, ma il sostegno a questo leader rivoluzionario, un tempo molto popolare, ha vacillato nel corso della guerra.

Le truppe azere sono ora di stanza nel cuore di quello che un tempo era il Karabakh armeno e nella “zona cuscinetto”, e sono ben visibili dai confini dell’Armenia. In poco tempo i confini un tempo porosi tra Armenia, Nagorno-Karabakh e la zona cuscinetto si sono irrigiditi.

Lo sviluppo economico e l’apertura di collegamenti di trasporto transfrontalieri offrono una potenziale via d’uscita da questa crisi. È una prospettiva potenzialmente attraente per l’Armenia, un paese senza sbocco sul mare i cui confini sono di fatto aperti – fin dagli anni ’90 – solo a due dei suoi vicini, Iran e Georgia. Diventare un hub di transito regionale per il Caucaso meridionale trasformerebbe la sconfitta in un’opportunità. Ma per riattivare le rotte di trasporto interrotte durante la guerra negli anni ’90 sarà necessaria una fiducia senza precedenti tra le società armena e quella azerbaijana.

Da nessuna parte questo è più rilevante che nella regione di Syunik nell’Armenia meridionale, dal momento che l’accordo di pace di novembre prevede per l’Azerbaijan un collegamento stradale che l’attraversi fino alla sua enclave di Nakhichevan.

In gennaio, nel primo loro incontro dopo l’accordo di novembre, i tre leader – l’armeno Pashinyan, più i presidenti azero e russo Ilham Aliyev e Vladimir Putin – hanno annunciato un gruppo di lavoro trilaterale per preparare lo “sblocco di tutti i collegamenti economici e di trasporto” nella regione.

Ma chi ne trarrà vantaggio? Come suggerisce una recente analisi pubblicata da Euractiv, la Turchia e l’Azerbaijan stanno spingendo per il corridoio attraverso l’Armenia meridionale, mentre la Russia mirerebbe a rilanciare i collegamenti ferroviari dell’era sovietica con l’Iran. Per alcuni, c’è la sensazione che questo programma di sviluppo, attualmente coperto dal segreto diplomatico, sia stato imposto all’Armenia dall’esterno: un’impressione che abbiamo riscontrato durante un nostro viaggio nella provincia di Syunik alla fine di dicembre 2020, dove abbiamo riscontrato sia sfiducia e delusione ma anche speranza per il futuro.

On the road

La strada principale che collega la capitale dell’Armenia, Yerevan, all’Iran passa a sud attraverso la provincia di Syunik, attraversando le città di Goris, Kapan e Meghri. Camion georgiani e iraniani ronzano lungo questo percorso fangoso e tortuoso che corre direttamente lungo il confine armeno-azero per alcuni chilometri, trasportando gas liquefatto, materiali da costruzione e altre merci.

Goris, la città più vicina al corridoio Lachin – è così denominato un passo di montagna tra l’Armenia e il Karabakh – è diventata frenetica dopo la guerra. In passato aspirava ad un futuro turistico, ora è divenuto il primo luogo sicuro per i civili in fuga dal conflitto.

Noi abbiamo viaggiato comodamente in una Lada guidata da Henrik, una persona del posto che usa spesso questa strada. Fino a poco tempo fa, durante al pandemia, era l’unica rotta transfrontaliera in tutta l’Armenia a rimanere permanentemente aperta al trasporto di merci.

Pochi chilometri a sud di Goris, Henrik ci ha indicato Shurnukh, un villaggio che si sviluppa tra la strada e il confine dell’Azerbaijan e dove ora sono stanziate truppe azere. Prima del crollo dell’Unione Sovietica Shurnukh era un villaggio in territorio armeno in gran parte popolato da azeri. I suoi abitanti dovettero abbandonarlo quando iniziò la prima guerra del Karabakh. “Il villaggio è stato preso dagli armeni negli anni ’90 e ora lo stiamo restituendo”, sottolinea Henrik.

Raggiunto Shurnukh, circa 20 residenti stavano bloccando il traffico, in segno di protesta contro la recente divisione del loro villaggio – e chiedevano un risarcimento finanziario per potersi trasferire in Russia. A dicembre, il primo ministro armeno ha riconosciuto che c’erano “alcune situazioni dolorose” a Shurnukh e Vorotan, un altro villaggio vicino colpito dalla demarcazione del confine con l’Azerbaijan e ha offerto sostegno finanziario alle persone costrette a lasciare le proprie case.

Tra di loro vi è Armen Haroutsounyan. Si è stabilito qui 30 anni fa. Originario di Goris, Haroutsounyan lavorava in una fabbrica militare, ma ora è un contadino. “Era meglio durante l’Unione sovietica, già allora queste case erano armene”, ci dice. “È meglio se il denaro del risarcimento [per la perdita di proprietà] va a coloro che sono stati feriti. Io comunque darà alle fiamme la mia casa prima di andarmene”. All’inizio di gennaio, l’amministrazione regionale di Syunik ha dichiarato che 11 case a Shurnukh erano situate sul lato azerbaijano della strada. Ai proprietari è fornito un ricovero temporaneo.

Dopo aver attraversato Shurnukh siamo arrivati ​​a un posto di blocco militare russo: una tenda presidiata da quattro soldati che controllano la strada diretta a sud, verso Kapan, la città successiva a Goris. Secondo sia il moderno GPS che le mappe dell’era sovietica, i prossimi tre chilometri di strada fanno parte del territorio dell’Azerbaijan e dalla guerra d’autunno sono sotto effettivo controllo azerbaijano. Alla fine di dicembre, lungo la strada, è apparso il cartello “Benvenuti in Azerbaijan”.

Per evitare che i soldati azerbaijani sparino sugli autotrasportatori i servizi di sicurezza armeni hanno istituito una linea telefonica diretta di emergenza. “Normalmente, sono i combattimenti a determinare i territori, non gli accordi”, ha commentato Henrik mentre passavamo.

Pochi chilometri dopo, quando abbiamo raggiunto Kapan, capoluogo della regione di Syunik, le truppe azere erano ben visibili subito fuori città, dall’altra parte dell’aeroporto. “Gli azeri continuano a comportarsi in modo aggressivo”, ci racconta in seguito Vardan Hayrapetyan, il proprietario dell’hotel. “Ci sono soldati azeri da Goris fino a Kapan. Non vediamo la fine di questa guerra”.

“Syunik, la spina dorsale dell’Armenia”

Dopo Kapan, abbiamo raggiunto Meghri, la città più vicina al confine con l’Iran. Nella piazza centrale era aperto un solo caffè. Assya Sarkissian, la proprietaria, è nata a Meghri e gestisce il caffè da quando è andata in pensione dal suo lavoro come guardia di frontiera per il Servizio di sicurezza federale russo (FSB), che controlla i confini dell’Armenia con la Turchia e l’Iran dagli anni ’90.

“Syunik è la spina dorsale dell’Armenia”, ci racconta Assya Sarkissian, spiegando che la regione è ora in difficoltà. “L’attività economica è diminuita durante il Covid, ma la guerra ci ha colpiti ancora di più”.

Come molte persone del posto, Assya è particolarmente preoccupata per la sicurezza. “Non sono più passata dalla strada per Yerevan dai tempi della guerra”, racconta. “Abbiamo paura dagli anni ’90: gli azeri sono imprevedibili. Chi garantirà la nostra sicurezza lungo quella strada?”.

Anche l’hotel di Armen Haroutsounyan è a Meghri e quest’ultimo condivide le preoccupazioni della sua concittadina. “È stato concordato che i russi garantiranno la sicurezza dei camion azeri che passeranno attraverso Meghri. Chi garantirà la sicurezza degli armeni che prendono la strada per Yerevan passando attraverso Nakhichevan?”, si chiede riferendosi alla recente presa di posizione del presidente armeno Pashinyan che ha chiesto che venga riaperta la strada che un tempo collegava Yerevan al confine iraniano dell’Armenia attraverso il Nakhichevan.

A gennaio, Mane Gevorgyan, addetto stampa del primo ministro armeno, ha annunciato che, nell’ambito dei negoziati diplomatici di Mosca, le parti stavano discutendo la possibilità di consentire all’Armenia di utilizzare una linea ferrovia – già esistente – che attraversa Nakhichevan fino a raggiungere l’estremità meridionale della provincia di Syunik. “Vorrei sottolineare che a Mosca non vi è stata alcuna firma su alcun documento che riguardi la questione del Karabakh o su qualsiasi questione territoriale”, ha aggiunto Gevorgyan.

Non è la prima volta che la regione di Syunik – e Meghri, in particolare – sono sotto i riflettori. Gayane Ayvazyan, un ricercatore che studia come l’Armenia si approccia al Nagorno-Karabakh, ci spiega che Meghri è stata al centro del contendere tra Armenia e Azerbaijan fin dai colloqui di pace ospitati negli Stati Uniti a Key West, in Florida, nel 2001.

“Allora si ipotizzava che l’Armenia cedesse Meghri come scambio territoriale in cambio della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’era sovietica. Armenia e Azerbaijan inizialmente erano d’accordo, ma Heydar Aliyev, all’ultimo, rifiutò di firmare”, sottolinea Ayvazyan. “Ricordo che al tempo chi viveva a Meghri era fortemente contrario all’idea”. Un piano di pace successivo, conosciuto come “I principi di Madrid”, tolse Meghri dalla discussione, ricorda Ayvazyan.

Confini sicuri consentirebbero lo sviluppo economico locale e nazionale, con Meghri a fungere da hub commerciale regionale. Oltre a rappresentare un punto di transito per il gas proveniente dall’Iran, il clima tropicale di Meghri fa si che vi siano fertili terreni agricoli dove si producono kiwi, fichi, melograni, cachi e frutta secca che riforniscono il resto dell’Armenia e vengono esportati in Russia. Nella regione vi sono anche miniere di rame.

Meghri è stata a lungo considerata la chiave per rafforzare i legami economici con l’Iran. Nel 2017, l’allora primo ministro armeno Karen Karapetyan annunciò che proprio a Maghri sarebbe stata istituita una zona economica franca. Investimenti diretti esteri non si sono però mai materializzati e nel 2019 il governo post-rivoluzionario dell’Armenia ha aperto un’indagine per corruzione che avrebbe riguardato la privatizzazione di terreni pubblici che sarebbero poi stati utilizzati per creare la zona franca.

“Abbiamo vissuto un lungo periodo di opportunità perse”, spiega Vahagn Khachatryan, economista ed ex sindaco di Yerevan. L’Armenia ha attualmente tre cosiddette zone economiche franche, che Khachatryan ritiene potrebbero essere utilizzate per stimolare la produzione locale. Meghri potrebbe essere particolarmente attraente per le aziende miste iraniano-armene, poiché entrambi i paesi fanno parte dell’Unione economica dell’Eurasia. Khachatryan aggiunge che tra le priorità vi dovrebbero essere la costruzione di una fonderia di rame a Meghri, in modo che il minerale estratto localmente possa essere lavorato piuttosto che esportato grezzo e lo sviluppo di infrastrutture idroelettriche sul fiume Araks, che corre lungo il confine iraniano.

Il vice primo ministro dell’Armenia, Mher Grigoryan, ha dichiarato a OpenDemocracy, via e-mail, che “un nuovo modus operandi per la Meghri FEZ [zona economica franca] è in fase di sviluppo da parte del ministero dell’Economia dell’Armenia e sarà annunciato nei prossimi giorni”.

Vahagn Khachatryan, che si è candidato al parlamento nel 2017 per una piattaforma politica che sosteneva la necessità di pace e la riconciliazione con i vicini dell’Armenia, è più cauto. “Mi rendo conto che non è molto facile, ma l’Armenia deve persuadere i suoi vicini che vogliamo solo vivere in pace e in collaborazione economica, il che sarebbe reciprocamente vantaggioso”. Pur riconoscendo che la società armena è ancora sotto shock per la guerra ed ha bisogno di tempo per prepararsi alla pace e al commercio.

Un’agenda poco chiara

Il corridoio di trasporto proposto che dovrebbe collegare l’Azerbaijan con la sua enclave di Nakhichevan si dovrebbe estendere da est a ovest attraverso la regione di Syunik, nel sud dell’Armenia. “Ma, oltre alla questione dell’ostilità al progetto da parte dell’opinione pubblica armena, non è ancora chiaro come funzionerebbe nella pratica il corridoio e come si conformerà al diritto internazionale”, afferma Taline Papazian, professoressa all’Università di Aix-Marseille in Francia e a capo dell’ong “Armenia Peace Initiative”.

“Chi ne garantirà la manutenzione e lo status legale una volta che la strada sarà completata? Chi controllerà la strada e quali valute vi potranno essere utilizzate? Quali tipi di merci, armi e personale potranno circolarvi? E forse la cosa più importante per Syunik: sarà collegata a Meghri o ad altre città armene?”, si chiede Taline Papazian.

Le risposte a queste domande saranno probabilmente determinate, almeno in parte, dalla Russia, il principale intermediario dell’accordo di pace. “Comprendiamo che la priorità per la Russia è aprire strade e ferrovie per consentire un trasporto rapido ed efficace per creare aperture nella regione”, aggiunge Papazian. Nell’immediato, tuttavia, lo sviluppo implica buone relazioni e una più stretta cooperazione tra Armenia e Azerbaijan. “Senza questo, gli effetti attesi dell’apertura – e questo riguarda tutti gli attori coinvolti – non si vedranno”, sottolinea Taline Papazian.

Il vice primo ministro dell’Armenia ha rifiutato di commentare i piani specifici previsti per i prossimi incontri con i rappresentanti azeri e russi. “L’obiettivo è trovare la formula migliore e più efficiente per la cooperazione che alla fine contribuirà ad aumentare le esportazioni, a promuovere gli investimenti e a ridurre i prezzi delle importazioni”, ha affermato Mher Grigoryan. “In questa fase, stiamo considerando e valutando tutte le possibili opzioni”.

Gerard Libaridian, accademico ed ex diplomatico, ha dichiarato a Open Democracy che proprio le rotte di trasporto sono viste da Russia, Turchia e Azerbaijan come fondamentali, il che spiega la loro importanza nell’accordo di novembre. Questioni come il futuro status del Karabakh e il destino dei prigionieri di guerra armeni sono state finora relegate in secondo piano nei negoziati.

Più importante per l’Armenia, ha detto Libaridian, ex consigliere del primo presidente del paese Levon Ter-Petrosian, è la domanda “Cosa fare per limitare la sconfitta e la diminuzione del livello di sovranità dell’Armenia?”. Per l’Armenia – continua Libaridian – potenziali opportunità economiche dovrebbero essere viste “contesto politico-strategico all’interno del quale queste sono diventate possibili”.

Una tabella di marcia per la crisi elaborata dai rappresentanti della società civile armena a dicembre si è concentrata sulle conseguenze della guerra in Armenia e suggerisce che l’autostrada Nakhichevan-Azerbaijan dovrebbe essere negoziata “solo alla fine”. Libaridian ha affermato che la situazione attuale può essere meglio definita come assenza di guerra e come “processo di pace” più imposto che negoziato.

La rivoluzione ha raggiunto la regione di Syunik?

A Syunik, l’ansia per ciò che verrà è mitigata da un senso di autosufficienza nei confronti dei centri urbani dell’Armenia. Alcune persone che abbiamo incontrato scherzavano dicendo di star ancora aspettando che la rivoluzione del 2018 – guidata dall’attuale primo ministro Nikol Pashinyan – raggiungesse la regione (nel 2018, ad esempio, gli elettori del capoluogo Kapan hanno eletto un sindaco indipendente invece di un candidato sostenuto da Pashinyan).

Diverse persone che abbiamo incontrato hanno espresso la preoccupazione che gli interessi dei residenti di Syunik – che sono particolari, a causa della loro vicinanza a diversi confini – fossero trascurati dai leader armeni e che fosse necessaria una qualche forma di convivenza con l’Azerbaijan.

“Occorre smetterla di farsi prendere dal panico e avere pazienza per capire qualcuno che vive vicino ai confini”, afferma Assya Sarkissian, la proprietaria del caffè a Meghri. Hayrapetyan. Il direttore dell’hotel è stato ancora più schietto: “La guerra è un problema della politica elitaria”, ha detto. “Ci prendiamo cura dei nostri figli proprio come gli azeri si preoccupano dei loro. Ero un ingegnere edile e ho lavorato con gli azeri. La gente di Yerevan fa affari all’estero con gli azeri in Russia. Dobbiamo vivere con i nostri vicini, dobbiamo costruire la pace. Abbiamo già avuto 30 anni di tensione. Non possiamo andare avanti così per altri 30 anni”.

Henrik, il nostro autista, non è stato meno diretto: “Riceviamo meno aiuti del Karabakh”. Due dei suoi fratelli hanno combattuto a Jabrayil, una parte del Karabakh occupata dagli armeni fino ad una battaglia particolarmente cruenta nello scorso ottobre.

Tatevik Hovhannisyan, una politologa originaria di Kapan, ha dichiarato a OpenDemocracy che il governo armeno non è riuscito a tenere adeguatamente informato il pubblico sulla guerra e le sue conseguenze, il che – nella regione di Syunik – ha portato al panico e alla sfiducia. “C’è una mancanza di comunicazione tra il governo e le istituzioni, [o con] le autorità elette locali, così come con il pubblico in generale”, ha sottolineato. “Ai cittadini non viene detto cosa aspettarsi e cosa fare”.

A metà gennaio, il governo armeno ha istituito una task force interministeriale per “gestire le attività per individuare i problemi esistenti nella regione di Syunik e per affrontarli in modo operativo” dopo la guerra. Solo uno dei 16 membri della task force, Melikset Poghosyan, governatore di Syunik recentemente nominato, proviene dalla regione. Gli altri sono viceministri o funzionari di altri organismi statali. “Nessuno a Syunik sa di questo nuovo ente”, afferma Tatevik Hovhannisyan. “Questo la dice lunga anche sulla mancanza di comunicazione”.

Un portavoce dell’amministrazione regionale di Syunik ha rifiutato di commentare la situazione nella regione, affermando solo che molte questioni erano diventate molto delicate. “Quando c’è un cambiamento significativo nella vita, è ovvio vi siano delle preoccupazioni”, ha dichiarato Karen Hambardzumyan, ex governatore di Syunik ed ora parlamentare della coalizione “Il mio passo”, che governa l’Armenia. “In generale, tuttavia, posso dire che nella regione di Syunik non siamo né irrequieti, né spaventati e nemmeno depressi”.

Fine della strada

Nell’area in cui la strada da Yerevan raggiunge il confine iraniano, incontra il fiume Araks, che scorre vicino al confine. Dominato da una serie di torri di guardia, il fiume – che dalla Turchia scorre attraverso Nakhichevan e lungo il confine con l’Iran – è protetto da una recinzione originariamente costruita per impedire alle persone di fuggire dall’Unione Sovietica. Prima della pandemia, gli agricoltori armeni locali vendevano i loro prodotti nel mercato iraniano, immediatamente dall’altra parte del confine.

In una trattoria che si affaccia sulla piazza centrale del villaggio di Agarak, al valico di frontiera con l’Iran e vicino all’enclave di Nakhichevan dell’Azerbaijan, Anna Vardanyan prepara il pranzo ai camionisti di passaggio. “Non importa dove verranno tracciati i confini, sarò sempre io a lavare i piatti”, ci dice.

“Fin dalla rivoluzione Pashinyan ha guardato alla gente comune”, continua. “Tutti ricevono regolarmente la pensione e sono quindi in grado di pagare le proprie bollette. Prima della rivoluzione dovevamo pagare le tasse senza che le nostre pensioni di vecchiaia venissero pagate per mesi”.

In una stanza separata del ristorante, tre uomini stanno pranzando mentre fumano. Aram Hayrapetyan, Gor Lachinyan e Leo Zakaryan, armeni, appena ventenni, per vivere trasportano salumi da Kapan ad altre zone della regione di Syunik. Durante la guerra hanno combattuto anche a Jabrayil. “Utilizziamo la strada Goris-Kapan anche se è pericolosa. Gli affari devono andare avanti”, commenta Aram Hayrapetyan.

A dicembre, i partiti di opposizione hanno promosso una manifestazione di massa a Yerevan chiedendo le dimissioni del primo ministro Pashinyan, per protestare contro l’accordo di pace di novembre. La gente nella trattoria di Anna Vardanyan si arrabbia contro chi manifestò allora. “Non si vergognano?”, dice Anna. “’Sono stati i governi precedenti che non sono riusciti a prepararci per questi droni [forniti dalla Turchia all’Azerbaijan]. Non c’era niente che il governo armeno potesse fare contro di loro. Pashinyan ha fatto bene a fermare quello che sarebbe stato un bagno di sangue”.

Leo Zakaryan, uno dei tre camionisti, è ancora più diretto: “Chi protesta porta alla rovina l’intero paese”. Nelle elezioni politiche anticipate annunciate prima della fine dell’anno i residenti della regione di Syunik avranno presto la possibilità di esprimere un giudizio su Pashinyan e sull’agenda dello sviluppo economico del dopoguerra. Tornando a Meghri, Assya Sarkisyan lancia un appello per l’unità: “Quello che mi preoccupa di più è la lotta per la carica di primo ministro. Occorre mostrare intelligenza e fermare queste lotte di potere. Abbiamo bisogno di qualcuno che sia forte nelle proprie azioni e nella propria strategia”.

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“Teniamo viva la memoria degli armeni” (Resto del Carlino 16.02.21)

Nel ’900 ci sono stati molti altri genocidi, cioè lo sterminio di un gruppo etnico. Tra i genocidi meno conosciuti, di cui si sta cominciando a prendere coscienza, c’è quello perpetrato dai turchi alla popolazione armena cristiana fra il 1915 e il 1923, quando si stima che morirono un milione e mezzo di persone, senza contare i bambini che vennero islamizzati e le donne costrette agli harem. Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo di quelli del XX secolo in quanto aveva l’obiettivo di sterminare una componente della popolazione turca di religione cristiana, la quale aveva assorbito gli ideali dello Stato di diritto di stampo occidentale e che con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo al progetto governativo della Turchia. A partire dal 1965 ventinove Paesi, fra cui l’Italia nel 2019, hanno riconosciuto quello degli armeni come uno dei grandi genocidi della storia; a tale ufficialità si è sempre opposto il governo turco, il quale ha giustificato il proprio operato in vari modi, non senza generare malcontento nella comunità internazionale che condanna tale negazionismo. Riconoscere e ricordare il genocidio degli armeni, la Shoah e i molti altri stermini del 1900 è importante in quanto bisogna tenere viva nei popoli la memoria di avvenimenti così terribili, perché essi non si ripetano più.

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