Gli intrecci regionali della guerra in Nagorno-Karabakh (policymakermag.it 24.12.20)

Tra gli Stati coinvolti nel conflitto, oltre ad Armenia, Azerbaigian, Turchia e Russia, ci sono anche Georgia e Iran. L’analisi di Giuseppe Mancini

La guerra di 44 giorni tra Armenia e Azerbaigian, per il controllo del Nagorno-Karabakh, non solo ha cambiato gli equilibri tra azeri vittoriosi e armeni sconfitti ma ha paradossalmente determinato nuove prospettive di cooperazione regionale.

A uscire vincitrici dal conflitto sono state anche la Russia e la Turchiala prima è intervenuta per imporre la fine delle ostilità e ha ottenuto la presenza di proprie truppe in alcuni dei territori contesi; la seconda ha sostenuto una nazione amica – politicamente, ma anche militarmente – e poi trasformato il successo sul campo in dividendi diplomatici.

La proposta è venuta dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha incontrato il suo omologo azero Ilham Aliyev – il 10 dicembre, a Baku – in occasione della “parata della vittoria”: un raggruppamento regionale a sei, che non solo porti a una soluzione definitiva per il Nagorno-Karabakh ma crei anche forme di cooperazione economica.

Gli stati coinvolti, oltre ad Armenia e Azerbaigian, oltre a Turchia e Russia, sarebbero Georgia e Iran: tutti con confini in comune tra loro. Parlando con la stampa turca durante il viaggio di ritorno, Erdoğan ha assicurato di avere l’approvazione di Vladimir Putin; le diplomazie approfondiranno.

La proposta turca è ovviamente condivisa da Aliyev: perché l’obiettivo comune, attraverso questa nuova formula regionale, è il superamento del cosiddetto “gruppo di Minsk”, guidato invece – in seno all’Osce – da Russia, Usa e Francia (quest’ultima giudicata troppo filo-armena) e inefficace nel trovare soluzioni mutualmente accettabili per la sistemazione del Nagorno-Karabakh attraverso i negoziati degli ultimi 30 anni o quasi.

Del resto, le iniziative regionali non sono nuove per la Turchia: che subito prima delle “primavere arabe”, all’apice della sua influenza come Stato musulmano e democratico nel 2009-2010, aveva avviato la costituzione di un gruppo a quattro insieme a Siria, Libano e Giordania con l’obiettivo di favorire la cooperazione e lo sviluppo del Levante e poi di tutto il Medio Oriente. Il progetto è fallito per cause contingenti, ma l’approccio è rimasto vivo.

Questo approccio regionalista, nel caso del Caucaso, ha anche risvolti direttamente bilaterali: perché Erdoğan ha avanzato l’ulteriore proposta – nel contesto di questa iniziativa di pace e di cooperazione – di riaprire il confine turco-armeno, chiuso dal 1993 proprio al momento della prima guerra per il Nagorno-Karabakh. Un’iniziativa precedente per riaprirlo, coi protocolli di Zurigo del 2009, è fallita per la persistenza del conflitto tra Armenia e Azerbaigian: la liberazione di alcuni dei territori azeri sotto occupazione armena – è questo, il paradosso – potrebbe rimuovere uno degli ostacoli principali alla normalizzazione (rimarrebbe però l’ostilità storica provocata dagli eventi del 1915 in Anatolia, che l’Armenia ritiene un “genocidio” e la Turchia interpreta in modo diverso).

Yerevan, per il presidente turco, avrebbe così nuove opportunità di sviluppo: perché al momento è invece tagliata fuori da tutte le infrastrutture energetiche e di trasporto eurasiatiche, come il gasdotto Tanap e le nuove vie della Seta (il collegamento ferroviario tra Kars e Baku passa infatti per Tbilisi). Del resto, Turchia e Azerbaigian hanno immediatamente iniziato la ricostruzione dei territori del Nagorno-Karabakh riconquistati – l’Ansaldo energia ha già firmato un accordo per la ricostruzione di centrali elettriche – e avviato altri progetti infrastrutturali nel corridoio del Nakhchivan.

Riguardo questo corridoio, la sua funzione è di creare un collegamento tra l’Azerbaigian e questa regione azera interamente inglobati dal territorio armeno; visto che ha un brevissimo tratto di confine – appena 17 chilometri – col Nakhchivan, anche la Turchia ha di conseguenza un accesso diretto al territorio azero. In questo contesto, i progetti annunciati sono un gasdotto e un collegamento ferroviario dal territorio turco. L’Armenia è chiamata a rispondere, dopo che avrà assorbito le conseguenze politiche della sconfitta militare.

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Il conflitto del Nagorno-Karabakh e le influenze russo-turche in una regione strategica (Euronews 23.12.20)

Dal 27 settembre, Armenia e Azerbaigian si affrontano in uno scontro feroce per i territori contesi dentro e intorno all’enclave separatista del Nagorno-Karabakh, una regione strategicamente importante (il corridoio per gli oleodotti che trasportano petrolio e gas naturale dal Mar Caspio), riconosciuto a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, ma controllato dall’etnia armena.

Un conflitto che ha le sue radici nella dissoluzione dell’Unione Sovietica e che continua nonostante il cessate il fuoco concordato nel 1994.

Un’escalation con molteplici cause fra cui un processo negoziale in stallo da anni e un Azerbaijan più assertivo per la sua crescente forza economica e militare.

Infine, il sostegno straniero ricevuto da entrambe le parti: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è impegnato a sostenere l’Azerbaigian (un popolo prevalentemente di etnia turca). Dall’altra parte la Russia, tradizionalmente alleata dell’Armenia.

Secondo il presidente russo Vladimir Putin, oltre 4.000 persone sono state uccise da entrambe le parti, compresi civili, con 8.000 feriti e decine di migliaia cacciate dalle loro case.

Non c’è stato consenso da nessuna parte su chi sia responsabile della violenza: questo è ciò che entrambe le parti hanno dichiarato ai nostri microfoni il 9 ottobre.

Così l’azero Ilham Aliyev: “Ci rammarichiamo che i civili vengano uccisi, naturalmente non era il nostro scopo”.

Gli ha fatto eco il premier armeno Nikol Pashinyan: “Non siamo noi la causa di questo attacco (del 27 settembre), hanno attaccato le nostre città e villaggi e abbiamo dovuto rispondere: la nostra risposta è principalmente ed è principalmente contro le posizioni militari avversarie”.

L’accordo di pace è stato mediato dalla Russia che ha consegnato all’Azerbaigian diverse regioni: una parte dello stesso Nagorno-Karabakh e tre territori circostanti.

L’accordo prevede anche il dispiegamento di forze di pace russe nella regione e l’istituzione di un centro di osservazione russo-turco nella regione.

Vladimir Putin, presidente russo, ha detto: “Partiamo dalla premessa che gli accordi raggiunti creeranno le condizioni necessarie per una soluzione a lungo termine e su vasta scala della crisi intorno al Nagorno-Karabakh su una base giusta e nell’interesse dei popoli armeno e azero”.

E questa visione a lungo termine si riflette nello spirito di libera circolazione che è alla base dell’accordo, nella costruzione di autostrade e controllo militare sotto le truppe russe che vengono a salvaguardare il processo di pace.

Dall’altra parte ci sono gli armeni, rimasti sconvolti dall’accordo di pace: la rabbia cresce contro Nikol Pashinyan, che è etichettato come un traditore.

Per giorni ci sono state proteste che lo chiedevano di dimettersi: molti vedono il Nagorno-Karabakh come una parte legittima dell’Armenia, e molti nella regione separatista affermano che Pashinyan ha venduto parte della loro patria firmando il recente accordo di pace.

Il conflitto nella regione non è stato ciò che ha allontanato le persone: piuttosto, è stato l’accordo di pace.

Secondo il governo armeno, circa 90.000 azeri di etnia armena sono stati sfollati e sono fuggiti temporaneamente in Armenia. Da parte azera, i funzionari affermano che il conflitto ha provocato la fuga di circa 40.000 persone.

L’accordo di pace ha “congelato” lo status quo ma non ha certo risolto quello che è uno dei conflitti più antichi del mondo, né ha migliorato la vita delle persone che vi abitano.

Questa situazione ha ratificato la crescente influenza russa e turca nella regione e ha anche ridotto le ambizioni armene di riconnettersi con l’Europa, come avrebbe voluto Pashinyan.

Inoltre, sembra ridurre per ora le possibilità dell’Europa di svolgere un ruolo di primo piano in questo territorio, strategico per diversificare il proprio approvvigionamento energetico.

Anche la Francia, che ha una grande comunità armena e ha un ruolo di primo piano nei precedenti colloqui (come membro del gruppo di Minsk) è stata però messa da parte.

Il villaggio diviso

A seguito della guerra nel Nagorno-Karabakh, il villaggio di Taghavard è stato diviso in due parti.

In una, denominata Kaller Taghavarn, è rimasta la comunità armena, gli azeri hanno occupato l’altra metà.

Quasi 400 persone di questo villaggio sono state sfollate.

I problemi riguardano anche coloro che rimangono a Kaller Taghavard: vivere vicino al confine, difatti, è ugualmente preoccupante.

Tombe in cui riposano persone di nazionalità armena sono anche dall’altra parte del confine, per cui le famiglie non possono render visita al luogo di sepoltura

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Il Video racconto: “Armenia: la luce dal Pozzo Profondo” (LeccoFM 23.12.20)

Lecco, 22 dicembre 2020 – Venerdì 18 dicembre è stato trasmesso in diretta streaming l’incontro intitolato “Armenia: la luce dal Pozzo Profondo”, organizzato dal Liceo Leopardi di Lecco.

Gli studenti hanno dialogato in diretta con uno dei più illustri studiosi della questione armena e caucasica, il prof. Aldo Ferrari, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e con due esponenti della comunità armena italiana, la famosa scrittrice e saggista Antonia Arslan, e la Presidente della Casa Armena di Milano, Marina Mavian.

Tre straordinarie testimonianze, che hanno reso l’incontro un importante momento di riflessione su temi fondamentali per capire a fondo la situaizone armena, come la libertà e la ricerca della verità.

«Il desiderio di approfondire la questione armena, oggetto di studio nelle ore di Storia in quinta, è nato davanti alle drammatiche immagini della recente guerra scoppiata a fine settembre tra l’Azerbaijan e l’Armenia per il controllo del Nagorno- Karabakh e conclusasi il 10 novembre con il cessate il fuoco e l’arretramento delle forze militari armene – spiega Laura Bellelli, docente di storia del Liceo Leopardi di Lecco -. Questo breve conflitto ha visto implicate le più grandi potenze politiche dell’area, Turchia e Russia, e pone gravi problemi alla sopravvivenza delle testimonianze cristiane armene di quei territori, abbandonati da tanti abitanti in fuga».

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High tech e geopolitica, così Erdogan è diventato il signore dei droni da guerra (Repubblica 22.12.20)

A gennaio di quest’anno, quando il Parlamento turco ha autorizzato l’invio di soldati in Libia, l’esercito di Recep Tayyip Erdogan ha rapidamente cambiato il corso della guerra costringendo le milizie del generale Khalifa Haftar – sostenuto da russi, egiziani, emiratini e francesi – a ripiegare verso est.  Agli inizi di ottobre, il presidente azero Ilham Aliyev ha ringraziato pubblicamente la Turchia per avergli consentito di vincere la guerra contro gli armeni: “Se non avessimo ottenuto queste capacità (dei droni, ndr) – ha detto – sarebbe stato molto più difficile”. In Libia come nel Nagorno Karabakh a fare la differenza nel conflitto è stata una tecnologia su cui i turchi investono da 10 anni e che è diventata un punto di forza per le ambizioni geopolitiche di Erdogan nel Mediterraneo e in Asia centrale: l’industria dei droni.

I droni turchi hanno “rivoluzionato” le regole del gioco nelle guerre in Libia e in Siria, ha ammesso a luglio Ben Wallace, il segretario alla Difesa britannico, probabilmente avendo in testa le immagini dei Bayraktar TB-2 turchi che abbattevano i missili Pantsir di fabbricazione russa in Siria.

La Turchia ha iniziato a sviluppare gli arei a pilotaggio remoto agli inizi degli anni Duemila – prima per missioni di sorveglianza e intelligence, poi armandoli – quando si è resa conto che difficilmente avrebbe potuto ottenerli da Paesi stranieri come gli Stati Uniti o Israele. Oggi è diventata un attore importante del mercato, e si candida a competere con la Cina anche per le esportazioni in Africa, in Medio Oriente, in Asia, dove le regole più rigide per l’export militare impediscono agli Stati Uniti di conquistare mercato. Ha già venduto droni al Qatar e alla Libia, all’Azerbaijan e all’Ucraina e sta negoziando possibili forniture con alcuni Stati dell’Asia centrale e meridionale come il Kazakistan e l’Indonesia, ci conferma Arda Mevlutoglu, analista esperto di Difesa di base ad Ankara. Ci sono notizie che un drone della Turkish Aerospace Industry, l’Anka-S, si stato ordinato anche dalla Tunisia.

Questo attivismo si riflette nei numeri: nel 2002 la Turchia esportava 248 milioni di dollari attrezzature militari, l’anno scorso è arrivata a 3 miliardi, secondo il rapporto annuale dell’associazione turca delle industrie della Difesa e dell’Aerospazio, la Sasad.

Il manager e l’ingegnere: gli uomini della Difesa 

L’industria della difesa turca ruota intorno a due figure chiave: Selcuk Bayraktar, 41 anni, l’ingegnere aerospaziale che ha guidato l’ascesa della Baykar, l’azienda produttrice dei Bayraktar TB-2. E’ anche il cognato di Erdogan, ha sposato la figlia più piccola del presidente, Sümeyye. L’altro è Ismail Demir, un manager vicinissimo a Erdogan che ha passato molti anni di studio e di lavoro negli Stati Uniti ed è a capo delle industrie della difesa turche: di recente è stato sanzionato dagli americani per l’acquisto del sistema russo S-400. Entrambi stanno cercando di far avanzare la capacità aeronautica turca superando i limiti dell’industria nazionale.

Il 15 dicembre ha Turchia ha firmato un accordo con l’Ucraina: forniture militari in cambio di know how nello sviluppo dei droni. “L’Ucraina ha una forte base industriale soprattutto nei motori e nell’elettronica, che può essere utile alla Turchia. Un buon esempio è il drone strategico Akinci, che è in fase di test ed è equipaggiato con due motori turboelica ucraini”, spiega Mevlutoglu. L’altro progetto riguarda lo sviluppo di un jet da combattimento, un obiettivo ambizioso visto che “la Turchia fino ad ora non ha mai prodotto un aereo a reazione” e “non dispone di infrastrutture di test e sviluppo adeguate e di risorse umane per produrre e testare un velivolo da combattimento avanzato. Il roll-out è previsto nel 2023, i primi voli un paio di anni dopo”. In soccorso di Ankara è corsa la Bae Systems britannica che ha un ruolo da consulente tecnico nel progetto.

Il Canada dice no all’export militare, la Germania frena  

Altri Stati si sono disposti invece in maniera diversa nei confronti della crescita militare turca. A ottobre, dopo il conflitto nel Nagorno, il Canada ha sospeso l’esportazione verso la Turchia di componenti che possano essere utilizzati per fare i droni. La Germania si è invece opposta a un embargo totale delle forniture di armi alla Turchia che era stato chiesto dalla Grecia dopo le tensioni nel Mediterraneo Orientale. “Abbiamo già sperimentato una volta come la Turchia, quale membro della Nato, abbia acquistato missili dalla Russia perché non li riceveva più dagli Stati Uniti”, ha detto martedì il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas.

Ulteriori limitazioni potrebbero spingere Ankara a cambiare la sua catena di fornitura, guardando magari a est? Probabilmente la Turchia “aumenterà gli sforzi nell’indigenizzazione delle tecnologie oltre a trovare fonti alternative”, riflette Mevlutoglu. “L’industria della difesa è sempre stata una delle massime priorità in Turchia, indipendentemente dalla visione politica del partito o del leader al potere. Sulla base dell’esperienza dell’embargo statunitense nel 1975 e degli anni ’90 e ultimamente delle sanzioni Caatsa, la Turchia agirà sicuramente in maniera ancora più attiva”.


Azerbaijan, nel conflitto del Nagorno-Karabakh contro l’Armenia sono stati commessi crimini di guerra (Repubblica 22.12.20)

L’europa vile e senza onore abbandona i cristiani armeni (Osservatorio-sicilia 22.12.20)

La tragedia e l’annientamento del popolo armeno (cristiano) nel silenzio vile dell’europa (e rigorosamente minuscola)  mentre l’Italia si piega ad Haftar con Conte e si inginocchia davanti a Alyev con il sottosegretario Di Stefano.  

La viltà politica dell’Europa ormai sottomessa all’Islam sta avendo con la tragedia del popolo armeno, una plastica dimostrazione. Vili e senza onore, i politici europei che assistono al genocidio programmato dal dittatore turco Erdogan con la manovalanza del suo omologo azero, non meno feroce di lui, Alyev.

… e del 2020

Gli azeri con l’assistenza militare ed economica turca che ha diretto dalle retrovie l’operazione armena e pianificato il genocidio, hanno utilizzato mercenari siriani e bande di terroristi della peggior specie, pagati profumatamente non per combattere, ma per uccidere. Sono pagati bene e ottengono 100 dollari per ogni armeno ucciso. Loro non combattono, sono arruolati per tagliare le teste ai kaffir, ovvero gli infedeli cristiani armeni.
In questo contesto si assiste all’incredibile inginocchiamento della politica italiana nei confronti del capo azero. Infatti, incuranti del genocidio in atto, una delegazione parlamentare italiana, alla guida del  sottosegretario agli Affari Esteri Manlio Di Stefano, il deputato di Italia Viva Ettore Rosato e il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso,  si è recata in Azerbaigian ed è stato ricevuto dal Presidente della Repubblica Aliyev , ha incontrato i Ministri degli Esteri Bayramov, dell’Energia Parviz Shahbazov, e il capo dell’Amministrazione presidenziale responsabile della ricostruzione dei distretti tornati sotto controllo azero Samir Nuryev.
La presenza di Di Stefano e gli incontri ad alto livello hanno dato alla visita una impronta “ufficiale”  come a confermare che l’Italia non guarda ai cristiani armeni ma ai suoi carnefici.
Questa è l’europa e questa è l’Italia, un continente e uno stato che con viltà e disonore, hanno voltato le spalle ai cristiani azeri.
Erdogan l’ha promesso. La Turchia arriverà in europa, e l’Armenia è solo il primo passo. Dopo il genocidio del 1915, degli Assiro-Caldei, dei Greci del Ponto, il rais turco sta dimostrando che è ripresa la conquista dell’occidente.

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Siamo preoccupati per la protezione dei beni culturali armeni sotto l’occupazione azera-turca nell’Artsakh. L’Azerbajgian è già inadempiente (Korazym 22.12.20)

Da oltre un mese si moltiplicano gli appelli all’UNESCO perché faccia sentire forte la sua voce e intervenga per la protezione dei beni culturali armeni in Nagorno-Karabakh/Artsakh. Apparentemente potrebbe sembrare solo una questione di supremazia territoriale da parte azera: vincono la guerra e distruggono tutto ciò che rappresenta il nemico. In realtà c’è una ideologia di fondo, la stessa che ha portato i turchi a cancellare le tracce armene nell’Armenia storica. Poichè la narrazione azera è che nella regione gli Armeni sono arrivati solo da poco. Ecco che cercano di eliminare tutto ciò che possa riferirsi alla civiltà armena ed essere datato più indietro nei secoli. Hanno provato far passare le chiese e i monasteri armeni come appartenenti al popolo degli albani del Caucaso ma con scarso successo; hanno distrutto migliaia di katchkar a Julfa. Ecco perché gli Azeri sono pericolosi.

Da oltre un mese l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura è in attesa, nonostante ripetuti contatti, che Baku dia il suo consenso a una missione nel territorio dell’Artsakh ora sotto suo controllo. L’UNESCO sta aspettando una risposta dall’Azerbaigian. Che non arriva.

In un comunicato stampa del 20 novembre scorso, l’UNESCO (di cui sia l’Armenia che l’Azerbajgian sono parti contraenti) aveva ribadito l’obbligo dei Paesi di proteggere il patrimonio culturale ai sensi della Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. L’Organizzazione aveva proposto di svolgere una missione indipendente di esperti per redigere un inventario preliminare dei beni culturali significativi come primo passo verso l’effettiva salvaguardia del patrimonio della regione.

La proposta ha ricevuto il pieno sostegno dei copresidenti del Gruppo di Minsk e l’accordo di principio dei rappresentanti sia dell’Armenia che dell’Azerbajgian.

Riunitisi all’UNESCO il 10 e 11 dicembre 2020, anche i membri del Comitato intergovernativo della Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e del suo secondo protocollo (1999), hanno accolto con favore questa iniziativa e hanno confermato la necessità di una missione per fare il punto della situazione dei beni culturali nel Nagorno-Karabakh e nelle aree circostanti. Il Comitato ha chiesto a ciascuna delle parti di rendere possibile la missione.
Dal 20 novembre, l’UNESCO ha presentato proposte e condotto consultazioni approfondite per organizzare la missione che, ai sensi della Convenzione, richiede l’accordo di entrambe le parti.

Ernesto Ottone Ramirez, Assistente del Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, ha dichiarato: “Solo la risposta dell’Azerbajgian è ancora attesa perché l’UNESCO proceda con l’invio di una missione sul campo. Le autorità dell’Azerbajgian sono state contattate più volte senza successo finora. Ogni settimana che passa rende più difficile la valutazione della situazione dei beni culturali, anche a causa del tempo che si prevede diventerà più rigido nelle prossime settimane. La finestra di opportunità aperta dal cessato il fuoco non deve essere chiusa di nuovo. La salvaguardia del patrimonio è una condizione importante per l’instaurazione di una pace duratura. Ci aspettiamo quindi che Baku risponda senza indugio, in modo che le discussioni costruttive delle ultime settimane possano essere trasformate in azione”.

Questo atteggiamento da parte dell’Azerbajgian non deve certo stupire. Sin dal primo giorno di tregua gli Azeri hanno impostato una narrazione tendente a dearmenizzare il patrimonio culturale della regione.

Il ritardo nell’autorizzazione alla missione degli esperti dell’UNESCO ha evidentemente un duplice scopo: da un lato eliminare fisicamente tutto ciò che può essere distrutto: katchkhar (croci di pietra armeni medioevali), inscrizioni in armeno, inserti architettonici, monumenti; dall’altro alterare il patrimonio più importante cercando di eliminare le peculiarità distintive armene anche attraverso disonesti interventi di restauro.

A oltre quaranta giorni dal cessato il fuoco non sappiamo che fine abbiano fatto le migliaia di reperti armeni esistenti nelle regioni ora occupate dagli Azeri-Turchi. Il precedente delle chiese e monasteri nel Nakhchivan o delle migliaia di katchkhar distrutte dai soldati di Aliyev non è un bel precedente.

Cresce dunque la preoccupazione che nuovi atti di inciviltà colpiscano il patrimonio culturale armeno dell’Artsakh. Occorre vigilare e denunciare.

Ringraziamo per le informazioni l’Iniziativa italiana per il Karabakh, un gruppo di studio, attivo dal novembre 2010, che ha l’obiettivo di far conoscere all’opinione pubblica italiana la Repubblica armena del Nagorno-Karabakh/Artsakh, la sua storia, la sua cultura, il suo territorio. Ma soprattutto il suo diritto all’autodeterminazione ed i principi giuridici e politici che ne sono alla base.

Attraverso la comunicazione l’Iniziativa italiana per il Karabakh si adopera a far giungere anche alla opinione pubblica italiana la voce della Repubblica di Artsakh e dare una mano alla sua gente affinché i propri diritti vengano riconosciuti.

È un dovere morale per ogni europeo stare dalla parte della Repubblica di Artsakh: per l’Europa dei piccoli popoli, per una democrazia costruita dal basso e partecipata, contro la guerra e per un futuro di pace.

L’attività dell’Iniziativa italiana per il Karabakh si articola sul piano dell’informazione (diffusione di notizie sulla Repubblica del Nagorno Karabakh/Artsakh), su quello della formazione (produzione di materiale storico, politico e giuridico) e della progettualità (articolazione di iniziative di sostegno).

L’Iniziativa italiana per il Karabakh – che non ama l’ipocrisia della politica ed in particolare di quella internazionale – guarda al Nagorno-Karabakh/Artsakh come ad un esempio: positivo per il coraggio e la voglia di risorgere dimostrati dopo decenni di sottomissione ed alcuni anni di guerra imposta; negativo per come le diplomazie del mondo cercano di nascondere la realtà delle cose e di indebolire il diritto del Karabakh solo per proteggere i propri interessi petroliferi in Azerbajgian.

Artsakh, una piccola terra abitata da un grande popolo

Il Nagorno-Karabakh, l’antico armeno Artsakh, ha sempre lottato per il proprio sacrosanto diritto all’autodeterminazione. Annesso per scellerate scelte politiche staliniane all’Azerbajgian, costretto alla sottomissione da un dominatore diverso per etnia, cultura, lingua e religione, spinto infine a ricercare la libertà attraverso una lotta lunga e piena di sacrifici.

Sono testardi gli Armeni dell’Artsakh. Forse si piegano ma di sicuro non si spezzano; sanno soffrire e reagire, arroccati in mezzo alle loro montagne verdi. Hanno conquistato democraticamente e legalmente il diritto all’autodeterminazione. Sono stati aggrediti, hanno combattuto ed hanno vinto. Ora sono un popolo libero che però attende ancora giustizia.

La comunità internazionale così solerte ad accorrere in difesa ora di questo ora di quell’altro popolo (specie quando c’è di mezzo il petrolio o qualche importante interesse diplomatico) sembra poco attenta alle vicende dell’Artsakh. Come per il genocidio armeno del 1915, le grandi potenze fanno finta di non vedere. Conoscono, comprendono, le ragioni del Nagorno-Karabakh, ma ad esse antepongono altri interessi, prevalentemente economici. Così, quella guerra interrotta nel 1994 con il cessato il fuoco, ricominciato con l’aggressione azera-turca del 2020 e interrotto con il altro cessato il fuoco imposto dalla Russia, non ha ancora avuto il suggello di un definitivo trattato di pace.

Il Nagorno-Karabakh nel frattempo è divenuto una repubblica salda, con proprie efficienti istituzioni politiche ed amministrative, e dove si svolgono libere e democratiche elezioni. Gli Armeni del Nagorno-Karabakh sono più europei di tanti altri europei e guardano all’Europa come un esempio da seguire. Per questo il loro sforzo di sviluppare le istituzioni secondo i valori del vecchio continente merita attenzione ed aiuto. E noi, come europei e italiani, dobbiamo stare dalla loro parte, per non trasformare ancora una volta il Caucaso in un campo di battaglia solo per proteggere qualche interesse petrolifero.

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Da Lecco l’iniziativa di sensibilizzazione e aiuto concreto al popolo armeno „Solidarietà, parte da Lecco la raccolta fondi per aiutare il popolo armeno“ (Leccotoday 21.12.20)

Da Lecco l’iniziativa di sensibilizzazione e aiuto concreto al popolo armeno

Solidarietà al popolo armeno. A lanciare l’iniziativa di sensibilizzazione e di aiuto concreto è l’associazione “Amici Lecco-Vanadzor Italia Armenia” con sede in Via Calloni a Lecco, alla Cooperativa Libero Pensiero di Rancio. Scopo è portare all’attenzione la drammatica condizione nella quale il popolo armeno si dibatte dopo l’aggressione subita dall’esercito azero, che ha causato morti e feriti e oltre 110mila profughi.

«Abbiamo ricevuto il patrocinio e la condivisione sia del presidente della Provincia di Lecco sia del sindaco della città di Lecco, oltre a un significativo accordo con la Fondazione Comunitaria del Lecchese – spiegano dal sodalizio – Gli aiuti economici verranno infatti canalizzati alla Fondazione e successivamente tramite la nostra associazione agli amici armeni di Vanadzor. Nel contempo abbiamo coinvolto e informato l’intero mondo del lavoro e sociale: le organizzazioni Sindacali, tutte le associazioni imprenditoriali, gli Ordini e i Collegi Professionali, l’Ufficio scolastico provinciale e il Decanato lecchese».

«Abbiamo scelto di dedicare a questo progetto l’intero anno 2021, durante il quale saremo a disposizione per meglio argomentare questa nostra scelta solidale e di amicizia, che nacque nel 1988, anno del disastroso terremoto – proseguono dall’associazione – Sia nelle scuole che in ogni realtà dove verremo chiamati non mancheremo di aggiornare e dare il necessario rilevo all’andamento della raccolta fondi che trasmetteremo ai nostri amici di Vanadzor per la ricostruzione della loro scuola e anche per accogliere i ragazzi profughi con le loro famiglie dal Nagorno Karabakh. Pur considerando le criticità attuali causate dalla pandemia, dalla crisi sanitaria ed economica, siamo consapevoli che i cittadini e le famiglie lecchesi coglieranno la portata e l’elevato profilo della nostra iniziativa solidale nei confronti di un popolo meritevole ed esemplare per la sua dignità».

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L’Armenia sprofonda nella crisi dopo il trattato per la fine della guerra nel Karabakh (Globalvoices 21.12.20)

Armenia e Azerbaigian hanno concordato di cessare le ostilità, ponendo fine alla guerra nel Nagorno-Karabakh.

“Ho preso una decisione molto difficile per noi tutti e per me”, ha ammesso il primo ministro armeno Nikol Pashinyan in una diretta streaming  Facebook [en, come in tutti link successivi, salvo diversa indicazione] nelle prime ore del 10 novembre. “Ho preso questa decisione come risultato di una profonda analisi della situazione militare e le valutazioni di persone che ne sanno di più”.

Questa guerra è andata male per l’ Armenia. Ha annullato molte se non tutte le conquiste della prima guerra Karabakh, combattuta sul palcoscenico del crollo dell’Unione Sovietica. Dal 1994, quella guerra ha abbandonato il Karabakh a se stesso, così come le tante regioni circostanti l’Azerbaigian, sotto il controllo della popolazione etnica armena in uno stato di fatto conosciuto come Repubblica di Artsakh. Centinaia di migliaia di azerbagiani e curdi sono fuggiti o sono stati espulsi nel territorio controllato dal governo azerbagiano.

La guerra scoppiata il 27 settembre era l’ultimo tentativo di Baku di riconquistare Karabakh, e la guerra più seria dal cessate il fuoco del 1994. Un’offensiva azera ha preso prima le fasce dei territori in basso lungo il confine con l’Iran, prima di andare verso nord in un territorio più nel cuore del Nagorno-Karabakh. A inizio novembre, i soldati azerbagiani erano vicini a tagliare l’unico collegamento stradale di Karabakh con gli alleati armeni per la città di Lachin — una strada che migliaia di civili hanno usato per fuggire da Nagorno-Karabakh quando le città erano sotto l’intenso bombardamento dell’esercito azerbagiano.

Da nessuna parte questa guerra era così evidente che a Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh. Di conseguenza, vi fu un punto di svolta quando le forze azerbagiane erano pronte alla conquista di Shusha, un’imponente città collinare che si affaccia su Stepanakert. Il 9 novembre, il Ministro della Difesa azerbagiano ha rilasciato un video che mostrava i soldati azerbagiani fuori il palazzo del sindaco di  Shusha. Intanto gli azerbagiani, in particolare quelli sfollati dalla città, festeggiavano nelle strade  di Baku.

Questi sviluppi hanno sollecitato il presidente di fatto di Artsakh Arayik Harutyunuyan a supportare Pashinyan in una pubblica dichiarazione il 10 novembre. L’accordo di pace, ha dichiarato, era un male necessario dato dallo stato precario delle forze armate armene nel Karabakh e dalla possibilità che un accordo successivo sarebbe meno favorevole.

L’ accordo mediato dalla Russia essenzialmente equivale ad una resa, chiedendo il ritiro delle forze armate armene dalle regioni circostanti il Nagorno-Karabakh in tre fasi fino al dicembre 2020. In particolare, sono stati distribuiti alla regione 2000 soldati russi, lungo la strada che collega l’Armenia al Nagorno-Karabakh,e in quei tre distretti di Nagorno-Karabakh che rimangono sotto il controllo armeno. Lo status di quei territori controllati dagli armeni non è specificato nel testo dell’accordo, e sarà presumibilmente stabilito in negoziazioni future. Inoltre, l’Azerbaigian garantirà anche l’uso delle strade lungo l’Armenia , offrendo un collegamento terrestre alla sua exclave di Nakhchivan.

Una mappa veloce di quali parti del #Artsakh/#Karabakh gli armeni hanno tenuto (in giallo), quali sono state già militarizzate e tenute dall’Azerbaigian (in verde/blu) e il resto, che è circondato dall’Azerbaigian, i termini includono anche la restituzione dell’enclave di Qazakh occupata dagli armeni e la strada per Nakhchivan

Le forze di pace russe  stanno già per arrivare a Nagorno-Karabakh. La loro presenza formale nel territorio è ora vista come un segno importante del raddoppiamento dell’influenza russa nel Caucaso meridionale – un’influenza di cui gli armeni potrebbero risentire dopo che la Russia, che è formalmente il loro alleato nel CSTO, non ha dato all’esercito l’aiuto sperato. L’aiuto entusiasta della Turchia per gli sforzi bellici azerbagiani ha anche consolidato Ankara come un attore nella regione, con multiple risorse indicando che la presenza delle forze di pace turche sarà regolamentata in un documento separato con l’Azerbaigian.

Ma per molti in Armenia, l’accordo è visto come un’umiliazione assoluta.

Non molto tempo dopo che questo è stato annunciato, migliaia di persone sono fuggite nella Piazza della Repubblica della capitale di Yerevan e hanno assalito il palazzo del governo. La folla è subito entrata nel palazzo del parlamento e, in cerca di Pashinyan, in un attimo è entrata nella residenza del primo ministro. Il portavoce del Parlamento Ararat Mirzoyan, un alleato chiave di Panshinyan, è stato trascinato fuori dalla sua macchina e gravemente picchiato.

Molti colleghi del primo ministro sembrano aver preso le distanze da Pashinyan. Armen Sarkissian, presidente dell’ Armenia, ha dichiarato in un comunicato ufficiale questa mattina che non era a conoscenza dell’accordo fino a quando non l’ha saputo dai media.

Pashinyan ha cercato di mantenere un tono discreto nelle recenti dirette streaming su Facebook — il suo mezzo di comunicazione preferito con i normali cittadini. Tuttavia, la società sembra profondamente divisa. Nei social network in lingua armena, la parola ամոթ (“peccato” in armeno) può essere vista accanto al suo nome. Così anche  #iostoconNikol dei sostenitori.

Un ritornello comune sui social media armeni è quello del tradimento— quando il portavoce ha gridato Հաղթելու ենք (“saremo vittoriosi”), la situazione era così poco rosea di quanto loro fossero preparati ad ammettere.

Così mentre l’opposizione armena si schiera dietro la bandiera nel conflitto in Karabakh, ora sembrano mobilitarsi contro il governo. Il 9 novembre, alcuni dei 17 partiti di opposizione hanno rilasciato una dichiarazione chiedendo le dimissioni di Pashinyan come primo ministro. Tutti questi partiti sono extra-parliamentari con una importante eccezione: Prospera Armenia (PAP), guidata dall’influente oligarga Gagik Tsarukyan. La PAP era una degli unici partiti di opposizione ad entrare in parlamento nelle elezioni del 2018, insieme all’Armenia Luminosa. Sebbena la seconda nno abbia segnato la dichiarazione del 9 novembre, molti dei suo legislatori hanno anche richiesto le dimissioni di Pashinyan.

Molti di questi partiti rappresentano al precedente elite che è stata detronizzata dalla Rivoluzione del velluto armena del 2018, che ha mandato al potere Pashinyan con un mandato di lotta contro la corruzione e le impunità. Ma il vigore di Pashinyan nel raggiungimento di quell’obiettivo ha sorpreso e onorato molti — in particolare con sonde di anticorruzione indirizzate ad oligarchi come Tsarukyan e un’indagine sulla soppressione violenta di proteste nel 2008 che ha condotto alla detenzione dell’ex presidente President Robert Kocharyan. Ma queste mosse hanno anche dato a Pashinyan potenti nemici interni. Inoltre, hanno fomentato la sensazione costante che Mosca sia stata turbata dal prospetto di una vittoria di Pashinyan nel proprio paese — che potrebbe essere meno disposto ad ricevere il suo aiuto sul fronte.

Con questi timori di schemi d’opposizione, gli esperti di politica armena come il sociologo Dr. Artyom Tonoyan adesso si chiedono se comincerà una nuova battaglia per la lega della Rivoluzione di Velluto:

Qualunque cosa possa succedere, una sola cosa certa sono le luci rosse che lampeggiano sull’esperimento armeno con la democrazia. È un rischio e potremmo non sopravvivere a questo. Spero di sbagliarmi. Prego di sbagliarmi.

Sebbene molti in Armenia abbiano avuto un grande disappunto per l’accordo, sembrano ugualmente sprezzanti verso coloro che hanno occupato i palazzi del governo la scorsa notte. Secondo Samson Martirosyan, un giornalista del sito indipendente Hetq, rappresentano una vecchia guardia disgraziata [hy]:

Da quel che ho capito, all’inizio quelli [in Piazza della Repubblica] stavano mostrando espressamente il loro dolore e la loro sofferenza. Ma il vandalismo è stato commesso dai tirapiedi della Prospera Armenia, i repubblicani [il precedente partito in carica], il Dashnaktsutyun, e il Kocharyan. Molte persone erano infatti molto silenziose la scorsa notte, piangendo le vittime.

Molte migliaia di civili e soldati sono state uccise in quella che è diventata nota come la Seconda Guerra Nagorno-Karabakh. Qualunque siano state le loro perplessita, gli armeni che hanno perso amici e famiglia nel conflitto saranno sollevati con la fine dello spargimento di sangue.

Ma l’assenza della guerra non è una pace duratura. Nelle passate tre decadi, il conflitto Nagorno-Karabakh ha reso e distrutto leader  in Armenia e Azerbaigian, qualunque siano state le loro alleanze o i sistemi politici in cui erano confinati. Pashinyan sarà il prossimo?

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INTERVISTA CON MARINE GALSTYAN, CHE NELLA SOAP “UN POSTO AL SOLE” INTERPRETA THEA DIMITRU: “PER ME LA GENTILEZZA È UN SEGNO DI GRANDE APERTURA MENTALE” (Spettacolomusicasport.com 20.12.20)

Marine Galstyan è entrata da poche settimane nel cast di “Un Posto al Sole”, in onda da lunedì a venerdì su Rai 3, ma ha colpito subito il pubblico con la sua interpretazione intensa ed emozionante nel ruolo di Thea Dimitru, una giovane madre di origine rom che deve affrontare i pregiudizi e l’intolleranza dei nuovi vicini di casa e che sarà aiutata da Giulia Poggi.

Attrice e ballerina di talento, Marine Galstyan è nata in Armenia, ha studiato all’Accademia di teatro e cinema di Yerevan e da diciotto anni vive e lavora in Italia, dove ha interpretato famosi ruoli teatrali come Nora in “Casa di bambola” di Ibsen e Dorotea in “Pericolosamente” di Eduardo De Filippo. Ha recitato nel tv movie “Tutto il mondo è paese” e nel film “Il resto con i miei occhi” e insieme al marito Sargis Galstyan ha fondato il gruppo teatrale italo-armeno InControVerso.

In questa piacevole chiacchierata abbiamo parlato con Marine Galstyan di Thea ma anche dello spettacolo “Il grande male” e della sua passione per il ballo.

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Marine, poche settimane fa sei entrata a far parte del cast di Un Posto al Sole nel ruolo di Thea Dimitru. Cosa puoi raccontarci riguardo il tuo personaggio?

“E’ un bellissimo personaggio con diversi strati, io sono abbastanza brava nei ruoli drammatici. E’ una donna devota alla famiglia, ai figli, onesta, sincera, ma come abbiamo visto nelle puntate già andate in onda non è ben accettata dalla società e questo è un problema attuale perché purtroppo esistono ancora il razzismo, la discriminazione. Thea non è ben vista dai suoi vicini in quanto appartiene al popolo rom verso il quale ci sono dei pregiudizi legati al fatto che alcune persone hanno scelto le vie facili o non trovando lavori onesti si sono messe a rubare o fare cose sbagliate. Lei invece avendo sani principi subisce un grosso danno da parte della società italiana”.

Com’è stato l’impatto con il set della soap?

“Sono stata diverse volte sul set ma è come se fosse sempre la prima, per me è una magia, è misterioso entrare in un meccanismo nuovo. “Un Posto al sole” poi è un’istituzione quindi mi sono venuti i brividi entrando nel palazzo della Rai dove nei diversi piani vedi le location che esistono da diversi anni. Ho girato una scena che ancora deve andare in onda e mi sono sentita come Alice nel paese delle meraviglie. Ho trovato colleghe professionali, disponibili e gentili e questo mi ha colpito molto”.

Puoi anticiparci qualcosa sugli sviluppi che avrà il tuo personaggio nelle prossime puntate?

“Non posso dire nulla ma finora il pubblico ha visto solo un’anticipazione di Thea, un personaggio che è rimasto nell’aria e che avrà uno sviluppo con un bell’intreccio. E’ entrato nel cast anche suo fratello, che nella realtà è mio marito Sargis. La loro storia porterà forti emozioni”.

Thea deve scontrarsi con i pregiudizi e la diffidenza delle persone. Ti è mai capitato di affrontare situazioni simili?

“Sono stata fortunata perché ho trovato le porte aperte davanti a me ma qualche difficoltà l’ho vissuta. Non essendo nata in questo Paese inconsciamente subisci queste reazioni che fanno male, magari chi hai davanti non nota questo comportamento verso di te, ma è facile offendere o ferire una persona, anche non volutamente. Nei miei ruoli a volte, in termini di emozioni e profondità, prendo spunto dal mio vissuto o da quello di terze parti. Sono 18 anni che vivo in Italia, ho affrontato tante esperienze bellissime e altre meno, che mi hanno fatto diventare la persona che sono oggi, una donna forte, comprensiva, mai arrabbiata perché per me la gentilezza è un segno di grande apertura mentale. In tutti i Paesi ci sono le brave persone e quelle disoneste, è questa etichetta che viene attaccata a un popolo a prescindere che è sbagliata. Bisogna avere una mentalità aperta per dare delle chance e vedere il bello che c’è negli altri”.

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Come ti sei avvicinata alla recitazione?

“A 13 anni non sapevo cosa avrei fatto da grande, un giorno per intrattenere mio padre che era stato operato da poco e doveva stare a casa ho imitato il personaggio maschile di una fiction, che in quel periodo veniva trasmessa in tv, che impazzisce e comincia a ballare. Lui mi ha guardato e ha detto: mia figlia diventerà un’attrice. Mio padre ha piantato questo seme dentro di me ed è nata questa passione. Poi purtroppo dopo qualche mese se ne è andato e io ho voluto tantissimo fare questo mestiere per lui e per me stessa. Le difficoltà da superare sono state tante. All’epoca non potevo andare all’Accademia di teatro e cinema, mia mamma non voleva che la frequentassi perché c’erano tanti pregiudizi a riguardo, così per tre anni ho studiato Giurisprudenza. Poi sono riuscita a convincerla, ho lasciato l’Università e ho frequentato per cinque anni l’Accademia ed è stato il periodo più bello della mia vita perché l’ho vissuto pienamente e ho avuto dei professori eccezionali”.

Cosa rappresenta per te il ballo?

“Sia io che mio marito, che è stato anche primo ballerino del complesso statale di Yerevan, da piccoli abbiamo fatto danza classica come base ma il mio sogno era imparare il tango argentino e il flamenco. Durante gli studi all’Accademia un professore diceva che mi sarei dovuta dedicare o al ballo o alla recitazione, ma dopo le prime messe in scena ha capito che doveva aiutarmi in quanto avrei potuto fare entrambe le arti. Come regista ho diretto ad esempio A porte chiuse di Jean Paul Sartre in cui le idee nascevano con il tango, non era un musical ma uno spettacolo di prosa e creavo quegli intrecci tra due donne e un uomo, i conflitti, la passione, l’odio e l’amore, con i movimenti del tango, quando le parole non bastavano. Non separo queste due discipline perché mentre recito il mio corpo può ballare o viceversa. E’ uno strumento in più che io posso usare”.

Ti piacerebbe recitare in un musical?

“Adoro il musical ma in realtà non è stata mai la mia priorità. Il genere che facciamo con la nostra compagnia italo-armena che si chiama InControVerso è stato definito una dramma-coreografia”.

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Hai portato in scena lo spettacolo “Il grande male” in occasione del centenario di quell’immane tragedia che fu il genocidio armeno nel 1915…

“Abbiamo realizzato nel 2015 questa produzione molto importante che è stata messa in scena al Teatro India di Roma con attori importanti. Il testo è stato scritto in 3-4 anni da Sargis Galstyan che è anche il regista dello spettacolo. Eticamente il conflitto è un genocidio non riconosciuto sia dalla parte che l’ha compiuto, la Turchia, sia dalla maggior parte del mondo. L’argomento è affrontato molto dettagliatamente, con dialoghi riportati fedelmente dalle testimonianze scritte e le immagini dell’epoca proiettate in scena. Grazie a questo spettacolo si possono ottenere tantissime informazioni a riguardo perché le persone non sanno cosa sia davvero accaduto. Stiamo portando avanti questo progetto, inteso come una lezione di storia attraverso il teatro e proveremo, una volta che si ripartirà, a proporlo alle rassegne per le scuole e alle matinée, per far conoscere questa storia”.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

“Lo scorso anno abbiamo realizzato una commedia surreale che si chiama “Pole Dance” sempre scritta e diretta da Sargis Galstyan, riconosciuta come miglior spettacolo della stagione teatrale 2019, siamo stati inseriti nel cartellone del Teatro della Cometa per tre settimane ma poi il lockdown ha fermato tutto. Speriamo che una volta tornati alla normalità si possa riprendere questa commedia che affronta un tema importante e profondo. Vorremmo poi fare un adattamento cinematografico sia di Pole Dance sia de Il grande male. Come attrice sono impegnata anche con “Play Hamlet” dove interpreto Ofelia, ai primi di gennaio girerò un corto che riguarda la corrida nelle vesti di protagonista. Infine sto valutando alcune proposte”.

Cosa ti auguri per il 2021?

“Mi auguro una rinascita del nostro settore, dell’arte, del teatro e del cinema. Abbiamo subito un danno enorme e stiamo soffrendo tanto. Essendo una persona positiva spero ci sia un rinascimento, voglio vedere i teatri aperti, i set cinematografici liberi di creare e produrre, la gente vivere e respirare la cultura. Nel primo lockdown ci siamo salvati grazie all’arte. La gente chiusa in casa non è impazzita perché c’erano film e serie tv”.

di Francesca Monti

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L’appello di Serj Tankian: “Aiutate l’Armenia” (Ilgiornale 20.12.20)

Serj Tankian è il carismatico frontman dei System of a Down, storica band alternative metal nata in California nella prima metà degli anni ’90 ma composta da quattro membri tutti di origine armena.

Un legame profondo, quello con Yerevan, che i System of a Down hanno sempre rimarcato nel corso della loro prolifica carriera che li ha catapultati ai vertici delle classifiche mondiali con capolavori del calibro di Toxicity (2001) e Mezmerize (2005). Nei mesi scorsi, la band ha pubblicato il singolo Protect the land per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su ciò che stava accadendo nel Nagorno-Karabakh. Tankian ha inoltre partecipato al concerto on-line “Per te Armenia”, organizzato da associazioni armene in Italia a sostegno dei rifugiati armeni dall’Artsakh, con il patrocinio della Regione PiemonteIntervistato dall’assessore regionale Maurizio Marrone, Serj Tankian ha raccontato qual’è la situazione nella regione del Nagorno-Karabakh attraverso una testimonianza lucida e toccante.

Tankian: “Turchia e Azerbajan hanno attaccato il popolo del Nagorno-Karabakh”

Partiamo dall’inizio, cioè da cosa è successo alla fine di questo settembre. Ebbene, spiega il cantante dei System of a Down, “il 27 settembre di quest’anno le forze militari combinate di Turchia e Azerbaigian, insieme a mercenari siriani portati appositamente dalla Turchia all’Azerbaigian, hanno attaccato il pacifico popolo del Nagorno-karabakh che vive lì dal 500 d.C. E’ così iniziata una guerra incredibilmente brutale, all’interno della quale si sono registrati molteplici crimini di guerra commessi dall’Azerbaigian e dalla Turchia in termini di bombardamenti sulle infrastrutture civili e della popolazione di Stepanakert e di molte altre cittadine dell’Artsakh. Le persone hanno dovuto rifugiarsi dentro a rifugi improvvisati, altre sono dovute fuggire e si sono registrati anche episodi di decapitazioni, torture sui prigionieri politici e i prigionieri di guerra“.

Oggi, prosegue Tankian, “con il cessate il fuoco firmato il 9 novembre, la situazione resta molto precaria con la con le truppe di peacekeeping russe intervenute sul terreno e la regione dell’Artsakh sostanzialmente divisa in due. Ora la maggior parte delle nostre chiese e del nostro patrimonio millenario sono nelle mani dell’Azerbaijan, un paese che in passato ha già dimostrato di non essere degno di fiducia per quanto riguarda la tutela di questi simboli. Croci distrutte, chiese devastate…“.

“Hanno bombardato le nostre Chiese: aiutateci”

Come sottolinea il cantante della band statunitense, gli azeri, durante la guerra, “per due volte nello stesso giorno hanno bombardato una delle più antiche chiese Artsak, a Sushi, con missili di precisione. Il tutto mentre al suo interno, dentro un rifugio, vi erano famiglie che si nascondevano. In quel caso un giornalista è anche rimasto ferito ed è stato necessario ricoverarlo in ospedale. Sono stati momenti terribili e anche le conseguenze della guerra lo sono state, dal momento che hanno creato un’enorme catastrofe umanitaria per la popolazione dell’Artsak e gli armeni“.

Drammatica la situazione dei rifugiati: e la pace è appesa a un filo. “Ci sono oltre centomila persone sfollate che non sanno quando potranno tornare dal momento che non hanno nessuno che possa davvero proteggerle. Al momento ci sono le truppe di peacekeeping russe da una parte, e le forze turco-azere dall’altra. E questo non potrà essere così per sempre. L’accordo sul cessate il fuoco sarà solo per 5 anni” spiega l’artista nato in Libano da genitori armeni.

L’appello: riconoscere la Repubblica di Artsakh

Come sottolinea Tankian, in questa guerra brutale, ci sono stati alcuni episodi tipici “di una guerra religiosa“, specialmente “con l’arrivo dei terroristi jihadisti dalla Siria, ma penso che la maggior parte di queste azioni sia stata utilizzata più come strategia militare, che di estremismo religioso. Stanno cercando di sconfiggere i cuori e le menti della nostra gente, stanno cercando di deprimerci dicendo: “Guardate cosa facciamo alla vostra cultura“. Cosa può fare l’Italia in questo contesto? La risposta è chiara: riconoscere la Repubblica di Artsakh, come peraltro stanno facendo moltissimi comuni in tutta la penisola.

Dobbiamo spingere l’Unione europea a fare la cosa giusta e sanzionare la Turchia” osserva l’artista. “Dobbiamo spingere l’Unione europea attraverso il parlamento italiano, attraverso il parlamento olandese, attraverso il parlamento francese, il bundestag tedesco, tutti a sanzione la Turchia e l’Azerbaigian, tutti a riconoscere l’Artsak. Così che quando al gruppo Osce di Minsk ci si siederà ai tavoli per i negoziati di pace si possa avere un po’ più di peso e di influenza contro gli aggressori di questa guerra“. Le autorità italiane raccoglieranno l’appello dell’artista – e di molte altre associazioni – o lasceranno l’Armenia da sola?

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