Nagorno Karabakh: ecco cosa ha lasciato la guerra tra Armenia e Azerbaijan (Osservatoriodiritti 15.02.21)

La neve scesa durante la notte imbianca al mattino la collina di Yerablur, a Yerevan. Un luogo dove gli orrori del conflitto e le conseguenze della guerra del Nagorno Karabakh sono visibili in tutta la loro drammaticità e spietatezza. È su questa collina, infatti, che si trova il cimitero militare e vengono celebrati ogni giorno i funerali dei ragazzi caduti durante i combattimenti.

Guerra Naborno Karabakh: nel 2020 almeno 6 mila morti

Secondo le stime governative, i soldati armeni morti durante i giorni di scontri sono oltre 3.000, quelli azeri 2.800, ma in molti tra giornalisti e osservatori internazionali credono che le stime siano state arrotondate per difetto e che dal lato armeno siano almeno 5.000 le vittime militari.

Il conflitto del Nagorno karabakh è stato un Vietnam caucasico per l’Armenia e a simboleggiarlo oggi ci sono migliaia di tombe di giovani ragazzi che hanno perso la vita sulla linea del fronte. Le foto sulle lapidi sono quelle di uomini nati solo 18, 19, 20 anni fa e non c’è più la propaganda che incendiava la capitale nei giorni di guerra e nemmeno i proclami irredentisti che invitavano alla lotta ad oltranza in montagna. Ci sono invece madri e padri senza risposte e consolazione che abbracciano le lapidi, accarezzano i nomi dei propri figli incisi sul marmo, accendono incensi e depongono fiori.

Storia della guerra caucasica più violenta degli ultimi 20 anni: Azerbaijan contro Armenia

Il primo conflitto nell’epoca del nuovo coronavirus e il più violento scontro caucasico degli ultimi 20 anni ha avuto inizio il 27 settembre in seguito a un’aggressione da parte dell’Azerbaijan ai danni del Karabakh armeno.

Dopo 44 giorni, la guerra è terminata con la vittoria azera, il successo diplomatico russo e la sconfitta armena.

Nagorno Karabakh oggi: vinti e vincitori della guerra

In base agli accordi firmati, gli armeni si sono dovuti ritirare dai sette distretti contesi del Karabakh e anche la storica città di Shushi è rimasta sotto controllo azero.

Duemila soldati russi sono stati schierati nel corridoio di Lachin, la strada che collega l’Armenia con il Karabakh, con un incarico di cinque anni prorogabile di altri cinque e l’Azerbaijan ha ottenuto che venga costruita anche una strada di collegamento, attraverso il territorio armeno, con l’enclave del Nakhchivan e con la Turchia.

Il racconto di Karen e Lilith: «La guerra è un orrore assurdo e ingiusto»

«Mio figlio aveva diciott’anni, l’hanno chiamato sul fronte che ancora non aveva terminato il servizio militare ed è morto al quarantesimo giorno di combattimenti. Per chiamarlo a combattere non hanno avuto esitazioni, ma le autorità militari non hanno avuto il coraggio di dire a noi, che siamo i suoi genitori, che lui era morto».

Sono parole di dolore assoluto, inconsolabile, quelle di Karen e Lilith, padre e madre di Aren, ed è il papà a spiegare: «I politici chiamano eroe mio figlio, ma io non accetto questa retorica, non voglio che venga chiamato eroe, avrei preferito che fosse qui con noi ora e continuasse a studiare e vivere, piuttosto che essere un eroe».

E poi, soppesando ogni singola sillaba, Karen conclude così: «Io mando le mie più sincere condoglianze a tutti i genitori azeri che hanno perso i propri figli in guerra. Non posso dire che gli armeni siano buoni e gli azeri cattivi… soltanto che la guerra è un orrore assurdo e ingiusto».

Essere genitori dopo il conflitto in Nagorno Karabakh

Oggi sono i genitori coloro che devono sopportare il peso più grande del conflitto, in alcuni casi per tutti i giorni della loro vita dovranno affrontare l’incolmabile vuoto dettato dalla perdita di un figlio. E nessuna medaglia, nessuna celebrazione postuma, potranno mai risarcire e compensare il dolore subito.

In altri casi, ancora devono fronteggiare la responsabilità di dare ai propri figli la speranza di un futuro che il conflitto invece sembra avere loro negato. E poi ci sono mamme e papà che dei propri figli non sanno più nulla: dispersi sulla linea del fronte durante i combattimenti.

A Stepanakert ci sono due anziani genitori,  Angela e Nikolay Asryan che ogni mattina si recano al palazzo presidenziale per sapere se ci sono notizie di loro figlio Sasun di 31 anni, di cui nessuno sa più nulla da metà ottobre.

La madre ricorda le madri di Plaza de Mayo, dei desaparecidos argentini, e procede a passo lento e mostra a tutti la foto del suo ragazzo. «Non sappiamo nulla» e «se sapremo qualcosa vi varemo sapere», sono le risposte che da più di due mesi ricevono i genitori, unicamente queste.

«Mio figlio viveva a Shushi e amava andare a caccia, a pesca, a nuotare nel fiume, tante persone lo conoscevano», racconta Angela. Che aggiunge:

«Sasun non era sposato ma aveva una fidanzata che ogni giorno mi chiama e mi chiede se ci sono sue notizie. E io continuo a dirle che non so nulla e allora parliamo di lui e io le dico che mi sarebbe piaciuto che avessero avuto dei bambini».

I genitori non hanno più speranze che loro figlio sia vivo, ma vorrebbero almeno che venisse ritrovato il corpo per avere così una tomba su cui piangere e poter portare un fiore.

Una terra controllata da Russia e Azerbaijan

Oggi a Stepanakert i combattimenti sono cessati, decine di miglaia di persone sono tornate alle proprie abitazioni, i mercati hanno riaperto e frutta e carne sono esposti sui banchi. Ma la pace, quella ancora latita dal Nagorno Karabakh.

La regione contesa è infatti oggi militarizzata e presidiata dalle truppe arrivate dalla Russia e il Cremlino ha fatto della regione contesa una propria satrapia caucasica. Sono i peacekeepers russi, in sinergia con i soldati azeri che presidiano tutti gli ingressi ai territori conquistati, a decidere chi entra e chi esce e ovunque si vedono svnetolare le bandiere russe, mentre le mezzalune di Baku e di Ankara garriscono prepotenti dai bastioni della storica città di Shushi

Nagorno Karabah oggi: le conseguenze della guerra

La pace manca in tutti coloro che convivono e dovranno convivere per sempre con l’eredità del conflitto. Nell’ospedale militare gestito dall’ong Support for wounded soldiers (Sostegno ai soldati feriti) si incontrano i giovani soldati che sono rimasti feriti e mutilati durante i combattimenti. Oltre 200 ragazzi sono ospitati nella clinica, alcuni hanno perso entrambi gli arti, altri non riescono più a camminare a causa dei danni che hanno riportato, altri ancora hanno lesioni al sistema nervoso e devono reimparare i più elementari gesti, come impugnare una posata o alzarsi e sedersi su una sedia.

«La maggior parte dei ragazzi che sono qui ricoverati ha tra i 18 e i 20 anni. Hanno iniziato da poco la loro vita adulta e sono in queste condizioni. Noi diamo loro anche supporto psichiatrico perché molti hanno gravi problemi psichici a causa di ciò che hanno visto e vissuto».

A spiegare la situazione è la dottoressa Lucine Poghosyan. Che aggiunge: «Un ragazzo è stato portato qua che non aveva più le braccia, neppure le gambe e gli mancava anche una parte del ventre. Lui era cosciente e noi non sapevamo come aiutarlo. È stato terribile. La guerra è terribile».

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Il genocidio degli armeni nei telegrammi del suo “architetto” (Unione Sarda 14.02.21)

Tra il 1914 e il 1916, approfittando della distrazione della diplomazia internazionale per lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Impero ottomano compì una delle maggiori atrocità del Novecento. Si tratta del genocidio degli armeni.

L’etnia armena, di religione cristiana, apparteneva all’Impero ottomano dal XV secolo e aveva sempre goduto di una situazione di tolleranza. Tuttavia, dal XIX secolo il governo imperiale operò per imporre la supremazia dell’etnia turca e della religione musulmana nell’impero e, soprattutto, in Anatolia dove risiedevano gli armeni. Le prime persecuzioni degli armeni avvennero alla fine del XIX secolo; successivamente nel 1909 il governo dei Giovani Turchi – un movimento fortemente nazionalista – scatenò una seconda ondata di violenze contro questo popolo: la Cilicia e l’Armenia furono teatro di massacri e arresti di massa ad opera dell’esercito. Nei due eccidi si contarono circa 300.000 vittime su una popolazione di 2 milioni di armeni.

L’occasione per regolare definitivamente i conti con gli armeni venne data alle autorità ottomane dalle sconfitte subite dalle armate turche nelle fasi iniziali della Prima guerra mondiale, nell’inverno tra il 1914 e il 1915. Gli armeni divennero il capro espiatorio della disfatta militare, perché accusati di simpatizzare con il nemico russo, con il quale veniva condivisa la comune fede cristiana. La classe dirigente armena fu eliminata immediatamente mentre il resto della popolazione venne condotto verso le regioni centrali dell’Anatolia o i deserti della Siria: durante il trasferimento iniziarono i massacri, gli armeni furono sterminati o abbandonati alla morte per fame. La persecuzione provocò la morte di quasi 1.500.000 persone, in gran parte donne, vecchi e bambini.

Per decenni dello sterminio degli armeni si è parlato poco e ancora oggi la Turchia nega che sia mai avvenuto. Soprattutto il governo turco, ma anche la stragrande maggioranza degli studiosi turchi tende a delegittimare le tante testimonianze e prove che oramai esistono sullo sterminio.

Ad aggiungere un mattone importante al consolidamento della verità storica arriva ora il volume Killing Orders (Guerini e Associati, 2020, pp. 388) che presenta per la prima volta in italiano, ma soprattutto mette al vaglio della critica più accurata i telegrammi di Talat Pasha, il Ministro degli interni considerato l’architetto del genocidio degli armeni.

Taner Akçam (foto @ClarkUnivesity)
Autore del volume è Taner Akçam, un coraggioso intellettuale e storico turco, che da anni vive esule negli Stati Uniti a causa delle minacce ricevute dal governo di Ankara. Akçam ha lavorato su preziosi ed eloquenti documenti originali inediti, restituendo con precisione al lettore, passo dopo passo, istruzione dopo istruzione, le varie fasi di preparazione, innesco e divampare dello sterminio. In questo modo ha messo con le spalle al muro i molti tentativi di negare o ridimensionare i crimini di cui si sono rese responsabili le autorità ottomane un secolo fa.

A confermarcelo è la scrittrice di origine armena Antonia Arslan, che ha curato l’edizione italiana del libro:

“Killing Orders ci mostra la cosiddetta ‘pistola fumante’ del genocidio perpetrato contro gli armeni, come mi ha detto proprio Taner Akçam un paio di anni fa, quando il volume uscì negli Stati Uniti. Nel libro non troviamo testimonianze di sopravvissuti o di testimoni, ma i documenti ufficiali di come venne pianificato il primo genocidio del Novecento”.

Perché questi documenti sono tanto importanti?

“Proprio perché sono documenti ufficiali. Per molto tempo questi telegrammi sono stati messi in discussione da storici appoggiati dal governo turco e sono stati a lungo accantonati. Taner Akçam li ha potuti recuperare, studiare in maniera attenta grazie alla conoscenza della lingua ottomana antica e fare delle analisi critiche approfondite. Ha controllato il tipo di carta usato, i codici cifrati in uso al tempo… insomma non ha lasciato nulla al caso”.

La copertina del libro
La copertina del libro

Il libro è uscito due anni fa in inglese. Quali reazioni ha provocato da parte del governo turco?

“Le reazioni abituali. Le autorità turche in questi casi comprano le copie dei libri considerati ‘pericolosi’ per farle sparire dalla circolazione e far passare tutto sotto silenzio. Fanno, inoltre, pressioni perché non si parli degli studi sul genocidio come quello di Taner Akçam e a volte riescono nel loro intento. Akçam, però, conosce i metodi del governo di Ankara e non si fa intimorire più che tanto. È stato in carcere in Turchia per i suoi scritti, ha vinto una causa internazionale perché le autorità turche facevano pressioni sulle università americane perché non gli rinnovassero i contratti o non lo chiamassero a insegnare. Ora ha una cattedra alla Clark University nel Massachusetts solo grazie all’appoggio ricevuto dalla comunità armena statunitense”.

La posizione delle autorità turche è sempre negazionista in merito al genocidio degli armeni?

“Assolutamente… e le cose sono peggiorate negli ultimi tempi. C’erano state delle aperture sulla questione armena anni fa, anche sull’onda dell’emozione per l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007. Dink era una persona straordinaria, voleva arrivare a una riconciliazione tra turchi e armeni e per questo era stato minacciato più volte. Però non arretrava fino a che non lo hanno ucciso con un colpo alla nuca, di fronte agli uffici del suo giornale. Al suo funerale erano presenti migliaia di turchi con cartelli con la scritta ‘Siamo tutti Hrant Dink’. Sono cose che però lasciano il tempo che trovano. Con Erdogan al potere il genocidio è tornato a essere un tabù. Chi ne parla perde il lavoro oppure finisce direttamente in carcere”.

Paura in Armenia per una forte scossa di terremoto (Sputniknews 14.02.21)

I testimoni hanno riferito che il terremoto ha interrotto le connessioni dei telefoni cellulari e Internet.

Paura in Armenia per una forte scossa di terremoto che ha fatto tremare la capitale. Il sisma di magnitudo 4,7 ha colpito Yeravan, secondo quanto riferito sabato dal Centro sismologico europeo-mediterraneo, che ha localizzato l’epicentro a 13 chilometri a sud della città armena. La scossa è stata registrata alle 15:29 (orario locale) ad una profondità di 2 chilometri.

​Tuttavia, secondo i servizi di emergenza locali il sisma si è prodotto ad una profondità di 10 chilometri.

Secondo quanto riferisce un corrispondente di Sputnik Armenia, i grattacieli sono stati evacuati e i residenti si sono riversati per strada durante le scosse di assestamento.

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Radio Vaticana: da tutto il mondo gli auguri per i 90 anni (Vaticannews.va 13.02.21)

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Gli auguri per i 90 anni della Radio Vaticana, sono arrivati al prefetto Paolo Ruffini e al Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede da tutto il mondo e in tutti i modi, dalla lettera cartacea al tweet.  L’arcivescovo maggiore Kyiv-Halyč Sviatoslav Shevchuk, guida della Chiesa greco-cattolica ucraina, ricorda che l’emittente pontificia ha avuto un ruolo importante “ai tempi della persecuzione comunista” per i fedeli della sua Chiesa, che “trovavano il sostegno spirituale e la comunione con la Chiesa universale nell’ascolto delle frequenze della Radio Vaticana in lingua ucraina”. E definisce “davvero impressionante” il cammino percorso dalla “radio del Papa” in questi 90 anni, durante i quali “la Parola del Signore è annunciata in ogni angolo del pianeta, la voce del Vangelo è ascoltata in 41 lingue e il messaggio cristiano arriva a diversi popoli del mondo”.

L’arcivescovo Minassian: io redattore della sezione armena

L’arcivescovo Raphael Minassian, ordinario della Chiesa armeno cattolica dell’Armenia, Russia, Ukraina, Georgia e dell’Europa Orientale, definisce Radio Vaticana una “voce di verità autorevole nel mondo”. E si congratula per il lancio delle web radio, “dove anche la redazione armena, di cui ho fatto parte negli anni degli esordi, continua a dare il suo prezioso contributo nel diffondere il messaggio evangelico nel mondo e fungere da ponte tra la Chiesa universale e le Chiese armene disperse in tutte le parti del mondo”.

Il Secam: grazie per aver portato nel mondo la voce dell’Africa

Il vescovo nigeriano Emmanuel Adetoyese Badejo, presidente del Comitato episcopale panafricano per la comunicazione, a nome del Secam, il Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar, sottolinea che in questi 90 anni la Chiesa africana ha goduto di prima mano dei servizi di questo “gioiello di comunicazione pastorale ed evangelizzazione” per più di settant’anni. Durante i quali non solo la voce e le azioni dei Papi, della Chiesa universale e delle Chiese negli altri continenti sono stati trasmessi a milioni di africani, ma anche “la voce e le esperienze della Chiesa in Africa sono arrivate al pubblico di tutto il mondo”. Una collaborazione che continua ogni giorno.

Gli auguri delle ambasciate degli Usa, di Italia e Francia

Auguri e congratulazioni sono arrivati anche da molte ambasciate presso la Santa Sede. Ricordiamo quella degli Stati Uniti d’America, dell’Italia e della Francia, che parlano del primo radiomessaggio di Papa Pio XI nel 1931, e i francesi ringraziano anche “di far arrivare ai popoli di tutto il mondo le parole do speranza dei Pontefici”. Un ricordo arriva anche dal Senato italiano e dai Cavalieri di Colombo, “orgogliosi sostenitori” delle comunicazioni vaticane, tra le quali Radio Vaticana.

Signis Africa: portate nelle case la voce rassicurante del Papa

L’Ebu, l’Unione europea di radiodiffusione, fa gli auguri a suo membro e ricorda il traguardo delle trasmissioni in 41 lingue diverse, e Signis Africa, attraverso il presidente Walter C. Ihejirika, sottolinea che attraverso la Radio Vaticana “la voce del Papa continua a essere ascoltata nelle case di molte famiglie africane con i toni rassicuranti del buon pastore, dando incoraggiamento e speranza, e soprattutto invitando tutti gli esseri umani a costruire un mondo interconnesso”.

Cei, il valore della Radio nel continente digitale

“La voce portata dalla Radio fino ai confini del mondo – scrive Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei – risuona oggi con vibrazioni rinnovate anche bel continente digitale. Una presenza che, guardando alla storia, diventa prospettiva educativa”.

Radio Romania: diffondete la speranza del Vangelo nel mondo

Infine Radio Romania, con una lettera del presidente Georgica Severin, sottolinea che Radio Vaticana, con una storia definita “trionfo dell’ alleanza tra la radio e il messaggio cristiano” è riuscita a realizzare pienamente “il progetto iniziale di diffondere la speranza del Vangelo in tutto il mondo”.

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Memoria e attualità del genocidio armeno (Ilfriuli 13.02.21)

Il genocidio armeno, il primo del Ventesimo secolo, è ormai una conoscenza acquisita, nelle sue linee generali: si sa che è avvenuto nell’impero Ottomano durante la prima guerra mondiale, ad opera del governo dei Giovani Turchi e che il popolo armeno venne spazzato via dall’Anatolia, al costo di circa un milione e mezzo di morti. E si sa anche, almeno nelle nostre regioni, che gli Armeni sono un popolo in diaspora, come gli ebrei.
Aladura in collaborazione con Teatro Verdi Pordenone presenta Contro il vento della barbarie. Memoria e attualità del genocidio armeno, incontro con Antonia Arslan, giovedì 25 febbraio alle 11.30 in collegamento live dal Verdi Pordenone link live web: http://bit.ly/vento-barbarie
Bisogna, però, continuare a parlare del Metz Yeghern, come della Shoah. Tenere viva la memoria è un compito difficile ma indispensabile, tanto più in questo momento, in cui sulla piccola Armenia – che resiste, ancora indipendente, sulle montagne del Caucaso – si addensano pericolosi venti di guerra e insidiose minacce di estinzione. Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, è stata per molti anni professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. Dopo aver tradotto e curato un libretto divulgativo sul genocidio (Metz Yeghèrn. Breve storia del genocidio degli armeni, di Claude Mutafian) e una raccolta di testimonianze di sopravvissuti rifugiatisi in Italia (Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni) ha seguito e curato l’edizione italiana di molti libri sull’Armenia, la sua cultura, la tragedia del genocidio vista attraverso le voci dei superstiti. Nel 2004 ha pubblicato il bestseller La masseria delle allodole (Rizzoli), che ha vinto numerosi premi letterari (dal Berto Opera Prima al Fenice-Europa, dal Pen Club allo Stresa e al Campiello), tradotto in ventitré lingue e portato sullo schermo nel 2007 dai fratelli Taviani.Il seguito, La strada di Smirne è del 2009. Nel 2010, dopo una drammatica esperienza di malattia e di coma, scrive Ishtar 2. Cronache dal mio risveglio. Negli anni successivi pubblica con Piemme due libri di racconti: Il cortile dei girasoli parlanti e Il calendario dell’Avvento. Il libro di Mush, sulla strage degli armeni di quella valle avvenuta nel 1915, esce per Skira nel 2012. Sempre con Rizzoli pubblica Il rumore delle perle di legno, terzo libro della saga armena (2015), Lettera a una ragazza in Turchia (2016) e infine La bellezza sia con te (2018).

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Il rinnovo di Mkhitaryan: l’armeno dice sì, Raiola prende tempo (IlRomanista 12.02.21)

Il contratto è pronto, ma la firma ancora non arriva. Sono già un paio di settimane che l’accordo contrattuale della Roma con Mkhitaryan si è prolungato in automatico per una stagione. Ma l’armeno, sarebbe meglio dire il suo procuratore Mino Raiola, non ha ancora detto sì. Il prolungamento è messo nero su bianco sul contratto, ma diventa effettivo solo con il consenso del giocatore. Clausola che quel furbacchione di Raiola, un anno fa volle inserire dopo che era riuscito a portare il giocatore a costo zero, svincolato dall’Arsenal. Se ci pensiamo un autentico affare per la Roma. E, sempre quel furbacchione di Raiola, ora vuole che l’affare lo faccia pure lui.

Il campione armeno nel solo girone d’andata ha raggiunto tutti i numeri necessari per far scattare l’automatismo del rinnovo: venticinque presenze e un minimo di quindici tra gol e assists che, oltretutto, gli hanno garantito un guadagno di mezzo milione. L’accordo per lo stipendio netto del giocatore, infatti, lo scorso anno fu trovato sulla base di tre milioni di fisso più, appunto, mezzo milione di bonus legato al numero dei gol e degli assist. Nel caso di Mkhitaryan, però, per conoscere il lordo non si deve fare per due. La società, in base al decreto rilancio, ingaggiando un lavoratore arrivato dall’estero e che rimane in Italia almeno per due anni, può usufruire di una fiscalizzazione dimezzata, cosa che nel caso dell’armeno fa salire il totale a meno di cinque milioni (quanto costa Fazio, per dire). Questo tipo di vantaggi fiscali la Roma li può sfruttare, per esempio, anche per Smalling e Pedro.

Ma torniamo all’armeno. Il giocatore, in una recente intervista, ha detto chiaramente di essere felice a Roma e nella Roma, facendo capire che la sua idea è quella di continuare a giocare con la maglia giallorossa. E allora perché non firma? Perché Raiola che uno potrà pure pensare che ha mille difetti ma che sa fare il procuratore come pochi altri, al giocatore ha detto che non c’è motivo di affrettare la firma, il contratto con la Roma è pronto, si può pure aspettare.

Perché Raiola ha consigliato di prendere tempo? La prima risposta naturale che viene è che Mkhitaryan in questo momento è un giocatore a parametro zero. E visto come sta giocando in questa stagione, tra i migliori in assoluto nel nostro campionato, il procuratore italo-olandese con residenza nel Principato di Monaco, vuole capire se c’è magari qualche altra società che si possa presentare offrendo un contratto per l’armeno (e pure per lui leggasi commissioni) migliore di quello che ha già garantito con la Roma. È il suo mestiere, nulla da obiettare. Il secondo motivo è che, sempre Raiola, potrebbe voler aspettare un rilancio della società giallorossa. Non tanto sul totale netto l’anno, quanto sugli anni del prossimo contratto. Il terzo è una questione legata alle commissioni. La Roma, come ha scritto in un recente comunicato, ha un debito di quindici milioni per il cash ai procuratori e tra questi di sicuro c’è anche Raiola. Che, quindi, dovrebbe vantare un credito. E allora tu pagare commissioni, io far firmare l’armeno. Il quarto è che quando ci si deve confrontare con un procuratore che nella sua scuderia può vantare decine di giocatori (nella Roma ha Calafiori e Kluivert), si può immaginare che per dare il via libera alla fumata bianca per Mkhitaryan, voglia inserire nel totale anche la movimentazione di qualche altro giocatore (ricordate Emanuelson?). Esempio: Raiola ha preso la procura anche del portiere del Verona Silvestri, giocatore seguito dalla Roma. E allora io do una cosa a te, Mkhitaryan, tu dai una cosa a me, Silvestri.

In ogni caso, pur nella consapevolezza che trattare con Raiola tutto è meno che una passeggiata di salute, l’impressione è che alla fine la firma dell’armeno ci sarà. Soprattutto se, come filtra da Trigoria, si sta pensando di offrirgli un contratto biennale più l’opzione per una terza stagione. Il giocatore, peraltro, ha fatto capire in tutte le maniere di essere felice alla Roma. E a questa felicità bisogna aggiungere anche il fatto che Mkhitaryan ha apprezzato moltissimo come la Roma sia stata vicino a lui e alla sua Armenia, nel momento della crisi militare con l’Azerbaigian.

Toccherà a Tiago Pinto tirare le somme di una vicenda in cui, prescindendo da Raiola, ci sono tutte le premesse che possa concludersi con un nuovo accordo contrattuale con il giocatore. Il nuovo general manager giallorosso ha già avuto un primo contatto con Raiola. Presto ce ne sarà un secondo che potrebbe rivelarsi anche quello decisivo. In questo periodo Pinto sta incontrando un po’ tutti i procuratori dei giocatori giallorossi. L’appuntamento con Raiola è tra i più importanti, anche perché si parlerà pure del futuro di Justin Kluivert. Sistemato l’olandese, siamo convinti che si brinderà pure per l’armeno che sarà il primo a esserne felice.

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Tutta l’anima armena di Tigran Mansurian (Avvenire 12.02.21)

Tigran Mansurian riesce a pregare persino con le “voci”… di un quartetto d’archi! Nel nuovo disco dedicato alle musiche da camera del compositore armeno (classe 1939) troviamo infatti affiancate tra loro opere strumentali di profonda ispirazione e densità di concezione, a cui mancano solo le parole, ma il cui senso ultimo appare già evidente sin dai loro titoli: Agnus Dei, Sonata da Chiesa e Con anima, il brano che dà il titolo all’album. Il progetto nasce da un’illuminazione del violinista Movses Pogossian (già vincitore del prestigioso concorso internazionale Ciaikovskij) e della violista Kim Kashkashian, le cui condivise origini armene hanno rappresentato il comun denominatore per scandagliare nell’intimo l’intensità spirituale della musica di Mansurian e il suo portato fortemente simbolico, ancorato al dramma e alla memoria del genocidio del popolo armeno, vittima del primo olocausto della storia moderna. Le registrazioni raccolgono una selezione di lavori recenti destinate a un cast composito che prevede violini, viole, violoncelli, clarinetto e pianoforte, a seconda dell’organico previsto da ogni singolo pezzo. Sono queste le “voci” che si alternano, si inseguono, si sovrappongono tra tempi lenti, arcate sospese, frammenti melodici e lievi dissonanze, intrecciando tra loro registro sacro e profano, stilemi di foggia classica e tradizione folclorica, linguaggi di ascendenza antica e impronta contemporanea. «Le sue opere sono ricche di significati che provengono da ornamenti, dipinti o monumenti armeni», scrive Elena Dubiunets nelle note di copertina del cd; «la sua stessa musica sembra essere scolpita nella pietra». Ma sono pietre parlanti quelle di Mansurian, che anche senza parole sanno evocare sconfinati mondi interiori. Onore innanzitutto all’evidente bravura e alla sensibilità degli interpreti, ma anche allo strepitoso lavoro dei tecnici del suono dell’etichetta Ecm, che con la loro proverbiale professionalità hanno saputo trasformare in musica anche i silenzi.

Mansurian
Con anima
Movses Pogossian, Kim Kashkashian
ECM / Ducale. Euro 20,00

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Armenia-Turchia: ministro Esteri Ayvazyan, Ankara non ha motivo di tenere chiusi i confini (Agenzia Nova 10.02.21)

Erevan, 10 feb 15:35 – (Agenzia Nova) – La Turchia non ha validi motivi per mantenere chiuso il confine con l’Armenia dopo che ha contribuito a modificare lo status quo in Nagorno-Karabakh. Lo ha detto il ministro degli Esteri armeno, Ara Ayvazyan, secondo cui “la chiusura dei confini è stata condizionata dallo status quo in Artsakh (così si autodefinisce l’autoproclamata repubblica di Nagorno-Karabakh), che tuttavia è stato cambiato. La Turchia non ha motivi di tenere chiuso il confine con l’Armenia. Al momento il processo di riapertura non è in corso ma l’Armenia e la sua diplomazia faranno tutti gli sforzi per creare condizioni favorevoli e garantire la sicurezza nazionale”, ha detto il ministro durante un question time in Parlamento. Secondo Ayvazyan, l’obiettivo principale delle autorità armene è fare di tutto per rafforzare il contesto di sicurezza nazionale e dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh. “Questo non è un obiettivo facile, poiché questa è una manifestazione della situazione geopolitica e, naturalmente, come Stato, governo e società civile, dobbiamo sforzarci di compiere degli sforzi per allentare la situazione, il che porterà anche a un rafforzamento dell’architettura di sicurezza intorno all’Armenia”, ha detto il ministro. Secondo Ayvazyan, questo dipende da molte componenti, compresa la stabilità interna del Paese caucasico. Parlando delle esercitazioni militari turco-azerbaigiane tenutesi vicino al confine armeno a Kars, Ayvazyan ha osservato che qualsiasi atto di questo tipo “è motivo di preoccupazione”. (Rum)

Governo NL sotto pressione per riconoscimento genocidio armeno (31mag.nl 10.02.21)

Il governo olandese è nuovamente soggetto a pressioni sul riconoscimento del massacro di massa degli armeni da parte dell’Impero Ottomano nel XX secolo, come genocidio. Giovedì il Parlamento discuterà la mozione, che chiede al gabinetto di riconoscere il termine “genocidio armeno” quando si fa riferimento all’uccisione di 1,5 milioni di armeni tra il 1915 e il 1917.

La mozione, presentata dal deputato di ChristenUnie Joël Voordewind, è appoggiata da abbastanza partiti per formare una maggioranza. Tra i partiti sostenitori ci sono gli ex partiti della coalizione VVD, CDA e la stessa CU, così come il partito PVV di Geert Wilders, i Socialisti (SP), GroenLinks, il Partito per i diritti degli animali (PvdD), 50Plus, Forum voor Democratie.

Tre anni fa il Parlamento aveva approvato una mozione per riconoscere il genocidio armeno, ma il governo aveva rifiutato di adottare il termine. L’allora vice primo ministro, Lodewijk Asscher, laburista, sosteneva che fosse “inutile” per i governi esprimere giudizi su questioni di diritti internazionali. “Ci sono persone che vivono nei Paesi Bassi, la cui storia familiare è stata segnata dal massacro” affermò. Nello stesso anno, Menno Snel, ministro delle finanze, ha rappresentato per la prima volta, il governo olandese alla cerimonia di Yerevan, per commemorare le vittime. 

La Turchia, che da sempre rifiuta l’omicidio di massa come genocidio, ha accusato il Parlamento olandese di ipocrisia. Secondo Ankara, l’Olanda “guardava dall’altra parte” durante il genocidio di Srebrenica nel 1995.

I sostenitori della nuova mozione vedono il riconoscimento del genocidio come un passo importante verso la riconciliazione e la prevenzione di future atrocità. “Ecco perché è di grande importanza che prima di tutto i paesi parlino chiaro. Ed è ciò che la grande maggioranza della Camera chiede di fare al governo olandese” ha riferito Voordewind a NOS.

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“I baroni di Aleppo”: intervista a Flavia Amabile (Hotelbaron 09.02.21)

Pubblicato nel 1998 da Gamberetti editrice e ristampato nel 2009 da La lepre EdizioniI baroni di Aleppo è il primo (e finora unico) libro in lingua italiana dedicato all’Hotel Baron di Aleppo. Non potevamo quindi non partire da quelle pagine per tentare di costruire le fondamenta di questo secondo, virtuale Baron. Così come non potevamo non fare due chiacchiere con Flavia Amabile, giornalista de “La Stampa” e autrice -insieme a Marco Tosatti- del volume.

Flavia, come hai scoperto la vicenda dell’Hotel Baron di Aleppo? Che cosa vi ha spinto a scriverne?

Eravamo in viaggio in Siria. Giravo il Paese per scrivere un libro di viaggi. Siamo capitati al Baron’s Hotel seguendo il racconto di un libro sugli alberghi letterari. Arrivavamo da Raqqa, in questi anni nota come capitale dello Stato islamico creato dall’Isis, allora un tranquillo e anonimo paese lungo l’Eufrate. Dopo un viaggio di alcune ore in un minibus stipato di siriani, entrare al Baron’s ci parve un viaggio nel tempo e nello spazio. Il deserto e il Medioriente erano rimasti fuori, dentro si respirava un’atmosfera da Inghilterra degli anni Trenta. La sera abbiamo incontrato il proprietario, ci siamo fatti raccontare la storia dell’albergo e abbiamo deciso di scriverla.

La famiglia armena Mazloumian vive nel villaggio di Anchurty (Turchia orientale), ma è costretta ad abbandonarlo intorno al 1860 a causa delle incursioni dei soldati ottomani che rastrellano i cristiani distruggendo campi e raccolti. Inizia così il viaggio verso Aleppo -allora la seconda metropoli dell’Impero- di Krikor Mazloumian, il patriarca. È proprio lui, appena giunto in città, ad avere l’intuizione che cambierà la sua vita e quella dei suoi discendenti: aprire un hotel che si chiamerà Ararat prima e Hotel du Parc poi. Da dove nasce questa idea?

Da secoli Aleppo era il crocevia dei commerci tra occidente e oriente, chi rimaneva a dormire in città utilizzava i khan, i caravanserragli, non adatti al turismo che avrebbe portato la nuova ferrovia in costruzione con il mitico treno Orient-Express in arrivo da Londra. Di viaggiatori europei infatti ne sarebbero arrivati tanti e il Baron’s divenne l’approdo naturale.

Nel novembre del 1911 gli sforzi congiunti dei due figli di Krikor, Onnig e Armen, portano alla fondazione del Baron’s Hotel, l’hotel dei “signori”. Che cosa offriva di innovativo ai viaggiatori che arrivavano ad Aleppo?

Era un albergo più vicino agli standard occidentali. Aveva vere e proprie stanze, un servizio ristorante, arredi di pregio e un modo di accogliere i viaggiatori che lo rese una tappa obbligata nel viaggio verso Oriente.

Capi di stato, archeologi, nobili europei, soldati: il mondo di inizio secolo prese alloggio nelle camere del Baron. Quali furono gli ospiti più eccentrici?

Ce ne furono molti. Abbiamo cercato di ricostruire nel libro alcune storie, dalla scrittrice Agatha Christie a Lawrence d’Arabia fino allo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini in tempi più moderni.

In media venivano consumate ogni giorno tre casse di champagne, ma il cibo? Che cosa avremmo gustato di speciale durante una cena nella golden age dell’Hotel Baron?

Cibo di tipo europeo. Carni cucinate con sapienza, verdure, dolci raffinati.

Ci ha molto colpito scoprire il ruolo che giocò l’Hotel nell’ostacolare prima e individuare poi alcuni responsabili del genocidio armeno; come andarono le cose?

Il Baron’s fu in prima linea sia nel salvare le vite di tanti armeni che nella fase dell’individuazione dei responsabili. I Mazloumian nascosero Aram Andonian, il giornalista che avrebbe portato le prove del genocidio nel processo che si sarebbe tenuto alla fine della prima guerra mondiale.

Krikor (detto “Koko”) è il figlio di Armen Mazloumian. È lui, terza generazione della famiglia, a rinnovare, dopo un viaggio in Europa, l’Hotel dotandolo di un bar alla moda. É la svolta, vero?

Fu la svolta davvero. Portò a Aleppo l’atmosfera della Londra degli anni Trenta. Creò un Savoy (dal nome del ricercato albergo londinese) nel Medio Oriente.

Poi, nel 1964, con il socialismo di Nasser arriva la crisi: le banche vengono nazionalizzate e a causa di un investimento fallimentare (al quale non avrebbe neppure voluto partecipare), “Koko” è costretto a cedere la proprietà del Baron, pur continuando a gestire l’hotel. La fine di un’epoca che riserva però delle sorprese, come l’arrivo di Pasolini ad Aleppo. Come andò in quell’occasione?

Pasolini è sempre stato molto attento ai luoghi dove ambientava i suoi film. Per girare alcune scene di Medea scelse la cittadella di Aleppo e con l’intera troupe sbarco al Baron’s. Vi rimase a lungo facendo amicizia tra i giovani della città e reclutando molti di loro fra le comparse, anche la figlia di Koko apparve in una delle scene.

Solo nel 1982 “Koko” e il figlio riescono a riacquistare l’albergo, cancellando in parte i debiti pregressi. Ma l’hotel, prostrato dalle infinite battaglie legali, è ormai surclassato dalla concorrenza. Visitandolo nel 2010, appena prima del disastro, lo abbiamo trovato un meraviglioso simulacro del passato. L’hai visitato? Quando? Che impressioni hai avuto?

L’ultima volta che ho visitato il Baron’s è stato durante gli anni Novanta. Ho però parlato diverse volte al telefono con Armen, l’ultimo erede dell’albergo, dopo lo scoppio della guerra. Mi raccontò delle bombe, del cibo razionato, della linea del fronte che passava proprio a pochi metri da lì. Ho scritto alcuni articoli per raccontare quello che stava accadendo al Baron’s e ho trasformato poi questo triste epilogo in un ultimo capitolo che è stato aggiunto alla traduzione tedesca pubblicata di recente.

Da quali libri avete attinto informazioni per stendere “I Baroni di Aleppo”? Quali consigliereste per approfondire? Esistono libri fotografici dedicati al Baron?

Siamo stati i primi a riportare tutta la storia del Baron’s, non c’erano libri da consultare quando l’abbiamo scritto se non per la cornice storica. La nostra fonte è stato il racconto dal vivo di Armen Mazloumian. Per ascoltare i suoi ricordi abbiamo trascorso due settimane ad Aleppo. Quando terminava la sua giornata di lavoro, intorno alle dieci di sera, apriva la porta dello studio e ci faceva entrare. Rimanevamo lì fino a notte inoltrata. Le uniche integrazioni al suo racconto sono stati alcuni materiali trovati in archivi a Parigi.

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