ARMENIA-AZERBAIJAN/ Da Mosca alla Turchia: cosa c’è dietro la nuova pace (Il Sussidiario 25.01.21)

L’11 gennaio del nuovo anno, Putin ha ricevuto il presidente azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinian, primo vertice trilaterale dopo l’armistizio del 10 novembre che ha posto fine alla seconda guerra del Nagorno Karabakh.

Il motivo dell’incontro risiede nella volontà di far rispettare alle parti l’articolo 9 dell’armistizio che chiede di provvedere alla libertà di transito nella regione e in modo particolare vede l’Armenia impegnata nel non ostacolare il passaggio tra l’Azerbaijan e l’enclave azera del Nakhchivan in territorio appunto armeno. A vigilare sul rispetto del trattato di pace vi è la polizia di frontiera russa.

Non si tratta solo di una questione di libertà di movimento, e nemmeno di riconoscimento dell’autonomia di alcuni territori. Questo atto sancisce i nuovi rapporti di forza tra Erevan e Baku, a favore di quest’ultima. In modo particolare, la situazione del Caucaso meridionale vede: 1) la vittoria sul campo dell’Azerbaijan sull’Armenia nella guerra dei 44 giorni; 2) il ruolo della Turchia come alleato dell’Azerbaijan e come attore principale nella regione; 3) l’accettazione da parte della Russia della nuova realtà in cambio del mantenuto ruolo di mediatore in grado di intrattenere buoni rapporti con entrambi gli attori, bilanciando l’alleanza con l’Armenia con la “partnership strategica” con il paese musulmano; 4) la capacità da parte di tutte le parti in causa di passare da una situazione di guerra ad una fase fredda, diplomatica; 5) l’assenza di azione delle potenze e degli organismi occidentali, dall’Unione Europea all’Ocse, che con il gruppo di Minsk aveva il compito di mediatore dopo il conflitto precedente, e ai distratti Stati Uniti, fatto salvo una puntata un po’ velleitaria di Macron in funzione antiturca. In ultimo, c’è da segnalare la messa fuori gioco dell’Iran, strano alleato dell’Armenia, per altro fino al 1828 territorio iraniano.

Se alle parole seguiranno i fatti, grazie alle pressioni di Mosca, l’apertura del corridoio di transito tra le due parti in conflitto permetterà il collegamento tra Azerbaijan e Turchia via Nakhchivan e Syunik. In cambio, l’Armenia vedrà le frontiere con i due paesi riaprirsi mettendo fine all’isolamento degli ultimi 27 anni e potrà connettersi via Azerbaijan tramite linea ferroviaria con la Russia, proprietaria della rete armena, mentre la Russia avrà aperta la strada verso l’Iran. Grandi movimenti quindi.

Per chiudere, tre osservazioni sulla natura delle guerre post guerra fredda. Queste guerre avvengono in aree geografiche ai margini e di confine tra ex imperi, in questo caso tra l’Impero russo e quello iraniano e ottomano, nei territori contesi da sempre in un guazzabuglio etnico religioso di notevole complessità aumentata dai nuovi interessi economico energetici. Tensioni congelate dalla guerra fredda che sono esplose alla sua fine. Con il risultato di scatenare conflitti di difficile gestione, perché per giunta avvengono in un’area dove fino ad ora non vi era nessun chiaro equilibrio di forze regionali.

Il secondo confitto armeno-azero, inoltre, ha riproposto un modello classico di guerra limitata, simmetrica, scontro armato tra stati sovrani avvenuto per obiettivi territoriali che si è svolto in tempi contenuti, nonostante i teorici delle new wars, tra gli altri Mary Kaldor, avessero dato per obsoleta se non defunta questa tipologia, spodestata dai così detti conflitti asimmetrici, combattuti tra forze non statali, dalla durata infinita come, ad esempio, la guerra in Afghanistan e in Iraq. Ma la realtà ha più aspetti della teoria; il fatto è che la guerra è sempre la stessa, mentre a cambiare sono le condizioni storiche in cui avvengono le diverse guerre, e sempre diversi i contesti strategici e di sicurezza, i motivi e le tipologie dei contendenti. E le nuove guerre, le guerre asimmetriche, le guerre ibride, quelle di quarta generazione, possono sempre convivere con la vecchia guerra limitata tra stati nazionali sovrani.

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LE REGARD DE CHARLES: Aznavour nel paese delle meraviglie (Lanouvellevague 24.01.21)

“Non, rien de rien….” Con le note di Edith Piaf si conclude Paris Calligrammes e Edith Piaf è il fil rouge che lo collega a “Le regard de Charles”, secondo film proiettato giovedì nella sezione Art&Sound del Trieste Film Festival.

Perchè Edith Piaf dovrebbe essere il fil rouge, vi chiederete! Perchè proprio la Piaf regalò la prima cinepresa a Charles Aznavour.

Da lì lui cominciò a filmare tutto: i viaggi, la vita privata, i concerti, il ritorno in Armenia madrepatria mai vista fino ai 40 anni e tanto altro ancora.

A DIFFERENZA DELLE CANZONI, NON HO MAI SVELATO LE MIE IMMAGINI. QUANDO LE VEDRAI TUTTA LA MIA VITA SI SVOLGERÀ DI NUOVO.

Qualche tempo prima della morte, Charles Aznavour ha voluto riprendere in mano quelle registrazioni raccolte nel corso degli anni e lavorarci su con Marc di Domenico che firma assieme a lui la regia di questo docu/film/testimonianza

Registrazioni che negli anni non aveva mai voluto rivedere, ma che sapeva che qualcuno prima o poi avrebbe visto.

Vedo nel presente

La voce fuori campo che guida lo spettatore durante tutto il film è proprio quella di Aznavour, adattata dagli scritti, dalle interviste e dalle sue note personali.

Una voce che racconta, insieme alle immagini in movimento una storia che A. non aveva mai raccontato in quel modo.

Poichè, come afferma, la cinepresa è quella che cattura al meglio il presente.

Se alcuni filmano per allontanarsi dalla realtà, lui lo faceva per avvicinarsi a quel grande mondo, del quale a un certo punto dirà  “Sento che il grande mondo mi sarà amico

Se molti nel mondo lo hanno visto sopra e sotto un palcoscenico, nelle interviste o in qualche posto nel mondo, anche Aznavour ha guardato le persone.

Proprio attraverso la cinepresa e uno sguardo semplice, lineare, empatico e fedele.

Senza tema di smentita, chi scrive crede che questo sia uno dei regali più grandi che un artista possa fare non solo al suo pubblico ma al mondo intero.

E’ IL VOSTRO SGUARDO CHE HA FATTO AZNAVOUR

Colori, luoghi, visi di bambini, persone al lavoro, le immagini di Azanavour sono anche un ode alla quotidianità.

La quotidianità di un amore che arriva e poi se ne va. Una grande sorpresa e un grande dolore come la perdita di un figlio. Il grande amore della vita. Gli inizi e il successo che comincia a delinearsi. Il concerto alla Carnagie Hall. I viaggi rivelatori, in Giappone e, come già accennavo, quello in Armenia, dove finalmente abbraccia per la prima volta sua nonna.

SIAMO TUTTI PICCOLI QUALCOSA. TUTTI HANNO COMBATTUTO DEI PREGIUDIZI SUL LORO FISICO O SUL COLORE DELLA LORO PELLE

Un presente di immagini di Erevan che si mescola con il passato da figlio di emigranti armeni, di famiglia metà turca e metà georgiana.

I genitori sono armeni della diaspora ma non hanno mai visto quella terra e in Armenia ciò che filma è proprio la sua storia.

Questo gli offre l’opportunità di raccontare qualcosa di più della sua famiglia: armeni ed ebrei fondamentalmente sono due popoli che si riconoscono e proprio i genitori di Charles  nascosero alcuni ebrei durante l’occupazione di Parigi

perchè bisogna tendere la mano sempre, ovunque, in ogni circostanza

Un passato di prese in giro e di pregiudizi nei suoi confronti di cui non sembra essersi mai dimenticato.

Io esisto. Mi filmo e quindi sono

Da elemento esterno delle riprese, con il crescente successo, diventa sempre più presente. Non per egocentrismo ma per testimonianza di esserci, ancora incredulo della strada che aveva compiuto e di dove lo aveva portato.

Oggi siete qui, dietro la mia spalla.Non c’è più divisione. Non c’è più una linea tra noi. i nostri sguardi si fondono.

Qualche anno fa era uscita la notizia di un concerto di Aznavour in zona , a cui non sarei potuta andare per altri impegni. Il concerto è stato poi annullato e io ho sempre confidato ci potesse essere una seconda occasione, che ovviamente poi non c’è stata.

Le regard de Charles mi ha permesso di trovare un po’ di sollievo dal dispiacere di non averlo mai potuto ascoltare dal vivo.

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In vendita una chiesa armena del XIX secolo. Patriarcato armeno: “E’ triste che edifici sacri diventino fonte di guadagno” (Fides.org 23.01.21)

Bursa (Agenzia Fides) – Una chiesa storica costruita dalla comunità armena nella regione di Bursa, e attualmente in possesso di proprietari privati, è stata posta in vendita sul mercato immobiliare locale, mentre i responsabili delle comunità armene presenti in Turchia esprimono rammarico e riferiscono di non avere strumenti né giuridici né economici per poter recuperare il luogo di culto cristiano. La chiesa, secondo le indagini compiute dal ricercatore Raif Kaplanoglu, rilanciate anche dal periodico armeno-turco Agos, è stata costruita negli anni Trenta del XIX secolo in un’area a quel tempo abitata da popolazione armena. Essa era intitolata a Surp Krikor Lusavoriç (San Gregorio Illuminatore) ed era officiata da sacerdoti della Chiesa armeno-cattolica.
Dopo gli anni in cui fu perpetrato il Genocidio armeno, l’area intorno alla chiesa rimase spopolata, e l’edificio sacro fu utilizzato anche come deposito di tabacco. I privati che ora ne detengono il possesso hanno provato a venderlo al distretto di Bursa Yildirim, che ha declinato l’offerta per mancanza di fondi. Anche l’Arcivescovo armeno cattolico Lévon Boghos Zékiyan, Arcieparca di Costantinopoli, ha riferito di aver contattato la società immobiliare che pubblicizza la vendita dell’edificio. “Sfortunatamente” ha dichiarato ad Agos l’Arcieparca Zékiyan “non abbiamo il potere di comprare la chiesa. Non ci disturba il fatto che la chiesa abbia una funzione pubblica come luogo culturale. Speriamo di potervi celebrare una liturgia all’anno. Ho intenzione di incontrare le autorità locali della regione nei prossimi giorni”.
Anche il Patriarcato armeno ortodosso di Costantinopoli ha diffuso una dichiarazione al riguardo, esprimendo rammarico per il fatto che “edifici ecclesiastici siano percepiti come un bene commerciale e siano visti da alcuni come una fonte di guadagno”. In passato – prosegue la dichiarazione del Patriarcato armeno con sede a Istanbul – i luoghi di culto cristiani erano istituiti, costruiti o restaurati grazie agli “editti del sultano. Sappiamo che proteggere gli edifici ecclesiastici che contribuiscono alla ricchezza culturale del nostro Paese, che non sono più a disposizione delle comunità di riferimento, rappresenta comunque un dovere delle istituzioni competenti dello Stato”.
Di recente, il deputato armeno Garo Paylan, dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli, formazione d’opposizione che unisce forze filo-curde e forze di sinistra) ha rivolto una interrogazione parlamentare al ministro turco della Cultura Mehmet Nuri Ersoy, riportando il caso della antica chiesa armena della Vergine Maria, oggi in stato di abbandono nel villaggio di Germuş, non lontano da Urfa, dove ultimamente una comitiva di amici si è data appuntamento per il loro barbecue conviviale. “Migliaia di chiese” si legge nell’interpellanza di Paylan “sono in attesa di essere restaurate nel nostro Paese. Perché vengono abbandonate al loro destino?”. (GV) (Agenzia Fides 23/1/2021)

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Come si è radicalizzata una frangia della comunità turca in Francia (Startmag 23.01.21)

Recentemente il Centro di intelligence di Parigi diretto da Eric Denece ha pubblicato in formato pdf un ampio e dettagliato report sul nazionalismo turco e sulla capillare penetrazione in Europa sia attraverso organizzazioni estremistiche come i Lupi Grigi sia soprattutto attraverso la diaspora turca. Il report è stato redatto da Tigrane Yegavian, ricercatore del Centro di Parigi, diplomato all’Institut des langues et civilisations orientales e presso l’Institut d’études politiques di Parigi.

Partiamo, allo scopo di illustrare la pericolosità e la pervasività del nazionalismo turco in Francia, da alcuni recenti fatti di cronaca.

I FATTI

Il 25 luglio 2020, a Décines, una città nell’area metropolitana di Lione — 28.000 abitanti, di cui mille francesi di origine armena — gli attivisti ultranazionalisti turchi hanno diffuso il panico in una manifestazione filo-armena. Il leader si chiama Ahmet Cetin, 23 anni, nato a Oyonnax. È un presunto membro di un gruppo di fatto composto da ultranazionalisti turchi noti come “Lupi grigi” (in turco Bozkurtlar). A novembre sarà condannato a quattro mesi di carcere con sospensione della pena per “incitamento alla violenza o all’odio razziale”. Il giovane aveva detto in un video su Instagram che il governo turco gli dava 2.000 euro e una pistola. Ahmet Cetin si è anche candidato alle elezioni legislative francesi nel 2017 nella lista dell’Equal Justice Party (PEJ) dopo essere stato un delegato della sezione giovanile del Consiglio per la giustizia, l’uguaglianza e la pace (COJEP), due organizzazioni considerate un pag argento dell’Akp — il partito islamo-conservatore di Erdoğan al potere ad Ankara — che infatti condividono lo stesso indirizzo, rue du Chemin-de-fer, a Strasburgo.

Il 27 settembre 2020, l’esercito azero, sostenuto da forze speciali turche e mercenari jihadisti, ha lanciato una guerra a tutto campo per riprendere il controllo del Nagorno-Karabakh, popolato per il 94% da armeni. Immediatamente, centinaia di uomini hanno marciato, per le strade delle città francesi. Queste folle gridano Allah Akbar durante il loro passaggio. Nelle processioni, alcuni brandiscono la bandiera turca, gridano “Stiamo per uccidere gli armeni!”.

Il 28 ottobre a Vienne, nell’Isère, e tra il 29 e il 30 ottobre a Digione, sono state commesse nuove azioni violente nei confronti dei membri della comunità di origine armena. Durante questi eventi, le forze di sicurezza sono state particolarmente prese di mira da colpi di mortaio che hanno causato diversi feriti.

Questi atti di violenza sono espressamente rivendicati dai membri dei Lupi Grigi sui social network. A seguito dei fatti di Vienne, la procura di Lione ha aperto un’indagine per “partecipazione a un raggruppamento finalizzato a commettere violenza o degrado”.

Il 1 ° novembre, a Décines, l’Armenian Genocide Memorial e il National Armenian Memorial Center sono state sporcare da scritte con le lettere “RTE” — le iniziali del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan — e da messaggi come “Nique l’Arménie” o “Loup Grigio”. Nuove etichette pro-turche sono state notate il giorno successivo nella vicina città di Meyzieu, sui muri del centro commerciale Plantées. Pochi giorni dopo, nello stesso quartiere, la polizia ha arrestato due dei presunti autori di questi atti, membri della comunità turca rispettivamente di 24 e 25 anni.

Il 4 novembre 2020, il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha reso pubblica, tramite il suo account Twitter, la decisione presa dal Consiglio dei Ministri di bandire i Lupi Grigi, per “incitamento alla discriminazione e all’odio” e per il loro “coinvolgimento in azioni violente”. Lo stesso giorno, un decreto di immediata applicazione ha disposto lo scioglimento del piccolo gruppo in territorio francese. Tuttavia, sono seguiti atti di vandalismo contro associazioni locali o luoghi di memoria della comunità armena a Décines, Meyzieu o Vaulx in Veline.

Questi attacchi senza precedenti hanno causato una legittima preoccupazione all’interno della pacifica comunità armena, discendente dai sopravvissuti al genocidio del 1915 e stabilitasi in questa regione per quasi un secolo. Soprattutto, consentono di prendere coscienza della crescente radicalizzazione di una frangia della comunità turca in Francia, caratterizzata dal nazionalismo e che, sebbene eterogenea, è sempre più vicina al regime di Erdoğan.

IL PAN-TURKISMO

Ankara agisce infatti attraverso numerose strutture che beneficiano di risorse considerevoli che utilizzano la religione e l’istruzione come mezzi per rafforzare la sua influenza sulle comunità turche stabilite all’estero al fine di mobilitarle al servizio degli interessi della sua politica interna e internazionale. Lo si può vedere alla luce delle recenti tensioni tra Parigi e Ankara in Libia, nel Mediterraneo orientale e in occasione della legge sul separatismo.

Fungendo da leva di potere per il progetto politico dell’Akp, le strutture della comunità turca in Francia, controllate direttamente o direttamente da Ankara, si sono schierate a favore del loro paese di origine e manifestano una ideologia incompatibile con i valori della Repubblica.

Questa ideologia è il pan-turkismo che promuove l’unità delle varie nazioni di lingua turca nel mondo. Le due principali figure a cui si riferiscono i nazionalisti turchi sono: la sociologa e scrittrice Zia Gökalp (1876-1924), di origine curda; e Nihal Atsiz, scrittore, poeta e storico (1905-1975). Spinto dal desiderio di riunire sotto la stessa bandiera tutti i turchi di Anatolia, Asia centrale e Siberia, questo ideologo elaborò la sua riflessione negli anni 1930-19401. Atsiz ha scritto in particolare un famoso romanzo storico in Turchia, “La morte dei lupi grigi”, in cui espone la sua teoria basata sull’ossessione per l’unicità di una razza turca che si estende dai Balcani fino ai confini della Siberia. Per Atsiz, la nazione turca e la razza turca sono una cosa sola. Stabilitisi in Anatolia, le tribù nomadi di turca basavano la loro cultura sulla trinità sacra sangue/razza/guerra. Da qui l’esacerbazione del militarismo e il culto di una razza immaginaria le cui radici possono essere fatte risalire alle grandi steppe dell’Asia settentrionale. Quindi, un vero turco ha come suo ideale la sua fede nella razza turca e nel militarismo.

Il pan-Turkismo fu messo in pratica dai leader del regime genocida Jeune-Turc uniti sotto la bandiera dell’Unione e del Comitato per il progresso (Cup), al potere dal 1909 al 1918. In particolare da Enver Pasha (1881-1922), ex ministro della guerra, che dopo la sconfitta ottomana del 1918, ha intrapreso una “crociata pan-turca” nell’attuale Azerbaigian e Armenia, con la formazione dell’esercito caucasico islamico. L’obiettivo: cacciare da Baku i bolscevichi russi e armeni, impadronirsi dei giacimenti petroliferi del Mar Caspio e realizzare l’incrocio tra l’Anatolia e l’Asia centrale di lingua turca. Il progetto pan-turco mirava quindi a ristabilire un nuovo impero al di fuori della zona di espansione ottomana.

Poi, quando la nuova repubblica turca, sorta sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk stabilì uno stretto controllo statale sull’Islam, voltando le spalle ai sogni imperiali, Nihal Atsız — simpatizzante della dottrina razzista nazista — afferma che gli ebrei non si integrano nella cultura turca e che monopolizzano determinati servizi. Tuttavia, il suo discorso antisemita e razzista non ha impedito agli ebrei ottomani di abbracciare la causa del pan-Turkismo e del nazionalismo turco, come Moise Kohen — noto come Tekin Alp — (1883-1961). Questo ebreo ottomano di Salonicco, formato nell’alleanza israelita e destinato al rabbinato, divenne un appassionato ideologo del pan-Turkismo e poi del kemalismo. Era particolarmente favorevole alla turchificazione forzata delle minoranze non musulmane nella nuova repubblica turca, come attestano i suoi scritti nel suo opuscolo Türkleştirme (1928). Nel 1934, con Hanri Soriano e Marsel Franko — della comunità ebraica in Turchia — fondò l’Associazione di Cultura Turca (Türk Kültür Cemiyeti) per la promozione della lingua turca. Lo stesso Tekin Alp presenterà i principi del kemalismo in un libro pubblicato a Istanbul nel 1936, poi li aggiornerà e pubblicherà una traduzione francese a Parigi, un anno dopo, con una prefazione di Édouard Herriot (Le Kémalisme, Félix Alcan , 1937).

IL PAN-TURKISMO E LA GUERRA NEL NAGORNO-KARABAKH

Co-presidente del gruppo di Minsk, la Francia è stato il primo paese a farsi avanti a favore dell’Armenia in questo conflitto attraverso la voce del presidente Macron. Ha denunciato l’invio di jihadisti siriani in Azerbaigian, cosa che i suoi partner della Nato non hanno fatto. Ha cercato di ottenere un cessate il fuoco allineando le sue opinioni con quelle della Federazione Russa, quindi ha offerto aiuti umanitari ai belligeranti.

Il conflitto del Nagorno-Karabakh, in cui la Turchia è apertamente impegnata, ha una mobilitazione relativamente scarsa nella società turca, a parte i partiti nazionalisti. Più preoccupati per il deterioramento del loro tenore di vita, i turchi hanno difficoltà a localizzare questa regione sulla mappa e inoltre tendono a confondere il Nagorno-Karabakh con il Montenegro. Questa relativa indifferenza, tuttavia, non ha impedito a una frangia radicalizzata dei turchi in Francia di mobilitarsi a fianco dell’Azerbaigian, anche di attaccare direttamente obiettivi armeni.

Le azioni “a pugni” degli ultimi mesi si inseriscono quindi in un clima di tensioni diplomatiche tra Francia e Turchia. Testimoniano la crescente influenza che Ankara ha su una parte dei suoi 700.000 cittadini e sui loro figli che vivono in Francia. I 65 partecipanti multati — per mancato rispetto del coprifuoco — durante le scaramucce del 28 ottobre 2020 a Décines hanno tutti passaporto francese.

Secondo il quotidiano online Médiacité, questa serie di atti intimidatori segna una rottura con la discrezione che fino ad allora prevaleva tra i franco-turchi nell’area metropolitana. La precedente dimostrazione di forza di questi nazionalisti risale a quindici anni, quando nel 2006 una manifestazione contro la costruzione di un memoriale del genocidio armeno, Place Antonin-Poncet a Lione, ha riunito 3.000 partecipanti.

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Chiesa Apostolica Armena, la Sinodalità non è democrazia (AciStampa 23.01.21)

No, sinodalità non significa democrazia. Lo aveva spiegato il Catholicos armeno Karekin in una intervista del 2000, ripresa il 22 gennaio dall’arcivescovo Khajag Barsamian nella prima conferenza del ciclo della cattedra Tillard di quest’anno.

L’arcivescovo Barsamian è lliaison della Chiesa Apostolica Armena in Vaticano, nonché legato della stessa Chiesa in Europa occidentale. Rappresenta una delle Chiese Ortodosse Orientali più vicine a Roma, per anni considerate divise per via di una errata interpretazione dei documenti conciliari di Calcedonia. Un dialogo, quello con le Chiese Ortodosse Orientali molto promettente.

Non è dunque un caso che l’arcivescovo Barsamian sia stato chiamato inaugurare questo ciclo della Cattedra Tillard, nata nel 2003 in collaborazione tra Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e l’Istituto di Studi Ecumenici dell’Angelicum. Quest’anno, il tema è “Camminare insieme. Sinodalità e unità dei cristiani”.

Nella sua presentazione, l’arcivescovo Barsamian si è concentrato in particolare sulla storia della Chiesa Apostolica Armena. Una storia che si intreccia con quella dell’Armenia stessa, la prima nazione cristiana, e che inizia quando i cristiani erano ancora una minoranza perseguitata nel territorio.

L’arcivescovo Barsamian ha detto che “uno degli aspetti più importanti dell’amministrazione della Chiesa armena è il sistema conciliare”, che significa che “le norme amministrative sono definite e approvate da un concilio, in un processo decisionale collettivo e partecipativo”.

L’arcivescovo Barsamian ha sottolineato che “secondo la tradizione della Chiesa Apostolica Armena, i laici non solo prendono parte ai concili elettorali della Chiesa, ma anche a volte in quelli legislativi. Il primo concilio nazionale della Chiesa Armena ebbe luogo nel 354, ad Ashtibat, ed era composto da vescovi e laici”. In questo concilio, tra le altre cose, si definirono alcune leggi del matrimonio.

I laici, ha spiegato l’arcivescovo Barsamian, hanno sempre partecipato, dai tempi antichi ad oggi, ai concili della Chiesa armena, ma “la partecipazione di laici in consigli ecclesiastici non significa aver basso riguardo dell’autorità canonica dei vescovi, riconosciuta e definita da canoni e consigli generali osservati nelle chiese”.

Ed è qui, che l’arcivescovo Barsamian cita il Catholicos Karekin, oggi scomparso. Il quale, in una intervista concessa a Giovanni Guita nel 2000, sottolineò che “la gente spesso parla della Chiesa Armena come una Chiesa democratica. Ma personalmente, non sono incline ad applicare tali categorie sociologiche alla vita della Chiesa. La Chiesa non è uno Stato né un parlamento, e non prendiamo decisioni attraverso il voto”.
Karekin aggiunse che “naturalmente, dal punto di vista amministrativo, è così (con il voto) che possiamo risolvere problemi. Il modo in cui viene predicata e applicata la fede cristiana nella vita di ogni giorno non può essere messo in relazione con il dovere di uno Stato di svolgere le sue funzioni, poiché l’esercizio dell’autorità della Chiesa deve sempre rimanere intatto, in quanto la Chiesa è il sacramento dei sacramenti”.

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In Nagorno-Karabakh un anticipo delle guerre del XXI secolo (Analisidifesa 22.01.21)

Gli aspri combattimenti che hanno recentemente coinvolto l’Azerbaijan e l’Armenia per la contesa enclave del Nagorno-Karabakh (27 settembre – 9 novembre 2020), a differenza degli scontri avvenuti in precedenza, hanno assunto un’inedita centralità trasformandosi da confronto a bassa intensità, eredità dell’implosione dell’URSS nel 1991 ma con origini risalenti alla 1a Guerra Mondiale, a teatro d’interesse (a vario titolo) delle tre potenze regionali quali Russia, Turchia e Iran, senza dimenticare Israele.

Il conflitto, al quale i Paesi occidentali hanno assistito con disinteresse, ha segnato un’evoluzione degli equilibri nel Caucaso, regione di frontiera meridionale della Russia (in Armenia è dislocato un suo contingente), ed ha evidenziato nuove dinamiche che potrebbero influenzare la condotta delle operazioni militari.

Innanzitutto, è emersa ancora una volta l’irrilevanza delle organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, Unione Europea, OSCE) nella gestione delle crisi quando si tratta di assicurare la pace e, come accaduto in Siria e Libia, le iniziative unilaterali sono quelle risolutive.

Il Cremlino, come nei decenni precedenti, ha creato le condizioni per conseguire il “cessate il fuoco”, impedendo in tal modo una vittoria completa da parte azera, ed ha schierato rapidamente una forza d’interposizione di 2.000 “peacekeeper” senza nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza.

Con questo accordo Mosca ha mantenuto il ruolo di arbitro nel Caucaso Meridionale, come dimostrato dalle successive iniziative trilaterali (Russia, Azerbaijan e Armenia) per la pacificazione dell’area (Nagorno-Karabakh: domani a Mosca vertice trilaterale fra leader di Russia, Azerbaijan e Armenia, Agenzia Nova, 10 gennaio 2021), anche se ha dovuto riconoscere alla Turchia un certo grado d’influenza nella Regione (Baku è fondamentale per la sicurezza energetica di Ankara ed è un importante investitore nella difficile economia turca).

Come già emerso nei conflitti siriano-irakeno e libico, si conferma una inusuale intesa tra Turchia e Russia, grazie anche al disimpegno statunitense nell’area mediterranea determinato dalla volontà di rivolgere la propria attenzione al contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico, quale effetto del “triage strategico” di Washington con la revisione delle proprie priorità in politica estera e conseguente riallocazione delle risorse dove sono ritenute più necessarie.

Gli eventi nel Caucaso dimostrano, ancora una volta, che la diplomazia funziona soltanto se la negoziazione avviene da posizioni di forza – conseguite anche con le “baionette” – per ottenere condizioni migliori nelle trattative, e rivalutano il ruolo delle Forze Armate che sono tornate ad essere uno strumento decisivo per ottenere il “cessate il fuoco”.

L’esercito armeno ha condotto le ostilità secondo le tradizionali procedure tecnico-tattiche (TTP – Tactics, Techniques and Procedures) utilizzate nei precedenti combattimenti (scontri sostanzialmente statici sui 200 km circa di fronte), che lo aveva fatto prevalere sull’avversario.

L’esercito di Baku invece, verosimilmente assistito da consiglieri militari stranieri, ha condotto le operazioni secondo un concetto prettamente tridimensionale – molto simile alla US AirLand Battle Doctrine.  – con coordinati attacchi sulla linea di contatto e di precisione in profondità nel dispositivo nemico, utilizzando artiglieria, lancia razzi multipli, missili balistici e UAS (Unmanned Aircraft System), che hanno sostituito la mancanza di una consistente forza aerea. Le perdite azere, infatti, si sono concentrate prevalentemente sulla linea di contatto mentre quelle armene erano distribuite su tutta l’area della battaglia.

Ricordiamo la Airland Battle Doctrine nasce ufficialmente il 25 marzo 1981 con la pubblicazione 525-5 “The Airland Battle and Corps ’86”, che ridisegnava le funzioni della Divisione tipo dell’US Army (modello 1986) in funzione dello scenario europeo. Nel 1986 la nuova dottrina veniva adottata con la pubblicazione del manuale FM 100-5 Operations.

Secondo diverse fonti, inoltre, gli Azeri si sarebbero avvalsi del supporto aereo di F-16 turchi, già presenti nel Paese per una precedente esercitazione (TurAz Qartali – 2020) terminata in agosto (coincidenza?), e di alcune migliaia di mercenari siriani filo-turchi, veterani dei combattimenti in Medio Oriente (notizie negate peraltro dagli interessati).

I veri protagonisti delle operazioni, che hanno permesso agli Azeri di avere rapidamente il sopravvento sugli Armeni, sono stati gli UAS nelle configurazioni ISR (Intelligence, Surveillance Reconnaissance) e di attaccoguidati forse da istruttori stranieri tenuto conto che la guida degli UAV richiede personale esperto e preparato che non si forma in poco tempo.

L’impiego dei droni da parte azera, quale arma aerea di attacco al suolo – a similitudine del velivolo A-10 Thunderbolt dell’USAF o dell’equivalente russo Sukhoi Su-25 Frogfoot – si è dimostrata essere la carta vincente. Il loro utilizzo, secondo precise modalità, già sperimentate in altri scenari, ha permesso di ottenere un elevato grado di successo (overkills), pari ai devastanti risultati conseguiti dagli Alleati nella 2a Guerra Mondiale contro avversari con difese aeree scarsamente organizzate.

Un bilancio disastroso, con significative ripercussioni sulle capacità operative armene, ben documentato dai video (kill cam) rilasciati dal Ministero della Difesa dell’Azerbaijan, che ha palesato le gravi carenze della difesa aerea armena, rivelatasi incapace di neutralizzare la (nuova) minaccia.

Secondo varie fonti, le forze azere hanno eliminato 241 carri armati (T-72 e T-90), 50 BMD (veicoli da combattimento), 17 pezzi di artiglieria motorizzati, 9 installazioni radar, 2 lanciarazzi multipli Smersh, 70 lanciarazzi multipli Grad (BM-21), oltre ad un gran numero di altri mezzi.

Il risultato più sorprendente sarebbe stato, comunque, la neutralizzazione dei principali sistemi della rete di difesa aerea avversaria (4 sistemi S-300; 3 sistemi missilistici cingolati TOR; 40 sistemi tattici OSA 9K33 e 5 sistemi a medio raggio KUB 2K12), che ha lasciato il dispositivo terrestre armeno senza protezione dal cielo, a meno dei Man-Portable Air-Defense Systems -MANPADS.

L’Azerbaijan ha verosimilmente beneficiato della recente esperienza della Turchia in Siria e in Libia, dove i suoi droni hanno eliminato i sistemi di difesa aerea a corto raggio di fabbricazione russa Pantsir S1 (NATO SA-22 Greyhound) utilizzati dalle forze del generale Khalifa Haftar, comandante del Libyan National Army – LNA.

 

Particolarmente efficaci si sono rivelati gli Harop (loitering-munition), i cosiddetti “droni kamikaze o suicidi”, che combinano le caratteristiche di un missile con quelle di un UAS, quali mini-droni portatili utilizzati dalle forze israeliane da un decennio – capaci di eludere i radar avversari grazie alla loro piccola dimensione – che esplodono all’impatto con il bersaglio. Sono di fatto proiettili teleguidati che forniscono alle unità di terra armi di reparto con una precisione maggiore (inferiore a un metro) rispetto ad altre, come ad esempio il mortaio.

Dotati di telecamere ad alta risoluzione, che consentono all’operatore di localizzare, sorvegliare e indirizzare il velivolo sul bersaglio, sono in grado di funzionare anche in condizioni meteo avverse, non dovendo fare affidamento, a differenza dei droni, su altri sistemi di guida per il targeting della missione. Una caratteristica dell’Harop è la possibilità di “aggirarsi” in un’area di attesa predefinita per un lungo periodo (9 ore) alla ricerca dell’obiettivo da colpire.

 

Un diverso modo di operare

L’esercito armeno in tutti gli intermittenti scontri precedenti si era sempre dimostrato superiore: aveva ufficiali più preparati, soldati più motivati e una leadership intellettualmente più agile.

Per fronteggiare tale situazione, l’Azerbaijan, avvalendosi anche (e soprattutto) del supporto esterno, si è visto costretto a rivedere il proprio modo di operare, ricorrendo a un mix sinergico di sistemi moderni e tradizionali impiegati in modo innovativo, cogliendo così di sorpresa gli avversari.

Le forze azere, avvalendosi di un’efficiente rete di acquisizione e di elaborazione delle informazioni, hanno lanciato l’offensiva (Operazione Steel Fist) con una azione che prevedeva:

  1. l’intervento degli UAS per conoscere preventivamente la disposizione del dispositivo armeno e il posizionamento delle riserve;
  2. la neutralizzazione iniziale delle difese contraeree, sulla scorta delle informazioni ricevute dai droni ISR (le forze azere nelle fasi iniziali dei combattimenti hanno impiegato anche aerei da trasporto An-2 Colt di epoca sovietica dotati di sistemi di controllo remoto per attirare e rilevare il fuoco dalle difese aeree armene), con i droni armati turchi Bayraktar TB2 (equivalenti dei Reaper statunitensi) e israeliani Heron, a lunga autonomia, e Harop per ottenere e mantenere il controllo dello spazio aereo alle varie quote (bassissima quota sino a 150 metri, bassa quota tra 150 a 600 metri, media quota tra 600 e 7.500 metri e alta quota oltre i 7.500 metru ;
  3. un intenso fuoco di artiglieria sulle posizioni (fortificate) armene della linea di contatto per indebolirne le difese (e il morale);
  4. l’attacco con droni armati degli assetti terrestri avversari (posti comando, reparti corazzati, fanteria allo scoperto, unità di artiglieria, installazioni radar, centri logistici, aree di sosta delle forze, ecc.) senza specifiche difese anti-droni;
  5. l’attacco in profondità contro le riserve nemiche tramite i droni che hanno “diretto” il fuoco dell’artiglieria, dei lanciarazzi multipli e dei missili balistici, tra cui i LORA israeliani di elevata precisione (errore massimo 10 metri), per distruggere ponti e strade che collegavano le aree di schieramento delle riserve al fronte e per neutralizzare i centri vitali nelle retrovie e le linee di rifornimento. Il LORA (LOng Range Artillery) è un Precision Strike Tactical Missile considerato un sistema di artiglieria. È definito missile TBM (Theate Ballistic Missile) quasi balistico in quanto il suo raggio d’azione è equiparato ai missili balistici a corto/medio raggio (sistema Surface to Surface per Precision Strike di obiettivi in profondità sino a 430 km. Per impiego e caratteristiche è paragonabile al missile Iskander russo, Israel Aerospace Industries ;
  6. l’attacco, una volta bloccato l’invio delle riserve, per sopraffare le posizioni armene isolate;
  7.  lo schieramento di missili a medio raggio Barak 8 e sistemi antimissile Iron Dome, entrambi israeliani, per prevenire attacchi missilistici contro località d’interesse strategico. Questa procedura, ripetutasi giorno dopo giorno, ha permesso di eliminare o espugnare una posizione avversaria dopo l’altraUn approccio rivelatosi vincente anche in terreno montuoso, in quanto gli obiettivi, che si muovevano lungo la sola rotabile che collegava le retrovie alla linea di contatto, risultavano più visibili e, di conseguenza, maggiormente esposti al fuoco dei droni.

L’Azerbaijan ha saputo tramutare la difesa fortificata, da sempre vero punto di forza della strategia armena, in una debolezza decisiva, confermando il fatto – ampiamente noto nella storia militare – che più importante degli equipaggiamenti è il processo intellettuale alla base dell’uso degli stessi.

Le cause dell’insuccesso armeno sono da ricercare, invece, secondo l’opinione degli analisti militari, nella carenza di addestramento e di adeguate TTP, unitamente alla mancanza di un’appropriata difesa aerea.

Gli UAS sono risultati indubbiamente determinanti, quale valore aggiunto alle capacità operative azere, ma il conflitto ha confermato che le guerre devono essere ancora concluse con gli “stivali sul terreno”!

 

La guerra aerea a supporto delle forze terrestri

i droni impiegati per fini bellici non costituiscono una novità. Washington ha utilizzato i Predator e i Reaper per interventi in Asia e in Africa a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001.

Il loro uso, grazie anche alla produzione in altri Paesi, tra cui Turchia, Cina e Israele, si è gradualmente esteso per la semplicità d’impiego, elevata efficacia e difficoltà d’intercettazione.

In Libia, a seguito dell’offensiva lanciata nell’aprile 2019 dal Generale Haftar, comandante delle LNA, per conquistare Tripoli, sono avvenuti in pochi mesi oltre 1.000 attacchi di droni rendendo il Paese, a detta del Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé, probabilmente il più grande teatro di guerra di droni al mondo.

L’utilizzo degli UAS si è rapidamente diffuso anche tra gli attori non statuali (terroristi e insorti) con il ricorso a droni commerciali modificati, facilmente reperibili sul mercato, ad iniziare dal Medio Oriente per poi estendersi all’Afghanistan

Da strumento “asettico” per azioni mirate a distanza che non compromettono i governi e riducono i rischi per le proprie forze, gli UAS sono diventati una componente fondamentale per una forza militare, quale arma aerea di attacco al suolo che aumenta le capacità di proiezione offensiva ed esercita, al contempo, una grande influenza sul campo di battaglia.

La Striscia di Gaza, ad esempio, è diventata uno dei luoghi più attivi di questa moderna guerra per l’ampio utilizzo dei droni da parte sia dell’Esercito israeliano sia di Hamas.

I gruppi militanti cercano spesso di imitare le forze occidentali nell’organizzazione, nell’uso di armi simili e nell’equipaggiamento (la cosiddetta “americanizzazione della guerra”).

I Talebani hanno costituito da tempo le forze speciali Red Unit (sulla falsariga di quelle statunitensi, cosi come l’ISIS che ha creato le proprie truppe d’elite noti come “inghimasiyun e come fatto, a suo tempo, dai guerriglieri del Fronte di Liberazione Nazionale algerino che avevano copiato le uniformi e il modo di agire dei paracadutisti francesi.

Un precedente significativo è quello dei “droni giocattolo” telecomandati modificati dai jihadisti dell’ISIS nelle battaglie di Ramadi (2015) e di Mosul (2016-2017) sia per trasportare piccole cariche di esplosivo da sganciare sull’avversario sia per schiantarsi direttamente sull’obiettivo,

In quell’occasione la superiorità aerea garantita dai velivoli USA si è rivelata inutile contro questi quadricotteri che volavano a bassa quota sulle aree urbane (anche per il rischio di colpire le truppe irakene operanti sul terreno).

Daesh ha ulteriormente sviluppato questa capacità, utilizzando i mini-droni per guidare dall’alto i veicoli suicidi corazzati con blindatura artigianale (vehicle-borne improvised explosive device-VBIED) da far esplodere contro le posizioni avversarie, i cui conduttori potevano solo vedere a malapena attraverso le piastre d’acciaio destinate a proteggerli dal fuoco nemico.

Ovviamente, non è la stessa tecnologia ma l’uso dei droni commerciali ottiene sia l’effetto di accrescere le capacità combattive sia una funzione psicologica sugli avversari, indotti a chiedersi se stanno affrontando un nemico meglio equipaggiato di loro.

 

La trasformazione del campo d battaglia

L’utilizzo di armamenti hi-tech nel Nagorno-Karabakh, costituiti da missili balistici, UAS e loitering-munition, è stato l’esempio più evidente di come questi strumenti ad alta precisione – incrementando il potenziale offensivo – possano cambiare le dimensioni dei conflitti una volta dominati dagli scontri terrestri e dalla tradizionale arma aerea: sono stati la sorpresa strategica in campo tattico che ha trasformato l’area della battaglia.

L’impiego degli UAS, cosi come l’utilizzo dei mercenari, riflette la tendenza sempre più diffusa verso la cosiddetta “guerra surrogata”, dove gli oneri di un conflitto vengono trasferiti dagli attori statuali e non statuali a sostituti umani e/o tecnologici

I droni, dopotutto, sono relativamente economici e più facili da rimpiazzare rispetto ai loro obiettivi, possono produrre danni estesi ed essere neutralizzati solo con contromisure molto più costose; un missile Stinger costa orientativamente 150 mila dollari e un Patriot molto di più, mentre un quadricottero modificato ne costa meno di duemila.

 

In termini di capacità, appare evidente che i velivoli a pilotaggio remoto offrano il vantaggio del potere aereo, dei sensori e delle armi di precisione alle piccole e medie Nazioni a un costo inferiore rispetto a quello della classica aviazione con equipaggio.

Gli UAS hanno anche dimostrato le vulnerabilità dei sistemi d’arma terrestri, quali carri armati, artiglierie, radar e missili terra-aria senza specifiche difese dai droni, ponendo in discussione il loro ruolo sul campo di battaglia.

Tale situazione ha sollevato il dibattito sulla possibilità che l’era dei corazzati stia volgendo al termine, anche se non esiste un’altra piattaforma che offra una migliore combinazione di manovra, protezione e potenza di fuoco. Nulla può il carro armato, di per sé, per fronteggiare e difendersi da un’arma specificamente progettata per colpire dall’alto, in quanto questi mezzi in genere non sono protetti contro questa tipologia di attacco. Alcuni esperti di corazzati affermano, tuttavia, che i problemi avuti dagli Armeni erano dovuti più alla mancanza di addestramento tecnico-tattico che a un segnale di obsolescenza dei carri armati.

Il conflitto ha evidenziato, inoltre, i limiti delle difese aeree attuali nel contrastare efficacemente combinazioni di attacchi portati da missili balistici e UAS, come peraltro era già emerso in precedenza. Nell’incursione del settembre 2019 lanciata dai ribelli Houthi da diverse centinaia di chilometri di distanza su due impianti petroliferi in Arabia Saudita, che ha causato sensibili danni alle infrastrutture e la temporanea riduzione della produzione petrolifera, nessuno dei tre sistemi contraerei schierati a protezione dei siti (Patriot statunitensi, Crotale francesi e cannoni Oerlikon da 35 mm svizzeri) è stato in grado di rilevare o ingaggiare i droni e i missili da crociera attaccanti

Questa minaccia si sta diffondendo molto più rapidamente delle contromisure o dei sistemi di difesa progettati per affrontarla, anche se molto dipende dal sistema stesso, dal contesto operativo, dalle capacità dell’operatore e dall’avversario (la Turchia, ad esempio, ha perso diversi suoi droni TB2 negli scontri in Libia), come si verifica, del resto, per i sistemi di guerra elettronica.

 

Le guerre del XXI secolo

Il conflitto nel Nagorno-Karabakh ha anticipato come potrebbero essere le guerre del XXI Secolo rispetto a quelle del passato per la presenza delle armi autonome che, come avvenuto per quelle cibernetiche, possono offrire opportunità alle piccole e medie Nazioni di sfruttare con effetti letali le nuove tecnologie, ponendo fine al monopolio delle grandi potenze, e innescare – con maggiore probabilità – conflitti nelle aree contese tra Stati confinanti.

 

I combattimenti nel Caucaso, sebbene circostanziati nel tempo, nello spazio e nelle dimensioni, hanno suscitato un grande interesse in ambito internazionale per le novità introdotte ed hanno stimolato numerosi studi per trarne insegnamenti per le rispettive Forze Armate, soprattutto per quanto riguarda l’uso dei droni e i modi per individuare, in un breve lasso di tempo, contromisure efficaci.

Nei Paesi occidentali, tra cui Germania e Regno Unito, è stata avviata una riflessione a livello politico-militare circa la possibilità di avviare nuovi programmi di acquisizione di droni armati più economici (del tipo TB2 turco) per l’ottimo rapporto costo/efficacia dimostrato nel conflitto.

Anche Cina e Taiwan hanno attribuito una particolare attenzione a questi combattimenti, tanto da approfondirne le dinamiche per renderle più aderenti alle proprie situazioni strategiche.

L’utilizzo dei droni armati, oltre a far emergere problemi connessi con una tecnologia incontrollata e in rapido sviluppo, è divenuto oggetto di intense discussioni in diversi Paesi, tra cui la Germania per un quadro giuridico non definito e complessi aspetti etici relativi all’uccisione degli avversari con un joystick.

Innegabilmente, alcune di queste lezioni possono apparire esagerate, come spesso accade, ma sarebbe un errore ignorare o sottostimare le indicazioni emerse, che sono più complesse degli specifici aspetti tecnologici, in quanto hanno implicazioni sull’efficacia della difesa aerea, sulla sopravvivenza delle forze e sulla necessità di pensare in modo diverso allo sfruttamento del terreno e alla condotta della manovra secondo un’ottica multi-dominio, basata sulla conoscenza delle proprie possibilità e sulla creazione di alternative di azione (un’azione in un dominio può avere un effetto diretto ed efficace in un altro).

Innanzitutto, il conflitto ha fatto rilevare, come spesso accade, il divario tra le valutazioni dei leader politici e la realtà sul campo, per mancanza di sintonia con i vertici militari.

La leadership politica di Yerevan, illusa dai precedenti successi, non ha investito in misura adeguata ad assicurare alle Forze Armate gli strumenti e le tecnologie in grado di contrastare efficacemente un avversario che, in questi ultimi anni, grazie alle disponibilità finanziarie offerte dalle risorse petrolifere, si è sensibilmente potenziato con l’acquisizione di armamenti ed equipaggiamenti stranieri dell’ultima generazione.

Gli Armeni, invece di acquistare sistemi di difesa aerea o di guerra elettronica più avanzati, hanno preferito investire in equipaggiamenti di “seconda mano” dalla Giordania, che non erano stati progettati per ingaggiare gli UAS, malgrado segnali di cambiamento si fossero già manifestati quando l’Azerbaijan, nei quattro giorni di scontri del 2016, aveva già usato droni e loitering munition.

Erevan nei quattro anni successivi, peccando forse in presunzione, non aveva recepito questi nuovi aspetti, confidando sulla superiorità combattiva delle proprie truppe (e probabilmente nel supporto russo).

Gli Stati che non possono permettersi forze aeree sofisticate trovano negli UAS un efficace mezzo per conseguire il controllo dello spazio aereo alle basse-medie quote e infliggere pesanti perdite alle forze di terra, presumibilmente superiori ma impreparate – al momento – ad affrontare questa nuova forma di minaccia. Utilizzati efficacemente, i droni armati hanno la possibilità di colpire rapidamente e con precisione forze esposte o non protette.

Ciò richiede lo sviluppo di sistemi di protezione integrati tra la 1e la 3a dimensione che prevedano una difesa area altamente mobile in grado di supportare le forze terrestri ed estesa sino alle singole unità d’impiego.

Una capacità che non può essere più esclusivo patrimonio delle (poche) unità specialistiche, le quali non saranno mai in grado di soddisfare, in misura aderente, tutte le molteplici e diversificate esigenze delle forze di manovra.

I sistemi d’arma terrestri (carri armati e altri veicoli da combattimento), inoltre, dovranno essere dotati di propri dispositivi di protezione e di contromisure efficaci, alla stessa stregua in cui sono ora equipaggiati contro la minaccia anticarro e gli IED, per la localizzazione e la difesa dagli UAS: la sopravvivenza dovrà ancora una volta mettersi al passo con la letalità.

Il carro russo T-14 Armata, ad esempio, è equipaggiato con un nuovo sistema di protezione attiva, l’Active Protection System (APS) Afghanit, che dispone di un radar in grado rilevare, tracciare, intercettare e distruggere i missili guidati anticarro (ATGM), razzi e RPG in arrivo. Army Recognition (www.armyrecognition.com), 30 December 2020.

Potrà essere utile, inoltre, rivalutare i semoventi contraerei basati su cannoni che la maggior parte degli eserciti occidentali ha gradualmente dismesso dalla fine della Guerra Fredda, tenuto conto che i MANPADS, come lo Stinger, hanno poche possibilità di acquisire obiettivi di così piccole dimensioni come le loitering munition o i mini-droni invisibili all’operatore (nel Nagorno-Karabakh i droni hanno distrutto più MANPAD di quanti droni siano stati abbattuti da questi sistemi portatili).

Sicuramente si rende necessaria una approfondita riflessione sull’impiego dei mezzi blindati e corazzati e, conseguentemente, sull’addestramento tecnico-tattico che deve essere incentrato sull’esasperazione del concetto di diradamento, occultamento, sorpresa, attacchi rapidi e concentrati.

L’esercito americano, ad esempio, nel Centro di Addestramento Nazionale (National Training Center-Fort Irwin, California) verifica il livello di preparazione delle unità corazzate su di un campo di battaglia simulato contro una “forza avversaria” che applica le più recenti TTP emerse nei vari conflitti, per prepararle in modo più consono ad affrontare le sfide che si possono presentare: non sempre è possibile scegliere le guerre da combattere!

Solo una combinazione di tecnologie, dottrine e procedure che annoverino preparazione, innovazione, cooperazione e capacità di adattamento, consentirà di far fronte alla minaccia dei droni riducendone la loro efficacia.

Il Pentagono ha previsto, a tal fine, di sviluppare un programma d’istruzione di base contro-UAS con TTP comuni e l’aggiornamento della dottrina esistente per definire linee guida per tutte le Forze Armate. Il progetto include anche la creazione di una apposita scuola (Fort Sill, Oklahoma) per addestrare i militari a contrastare la minaccia degli UAS soprattutto quella portata dai mini-droni

I combattimenti nel Nagorno Karabakh, tuttavia, hanno confermato la fondamentale importanza della tecnologia e dei nuovi equipaggiamenti, quali componenti essenziali di una moderna Forza Armata, che non possono tuttavia sostituirsi alla dimensione umana che continua ad essere il fattore decisivo nella condotta delle operazioni, dove il Soldato è il “sistema d’arma” a disposizione più flessibile ed efficace.

Giorgio Battisti

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Francobollo Azerbaigian su Nagorno Karabakh (Artsakh)

In qualità di cittadini italiani di origine armena dobbiamo segnalare che in data 30 dicembre le Poste dell’Azerbaigian hanno emesso un foglietto a celebrazione della vittoria nella recente guerra combattuta contro la repubblica armena de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh).

In tale foglietto una vignetta evidenzia la disinfestazione della regione conquistata (parzialmente) dalle forze armate azere che per 44 giorni hanno sottoposto la popolazione a incessanti bombardamenti anche con armi proibite dalle convenzioni internazionali.

L’immagine richiama inequivocabilmente la propaganda nazista ed è frutto di una cultura dell’odio contro gli armeni che purtroppo impera nel regime azero.

Ci appelliamo alle istituzioni e agli amanti della filatelia perché condannino tale emissione. Un francobollo, propaganda a parte, non può essere veicolo di odio e discriminazione etnica.

La “disinfestazione” del Nagorno Karabakh va censurata in quanto rappresenta un insulto non solo al popolo armeno nel mondo ma anche all’arte del francobollo e ai valori che esso rappresenta.

Grazie per l’attenzione e per l’evidenza che vorrete dare al nostro messaggio.

Cordiali saluti

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA

 

***N. B.  Questo comunicato fa parte di iniziative di sensibilizzazione che il Consiglio per la comunità armena di Roma ha messo in atto ed è stato inviato agli operatori specializzati del settore.

LA DRAMMATICA FINE DELLA CANTINA KATARO IN NAGORNO KARABAKH (ARTSAKH)

La guerra scatenata a fine settembre dall’Azerbaigian contro la repubblica armena de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh) non ha lasciato soltanto una scia di sangue e distruzioni dopo 44 giorni di violenti combattimenti e bombardamenti a tappeto sulla popolazione.

Dobbiamo purtroppo segnalare come la prestigiosa cantina Kataro nel villaggio di Togh, ora occupato dalle forze militari dell’Azerbaigian, è andata irrimediabilmente distrutta.

In rete abbiamo dovuto vedere le tristi immagini di soldati azeri che si accaniscono sulle botti che custodivano il pregiato vino, le rovesciano, spaccano bottiglie con l’unico scopo di vandalizzare un prodotto armeno.

Come novelli barbari, non hanno avuto alcun rispetto non solo del patrimonio culturale armeno ma neppure della civiltà del bere.

Lanciamo un appello alla “comunità del vino” in Italia perché condanni senza indugio tale crimine e solidarizzi con i proprietari della cantina che dal nulla, con amore e dedizione, avevano creato un’eccellenza vinicola.

Alziamo i calici!

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA


VINO KATARO: AZIENDA VINICOLA IN ARTSAKH

L’Artsakh, è situato nel Caucaso meridionale in Armenia ed è uno dei pochissimi posti sulla terra dove cresce il vitigno Khndoghni. Originario di questa regione, un tempo era usato per il vino fatto in casa.

Aghadjan Avetissyan, bisnonno dell’attuale proprietario, ha prodotto vino da uve Khondoghni per tutta la vita, ma con il crollo dell’URSS, e tutto ciò ne conseguì, la viticoltura fu messa da parte.

Fu solo nel 1996 che Grigory Avetissyan, l’attuale proprietario, decise di far rivivere i vigneti di Khndoghni e, dopo tanta sperimentazione, finalmente inizia nel 2010, i primi vini con il marchio Kataro.

Avetissyan coltiva vigneti di 11 ettari di Khndoghni e 2 ettari di uve Syrah. Questi si trovano a 6/700 metri sopra il livello del mare. Inverni miti ed estati soleggiate, contribuiscono alla maturazione armoniosa delle uve. La raccolta e la scelta a mano consentono di seguire le antiche tradizioni enologiche coniugandole sapientemente con le più moderne tecnologie di vinificazione.

 

Kataro Rosso

Imbottigliato dopo 12 mesi di invecchiamento. Gusto dominante di bacche rosse e la corniola, con tocco di melograno. Note di amarena matura, e retrogusto speziato medio lungo. Ricco di tannini.

Uve: vitigno autoctono khndoghni. Età media dei vigneti 20 anni.

Servire a 16-18 C, ottimo con carni cotti sulla brace, carne e formaggi forti.

Premi: ProdExpo 2014-2017, Prowein 2015-2016, Medaglia d’oro al Concours Mondiale de Bruxelle 2017, Medaglia d’argento Mundus Vini 2017.

 

Kataro Rosso Riserva

Invecchia per 18 mesi in botti di rovere del Caucaso delle foreste locali di alta quota. Ricco di tannino, gusto deciso presenta aromi di mirtilli e zucchero filato.

Uve: vitigno autoctono khndoghni. Età media dei vigneti 20 anni.

Servire a 16-18 C, ottimo con piatti di carne e formaggi piccanti.

Premi: : ProdExpo 2015-2017, Prowein 2016-2018, Concours Mondiale de Bruxelle Le grand Medal d’Or 2017, Le grand degustation de Montreal 2018.

 

Bianco secco

Affinamento in bottiglia per minimo 5 mesi. Elegante e floreale, fresco e minerale con sentori di agrumi e pesca bianca.

Uva: miscela di Queens of Armenian Highlands, varietà Vockehat, colvitata nella regione Vayots Dzor in Armenia, varietà Kangun e Babants di Artsakh. Età media dei vigneti 25 anni.

Servire a 8-10 C. Ideale con formaggio leggeri, pesce di acqua dolce, macedonie e dolci a base di caramello o vaniglia.

 

Rosé

Fruttato, fresco con note di fragola e frutta, chiude con spiccata mineralità.

Uve: vitigno autoctono Khndoghni. Età media dei vigneti 20 anni.

Affinamento in bottiglia minimo 5 mesi.

Servire a 8-10 C. Ottimo formaggi, insalate, pollo e verdure.

 

Dove si vende nel mondo: https://kataro.am/contacts

 

***N. B.  Questo comunicato fa parte di iniziative di sensibilizzazione che il Consiglio per la comunità armena di Roma ha messo in atto ed è stato inviato agli operatori specializzati del settore.

Mkhitaryan, il legame con la sua Armenia e la finale di Europa League saltata (Goal.com 21.01.21)

Henrikh Mkhitaryan sente il bisogno di essere protagonista in campo. Lo è sempre stato in ognuna delle squadre in cui ha giocato. È nella sua natura. Quando è al centro della scena, si esalta e dà il meglio di sé stesso. Lo stanno scoprendo anche alla Roma in questa stagione, dopo gli eccellenti segnali mandati nella scorsa annata. Nella sua carriera l’armeno è sempre stato al centro della scena, a partire da quando si è fatto conoscere al grande calcio europeo con lo Shakhtar Donetsk. Poi, successivamente, al Borussia Dortmund con Jürgen Klopp, il tecnico che più di tutti lo ha segnato. Quando è arrivato in Germania, come erede di Mario Götze, appena passato al Bayer Monaco, Klopp lo aveva definito un fit perfetto per la sua squadra, paragonandolo a “un sedere su un water” per quanto fosse azzeccato l’acquisto. Aveva ragione. Anche se la stagione migliore di Mkhitaryan in Bundesliga è stata nel 2016, quando è stato eletto miglior giocatore del campionato, con Thomas Tuchel in panchina. Il rapporto con Klopp, comunque, è stato diverso. Speciale.

“Per me è stato quasi uno psicologo. Ero severo con me stesso, per un errore potevo chiudermi in camera, spegnere il telefono e non parlare con nessuno. Mi ha aiutato a raggiungere un maggiore equilibrio. Con lui ho giocato al mio massimo livello. Prima di giocar con l’Eintracht, mentre mi allenavo sui tiri in porta, mi sfidò: ‘Se ne segni sette ti do 50 euro, se no me li dai tu‘. Non li feci, pagati. Ma il giorno dopo in partita feci doppietta e dissi a Klopp: ‘Ora me li ridai quei 50 euro’…”.

È stata l’unica scommessa che ha fatto in vita sua. Anche perché lui in primis non si è mai sentito una scommessa. In realtà soltanto a inizio carriera: poteva finire in Iran, è stato scartato perché ritenuto troppo magro. Curioso, perché all’Arsenal in un certo periodo fu accusato dai tifosi di avere una pancetta un po’ troppo vistosa. A Londra, in realtà, non ha trascorso un anno e mezzo memorabile. Ci era arrivato dopo uno scambio alla pari con Alexis Sanchez con il Manchester United nel gennaio del 2018. Entrambi hanno condiviso lo stesso destino: esperienze deludenti, spediti in Italia in prestito nell’estate 2019 e poi ceduti a zero insieme in estate. Roma e Inter. Col senno di poi, uno scambio ‘lose-lose’. Aveva deciso di andare in Premier League nel 2016, con un solo anno di contratto rimasto col Dortmund e poca voglia di rinnovare. Aveva fame di trofei. È diventato il primo armeno a giocare in Premier League. Voleva essere protagonista, ma non andò bene. Né allo United con Mourinho, né all’Arsenal con Emery. Che poi lo ha spedito gratuitamente in Italia. Dove si è ritrovato.

“Emery era molto attento alla tattica, ha cambiato il mio ruolo. Giocavo da ala, ma dovevo aiutare in impostazione il centrocampo. Non ho potuto contribuire con goal e assist. A me piace di più giocare liberamente, andare dove c’è lo spazio, ma dovevo ascoltare l’allenatore”.

In Inghilterra, comunque, ha conquistato quello che è probabilmente il suo successo più importante in carriera: la vittoria dell’Europa League nel 2017, in finale a Stoccolma, segnando uno dei due goal con cui lo United di Mourinho ha battuto l’Ajax. In finale di Europa League ci è tornato con l’Arsenal due stagioni dopo, nel 2019. Doveva giocare contro il Chelsea un derby di Londra storico, poi vinto dai Blues di Maurizio Sarri con un rotondo 4-1 finale. Eppure quella partita Mkhitaryan non poté giocarla. Non per una scelta tecnica, non per un infortunio, bensì per colpa della propria nazionalità e di un conflitto che va avanti da trent’anni.

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L’unità dei cristiani, condizione di «fertilità» (Romasette 21.01.21)

Prendere sul serio gli insegnamenti e l’esortazione di Gesù che ieri come oggi chiama i suoi discepoli a seguirlo rimanendo uniti. È l’invito rivolto dall’arcivescovo Khajag Barsamiam, rappresentante della Chiesa Armena Apostolica (ortodossa) presso la Santa Sede, intervenuto ieri sera, 20 gennaio, alla veglia ecumenica diocesana svoltasi nella basilica di Santa Maria in Trastevere, nell’ambito della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «Diverse tradizioni cristiane in comunione con Gesù e tra di loro – ha detto – possono rendere il mondo decisamente migliore». Tema scelto dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani è “Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto”, tratto dai primi versetti del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni.

Presieduto dal vescovo Paolo Selvadagi, delegato diocesano per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso, il momento di preghiera – trasmesso in streaming sulla pagina Facebook della diocesi – ha unito cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani, luterani, valdesi, battisti, metodisti attraverso i rappresentanti delle comunità di Roma. «Con la molteplicità e le ricchezze delle tradizioni di ognuno, si è pregato insieme nel servizio all’unità», ha rimarcato monsignor Marco Gnavi, parroco della basilica di Trastevere e incaricato dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo. La pandemia non ha ostacolato il tradizionale ottavario e l’auspicio di monsignor Selvadagi è che «cresca il desiderio di unità fra i popoli e che il cuore di ciascuno non sia più diviso e i cristiani cerchino la loro unità visibile».

Il materiale per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è stato preparato dalla Comunità ecumenica femminile del monastero di Grandchamp, in Svizzera, composta da cinquanta donne di diversa età, tradizione ecclesiale, Paese e continente. «In questa loro diversità – si legge nel sussidio -, le suore sono una parabola vivente di comunione».

Nell’omelia, l’arcivescovo Barsamiam ha ricordato che Gesù insegnava attraverso parabole per farsi comprendere e nel discorso giovanneo dell’Ultima Cena utilizza l’immagine della vite e dei tralci. Leggendo il messaggio di Cristo in riferimento all’unità dei cristiani, ha spiegato che «Gesù fa capire chiaramente che tutti i suoi discepoli avrebbero portato frutti se avessero mantenuto il legame con Lui e tra di loro. Ovvero: Lui è la “vite” e i suoi seguaci sono i “tralci”, dove la comunione reciproca è condizione di fertilità. Quando i rami “dimorano” nel terreno, danno frutti e prosperano, altrimenti, “appassiscono” e diventano improduttivi». I cristiani devono quindi impegnarsi nella sequela perché «senza di Lui non si può essere fruttuosi». Al contempo, ha rimarcato monsignor Barsamiam, «è importante che anche i rami, cioè i discepoli di Gesù, che hanno in Gesù la loro fonte, siano collegati l’uno con l’altro» altrimenti «il Signore rifiuterà ciò che non viene fatto in comunione con Lui e gli uni con gli altri», bruciando i rami non produttivi. «Qui è racchiusa la stretta connessione tra il credente e il suo operato», le parole del rappresentante della Chiesa Armena Apostolica (ortodossa) presso la Santa Sede.

Rivolgendosi ai fedeli presenti in basilica, tra i quali il fondatore e il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo, l’arcivescovo ha osservato che il discepolato «non è qualcosa di statico ma è dinamico. Continuare a produrre frutti applicando quotidianamente i principi di Cristo non è una condizione del discepolato ma è una conseguenza di esso» ed è per questo che i discepoli «nell’amare i propri compagni di fede, devono seguire l’esempio di amore che il Padre e il Figlio nutrono per gli uomini».

Prima della benedizione, il vescovo ausiliare del settore Centro Daniele Libanori ha auspicato che «la preghiera unanime affretti la guarigione dalla pandemia, da ogni violenza, da ogni conflitto, per essere insieme fratelli e sorelli della stessa famiglia umana».