NAGORNO-KARABAKH: Continua la rivoluzione postbellica (Esatjournal 07.02.21)

Le sei settimane di guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh si sono concluse con un accordo di cessate il fuoco lo scorso 9 novembre; il conflitto è stata una vera e propria rivoluzione che, dopo aver ridisegnato i confini del Caucaso del Sud, continua ad influenzare tanto la politica internazionale, quanto quella interna ai due paesi belligeranti.

Guerra e pace in Nagorno-Karabakh. Tutti i nostri articoli

Basi e ferrovie

A livello internazionale, si stanno progressivamente mettendo in atto le clausole dell’accordo del 9 novembre.

Il 30 gennaio è stato inaugurato il centro di monitoraggio congiunto russo-turco del cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh, uno degli argomenti su cui più si è discusso dopo la fine della guerra. L’installazione si trova in Azerbaigian, nella regione di Aghdam, a pochi chilometri dalla parte di Nagorno-Karabakh rimasta sotto il controllo armeno. Secondo quanto riportato da Reutersospita un generale e 38 militari turchi e personale russo in pari numero. La presenza dei due piccoli contingenti in Azerbaigian rappresenta, in qualche modo, un doppio spartiacque storico. Se Baku una volta raggiunta l’indipendenza da Mosca (1991) si è, infatti, impegnata nell’obiettivo – raggiunto solo nel 2012 – di far chiudere tutte le installazioni militari russe eredità dell’epoca sovietica sul proprio territorio, il Cremlino è storicamente ostile all’ingerenza di paesi terzi, soprattutto in tema di sicurezza, nelle ex repubbliche sovietiche. Il fatto che Baku e Mosca abbiano accettato questo compromesso è uno degli effetti della rivoluzione causata dalla guerra dello scorso autunno.

Sempre il 30 ottobre, in ottemperanza con un’altra clausola dell’accordo di pace, a Mosca si è tenuto il primo incontro del gruppo di lavoro per l’apertura dei corridoi di trasporto nel Caucaso del Sud. I vice dei capo di governo di Armenia, Azerbaigian e Russia hanno, in particolare, discusso della rimessa in funzione della ferrovia tra Baku e Erevan attraverso l’exclave azera del Nachicevan. Tale infrastruttura è stata spezzata in tronconi dopo il crollo dell’Unione Sovietica dal momento che attraversa ben tre volte i confini chiusi tra Armenia e Azerbaigian. La sua riapertura consentirebbe da una parte il collegamento terrestre diretto tra Baku e il Nachicevan (attualmente possibile solo per via aerea o con un lungo giro attraverso l’Iran), e dall’altra una connessione ferroviaria tra Erevan e la Russia, negli interessi di Mosca. Le implicazioni della sua riapertura si estendono anche a Iran e Turchia, i cui confini sono situati letteralmente a pochi metri dalla ferrovia.

Azerbaigian, il costo della vittoria

La vittoria nel conflitto dello scorso autunno ha suscitato grandissimo entusiasmo popolare in Azerbaigian. La perdita di territori internazionalmente riconosciuti come parte del paese per effetto della guerra negli anni Novanta, costituiva, infatti, una sorta di trauma collettivo, soprattutto per i rifugiati costretti ad abbandonare le aree finite sotto il controllo armeno.

Il conto della vittoria, rischia però di essere molto salato per la popolazione azera, già alle prese con la crisi economica causata dalla pandemia. Il presidente, Ilham Aliyev, ha infatti proclamato una vasta campagna di ricostruzione per rendere abitabili i territori riconquistati, attualmente devastati dalle guerre. A tale scopo saranno destinati 1,3 miliardi di dollari solo nel corso del 2021. Per finanziare il progetto tra dicembre e gennaio sono stati aperti tre fondi statali: il fondo per l’assistenza dell’esercito azero, il fondo YAŞAT e il fondo per la rinascita del Karabakh. I primi due sono destinati al supporto dei veterani e delle famiglie delle vittime, il terzo, come si evince dal nome, alla ricostruzione.

Ufficialmente, a finanziare tali investimenti saranno i cittadini e le imprese su base volontaria. Come riportato, però, in molti casi i lavoratori, sia nel settore pubblico che nel privato, vengono costretti dai superiori a versare parte del proprio stipendio ai fondi o ricevono direttamente un salario ribassato. La pratica risulta particolarmente stonata in un paese ricco di risorse naturali come l’Azerbaigian, ma l’ondata di patriotismo causata dalla vittoria, potrebbe mettere sotto silenzio le voci dissenzienti.

Armenia, dalle ceneri della guerra ecco la fenice Kocharyan

Dopo la sconfitta militare e le grosse perdite territoriali, il primo ministro, Nikol Pashinyan, è finito nel mirino delle opposizioni in Armenia. Le proteste animano ormai da quasi tre mesi la capitale, Erevan, e non è escluso che la crisi possa portare ad elezioni parlamentari anticipate nel breve periodo.

In questo contesto, l’ex presidente del paese (nel decennio tra il 1998 e il 2008), Robert Kocharyan, ha annunciato l’intenzione di candidarsi ad eventuali elezioni. Tale sviluppo è anch’esso sintomo dei grossi cambiamenti portati dal conflitto. Kocharyan è, infatti, parte di quell’elite politica – il cosiddetto clan del Karabakh – apparentemente ormai uscita di scena con la “Rivoluzione di Velluto” che aveva portato al potere Pashinyan nel 2018. Per di piu,  Kocharyan è sotto processo per la repressione violenta delle proteste contro i brogli a seguito delle elezioni presidenziali del 2008 vinte dall’alleato e successore alla guida del paese, Serzh Sargsyan. Se si andasse alle elezioni, potrebbero aprirsi scenari impronosticabili fino a pochi mesi fa.

Segnali contrastanti

Difficile è anche prevedere cosa succederà nei prossimi mesi nel resto della regione. I negoziati sulla riapertura della ferrovia attraverso il Nachicevan sono segnali incoraggianti, così come lo è lo scambio di prigionieri di guerra tra Armenia e Azerbaigian avvenuto lo scorso 28 gennaio. Al contempo, l’esercitazione militare congiunta tra Turchia e Azerbaigian in corso nella zona di Kars, al confine con l’Armenia, rende chiaro che tutti gli attori coinvolti nel conflitto del Nagorno-Karabakh stanno ancora affilando le proprie armi e la diplomazia potrebbe essere nuovamente messa da parte.

“La quarantena degli ultimi, ci hanno detto di stare chiuse in casa e poi sono spariti” (Tusciaweb 06.02.21)

Sofya Grigoryan, ossia la quarantena degli ultimi. “Hanno messo in quarantena me – dice – mia madre e mia figlia. In trenta metri quadrati di casa. Poi sono spariti, nessuno ha chiesto più nulla di noi”. Chi s’è visto s’è visto. E infatti non s’è visto nessuno. Comune, scuola, vicinato, volontariato. Soltanto la Asl, il primo giorno. Per dire a Sofya Grigoryan, proveniente dall’Armenia dove ha passato il Natale, che se ne doveva stare chiusa in casa per 14 giorni. Poi più nulla. Nemmeno per ritirare la monnezza, raccolta nel garage di fronte. Almeno fino a ieri, quando Sofya e la sua famiglia hanno potuto rimettere il naso fuori di casa. A Vetralla, frazione La Botte. Periferia di Roma a due passi da Viterbo. Con la Cassia che tira dritto tra palazzine e cemento che se non fosse per gli alberi piantati lì un secolo e mezzo fa sembra quasi di stare sulla Nomentana, con pizzerie, bar e robivecchi che si affacciano sulla strada interrotta solo dal passaggio a livello dove ogni ora passa un treno che si ferma una volta ogni tanto.

 

Sofya Grigoryan, la madre Svetlana di 73 anni e la figlia Emyli di 10 che da 5 mesi va a scuola da queste parti. In un appartamento di 30 metri quadrati. La quarantena l’hanno passata qui. Servizi inclusi. Cucina, bagno e una camera da letto. Una casa ordinatissima. Con dolci e crostate armeni. Ai margini della strada che tira dritto e prima del treno che ferma ogni tanto. Tra caseggiati che ormai sommano insieme, in maniera indistinta, le pietre cavate e tirate su da braccianti e contadini con la speculazione di quarant’anni fa e i consumi del momento con colori improbabili sparati in faccia a paesaggi poveri e malmessi, sebbene costati così tanta fatica. Sul muro di casa e il frigorifero, le foto di cugine, sorelle e quelle della figlia che ieri mattina stava a scuola.

“Siamo tornati due settimane fa dall’Armenia – racconta Sofya Grigoryan -. Lì abbiamo passato il Natale”. Lì, qualche mese fa c’è stata una guerra che ha visto coinvolte forze azere e armene per il possesso della regione caucasica del Nagorno Karabakh. Pochi mesi fino a novembre, con migliaia di morti. La ragione del ritorno a casa è stata questa. La preoccupazione per la propria famiglia, in una guerra combattuta da giovani come tanti se ne vedono in giro per l’Europa.

“Appena arrivati a Viterbo – prosegue Grigoryan – abbiamo avvisato la Asl e siamo state messe in quarantena. Chiuse in casa senza la possibilità di uscire per 14 giorni. La nostra famiglia è a migliaia di chilometri di distanza e le persone che conosciamo qui non le potevamo vedere perché se poi fossimo risultate positive al Covid, e non lo siamo, avremmo messo a repentaglio il loro lavoro. Pensavamo però – aggiunge – che qualcuno si sarebbe fatto vivo, in qualche modo. Il comune, la Asl, anche la scuola. La Asl non ci ha più chiamate. Almeno per capire che fine avessimo fatto. Il comune non è venuto nemmeno a ritirare la monnezza. Meno male che abbiamo un garage dove abbiamo potuto metterla”. E meno male pure che la signora ha sgamato. “Meno male – commenta infatti Sofya – che ho fatto spesa il primo giorno prendendo tutto il necessario e immaginando che sarebbe stata dura. Stare tappate in casa per 14 giorni consecutivi, in 30 metri quadrati, non è uno scherzo”.

Sofya Grigoryan ha 38 anni ed è laureata in economia all’università statale di Mosca. Vive in Italia da 8 anni “e ho fatto di tutto – racconta -. Ho lavorato in albergo a Firenze e ho fatto la cameriera, adesso sono disoccupata”. La madre Svetlana è arrivata in Italia quest’anno. Vedova da quasi 40 anni, prende una pensione dallo stato armeno che tradotta in euro fa 60. Euro, al mese. Praticamente niente, senza sapere neanche la lingua del paese dove è piombata, da un altro messo in ginocchio da guerra e miseria, “e dal quale – dice poi Sofya – tutti quanti se ne vanno”. Il paese della più antica comunità cristiana, del monte Ararat e dell’Arca dell’alleanza, dei System of a down e Kim Kardashian. “Sono rimasti solo 2 milioni di abitanti”, sottolinea Sofya Grigoryan. Un milione e mezzo furono invece quelli sterminati dai turchi all’inizio del novecento. “Il Covid – prosegue Grigoryan – viene gestito senza ricorrere a zone rosse, gialle o arancioni e l’obbligo della mascherina c’è solo quando si entra nei negozi”.

Ventiquattrore per 14 giorni. Uno appresso all’altro. “Passati – dice Sofya – facendo le cose di casa, i compiti, chiacchierando, leggendo e guardando la tv”. Né più, né meno. Sperando ogni tanto che qualcuno, dalle parti delle istituzioni, si fosse fatto vivo per capirne la sorte. Considerando il posto isolato in cui vivono, la disoccupazione e il grosso della rete familiare a migliaia di chilometri.

Svetlana Grigoryan, la madre, sta seduta sul divano davanti alla cucina. Di fianco c’è il corridoio che porta al bagno e alla camera da letto. In fondo, le scarpe sono disposte fronte muro. All’ingresso c’è invece una stufetta a legna e un orologio da parete che segna l’ora di pranzo. La figlia di Sofya, Emyli, è a scuola, dove va da qualche mese. Anche lei è arrivata in Italia l’anno scorso. “Per mia figlia – spiega Sofya Grigoryan – stare chiusa in casa 14 giorni è stato difficile. La didattica a distanza – precisa poi – per chi non conosce ancora bene l’italiano, non aiuta. E noi genitori siamo impotenti. I bambini hanno bisogno di uscire, e di avere fiducia negli altri”.

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San Martino in Pensilis, solennità di San Biagio in tempo di pandemia (Quotidinomolise 06.01.21)

Con fede e devozione la comunità di San Martino in Pensilis ha rinnovato l’affidamento a San Biagio. A causa dell’emergenza sanitaria quest’anno non è stato possibile organizzare il tradizionale pellegrinaggio a cavallo in contrada Tanasso con i tre giri intorno alla quercia secolare e alla lapide dedicata al santo. Tutto si è svolto in misura più intima e con tanta malinconia ma questo non ha impedito di svolgere le funzioni nel pieno rispetto delle norme e delle ristrettezze. Martedì sera, 2 febbraio, e mercoledì 3 febbraio 2021 il parroco, don Nicola Mattia, ha celebrato le varie messe impartendo la benedizione della gola al termine delle funzioni. In rispetto del distanziamento sociale il sacerdote ha invitato i fedeli a incrociare le proprie braccia attorno al collo e, con la reliquia di San Biagio, ha pronunciato la formula benedicente: “Per intercessione di San Biagio il Signore ti liberi dal mal di gola e da ogni altro male”. Anche il pane benedetto è stato distribuito in buste sigillate senza creare assembramenti. Un momento di riflessione, preghiera e affidamento al Santo, vescovo e martire di Sebaste, in Armenia, che accompagna i riti che porteranno all’inizio della primavera. Un messaggio di consapevolezza ma anche di speranza verso il futuro con l’invito – ispirato dalla storia di San Biagio che salvò un bambino dal soffocamento – a pensare al bene comune superando ogni egoismo, accompagnando così ogni fratello e ogni sorella con gesti di cura e di affetto in questo momento particolare e di possibile riscoperta dei valori più importanti nelle famiglie e nelle comunità. Inoltre, proprio alla vigilia della festa di San Biagio, Papa Francesco ha esteso la memoria liturgica a tutta la chiesa di San Gregorio di Narek (San Gregorio Armeno), un santo proveniente dallo stesso territorio del Santo venerato a San Martino in Pensilis. Una curiosità: la tradizione vuole che in caso di mancato svolgimento del pellegrinaggio questo, così come la festa, debbano svolgersi a Guglionesi. A tal proposito don Nicola ha spiegato che, come osserva il canonico guglionesano, Angelo Maria Rocchia, la tradizione del pellegrinaggio a cavallo appartiene ai sammartinesi e i guglionesani non contrastano questo loro diritto. Ora l’auspicio del parroco, condiviso con il sindaco, Gianni Di Matteo, è stato quello di poter “recuperare” la festa durante l’estate. “San Biagio, ora pro nobis”.

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Don Antonio Angiolini in cattedrale con rito delle candele incrociate mantiene vivo il culto per San Biagio (ilgolfo24.it)

TERREMOTO ARMENIA, scossa di magnitudo 5.1 a Gavarr, tutti i dettagli (3bmeteo 05.02.21)

Una scossa di terremoto di magnitudo 5.1, si è verificata alle ore 19:36 (ore 16:36 in Italia) con epicentro nei pressi di Gavarr, Armenia. La profondità stimata è stata di circa 10 Km. Potete monitorare tutte le scosse in Italia e le principali nel mondo nella nostra apposita sezione terremoti.

I dati sui terremoti sono aggiornati costantemente grazie al Centro Comune di Ricerca, Commissione Europea: GDACS

Comuni Arco e Riva del Garda (TN)* Nagorno Karabakh: “La riconoscenza dell’Ambasciatore per il sostegno alla causa del riconoscimento della repubblica dell’Artsakh” (Agenziagionalisticaopinione.it 04.02.21)

COMUNI ARCO E RIVA DEL GARDA (TN) * NAGORNO KARABAKH: « LA RICONOSCENZA DELL’AMBASCIATORE PER IL SOSTEGNO ALLA CAUSA DEL RICONOSCIMENTO DELLA REPUBBLICA DELL’ARTSAKH »

La lettera, firmata da Tsovinar Hambardzumyan, ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica d’Armenia presso la Repubblica italiana, è indirizzata ai consiglieri Simone Fontanella (Riva del Garda) e Stefano Miori (Arco), proponenti la mozione approvata tra novembre e dicembre del 2020 dai rispettivi Consigli comunali (a Riva del Garda con l’astensione delle opposizioni, ad Arco all’unanimità), che hanno impegnato i sindaci Cristina Santi e Alessandro Betta a inviare al ministro degli esteri, al presidente del Consiglio dei ministri e al presidente della Repubblica la richiesta ufficiale dei due Comuni di riconoscimento da parte della Repubblica Italiana. Richiesta poi puntualmente inviata da entrambi i sindaci.

L’ambasciatore nella sua lettera estende l’espressione della sua riconoscenza ai due sindaci e a tutti i consiglieri comunali che hanno preso parte alla discussione e all’approvazione della mozione.

Uno dei promotori è Massimiliano Floriani, arcense di nascita, già assessore ad Arco, e armeno adottivo, in quanto si è trasferito in Armenia da anni, dove è stato diretto testimone della breve ma cruenta guerra dei mesi scorsi. Un altro promotore della mozione è il console onorario d’Armenia a Milano, Pietro Kuciukian, figura nota nell’Alto Garda in quanto arcense di nascita, premiato dal Comune di Arco per i suoi instancabili contributi nel far riconoscere i meriti dei Giusti che nel corso della storia si sono opposti ai genocidi.

I consiglieri Simone Fontanella e Stefano Miori, proponendo la mozione ai rispettivi Consigli comunali, hanno voluto mandare un segnale di solidarietà alle popolazioni armene che stanno soffrendo a causa degli attacchi da parte dell’alleanza turco-azerbaijana.

La montagna dove si fermò l’Arca di Noè è stata riaperta agli alpinisti (AGI 04.02.21)

AGI – Il monte Ararat, con la sua cima alta 5.137 metri su cui la leggenda vuole si sia fermata l’Arca di Noè dopo il diluvio, è stata riaperta all’alpinismo dalle autorità turche.
La cima più alta della Turchia, con la cima gemella del ‘piccolo Ararat”, alto 3.925 metri, e’ situata nell’estremo est della Turchia, ai confini di Iran e Armenia.

Considerata sacra dagli armeni, finì sotto controllo di Ankara nel 1921 in seguito al trattato di Kars. Una concessione di Stalin alla nuova Turchia di Mustafa Kemal Ataturk, con il leader sovietico interessato piu’ al controllo di Georgia, Armenia e Azerbaigian.

Da allora una ferita aperta per gli armeni, ma anche una zona in passato non facile da controllare per Ankara. L’ascensione è stata vietata a partire dal 1984 a causa del conflitto tra la Turchia e  la guerriglia separatista curda del Pkk.

Tra il 2004 e il 2015 vi si poteva salire solo con un permesso militare, accompagnati da guide della federazione turca. Poi un divieto totale che ha iniziato ad avere delle eccezioni nell’ultimo anno, fino alla riapertura di questi giorni.

Una buona notizia per gli alpinisti di tutto il mondo, ma soprattutto per la popolazione locale, di etnia curda, che potrà contare su una importante risorsa per il turismo, nell’organizzazione di una ascensione non difficile tecnicamente , ma che per scarsità di acqua e rarefazione dell’ossigeno richiede almeno 4 giorni e l’allestimento di 2 campi.

“Il Pkk ha smesso di arruolare gente nei villaggi ormai da anni, ma la povertà prima spingeva verso la guerra, ora spinge i giovani ad emigrare. Questa riapertura per noi rappresenta l’opportunità’ di chiudere con il passato. Se c’è lavoro nessuno si arruola con il Pkk e i giovani smetteranno di andare via”, afferma Mehmet, uno dei portatori impegnati nell’organizzazione di spedizioni sulla cima.

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La Turchia riapre agli alpinisti il Monte Ararat (dove arrivò l’Arca di Noè) (Mountlive)

Il monte Ararat (5.137 mt), su cui la leggenda vuole si sia fermata l’Arca di Noè dopo il diluvio, è stata riaperta all’alpinismo dalle autorità turche. È la cima più alta della Turchia, è situata nell’estremo est del Paese, ai confini di Iran e Armenia.

Considerata sacra dagli armeni, finì sotto controllo di Ankara nel 1921 in seguito al trattato di Kars. Una concessione di Stalin alla nuova Turchia di Mustafa Kemal Ataturk.

Da allora una ferita aperta per gli armeni, ma anche una zona in passato non facile da controllare per Ankara.

Il divieto

L’ascensione è stata vietata a partire dal 1984 a causa del conflitto tra la Turchia e la guerriglia separatista curda del Pkk.

Tra il 2004 e il 2015 vi si poteva salire solo con un permesso militare, accompagnati da guide della federazione turca.

Poi un divieto totale che ha iniziato ad avere delle eccezioni nell’ultimo anno, fino alla riapertura di questi giorni.

Una buona notizia per gli alpinisti di tutto il mondo, ma soprattutto per la popolazione locale, di etnia curda, che potrà contare su una importante risorsa per il turismo, nell’organizzazione di una ascensione non difficile tecnicamente, ma che per scarsità di acqua e rarefazione dell’ossigeno richiede almeno 4 giorni e l’allestimento di 2 campi.

Ascensioni

Un missionario del tredicesimo secolo, William di Rubruck, scrisse che «Molti hanno provato a scalarlo [l’Ararat], ma nessuno è stato in grado».

La Chiesa apostolica armena era storicamente contraria alle ascensioni di Ararat per motivi religiosi. Thomas Stackhouse, un teologo inglese del XVIII secolo, ha osservato che «Tutti gli armeni sono fermamente persuasi che l’arca di Noè esista fino ai giorni nostri sulla cima del Monte Ararat, e che per preservarla, a nessuno è permesso avvicinarsi». In risposta alla sua prima ascensione da parte di Parrot e Abovian, un sacerdote della Chiesa Apostolica Armena di alto rango ha commentato che scalare la montagna sacra era «legare il ventre della madre di tutta l’umanità in una modalità dragante». Al contrario, nel XXI secolo scalare l’Ararat divenne «l’obiettivo più apprezzato di alcuni dei pellegrinaggi patriottici organizzati in numero crescente dall’Armenia e dalla diaspora armena».

La prima ascensione certa della montagna nei tempi moderni ebbe luogo il 9 ottobre 1829. Il naturalista baltico tedesco Friedrich Parrot dell’Università di Dorpat arrivò a Etchmiadzin a metà settembre del 1829, quasi due anni dopo la cattura russa di Erivan, per il solo scopo di esplorare i pendii dell’Ararat. Il famoso scrittore armeno Khachatur Abovian, allora diacono e traduttore ad Etchmiadzin, gli fu assegnato dal Catholicos Yeprem, il capo della Chiesa armena, come interprete e guida.

Parrot e Abovian attraversarono il fiume Aras nel distretto di Surmali e si diressero verso il villaggio armeno di Akhuri situato sul versante settentrionale di Ararat, a 1.220 metri (4.000 piedi) sul livello del mare. Allestirono un campo base nel monastero armeno di Sant’Hakob, a un’altitudine di 1.943 metri (6.375 piedi). Dopo due tentativi falliti, raggiunsero la vetta al loro terzo tentativo alle 15:15. il 9 ottobre 1829. Il gruppo comprendeva Parrot, Abovian, due soldati russi (Aleksei Zdorovenko e Matvei Chalpanov) e due paesani armeni (Akhuri-Hovhannes Aivazian e Murad Poghosian). Parrot, in quest’occasione, misurò e fissò l’elevazione della montagna a 5.250 metri (17.220 piedi) usando un barometro a mercurio.

Questa non fu solo la prima ascensione di Ararat, ma anche la seconda ascensione più alta scalata dall’uomo fino a quella data fuori dal Monte Licancabur nelle Ande cilene. Abovian scavò un buco nel ghiaccio ed eresse una croce di legno rivolta a nord; raccolse, inoltre, anche un pezzo di ghiaccio dalla cima e lo portò con sé in una bottiglia, considerando l’acqua dotata di santità. L’8 novembre 1829, Parrot e Abovian, insieme al cacciatore di Akhuri, il fratello di Sahak, Hako, mentre faceva da guida ascesero sul piccolo Ararat.

Tra gli altri primi scalatori illustri dell’Ararat figurano il climatologo e meteorologo russo Kozma Spassky-Avtonomov (agosto 1834), Karl Behrens (1835), il mineralogista e geologo tedesco Otto Wilhelm Hermann von Abich (29 luglio 1845), e il politico britannico Henry Danby Seymour (1848). Più tardi, nel XIX secolo, due politici e studiosi britannici – James Bryce (1876) e H.F. B. Lynch (1893) – anche raggiunsero la cima della montagna. La prima ascensione invernale è stata compiuta da Bozkurt Ergör, l’ex presidente della Federazione turca di alpinismo, che ha scalato la vetta il 21 febbraio 1970.

Papa Francesco inserisce San Gregorio di Narek, l’eroe della cultura armena, nel calendario liturgico (Il Messaggero 03.02.21)

Città del Vaticano – Papa Francesco ha inserito nel calendario liturgico San Gregorio di Narek, dottore della Chiesa, figura centrale per la cultura armena che considera alla stregua di una sorta di Dante Alighieri. La decisione è stata presa con un atto formale della Congregazione del Culto. La festa liturgica è stata fissata per il 27 febbraio.

Alcuni anni fa, una statua bronzea di San Gregorio di Narek Papa Francesco la ha voluta anche nei Giardini Vaticani, collocandola in modo che fosse ben visibile da Santa Marta, durante una cerimonia alla quale hanno partecipato i vertici della Chiesa armena.

L’opera bronzea di David Erevantsi era stata prodotta in due copie, una per i giardini vaticani e l’altra destinata ai giardini del Catolicossato di Etchmiadzin, in Armenia. Gregorio di Narek è stato un poeta, un monaco, un teologo, un filosofo, un mistico e un santo (951- 1010).

E’ considerato una figura centrale, quasi eroica, della storia dell’Armenia per avere modellato il pensiero orientale cristiano. Per certi versi, dal punto di vista intellettuale, può essere paragonato ad un Dante Alighieri e per questo dagli studiosi è considerato un ponte eccezionale tra Oriente e Occidente. Papa Francesco lo ha elevato alla dignità di Dottore della Chiesa Universale il 12 aprile 2015. Il 36esimo Dottore della Chiesa accanto a San Leone Magno, Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ildegarda da Bingen.

La proclamazione era stata data, tramite lettera apostolica, lo stesso giorno in cui il Papa aveva celebrato la grande messa a san Pietro per ricordare il centenario del genocidio del popolo armeno, costato la vita a un milione e mezzo di persone sterminate dai turchi, sotto il governo ottomano (1915-1919), con il preciso piano di eliminare la influente e ricca minoranza cristiana.

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A Palombara Sabina è il giorno di San Biagio (tiburno.tv 03.02.21)

A Palombara Sabina e non solo oggi si festeggia San Biagio. Il santo, nato in Armenia dove imperversa la persecuzione scatenata da Diocleziano e proseguita dal preside Agricola, viene cercato con ossessione per il per il suo zelo religioso. Biagio, però, abilmente si nasconde all’interno di una     caverna del monte Argeo vivendo di preghiere e di quello che trova. L’incessante caccia porta alla cattura del religioso per, poi, condurlo dal preside. Il tragitto dal monte alla città è un trionfo, il popolo lo saluta festante e fra la folla trova spazio una povera donna che tiene il suo bambino moribondo sulle sue braccia e scongiura con molte lacrime il Santo a chiedere a Dio la guarigione. Una spina di pesce è nella gola del piccolo. Biagio, mosso da una forte compassione per quel bimbo, solleva gli occhi al cielo e compie sul sofferente il segno della croce. La persecuzione si concretizza con una serie di torture per il Devoto, fino a raggiungere la decapitazione. Nei secoli successivi trova spazio una leggenda popolare. Una donna, poco prima di Natale, si reca da un Frate di nome Desiderio per fare benedire il panettone che ha preparato per la sua famiglia. Il frate, avendo poco tempo a disposizione, le chiede di lasciare il dolce per tornare dopo qualche giorno. Solo dopo Natale, però, il prelato si accorge di avere ancora il panettone, del quale si era completamente dimenticato e lo mangia. Il 3 febbraio la donna, però, si presenta dal frate per avere indietro il suo panettone benedetto. Frate Desiderio, dispiaciuto per averlo già mangiato, si reca comunque a prendere il recipiente vuoto da restituire alla donna. E qui la meravigliosa scoperta: c’è un panettone grande per due volte quello che gli era stato lasciato a Natale. Un miracolo avvenuto proprio nel giorno di San Biagio, protettore della gola.

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Nagorno Karabak, due libri tra storia e attualità (La Voce del Patriota 03.02.21)

Tradizioni e radici. Questi, in estrema sintesi, i pilastri su cui si fonda la storia di un Paese forse sconosciuto ai più, che però negli ultimi mesi è stato al centro dell’ennesima fase di una guerra che non ha mai smesso purtroppo di tormentarne la popolazione. Parliamo dell’Armenia. E più precisamente della regione contesa dell’Artsak (o Nagorno Karabak). Una regione a maggioranza armena che, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 ha indetto e svolto un referendum popolare il cui esito, a stragrande maggioranza, ha sancito il distacco dall’Azerbaigian e la costituzione di una autoproclamata repubblica indipendente. Da allora, nell’area, la situazione è sempre stata tesa, con alti e bassi che hanno visto l’esplosione di diverse e più o meno sanguinose scaramucce di confine.

Nell’autunno 2020, però, la tensione è sfociata in una vera e propria guerra durante la quale l’esercito azero, appoggiato dalla Turchia e dai gruppi di fondamentalisti islamici ad essa legati, ha rotto gli indugi e ha invaso l’Artsak. Con conseguenze drammatiche per la popolazione fiera ma sfiancata di questa lontana regione del Caucaso.

Del conflitto in questione in Occidente si è parlato poco e spesso non esattamente a proposito e con cognizione di causa. C’è però per fortuna stato comunque qualcuno che ha deciso di approfondire e raccontare pagine di storia strappata che meritano decisamente di essere riprese e diffuse.

In questo senso valgono moltissimo i lavori del direttore della rivista Il Guastatore Clemente Ultimo, autore di “Il grande gioco del Caucaso. Nagorno Karabakh, il Paese fantasma nella partita geopolitica tra Russia, Usa e Turchia” (Passaggio al Bosco, 2020) e di Daniele Dell’Orco, giornalista ed editore, che con Idrovolante Edizioni ha pubblicato “Armenia cristiana e fiera” (2020).

Il volume di Ultimo, arricchito dalla prefazione di Marco Valle e dall’appendice di Bledar Hasko, oltre ad una accurata ricostruzione della storia della regione, si concentra giornalisticamente sugli “aspetti che conferiscono tanta importanza geopolitica al Caucaso”, con particolare riferimento allo sfruttamento e alla distribuzione di gas e petrolio (risorse energetiche di cui il Nagorno Karanbak risulta particolarmente ricco). E non trascura di evidenziare il ruolo in tutto questo ricoperto anche da Paesi come Turchia, Russia e Iran, che mantengono sul Nagorno Karabak vecchie e nuove ambizioni, a dimostrazione che “dietro la nascita della Repubblica di Artsakh ed il tentativo azero di riconquistare quei territori, si muovono interessi ben più grandi rispetto a quelli degli attori locali”.  Non manca infine, come spiega l’autore, il riferimento al “dramma impossibile da dimenticare degli armeni dell’Artsakh, esposti alla minaccia di una nuova pulizia etnica da parte degli azeri spalleggiati dalla Turchia neo-ottomana di Erdogan, che utilizza il jihadismo come testa d’ariete. Impegnati nella strenua difesa della loro terra e della propria identità nazionale e religiosa, gli armeni del Karabakh sono stati nuovamente abbandonati da un’Europa che, guardando agli ‘affari’, si finge distratta”.

Quanto al lavoro di Daniele Dell’Orco, si tratta di un diario, completo di un notevole apparato fotografico. Una sorta, in sostanza, di reportage di scatti e parole del viaggio che l’autore ha compiuto personalmente in Nagorno Karabak appena poche settimane prima dello scoppio dell’ultima fase del conflitto. Come spiega Dell’Orco (che, vale la pena ricordarlo, ha destinato i proventi della vendita del suo libro alla popolazione dell’Artsak), il suo è “un percorso lungo la Terra Santa del Caucaso meridionale”, ovvero l’Armenia, che “ha resistito a qualsiasi tipo di dominazione, invasione e conquista grazie alla fierezza del suo popolo scolpita nella roccia, ma anche grazie alla fede, quella stessa fede che l’ha resa il primo Stato cristiano nella storia dell’umanità”. Nelle parole dell’autore e dalle sue pagine emerge una anche emotivamente partecipata narrazione di storie e luoghi misteriosi, simbolici e bellissimi. Storie e luoghi di una terra che “non conosce pace. Come il suo popolo”. O meglio “cerca, tra le rovine, di vivere in pace.  Così si scopre che una culla di civiltà come l’Armenia è in grado di urlare a chi ascolta un sacro messaggio d’amore: sii ciò che sei, accetta la tua croce, portala con orgoglio, non permettere a niente e nessuno di farti rinunciare al tuo spirito. Vivi, lotta, muori se necessario, essendo sempre martire delle tue idee”.

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Turchia: Nuovo assalto all’Unione Europea (Opinione 01.02.21)

Indubbiamente tra l’Impero Ottomano prima, la Turchia poi e le nazioni europee, c’è stato sempre un rapporto difficile, come tra il Cristianesimo e l’Islam. Nel 1923 Mustafà Kemal Atatürk, diventò primo presidente della Repubblica di Turchia e grazie alle sue riforme laiche gettò le basi per dare alla popolazione ex ottomana una omogeneità comportamentale e culturale in generale, che potesse rendere somigliante la “percezione della vita” con i cittadini del “vicino Occidente”. L’avvento di Recep Tayyip Erdogan, che iniziò la sua carriera politica con l’elezione a sindaco di Istanbul nel 1994, cominciò a produrre una lenta ma inesorabile contrazione dei principi laici che da tempo avevano attecchito nella popolazione.

Le idee nazionaliste, già radicali, di Erdogan si avvilupparono intorno all’Adalet ve Kalkınma Partisi, ovvero Partito per la giustizia e lo sviluppoAkp, da lui fondato nel 2001; i consensi lo condussero ad ottenere la maggioranza nella Grande assemblea nazionale nel 2002, lanciandolo verso un potere con tendenze assolutiste dal 2014 data della sua elezione a presidente. Erdogan ha sempre manifestato il desiderio di entrare nell’Unione europea, ovviamente non per assonanza con le ideologie dei Padri fondatori. E fino a che i residui della laicità erano presenti e le leggi illiberali non proclamate, le nazioni europee davano una certa considerazione all’ingresso della Turchia musulmana nell’Unione. Il tutto si è congelato con le scelte dell’aspirante sultano riguardo alla politica verso i territori dell’ex Impero ottomano; atteggiamenti manifestati con l’oppressione esercitata verso i curdi, con la scarsa considerazione dei diritti umani, con l’oppressione della stampa non allineata, con la persecuzione di ogni posizione politica dissidente, ma soprattutto con l’ambiguo rapporto con il jihadismo.

Da diverse settimane la diplomazia turca sta aumentando le richieste di dialogo, interrotto dal 2016, con gli europei, al fine di trovare una mediazione sulle questioni di massima tensione, che, oltre alla disputa marittima greco-turca, riguardano in particolare il ruolo della Turchia nei conflitti in Siria, in Libia e recentemente la pesante presenza a fianco dell’Azerbaigian nella guerra contro gli armeni per il controllo del Nagorno Karabakh. Lunedì 25 gennaio i ministri degli Esteri dell’Unione europea si sono incontrati per discutere la questione dei difficili rapporti con Ankara; precedentemente il 21 e 22 gennaio il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavusoglu e il suo vice Faruk Kaymakci, hanno avuto una serie di colloqui con i principali leader dell’Ue e della Nato, la Turchia ha aderito ambiguamente alla Nato nel 1952. Al momento, a Bruxelles si moltiplicano i vertici con delegati turchi; tali incontri hanno dato l’impressione di una “offensiva di fascino” turca verso gli osservatori di Bruxelles, i quali dovrebbero giudicare gli sforzi turchi finalizzati ad equilibrare il potere del Governo di Ankara con le libertà dei cittadini. O, quantomeno, rimettere in carreggiata il rapporto danneggiato tra i Ventisette e la Turchia che è ancora, sulla carta, candidata all’adesione.

Il pellegrinaggio turco a Bruxelles è finalizzato al più decisivo vertice europeo di metà marzo, durante il quale i capi di Stato e di governo dovrebbero tracciare l’ennesima “road map” per le future relazioni con la Turchia. È previsto che l’Alto rappresentante Josep Borrell presenterà alla delegazione turca una relazione, nella quale saranno proposte diverse opzioni per un percorso di avvicinamento ed anche sanzioni conseguenti alle contestate attività di perforazione turche nelle acque cipriote e greche, alle violazioni da parte di Ankara dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite in Libia e all’attivismo militare in Nagorno Karabakh. I dubbi che sorgono sulla “offensiva di fascino” della Turchia verso l’Unione Europea si basano sulle perplessità che la svolta non sia dettata da onestà politica, ma sia l’ennesimo tentativo di fare un gioco di prestigio, tipo Cavallo di Troia.

Solo per restare al 2020, la Turchia ha segnato questo anno con numerose provocazioni, e quindi gli interlocutori europei hanno un approccio cauto con le avance di Erdogan. Come pronunciato dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, occorrono “risultati tangibili”, ad oggi inesistenti. L’anno 2021 si preannuncia rischioso per il presidente turco Erdogan; nonostante il suo nuovo look da stratega e audace leader militare che lo ha visto ottenere notevoli successi con i suoi droni in SiriaLibia e Nagorno-Karabakh, oggi si trova in un vicolo cieco; deve affrontare internamente il suo consolidato declino politico ed il suo isolamento sull’arena internazionale. Cosa farà per trovare la formula magica per affascinare nuovamente un elettorato ormai disincantato? Potrà riconquistare la fiducia perduta dei suoi alleati tradizionali? A Washington come a Bruxelles, l’indulgenza non è più d’obbligo. Infatti, a dicembre anche il Congresso Usa ha imposto sanzioni alla Turchia, come rappresaglia per l’acquisto del sistema missilistico antiaereo S-400 dalla Russia, notoriamente maldisposta verso la Nato. Inoltre, l’Unione europea si è detta pronta ad agire nel caso in cui le provocazioni turche continuassero nel Mediterraneo orientale.

Tuttavia, sembra che Erdogan voglia migliorare le relazioni più che con l’Unione europea, con la Francia. Infatti, una regolarizzazione dei rapporti con Bruxelles sarebbe solo lo strumento per salvare il legame con Parigi, danneggiato anche dalla frase di Erdogan che aveva consigliato al presidente francese Emmanuel Macron di “farsi curare la salute mentaleA conferma, ma non c’era bisogno, che gli interessi turchi per l’Ue sono agli antipodi dei principi di Unità europea dei Padri fondatori, ma purtroppo questi si sono persi anche all’interno dei Ventisette membri.

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