Alla Parata della vittoria la svolta pan-turca di Erdogan (Tempi.it 20.12.20)

Altro che il neo-ottomanesimo: l’ideologia su cui Recep Tayyip Erdogan ha deciso di imperniare la sua politica estera negli anni a venire è il pan-turchismo, e i paesi che devono sentirsi minacciati non sono tanto quelli dell’Unione Europea, quanto l’Iran e la Russia. È quello che emerge dal discorso tenuto dal presidente turco durante la Parata militare della vittoria organizzata dal presidente azero Ilham Aliyev a Baku il 10 dicembre scorso per celebrare la riconquista di molti territori da parte dell’Azerbaigian nella recente guerra del Nagorno Karabakh. Parata della quale Erdogan era ospite d’onore nonché unica personalità a condividere il palco presidenziale e a tenere un discorso pubblico dopo quello del capo dello Stato azero.

I riferimenti del presidente turco all’islam sono stati generici e quelli all’eredità ottomana nulli. Ha invocato il nome di Allah per chiedere l’eterno riposo per i “martiri” della guerra e futuri successi per i due popoli, con la tipica formula “inshAllah”, “se Dio vuole”: turchi e azeri sono musulmani, ma i primi sono sunniti mentre i secondi sono di tradizione sciita. Inoltre gli azeri sono etnicamente turchi, ma non hanno mai fatto parte dell’Impero Ottomano, lo hanno anzi combattuto: cagiari e safavidi, tribù turche dell’Azerbaigian, hanno governato l’impero persiano rivale di quello ottomano per più di quattro secoli, fino al 1925.

Guerra mondiale

Molto più significativo è stato il riferimento di Erdogan ai protagonisti degli ultimi giorni dell’Impero Ottomano, che tentarono di riorientare la politica dell’impero morente in direzione dell’unità dei popoli turchi: «Oggi», ha detto, «le anime di Nuri Pascià, di Enver Pascià e dei coraggiosi soldati dell’Esercito Islamico del Caucaso si rallegreranno». Enver Pascià, com’è noto, fu uno dei tre componenti del triumvirato che decise la partecipazione dell’Impero Ottomano alla Prima Guerra mondiale, che si concluse con la sua rovina. Insieme agli altri due, Mehmed Talat e Ahmed Cemal, è considerato anche responsabile del genocidio degli armeni, per il quale i tre furono condannati a morte in contumacia da un tribunale militare a Istanbul nel 1919. I triumviri avevano preso il controllo del Comitato per l’Unione e il Progresso (più tardi Partito dell’Unione e Progresso) e l’avevano trasformato in una forza politica che promuoveva il panturchismo. Enver, ministro della guerra, nel luglio 1918 ordinò la creazione dell’Esercito Islamico del Caucaso per conquistare i territori russi caucasici che erano rimasti sguarniti dopo il crollo dell’Impero zarista. Nel mese di settembre occupò Baku, ma fu costretto a deporre le armi dopo la resa dell’Impero Ottomano il 30 ottobre. Enver fu l’unico dei triumviri a sfuggire alla vendetta degli armeni – Talat fu ucciso a Berlino nel 1921 e Cemal a Tbilisi nel 1922 da agenti dell’Operazione Nemesi della Federazione rivoluzionaria armena – ma morì anche lui nel 1922 in Tagikistan, dove partecipava a una rivolta anti-sovietica della popolazione locale musulmana. Nuri Pascià, l’altro personaggio evocato da Erdogan, era fratellastro di Enver, da lui nominato a capo dell’Esercito Islamico del Caucaso. Sopravvisse alla guerra ma fu emarginato dopo l’ascesa al potere di Kemal Ataturk, che per realismo aveva rinunciato alle ambizioni pan-turche per concentrarsi sulla costruzione dello Stato turco in Anatolia. Nel 1941 Nuri, insieme ad altri ufficiali dell’esercito di orientamento pan-turco, incontrò l’ambasciatore Franz von Papen per convincere la Germania nazista ad appoggiare la loro causa. Il risultato più cospicuo fu la creazione della Legione turchestana, un’unità militare di 16 mila uomini turcofoni provenienti da varie regioni dell’Unione Sovietica che combatté al fianco della Wehrmacht in Francia e in Italia. Nuri poi si recò a Berlino per convincere i nazisti ad appoggiare l’indipendenza dell’Azerbaigian, ma senza successo.

Iran e Russia

I russi hanno tutti i motivi per preoccuparsi della retorica di Erdogan, perché oltre a rappresentare la maggioranza in cinque stati nati dallo scioglimento dell’Unione Sovietica (Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan), popolazioni turcofone sono presenti in tredici repubbliche facenti parte della Federazione Russa: il progetto pan-turco è un attentato all’integrità territoriale della Russia. Discorso analogo vale per l’Iran. Nel corso del suo intervento Erdogan ha recitato una poesia irredentista del poeta azero Bakhtiyar Vahabzadeh che dice così: «Hanno diviso il fiume Aras e lo hanno riempito di sabbia. Non sarò separato da te. Ci hanno separato con la forza». Il fiume Aras (o Araz) segna il confine fra Armenia e Azerbaigian da una parte, Iran dall’altra, ma separa anche l’Azerbaigian persiano, appartenente alle Repubblica iraniana, dall’Azerbaigian propriamente azero. Non esistono statistiche ufficiali sul numero di azeri che vivono in Iran, che potrebbe oscillare fra i 12 e i 15 milioni. Il ministero degli Esteri iraniano ha reagito con durezza: «L’ambasciatore turco è stato informato che l’era delle rivendicazioni territoriali e dell’espansionismo imperiale è finita. L’Iran non permette a nessuno di interferire con la sua integrità territoriale», recita un comunicato sulla pagina web del ministero.

Una colonizzazione di fatto

Il progetto pan-turco spiega anche la miscela di lusinghe e minacce nei confronti dell’Armenia che ha caratterizzato gli interventi di Aliyev ed Erdogan alla Parata della vittoria e alla successiva conferenza stampa. Non che offrire il ramo di ulivo, nel suo discorso Aliyev ha rivendicato per l’Azerbaigian territori che si trovano nell’Armenia internazionalmente riconosciuta: «La politica aggressiva dell’Armenia è cominciata negli anni Ottanta. A quel tempo, 100 mila azeri che vivevano nell’attuale repubblica di Armenia furono espulsi dalle loro terre ancestrali. I distretti di Zangazur, Goycha e Iravan sono nostre terre storiche. La nostra gente ha vissuto in quelle terre per secoli, ma la leadership armena espulse 100 mila azeri dalle loro terre natìe a quel tempo». Erdogan, dopo aver evocato la figura di Enver che tutti gli armeni del mondo associano al genocidio del 1915, è invece passato alle lusinghe, assicurando che se il governo armeno riconosceva i suoi errori del passato, poteva iniziare una nuova era di rapporti: «Speriamo che i politici armeni analizzino bene tutto, e compiano passi coraggiosi per costruire un futuro basato sulla pace e la stabilità. (…) Se il popolo armeno impara una lezione da quello che ha sperimentato nel Karabakh, sarà l’inizio di un nuova era nella regione». Nella conferenza stampa successiva Aliyev ha esposto il suo progetto di un partenariato per la pace regionale aperto anche all’Armenia, una volta che questa abbia rinunciato ad ogni pretesa sul Nagorno Karabakh. Il presidente azero immagina un raggruppamento composto da Azerbaigian, Turchia, Iran, Russia, Georgia e Armenia. Erdogan ha manifestato il suo favore per il progetto, che comporterebbe la riapertura delle vie di terra della Turchia e dell’Azerbaigian con l’Armenia, chiuse da trent’anni: «Se l’Armenia si lascia alle spalle le sue irrazionali ambizioni, un giorno potrà essere parte delle nostre alleanze regionali. Abbiamo distrutto il loro esercito, ma facciamo appello perché l’Armenia collabori con noi». In realtà la condizionata apertura agli armeni è perfettamente funzionale al progetto pan-turco: l’Armenia rappresenta l’unica interruzione della continuità territoriale fra stati turcofoni che va dalla Turchia fino ai confini di Kazakistan e Kirghizistan con la Cina. Tentare di annientarla causerebbe reazioni internazionali; meglio annunciare obiettivi, come quello del ritorno di 100 mila azeri nelle province dell’Armenia e la costruzione di nuove strade che partendo dalla Turchia attraversino l’Armenia e l’Azerbaigian, che comporterebbero una colonizzazione di fatto del territorio armeno da parte dei più numerosi e più economicamente sviluppati vicini turcofoni. A quel punto la strada per l’integrazione politica dei popoli turchi da Istanbul ad Alma Ata sarebbe spianata.

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RUSSIA. Putin spiega la posizione di Mosca sul Nagorno Karabakh (Agcnews 19.12.20)

Il presidente russo Vladimir Putin ha spiegato la posizione della Russia sul cessate il fuoco del Nagorno-Karabakh il 17 dicembre. Durante la conferenza stampa annuale a Mosca, Putin ha sottolineato che la regione è parte integrante dell’Azerbaigian secondo il diritto internazionale.

«Dal punto di vista giuridico internazionale, tutti questi territori sono parte integrante della Repubblica dell’Azerbaigian. Così è stata costruita la nostra posizione nel Gruppo di Minsk, dove Russia, Stati Uniti e Francia sono copresidenti. Per molti anni, abbiamo sempre pensato che le sette aree tenute intorno al Nagorno-Karabakh dovessero essere restituite all’Azerbaigian», ha detto Putin, riporta Hurriyet.

«Lo stato attuale del Karabakh dovrebbe rimanere invariato, con la condizione obbligatoria di creare un canale di comunicazione tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh», ha detto, aggiungendo che il corridoio di Lachin, che collega il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, è stato creato per questo scopo. Putin ha sottolineato che lo status del Nagorno-Karabakh «dovrebbe essere trasferito al futuro», notando: «Lo status quo nel Nagorno-Karabakh dovrebbe essere fissato».

Alla domanda sulla posizione della Turchia nel conflitto, Putin ha risposto: «La Turchia ha difeso, come credono, la giusta causa dell’Azerbaigian, cioè il ritorno dei territori occupati durante gli scontri degli anni Novanta».

Il presciente russo si è rifiutato di speculare sulle ragioni esterne dell’ultimo focolaio in Karabakh, dicendo: «La tensione è durata per molti anni (…) Non credo che sia stata causata da interferenze esterne. Molte volte ci sono state tensioni, scontri e piccole sparatorie. Come risultato, si è sviluppato in un conflitto», ha detto.

Putin ha osservato che l’accordo trilaterale tra Russia, Armenia e Azerbaigian ha assicurato le posizioni delle parti in conflitto nelle loro sedi quando è stato raggiunto l’accordo sul cessate il fuoco: «Questo accordo sulla cessazione delle ostilità è molto importante. Perché ha fermato lo spargimento di sangue, i civili hanno smesso di morire, questa è una cosa estremamente importante, è fondamentale. Tutto il resto è secondario. Salvare la vita e la salute delle persone è il compito più importante che abbiamo risolto», ha detto il presidente russo.

Commentando la recente violazione del cessate il fuoco, Putin ha espresso la speranza che non si ripeta mai più. Per quanto riguarda un possibile aumento del numero di truppe russe per il mantenimento della pace nella regione, ha detto che può essere fatto solo con l’approvazione di tutte le parti, perché le sue dimensioni sono state negoziate e concordate nella fase di stesura dell’accordo di cessate il fuoco.

«Se tutti giungono alla conclusione che ciò è necessario per aumentare il numero delle forze di pace, lo faremo, altrimenti non lo faremo», ha detto Putin.

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In Armenia marcia in memoria vittime Nagorno-Karabakh (Ansa 19.12.20)

EREVAN – Il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha guidato una marcia in memoria dei morti nelle sei settimane di guerra con l’Azerbaigian per la regione caucasica del Nagorno-Karabakh, cui hanno partecipato migliaia di persone, e che dà il via a tre giorni di lutto proclamati nel paese caucasico.
Ma le tensioni si fanno pressanti su Pashinyan, di cui l’opposizione chiede le dimissioni per l’esito del conflitto in seguito a un accordo dettato dalla mediazione della Russia, giudicato “umiliante”, e con la perdita di circa 3.000 armeni.    L’opposizione ritiene infatti che il leader 45enne abbia tradito la causa nazionale accettando un accordo alle condizioni azere.
Da parte sua Pashinyan ha affermato di non avere intenzione di fare un passo indietro e che quell’accordo costituiva l’unica opzione per l’Armenia e l’unica possibilità per la sopravvivenza della regione del Karabakh. (ANSA).


Armenia, veglia per i morti del Karabakh e tre giorni di lutto nazionale (Ansa)

Armenia: tre giorni di lutto nazionale per le vittime del Nagorno (Euronews)

Armenia, marcia in memoria vittime Nagorno-Karabakh (Swissinfo)

L’opposizione armena vola a Mosca (Insideover.com 19.12.20)

Sullo sfondo della tensione sociale, che ha assunto la forma di una vera e propria disobbedienza civile, si sta assistendo all’aumento dei tentativi delle forze di opposizione di aprire un canale di dialogo con Mosca.

Due viaggi sospetti

Il 17 dicembre è avvenuto qualcosa di singolare lungo l’asse Yerevan-Mosca. Quel giorno, infatti, due personaggi di primo piano della politica armena sono partiti alla volta della capitale russa; trattasi di Edmon Marukyan e Robert Kocharyan. Entrambi i viaggi sarebbero stati organizzati per motivi che esulano dalla politica e, soprattutto, sarebbe una coincidenza che i due siano partiti lo stesso giorno in direzione della stessa meta.

Marukyan è uno dei volti più noti dell’attuale opposizione, essendo il capo del partito Armenia Luminosa, mentre Kocharyan è stato il secondo presidente dell’Armenia. Aren Petunts, portavoce di Armenia Luminosa, non ha rilasciato dettagli sul viaggio improvviso di Marukyan, limitandosi ad annunciare che sarebbe stato di breve durata. Anche l’ufficio stampa dell’ex presidente non si è sbilanciato eccessivamente: Kocharyan, partito ufficialmente per una “visita privata”, avrebbe fatto ritorno il 20.

Leggere la politica è come seguire un’indagine: un analista, al pari di un investigatore, non può credere nelle coincidenze. Tutto, in breve, anche l’evento apparentemente più insignificante, potrebbe essere un indizio o una prova. Il fatto che due figure del calibro di Marukyan e Kocharyan siano partite lo stesso giorno, in maniera riservata e per dirigersi nella stessa direzione, non prova nulla, ma è quantomeno sospettoso.

Non è da escludere che i due possano essere stati invitati per discutere di quanto sta accadendo in Armenia, della situazione nel Nagorno Karabakh e, soprattutto, del dopo-Pashinyan. Marukyan, essendo uno dei papabili alla successione del primo ministro, potrebbe essersi recato a Mosca per presentare la propria agenda e ottenere la benedizione del Cremlino.

Tentare di analizzare la presenza di Kocharyan è molto più complicato: essendo la sua immagine pubblica compromessa in maniera irrimediabile da una serie di scandali, anche gravissimi, è da escludere che possa essere stato sentito in qualità di “presentabile”. L’ex presidente, però, potrebbe rivelarsi utile su altri dossier, dal controllo delle piazze, in virtù dei suoi legami con spionaggio e sicurezza, al monitoraggio del Nagorno Karabakh, dove, nelle ultime settimane, il cessate il fuoco ha rischiato di collassare.

L’identikit del duo

Marukyan è l’attuale presidente di Armenia Luminosa, un partito di natura liberale, filo-occidentale e “russo-scettico”, che, a partire dal dopoguerra, ha iniziato un percorso di riallineamento geopolitico in direzione di Mosca. Marukyan sta cavalcando le proteste popolari contro il primo ministro, sta guidando la lotta contro l’esecutivo in sede parlamentare e ha anche avvicinato l’attuale presidenteArmen Sarkissian.

Kocharyan è un pragmatico: di origine karabakha, la sua fama di veterano – ha combattuto nella prima guerra del Nagorno Karabakh – gli ha consentito di venire eletto dapprima alla presidenza dell’Artsakh, dal 1994 al 1997, e successivamente dell’Armenia, dal 1998 al 2008. L’era Kocharyan è ricordata per il miracolo economico, per l’apertura di un tavolo negoziale con Ilham Aliyev, ma anche per gli scandali (l’omicidio di Poghos Poghosyan) e per le proteste di piazza che ne hanno determinato la caduta e la prosecuzione penale.

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Come manovra la Russia tra Armenia e Azerbaigian (Startmag 18.12.20)

Che durante le guerre di ieri come quelle di oggi i crimini contro l’umanità siano una drammatica costante dovrebbe ormai essere una verità acclarata. Negli ultimi giorni sono stati messi online numerosi video che documenterebbero le atrocità che sarebbero state commesse durante il recente conflitto in Nagorno-Karabakh dai soldati azeri contro inermi civili armeni e contro i prigionieri di guerra.

Ora, indipendentemente dal fatto che questi video siano autentici o meno — sarebbe stata la Russia a diffonderli per screditare l’Azerbaigian — la reazione dell’opinione pubblica è stata immediata e durissima sia da parte dell’ufficio del procuratore di Stato di Baku — che ha annunciato l’avvio di un procedimento penale per fare luce sui crimini commessi nei confronti dei corpi dei militari armeni uccisi durante i combattimenti — sia da parte di Human Rights Watch che ha opportunamente ricordato come le esecuzioni extragiudiziali e lo spoglio dei morti siano crimini di guerra che devono essere oggetto di indagine penale.

Questi drammatici eventi — indipendentemente dall’autenticità che sarà verificata in un secondo momento dalle autorità locali e da quelle internazionali — costituisce un ottimo spunto per riflettere sul ruolo che la Russia ha avuto — e avrà — in Armenia e in Azerbaigian.

Sia per l’Armenia che per l’Azerbaigian, due ex repubbliche sovietiche, la Russia è la vecchia metropoli. Naturalmente, trent’anni dopo la caduta dell’Urss, il passato sovietico sta svanendo. Diventate indipendenti, queste ex repubbliche sovietiche si sono emancipate e hanno subito profonde trasformazioni.

L’Armenia ha mantenuto un rapporto molto privilegiato con la Russia: membro della CSTO, nel 2015 ha firmato un accordo che istituisce un sistema di difesa aerea congiunto con la Russia, rafforzato da un trattato bilaterale (2016, ratificato nel 2017) creando forze armate congiunte con comando congiunto. L’Armenia ospita anche truppe delle guardie di frontiera russe (4.500 uomini schierati ai confini turco-armeno e armeno-iraniano) e un’importante base a Gumri (in conformità con un accordo in scadenza nel 2044). L’Armenia mantiene anche strettissime relazioni economiche con la Russia.

L’Azerbaijan si è allontanato ulteriormente dalla Russia: non è membro della CSTO [ci sono però accordi una tantum con la Russia in campo militare] e si è chiaramente avvicinato alla Turchia che, in tutti i settori, è diventata il suo principale partner strategico.

Nonostante queste notevoli differenze, Mosca rimane, per questi due stati, assolutamente essenziale per il ruolo centrale svolto nella risoluzione del conflitto del Karabakh. Al di là di queste contingenze politico-strategiche, la Russia è semplicemente una realtà geopolitica e geoeconomica che si impone, in Armenia come in Azerbaijan, così come in Georgia. È anche un mercato di esportazione essenziale per i loro prodotti, nonché la sede delle diaspore transcaucasiche numericamente molto importanti.

Tuttavia, per comprendere chiaramente il ruolo della Russia in questo contesto, è necessario tenere presente che il Caucaso settentrionale è posto sotto la sovranità della Federazione Russa, mentre il Caucaso meridionale è composto da tre stati indipendenti riconosciuti (Armenia, Azerbaijan, Georgia) e altri tre non riconosciuti ma che sono comunque stati de facto: Abkhazia e Ossezia del Sud (ex entità autonome della Georgia) e Nagorno-Karabakh (ex entità autonoma dell’Azerbaigian, popolata da armeni).

Nel Caucaso settentrionale, Mosca difende la propria integrità territoriale, in particolare contro le minacce secessioniste e/o terroristiche islamiche. In Transcaucasia, la Russia agisce come una potenza post-imperiale. Ci sono molte continuità con il periodo sovietico, ma soprattutto con le strategie attuate dall’acquisizione di questa regione da parte dell’Impero russo nella prima metà del XIX secolo. Il quadro di queste strategie consiste nel svolgere il ruolo di potere tutelare e porsi come arbitro dei molteplici e inesauribili conflitti tra etnie, che San Pietroburgo e poi Mosca (dopo il 1917) hanno continuato a utilizzare al meglio per consolidare la loro posizione egemonica della regione.

Ora per quanto riguarda la guerra del Nagorno-Karabakh nel 2020 si tratta di un conflitto asimmetrico tra gli armeni del Karabakh — l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, un’enclave che, prima della guerra, copriva un’area di 11.430 km2 e popolata da meno di 149.000 abitanti (dati 2015), sostenuta dalla vicina Armenia (ufficialmente 3 milioni di abitanti), alleata della Russia, ma che quest’ultima non sostiene in questo conflitto — da un lato e l’Azerbaigian (86 6 00 km2, poco più di 10 milioni di abitanti nel 2015), sostenuto dalla sua alleata Turchia, il secondo esercito della Nato dall’altro.

Il potere economico e militare dei due contendenti è asimmetricamente proporzionale. Era quindi logico che la potenza azera, nella sua associazione con la potenza turca, dovesse vincere.

Tuttavia, va osservato che l’operazione Steel Fist, lanciata da Baku come Blitzkrieg, non ha avuto il successo previsto, in quanto ha portato a una guerra che è durata 45 giorni, che dimostra la capacità di combattere e la resistenza degli armeni, nonostante la loro evidente inferiorità tecnologica. C’è anche un’altra asimmetria, abbastanza fondamentale, il che significa che questo conflitto non è una semplice “rivalità”. Se si tratta di un conflitto di natura territoriale per l’Azerbaijan (riprendere il controllo regione secessionista persa di fatto dal 1991 e poi ripopolata), per gli armeni, è invece una vera guerra di gran lunga più rilevante, una Guerra volta a riappropriarsi di un territorio che storicamente gli appartiene, sullo sfondo della paura del verificarsi di un nuovo genocidio perpetrato dai “turchi” (siano essi dell’Azerbaigian o dell’Anatolia), dopo quello del 1915 o i pogrom anti-armeni commessi in Azerbaigian nel 1988. E su questo punto, le ultime dichiarazioni dei Presidenti Erdogan e soprattutto Aliev — che ha appena annunciato di voler conquistare gran parte del territorio dell’Armenia — alimenta e giustifica solo queste paure.

Per quanto riguarda l’accordo di cessate il fuoco firmato il 10 novembre sotto l’egida di Sergey Lavrov questo mette al comando la Russia, con il dispiegamento per almeno cinque anni di una grande forza di interposizione russa nella regione. Questa forza non solo dispiega mezzi militari, ma anche un soft power che rassicura e seduce la popolazione locale. Ma l’accordo del 10 novembre non fa nulla per regolare lo status del Nagorno-Karabakh.

L’ulteriore sviluppo dipenderà dai negoziati che saranno condotti tra Armenia e Azerbaigian, nonché dal quadro entro il quale tali negoziati saranno condotti. Sono possibili tre ipotesi: la riattivazione del Gruppo di Minsk nel quadro dell’Osce (con le co-presidenze francese, russa e americana), che è il quadro finora prevalente; l’apertura di un nuovo quadro negoziati russo-turchi (o anche russo-turco-iraniani), sul modello del “Processo di Astana” (avviato dall’accordo di Astana, firmato il 4 maggio 2017 da Russia, Iran e Turchia, stabilire quattro zone di cessate il fuoco in Siria) — un quadro che esclude completamente l’Occidente dal gioco, o anche una miscela dei due.

Un altro aspetto da sottolineare è il fatto che la guerra tra Armenia e Azerbaigian mette in luce la complessità del partenariato russo-turco a 360 gradi.

La Russia vede infatti il conflitto del Nagorno-Karabakh in un continuum geostrategico che si estende dal Caucaso settentrionale al Medio Oriente, compresi il Mar Nero e il Mediterraneo orientale. Da questo punto di vista, ciò che conta non è tanto la protezione a tutti i costi del suo alleato armeno, per quanto caro e prezioso sia, ma il mantenimento di un favorevole equilibrio di potere con Ankara. E questo equilibrio di potere si sta sviluppando contemporaneamente in più aree — Caucaso, Siria, Libia — che devono quindi essere analizzate come tali, ma anche nelle loro molteplici interazioni. La politica estera russa porta senza dubbio il sigillo della Realpolitik. È essenziale mantenere un rapporto di “partnership” (questo è il termine comunemente usato) con la Turchia.

In questa vasta area del Caucaso-Vicino Oriente-Mediterraneo orientale, la Russia è posizionata come la forza trainante dei “partenariati” tra le potenze regionali — Russia, Turchia e Iran, vale a dire i tre ex russi, persiani e Ottomano — che esclude, per quanto possibile, il blocco occidentale e il suo stretto alleato Israele. Senza esprimerlo in modo esplicito, questo è forse ciò a cui la Russia punta per l’intera regione del Caucaso maggiore-Mar Nero-Medio Oriente.

Nel lusingare le ambizioni strategiche di indipendenza della Turchia portate avanti da Erdogan, Vladimir Putin, nel suo ultimo discorso al “Forum Valdai” il 22 ottobre nascondeva a malapena il desiderio di vedere l’emergere di una Turchia veramente indipendente, libera dalla Nato e dal blocco occidentale, con cui la Russia poteva sinceramente “trattare” come meglio crede. Perché non dobbiamo perdere di vista il fatto che i conflitti nella grande regione Caucaso-Mar Nero-Medio Oriente sono sullo sfondo della “nuova guerra fredda” tra Russia e blocco occidentale, in pieno svolgimento dal 2008.

Ma anche l’Iran è un attore centrale nel conflitto del Nagorno-Karabakh. Tradizionalmente alleato con Yerevan, mantiene anche molte relazioni con Baku sia per le dimensioni della sua diaspora azera sia per il fatto che l’Azerbaigian rimane un paese sciita. Ebbene l’Iran è stato discreto in questa guerra nel Nagorno-Karabakh, che si stava svolgendo a 50 km dal suo confine settentrionale. In diverse occasioni Teheran ha ribadito il suo attaccamento al principio di integrità territoriale, mostrando in apparenza un sostegno indiretto per la parte azera. Eppure, in effetti, i rapporti dell’Iran con l’Armenia sono buoni, tanto che possono quasi essere definiti un’alleanza non detta.

Tuttavia, l’Iran teme molto l’Azerbaigian, la cui capacità di nuocere è, per Teheran, molto reale. Basta fare riferimento a tre elementi: primo, la guerra “sposta le linee” in termini di confini, poiché l’Armenia di fatto controllava — tramite l’occupazione dei territori situati sul fianco meridionale del Nagorno-Karabakh — vaste aree del confine con l’Iran che torna sotto il controllo azero; secondo esiste una forte minoranza azera in Iran (tra i 15 e i 18 milioni, ovvero quasi il 20% della popolazione iraniana); ultimo ma non meno importante, l’Azerbaigian è diventato uno stretto alleato di Israele, che fornisce a Baku armi avanzate e che ha stabilito una “base” dell’intelligence iraniana in Azerbaigian.

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I genocidi di cristiani dell’Impero Ottomano (Insideover 18.12.20)

Per lunghi secoli la dominazione turco-ottomana di vaste regioni del Medio Oriente dell’Europa orientale portò sotto l’autorità dei sultani di Istanbul numerose popolazioni cristiane. Nonostante una narrazione da “scontro di civiltà” ed effettivi momenti in cui la battaglia tra l’Impero turco e le principali potenze europee assunse connotati da scontro tra cristianità ed Islam (come dimostrato dalla battaglia di Lepanto del 1571) per lunghi secoli le popolazioni cristiane furono parte integrante della società imperiale. Tanto che nella “leva” compiuta dalle autorità ottomane nelle terre abitate da cristiani, il devishirme, i sultani di Istanbul più volte trovarono l’occasione di creare corpi militari come quello dei giannizzeri e burocrazie capaci di controbilanciare la tradizionale nobiltà turca.

La fase conclusiva della storia dell’impero fu però caratterizzata da un tragico strascico, essendo caratterizzata da ben diversi episodi di stermini di massa di popolazioni cristiane che per secoli erano state fedeli all’Impero: l’ultimo mezzo secolo che precedette la disfatta nella prima guerra mondiale fu un climax ascendente di tensioni e violenze che esplosero nei tre grandi genocidi dell’era della Grande Guerra. Al genocidio armeno, in cui furono uccisi oltre 1,5 milioni di cristiani appartenente alla nazione armena, si aggiunsero due massacri sistemici meno noti nel contesto della drammatica storia del Novecento, ma nel cui contesto perì un numero di persone superiore a quello del massacro degli armeni: il genocidio dei cristiani assiri che vivevano nell’attuale Iraq (di rito nestoriano, siriaco e caldeo), che provocò 900mila vittime, e quello delle popolazioni di etnia e cultura greca e religione cristiane viventi in Anatolia, proseguito fino al 1922, in cui furono uccise 700mila persone.

Il bagno di sangue in cui l’Impero Ottomano, nella fase conclusiva della sua storia, trascinò popolazioni che erano state parti integrante della sua storia ha le sue radici in tre fattori avviatisi a inizio XIX secolo: il progressivo ridimensionamento territoriale del dominio della Sublime Porta, l’ascesa di crescenti appetiti coloniali stranieri sui suoi territori strategici e lo sdoganamento del nazionalismo turco da parte di numerose èlite di potere alternatesi nel controllo decisionale delle strategie dell’Impero.

Nei primi due casi, l’Impero ottomano subì numerose amputazioni territoriali, molte delle quali legate a proclamazioni d’indipendenza in cui l’elemento religioso cristiano assunse a fattore determinante (come quella della Bulgaria) o agli appetiti delle potenze europee (pensiamo all’annessione della Bosnia da parte dell’Austria-Ungheria e all’invasione italiana della Libia); l’orgoglio nazionale ferito fu utilizzato come elemento catalizzatore della svolta politica imposta da gruppi come quello dei Giovani Turchi per evolvere le dottrine politiche dominanti nell’Impero. I Giovani Turchi guidarono dal 1908 in avanti un’agenda politica fatta di graduale incentivazione del nazionalismo turco in cui venivano considerati come esterni al ceppo “puro” della nazione quegli elementi ritenuti di importazione straniera, come il cristianesimo. La complessa ideologia fatta di nazionalismo esasperato e di un tentativo di conciliazione tra Islam e positivismo portò i Giovani Turchi a indicare nei cristiani dell’Impero un potenziale nemico alla sua unità, che solo nella progressiva assimilazione alla nazione dominante avrebbe potuto trovare coesione.

Anche tu puoi aiutare i cristiani (Qui tutti i dettagli).

Per sostenere i cristiani che soffrono potete donare tramite Iban, inserendo questi dati:

Beneficiario: Aiuto alla Chiesa che Soffre ONLUS
Causale: ILGIORNALE PER I CRISTIANI CHE SOFFRONO
IBAN: IT23H0306909606100000077352
BIC/SWIFT: BCITITMM

Oppure tramite pagamento online a questo link

Questa ideologia incendiaria provò a trovare giustificazione nel fatto che, tra XVIII e XIX secolo, nei territori mediorientali dell’Impero potenze europee come Russia e Francia si erano fatte garanti delle comunità locali cristiane, utilizzando questa possibilità come strumento di soft power per rendere il regime delle “capitolazioni” una proiezione di influenza regionale. Più volte questo fatto era stato strumentalizzato per far ricadere sui cristiani la colpa per il regresso politico dell’Impero, la sua debolezza di fronte alle potenze stranieri, la sua fragilità interna. L’autorità imperiale di Istanbul, a fine XIX secolo, trovò a sua volta nell’ostilità contro i cristiani un pretesto per riaffermare un’agenda di ordine opposto, quella della sempre più farinosa volontà di garantire l’unità panislamica. In questo contesto mautrarono i “massacri hamidiani”, in cui tra il 1894 e il 1896 da 80 a 300mila cristiani armeni e assiri furono uccisi in una sequela di pogrom.

Ma è solo quando alla miscela tossica di nazionalismo esasperato e fanatismo etnico del governo dei Giovani Turchi (dal 1913 al potere in un regime monopartitico guidato dal triumvirato dei “tre Pasha”, Talat, Enver, Ahmed) si aggiunse lo scoppio della Grande Guerra che i progetti di annientamento trovarono un’applicazione su larga scala. I cristiani di varie fedi, abitanti millenari di terre in cui avevano convissuto con grande capacità di adattamento con diversi dominatori alternatisi tra l’Anatolia e il Medio Oriente, iniziarono a essere visti come agenti di potenze straniere nemiche della Turchia, potenziali focolai di rivolta nel decadente impero, a esser ritenuti nemici in quanto tali. Distruzioni di villaggi, marce della morte nel deserto, esecuzioni di massa: i tre genocidi presentano una sequela continua di episodi di questo tipo, in una drammatica riproposizione di quello che si è sviluppato come un processo in grado di autoalimentarsi, in una spirale di violenza crescente.

“Ucciderò ogni uomo, donna e bambino cristiano”, affermò il 19 aprile 1915 il governatore di Van di fronte alla prospettiva di ribellione della città abitata dagli armeni; in Mesopotamia la tenace ribellione di numerose comunità cristiane, guidate dall’imprendibile generale Agha Petros, andò di pari passo con la campagna di sterminio operata dai turchi, che arrivarono a sconfinare nel territorio della neutrale Persia per distruggere i villaggi di un’etnia ritenuta nemica; i pogrom anti-greci in Anatolia proseguirono anche dopo la fine della guerra, sulla scia di nuovi e ripetuti scontri greco-turchi.

Questi genocidi, a cui si associarono centinaia di migliaia di morti per le carestie e i disastri naturali collegati alla guerra, furono un campanello d’allarme per quello che il Novecento sarebbe stato e il più grande caso di persecuzione anti-cristiana della storia umana. Larga parte di questa storia è ancora sottaciuta, tenuta nascosta per non urtare la sensibilità politica di quella Turchia divenuta oggi attore chiave sull’asse euro-atlantico e mediterraneo. A oltre un secolo di distanza, mentre i cristiani nelle terre che furono in passato ottomani vivono ancora una grande tribolazione, il ricordo di queste sofferenze e delle capacità di comunità antiche di proseguire la loro storia nonostante la sistematica campagna di annientamento ottomana e un susseguirsi di crisi politiche e sociali nei decenni successivi ci è di lezione e di monito. Di lezione, per insegnarci a capire al meglio quanti drammi abbiano contraddistinto il XX secolo. Di monito, perché ricordiamo l’importanza di aiutare comunità che sono fratelli della civiltà europea e testimoni di un passato di incontro e dialogo che neanche la marea della storia ha potuto sommergere.

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Gli Azeri Decapitano I Vecchi Armeni In Nagorno Karabagh. (Stilum Curiae 17.12.20)

Marco Tosatti

Gli armeni stanno rivivendo in queste ore gli orrori del genocidio di un secolo fa, a causa delle atrocità che i soldati azeri, e i terroristi sguinzagliati dalla Turchia stanno commettendo nella parte del Nagorno Karabagh ricaduta nelle mani di Baku dopo la firma dell’accordo di tregua. Sul web stanno circolando da giorni video che mostrano scene raccapriccianti, fra cui la decapitazione di un anziano in un villaggio armeno che ha deciso di rimanere, nonostante che la zona fosse caduta in mani azere.

Ringraziamo Giulio Meotti che su Twitter ha postato la notizia e il fermo immagine del video, non il video stesso per rispetto verso la povera vittima. Quel caso non è il solo, e si moltiplicano i racconti di atrocità commesse dai soldati di Baku e dai loro affiliati, e di maltrattamenti e comportamenti inumani nei confronti di soldati armeni caduti prigionieri.

Scrive il Guardian: “Gli uomini di etnia armena non erano combattenti, ha detto la gente nei loro rispettivi villaggi. Entrambi sono stati decapitati da uomini in uniforme delle forze armate azere. I brevi e raccapriccianti video delle uccisioni sono tra i peggiori di un torrente di filmati di abusi, torture e omicidi che ha continuato ad emergere più di un mese dopo l’entrata in vigore di un cessate il fuoco mediato dai russi”.

Nei video postati online il 22 novembre e il 3 dicembre, uomini in uniforme coerente con quelle dell’esercito azerbaigiano tengono fermo e decapitano un uomo con un coltello. Si posiziona poi la testa mozzata su un animale morto. “È così che ci vendichiamo: tagliando le teste”, dice una voce fuori campo. Una delle vittime è stata identificata come Genadi Petrosyan, che si è trasferito in quella zona all’inizio degli anni ’80 dalla città di Sumgait.

Alcuni dei video più raccapriccianti e ampiamente visti sono stati anche tra i più difficili da confermare. Un video postato su un canale Telegram il 7 dicembre ha mostrato due soldati in uniforme coerente con i militari azerbaigiani che immobilizzano un anziano vicino a un albero. Un altro soldato passa un coltello a uno degli aggressori, che inizia ad affettare il collo della vittima. La testa della vittima inizia a separarsi dal collo prima della fine del video.

Tre abitanti del villaggio di Azokh hanno identificato la vittima in questo video come Yuri Asryan, un uomo di 82 anni che viveva da solo e che si era rifiutato di lasciare il villaggio il 20 ottobre quando le forze azerbaigiane si sono avvicinate.

“Non comunicava molto con gli altri. Si è solo rifiutato di andarsene”, ha detto Georgi Avesyan, il capo del villaggio da molto tempo fino al 2019 e una delle persone che ha identificato Asryan. Ha detto che è possibile che Asryan non abbia compreso appieno ciò che stava accadendo. Le forze azere sono entrate nel villaggio giorni che è rimasto sotto il controllo di Baku in virtù dell’accordo di cessate il fuoco firmato il 9 novembre.

Non si è avuta notizia della sorte di Asryan fino a quando la settimana scorsa è apparso sui social network un video di 29 secondi.

Ci sono centinaia di altri video di abusi online. Sahakyan ha detto che lei e una sua collega stavano seguendo 75 casi di soldati e civili armeni prigionieri presso il tribunale europeo dei diritti umani, tra cui 35 che includevano prove video.

In un video, un abitante del villaggio di nome Kamo Manasyan viene preso a calci e picchiato, mentre perde sangue dall’occhio destro. “Quanti altri di voi sono qui”, grida il suo interrogatore in russo con un forte accento, puntando un fucile alla testa di Manasyan. “Sparatemi se volete”, risponde Manasyan. L’uomo invece lo colpisce con il fucile.

“Era difficile guardare questo video con questa crudeltà”, dice Gagik, suo nipote, in una videochiamata. “Penso che vogliano solo mostrare il loro successo in questa guerra e umiliare gli armeni, per dimostrare che hanno vinto”.Nel frattempo si registra il silenzio, e l’indifferenza dei media italiani; e si registra anche il servilismo di politici – di ogni settore – e di uomini di affari nel confronti di Baku, nonostante il suo ruolo di aggressore nel recente conflitto, appoggiato militarmente dalla Turchia, responsabile del Genocidio del 1915.

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I soldati azeri decapitano civili armeni inermi. «Ecco come ci vendichiamo» (Tempi.it 16.12.20)

SYSTEM OF A DOWN, SERJ TANKIAN PROTAGONISTA DI UN DOCUMENTARIO (Radiofreccia 17.12.20)

Si chiamerà “Truth To Power” il documentario con protagonista il leader dei System Of A Down Serj Tankian

Il frontman dei System Of A Down Serj Tankian sarà il protagonista di un nuovo documentario in uscita nella prima metà del 2021 dal titolo “Truth To Power”. Il film sarà incentrato sull’impegno del cantante nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione armena grazie alla sua musica.

“Truth To Power”, il documentario su Serj Tankian

Si chiamerà “Truth To Power” il documentario che racconterà di come Serj Tankian, cantante e leader dei System Of A Down sia stato fondamentale nel portare a conoscenza di tutto il mondo la questione armena, e la rivoluzione Armena del 2018 sia con la sua musica che con la sua lunga storia di impegno sociale e attivismo.

Il film sarà disponibile online a partire dal 19 febbraio 2021 per una durata di 79 minuti con la regia di Garin Hovannisian che ha dichiarato: “Con Oscilloscope e Live Nation a guardarci le spalle, la musica e il messaggio del nostro film può ora toccare i cuori e le menti delle platee di tutto il mondo, inspirando tutti noi a dire e portare avanti la verità davanti ai potenti”.

La pellicola è da tempo in lavorazione e già nel 2018 Tankian ne aveva parlato in un’intervista con Rolling Stone USA anticipando di avere “Un documentario in fase di lavorazione che con i miei occhi guarda a come un messaggio diventa realtà attraverso l’arte”.

Il contenuto di Truth To Power

Truth To Power sarà composto da interviste esclusive e materiale video inedito filmato personalmente da Serj Tankian che porterà gli spettatori dietro le quinte del suo mondo fatto di musica rock ma anche di impegno sociale e politico. Una carriera, quella del cantante dei System of A Down, passata a cantare davanti a platee enormi e, allo stesso tempo, a schierarsi dalla parte del suo popolo, quello armeno, nel tentativo di porre l’attenzione su tutti i casi di giustizia sociale utilizzando il potere della musica per dare vita ad un cambiamento politico.

Quella di Tankian è stata una lunga campagna per far riconoscere ufficialmente dagli Stati Uniti il Genocidio Armeno, un impegno costante per il popolo e in barba ai Governi. Interamente incentrato su questa doppia faccia di Tankian, Truth To Power si occuperà sia dell’uomo che dell’artista dando la possibilità anche di osservare da vicino il suo modo di creare musica sin dalla fase di scrittura attraverso contenuti inediti come le interviste con gli altri membri dei System Of A Down, Tom Morello dei Rage Against The Machine e al leggendario produttore Rick Rubin.

Il film sarà accompagnato da una colonna sonora originale interamente scritta da Tankian con l’aggiunta di alcuni classici dei System Of a Down.

Il ritorno dei System Of A Down

Non è un caso, infatti, che il tanto atteso ritorno discografico dei System of A Down avvenuto in questo 2020 sia direttamente legato all’impegno sociale della band che ha deciso di tornare dopo quindici anni di stop a pubblicare canzoni inedite.

I brani pubblicati dai System Of A Down poco più di un mese fa sono due, ‘Protect The Land’ e ‘Genocidal Humanoidz’ due canzoni pubblicate con uno scopo benefico: raccogliere fondi in supporto alle popolazioni armene colpite dalla guerra nel territorio di Artsakh.

L’operazione dei System Of A Down è riuscita a fruttare in una sola settimana ben 600.000 dollari interamente devoluti ad Armenia Fund, un’organizzazione che si occupa di supportare le vittime del conflitto e gli ultimi.

L’intenzione dei SOAD con la pubblicazioni dei loro nuovi brani è quella di porre sotto i riflettori la guerra che vede coinvolto il territorio armeno di Artsakh e gli eserciti di Turchia ed Azerbaijan: “E’ successo ciò che è successo in Armenia e allora abbiamo deciso di mettere da parte le nostre differenze. Le nostre differenze sono circoscritte a ciò che succede all’interno della band” ha detto Malakian che in un’intervista per la BBC ha sottolineato: “Abbiamo fatto queste canzoni per una nobile causa e le abbiamo fatte per le giuste ragioni. Non ci abbiamo guadagnato nulla, è stato fatto tutto per una nobile causa e perché il nostro paese ha bisogno di noi”.

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Le lezioni (militari) che si possono apprendere dal conflitto nel Nagorno-Karabakh (Insideover 17.12.20)

Il recente conflitto nel Nagorno-Karabakh che ha visto contrapporsi Armenia e Azerbaigian (quest’ultimo supportato dalla Turchia e dalle armi di Israele), può essere d’esempio su come condurre e vincere conflitti a bassa intensità, ed in particolare può fornire un’importante lezione per quei Paesi che si trovano a dover affrontare forze armate numericamente superiori guidate da tattiche convenzionali.

La nostra analisi prende le mosse da un recente articolo apparso su The Diplomat, che fa riferimento a Taiwan, ma ne amplieremo lo spettro e lo adatteremo in senso generale.

La vittoria azera è giunta, con la presa delle alture circostanti la cittadina di Shusa, dopo settimane di combattimenti in cui, sostanzialmente, l’esercito armeno si è trovato sempre sulla difensiva, e sfruttando principalmente assetti “a basso costo”: nella fattispecie i droni, o Uas (Unmanned Aircraft Systems).

Proprio il loro utilizzo massiccio e con tattiche diverse, alcune delle quali inaspettate almeno da parte armena, è stato una delle chiavi di volta della vittoria di Baku. La superiorità aerea con mezzi convenzionali – cacciabombardieri – non è stata quasi mai in discussione: attacchi di caccia si sono visti di rado con entrambi i Paesi che hanno ritenuto di non mettere in gioco le proprie, esigue, forze aeree.

Gli azeri hanno invece usato droni kamikaze, Uas medi da attacco con munizioni guidate e Uas da ricognizione di concerto con l’artiglieria, con effetti devastanti. L’Azerbaigian, infatti, in questo settore aveva una superiorità schiacciante: negli arsenali azeri erano presenti infatti 85 droni israeliani Orbiter 2M, Iai Heron e Searcher 2, Aerostar, Elbit Hermes 450 e 900. Sono stati utilizzati anche un gran un numero (imprecisato) di Uav turchi Bayraktar TB2. L’Armenia, invece, aveva a disposizione poco più 15 esemplari (anche se alcune fonti riportano 40) di locali Krunk, Baze e X-55.

Contro un avversario trincerato, come l’esercito armeno, gli attacchi di droni hanno sortito l’effetto di decimare i posti di comando fissi, i centri logistici e le aree di concentrazione delle forze, indebolendo gravemente le difese armene. I rinforzi, dati da mezzi da combattimento pesanti, hanno ricevuto lo stesso trattamento, forse anche peggiore. Colti allo scoperto, per via delle prevedibili direttrici di avanzamento, gli Mbt armeni sono stati letteralmente spazzati via: si calcola che ne siano andati persi circa 240 tra distrutti o catturati. La distruzione delle forze corazzate e meccanizzate armene è stata cruciale per consentire alle unità speciali azerbaigiane leggere, col supporto dell’artiglieria, di catturare i punti strategici del Nagorno-Karabakh, come Shusa, ponendo quindi l’Armenia nelle condizioni di dover accettare una pace imposta (dalla Russia e dalla Turchia) che ne ha sancito la sconfitta.

Questa è forse la lezione più importante appresa da quel conflitto: davanti a un avversario che utilizza tattiche convenzionali, anche se numericamente superiore, i droni diventano una risorsa spendibile e altamente efficace per colpire senza il timore di perdere assetti più costosi, e vite umane.

La seconda lezione è intimamente legata alla prima, riguardando, ancora una volta, l’utilizzo di velivoli pilotati da remoto. L’Azerbaigian ha massicciamente utilizzato vecchi velivoli Antonov An-2 (Colt in codice Nato) pilotati a distanza come “esche” per attivare le difese aeree avversarie che venivano successivamente bersagliate da artiglieria, altri piccoli droni armati, o kamikaze, mettendole fuori combattimento. Questa tattica di “inganno” è stata particolarmente efficace, e, ancora una volta, a costo bassissimo: se non si ha a disposizione un gran numero di velivoli obsoleti, come potrebbero essere vecchi cacciabombardieri, si potrebbe sempre ricorrere a droni di medie dimensioni, oppure di piccole dimensioni ma dotati di amplificatori di risposta radar, per ottenere lo stesso risultato.

Un’altra importantissima lezione, che si può evincere da quanto sin qui detto, è quella di non combattere una battaglia come il nemico si aspetta che venga combattuta. Una lezione vecchissima, già espressa dalla filosofia di Sun Tzu, ma che è sempre attuale.

Per gli armeni, il non aver messo in pratica questo assunto, si è rivelato fatale. Sebbene prima dello scoppio della guerra si fosse capito che la tattica di difesa statica, “di trincea”, era precisamente ciò contro cui gli azeri erano preparati a combattere, il lento tasso di cambiamento dottrinale ha fatto sì che l’Armenia si ritrovasse con una marea di volontari addestrati dai veterani del conflitto del 1994, vinto da Erevan proprio con tattiche di guerra statica, che si può definire d’attrito in stile sovietico. I soldati armeni hanno dovuto quindi affrontare uno scenario completamente nuovo, dove, come abbiamo già detto, proprio i “trinceramenti” venivano attaccati – ed eliminati – da un nemico che colpiva inesorabilmente e senza la possibilità di contrattaccare, vedendo quindi, oltretutto, il proprio morale fortemente minato da questa, per loro nuova, tattica di combattimento. Diventa essenziale quindi la flessibilità non solo dell’intera architettura di una Forza Armata, che deve dotarsi di strumenti adeguati a tutti i possibili scenari, compresi quelli “a bassa intensità”, ma anche un impianto dottrinario dei quadri “flessibile” che quindi possa andare a modificare l’addestramento delle truppe.

L’ultima lezione attiene al campo della guerra ibrida, quell’Hybrid Warfare che è diventata il leitmotiv dei confronti (armati e non) moderni. Armenia e Azerbaigian si sono affrontati duramente anche nel campo della propaganda, ma Baku ha saputo utilizzarla meglio. L’Azerbaigian è riuscito infatti a capitalizzare efficacemente gli sforzi in questo senso riuscendo a coinvolgere l’opinione pubblica, non solo locale, e soprattutto mostrando agli altri Stati coinvolti diplomaticamente nel conflitto i suoi progressi militari, veri o presunti che fossero. I video – alcuni anche di pregevole fattura, fattore che denota una particolare attenzione al tema – mostrati dal Ministero della Difesa azero che mostravano gli attacchi di droni a postazioni armene, o la distruzione di intere colonne corazzate, hanno sicuramente avuto un ruolo non secondario nella decisione di Mosca di porre termine al conflitto rapidamente determinando così condizioni di pace particolarmente pesanti per l’Armenia.

In buona sostanza la guerra nel Nagorno-Karabakh, benché si avvii a restare uno dei tanti “conflitti congelati” sorti nell’area della vecchia sfera di influenza sovietica, ha dimostrato come uno scontro “a bassa intensità” si possa condurre efficacemente con armamenti “a basso costo” nel contesto, ormai onnipresente, della guerra ibrida. Una lezione da tenere ben presente per il futuro e non solo per contesti geografici lontani dalla vecchia Europa.

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Soldati azeri decapitano civili armeni nell’Artsakh. Dove sono il governo e i parlamentari italiani amici di Baku per il gas azero? Dove sono i professionisti della protesta? (Korazym 17.12.20)

L’Armenia trasmetterà tutti i crimini di guerra documentati commessi dall’Azerbaigian alle organizzazioni internazionali, ha detto il Ministro degli esteri armeno Ara Aivazian in un’intervista a Le Monde. Ha detto che “la storia ci ha dolorosamente insegnato che il genocidio armeno [nel 1915] è stato commesso a causa dell’impunità”. “Durante il conflitto in Nagorno-Karabakh, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha espresso preoccupazione per le indicazioni di crimini di guerra commessi dall’Azerbaigian”, ha detto il Ministro degli esteri armeno. “L’Armenia redigerà un elenco di tutti i casi accertati e lo inoltrerà alle organizzazioni internazionali competenti per assicurare i responsabili alla giustizia”, ha affermato Aivazian.

“Così ci vendichiamo, tagliando delle teste”. Uno dei due anziani armeni decapitati dai soldati azeri, Genadi Petrosyan era scampato al pogrom di Sumgait del 1988. Gli azeri-turchi vogliono finire quello che l’Impero ottomano ha iniziato con il genocidio armeno del 1915. Per gli azeri-turchi, gli armeni non hanno diritto alla loro terra, neanche alla vita. Gli armeni, con cui condividiamo fede e cultura, sopravvissuti al genocidio turco, non hanno il diritto di essere difesi? Il silenzio è assordante, nella quasi totale l’indifferenza dei media italiani. I politici di ogni partito e gli uomini d’affari italiani sono indifferenti – annebbiati dal gas azero – di fronte alla guerra di aggressione azera-turca, che è semplicemente una continuazione del genocidio armeno del 1915.

Segue la notizia sulla decapitazione di civili armeni da soldati azeri, rilanciata da The Guardian in una nostra traduzione italiana.

Inoltre, segue la denuncia di una vergognosa lettera inviata da un gruppo industriale italiana al dittatore azero, inconcepibile anche solo da un punto di vista commerciale…

Nei video della guerra del Nagorno-Karabakh identificati due uomini decapitati
Gli uomini di etnia armena si sono rifiutati di lasciare i loro villaggi prima dell’arrivo delle forze azere, dicono i locali
di Andrew Roth, corrispondente da Mosca
Theguardian.com, 15 dicembre 2020

Sono stati identificati due uomini anziani decapitati dalle forze azere in video ampiamente condivisi sulle app di messaggistica, a conferma di due delle più sanguinose atrocità della recente guerra in Nagorno-Karabakh. Gli uomini di etnia armena erano non combattenti, hanno detto le persone nei rispettivi villaggi. Entrambi sono stati decapitati da uomini in divisa delle forze armate azere. I brevi e raccapriccianti video delle uccisioni sono tra i peggiori di un torrente di filmati che ritraggono abusi, torture e omicidi che hanno continuato a emergere più di un mese dopo l’entrata in vigore di un cessato il fuoco mediato dalla Russia.

La testimonianza degli abitanti del villaggio nelle interviste con The Guardian corrobora le identificazioni di un difensore civico per i diritti umani per il governo locale sostenuto dall’Armenia e di due eminenti avvocati armeni per i diritti umani che stanno preparando un procedimento penale relativo agli omicidi. The Guardian ha anche confermato una delle identità della vittima con un parente e ha esaminato una fotografia della domanda di passaporto che assomiglia molto all’altra vittima.

Nei video pubblicati online il 22 novembre e il 3 dicembre, uomini in uniformi coerenti con quelle dell’esercito azero trattengono e decapitano un uomo usando un coltello. Si posiziona quindi la testa mozzata su un animale morto. “È così che ci vendichiamo – tagliando delle teste”, dice una voce fuori campo.

Due residenti del villaggio di Madatashen, nel Nagorno-Karabakh, hanno identificato la vittima come Genadi Petrosyan, 69 anni, che si era trasferita nel villaggio alla fine degli anni ’80 dalla città di Sumgait, in Azerbaigian. Gayane Petrosyan (nessun parente), il capo della scuola locale, viveva proprio di fronte alla modesta casa di due stanze di Petrosyan. Ha detto che suo padre aveva aiutato a installare l’impianto elettrico del villaggio e le aveva mostrato le foto di un figlio che si era trasferito in Russia con la sua ex moglie. Ha detto di uno dei video: “Ho potuto vedere chiaramente il suo viso e ho potuto riconoscere che era lui”. The Guardian ha anche visto una fotografia di Petrosyan che ricorda da vicino la vittima nel video. Genadi Petrosyan, che viveva da solo, ha resistito a lasciare il villaggio quando le forze azere si sono avvicinate. Quando un vicino ha cercato di portarlo via, è sceso dall’auto ed è tornato a casa. Eduard Hayrapetyan, il capo del villaggio, ha detto che conosceva Petrosyan da più di tre decenni e lo considerava un caro amico della sua famiglia. Ha ricevuto l’ultima telefonata da Petrosyan la mattina del 28 ottobre, per dirgli di aver visto forze nemiche nel villaggio. Poi, dopo settimane di silenzio, è emerso il video. “Provo un rande dispiacere, che dopo averlo portato via dal villaggio e poi è tornato ed è successo”, ha detto Hayrapetyan. “Non riesco a trovare serenità”.

Artak Beglaryan, difensore civico per i diritti umani del governo locale sostenuto dall’Armenia, ha detto che Petrosyan è stato identificato setacciando 35 denunce di persone scomparse nella regione e poi contattando conoscenti, che hanno confermato la sua identità. Ha chiesto maggiori sforzi da parte della comunità internazionale per indagare sui crimini di guerra del conflitto. “I Paesi occidentali hanno taciuto e non hanno fatto passi concreti”, ha detto. “Hanno i doveri e le leve per parlare di questo… non vediamo alcun risultato, non vediamo alcun processo da loro”.

Anche Siranush Sahakyan, avvocato per i diritti umani, ha confermato l’identità di Petrosyan e ha detto che lei e un collega, Artak Zeynalyan, hanno preparato una denuncia penale sugli omicidi. “Emotivamente, è difficile guardare i video. Da un punto di vista professionale, può essere una prova molto utile “, ha detto Sahakyan, ammonendo che dovevano esaminare attentamente i video per assicurarsi che non fossero falsificati.

Amnesty International ha chiesto ad Armenia e Azerbaigian di indagare sui video delle decapitazioni e delle profanazioni di cadaveri. L’organizzazione ha utilizzato tecniche di verifica digitale per autenticare il filmato recensito in questo articolo, nonché il filmato dell’omicidio di una guardia di frontiera azera a cui è stato tagliato la gola. Altri video mostrano soldati che dissacrano i corpi dei combattenti nemici.

Soldato azero decapita un soldato armeno.

Sebbene entrambe le parti siano state implicate, i canali online sono dominati da video di soldati armeni e civili vittime di abusi da parte delle truppe azere che avanzano. Nuove rivelazioni di torture e abusi significano che per molti la violenza continua, anche molto tempo dopo la fine della guerra. “Armeni e azeri guardano quei video giorno dopo giorno, e ogni giorno c’è un nuovo video che manda un nuovo assalto alla sensibilità pubblica”, ha detto Tanya Lokshina, ricercatrice di Human Rights Watch, che ha preparato un accurato rapporto sugli abusi contro i prigionieri di guerra armeni, rilasciato all’inizio di questo mese. “Quel trauma si traduce anche in un aumento dei livelli di odio, anche adesso, che la fase attiva dei combattimenti è terminata”.

Alcuni dei video più raccapriccianti e più visti sono stati anche i più difficili da confermare. Un video pubblicato su un canale Telegram il 7 dicembre mostrava due soldati in divisa coerente con quelle militari azere, che immobilizzano un uomo anziano vicino a un albero. Un altro soldato passa un coltello a uno degli aggressori, che inizia a tagliare il collo della vittima. La testa della vittima inizia a separarsi dal collo prima che il video finisca. Tre residenti del villaggio di Azokh hanno identificato la vittima in questo video come Yuri Asryan, un solitario 82enne che si era rifiutato di lasciare il villaggio il 20 ottobre mentre le forze azere si avvicinavano. “Non comunicava molto con gli altri. Si è semplicemente rifiutato di andarsene”, ha detto Georgi Avesyan, da lungo tempo capo del villaggio fino al 2019 e una delle persone che hanno identificato Asryan. Ha detto che era possibile che Asryan non capisse completamente cosa stava succedendo. Le forze azere sono entrate nel villaggio pochi giorni dopo ed è rimasto sotto il controllo di Baku in virtù dell’accordo di cessato il fuoco firmato il 9 novembre.

Non c’erano notizie sul destino di Asryan fino a quando un video di 29 secondi non è apparso la scorsa settimana sui social network, compresi i canali di Telegram che difondono filmati cruenti del conflitto. Araik Azumanyan, l’attuale capo del villaggio, ha detto: “Ho ricevuto chiamate da molte persone del villaggio, e anche da persone che si erano trasferite dal villaggio in Armenia molti anni fa, dicendo che sembrava [Asryan] nel video”. Un terzo abitante del villaggio che ha riconosciuto Asryan ha detto: “Mi sono sentito malissimo dopo averlo visto, la mia pressione sanguigna era alta, non riuscivo a ricompormi per una settimana dopo averlo visto”. Anche Beglaryan, difensore civico per i diritti umani, e Sahakyan, avvocato per i diritti umani, hanno confermato l’identità di Asryan. Il suo parente più stretto, un’anziana sorella che occasionalmente lo visitava, sa che Asryan è morto ma non ha visto il video. La nipote di Asryan ha anche confermato a The Guardian che era lui nel video.

Il mese scorso il procuratore generale dell’Azerbaigian ha lanciato pubblicamente un’indagine sui crimini di guerra sia di Baku che di Yerevan. Lunedì ha effettuato i primi arresti, arrestando due soldati azerbaigiani per aver profanati i corpi dei soldati armeni morte e due per aver distrutto tombe. Non ha aperto pubblicamente alcun procedimento penale per le decapitazioni. Ci sono centinaia di altri video di abusi online. Sahakyan ha detto che lei e un collega stavano perseguendo 75 casi di soldati e civili armeni prigionieri presso la Corte europea dei diritti umani, di cui 35 che includevano prove video. Lunedì sera, i due governi hanno condotto uno scambio di massa di prigionieri, hanno riferito i media di entrambi i Paesi.

In un video, un abitante di un villaggio di nome Kamo Manasyan viene preso a calci e picchiato mentre il sangue scorre dal suo occhio destro. “Quanti altri di voi siete qui”, grida il suo interrogatore in un russo fortemente accentato, puntando un fucile alla testa di Manasyan. “Sparami se vuoi”, risponde Manasyan. L’uomo invece lo colpisce con il fucile.

“È stato difficile guardare questo video con questa crudeltà”, ha detto Gagik, suo nipote, in una videochiamata. “Penso che vogliano solo mostrare il loro successo in questa guerra e umiliare gli Armeni, per dimostrare che hanno vinto”. La sorella di Manasyan, Nora, non sopporta di guardare il video. “Voglio che i prigionieri di guerra tornino il prima possibile”, ha detto piangendo. “Voglio la pace”.

Alla richiesta di un commento sulle accuse di violazioni dei diritti umani durante la guerra, un portavoce del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha dichiarato: “In questa fase possiamo solo dire che il Commissario ha ricevuto video e altro materiale che denunciano violazioni dei diritti umani. Prima di esprimersi pubblicamente, vuole svolgere una missione per valutare in prima persona la situazione. Ha in programma presto una missione nella regione”.

Italia-Azerbaijan – Chiudere gli occhi in nome del profitto
Assadakah.com. 14 dicembre 2020

Facendo seguito alle vergognose visite diplomatiche e politiche delle delegazioni italiane in Azerbajgian, già si muovono alcune realtà industriali, ansiose di accaparrarsi una sostanziosa fetta della torta degli affari internazionali, chiudendo entrambe gli occhi di fronte all’aggressione, ai massacri, alle torture, ai bombardamenti e alla distruzione del patrimonio storico e culturale armeno, nella recente guerra scoppiata fra Azerbajgian (sostenuto dalla Turchia) e Armenia, nella ancora irrisolta disputa per il Nagorno-Karabakh.
Una di queste realtà è il Gruppo Maschio Gaspardo, fondato nel 1964 dai fratelli Egidio e Giorgio Maschio (in joint-venture con il marchio Gaspardo dal 1994), che oggi è una multinazionale leader nella produzione di macchinari e attrezzature agricole. Otto centri produttivi (cinque in Italia, tre in Romania, Cina e India, dove la mano d’opera minorile costa pochissimo), tredici filiali in altrettanti Paesi, circa duemila impiegati e tecnici, e con l’80% di fatturato generato all’estero.
La ricerca di nuove soluzioni, e di maggiori guadagni, a quanto pare, sono alla base della strategia commerciale del marchio Maschio Gaspardo, che ha portato il vice-presidente del Gruppo a scrivere una lettera di smaccata adulazione, con note di malcelato opportunismo, a colui che incarna la politica di aggressione, pulizia etnica, prevaricazione, della regione sud-caucasica, ovvero il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev.
Questo il testo della lettera, che dovrebbe essere esempio di come, in ragione del profitto, sia possibile voltare la testa e decidere di non vedere a quali risultati portino le scelte di un dittatore, rimasto infarcito di ideologia stalinista:
“A Sua Eccellenza Ilham Aliyev, Presidente della Repubblica dell’Azerbaijan. Gentile signor Presidente, mi permetta, a nome del Gruppo Maschio Gaspardo, di congratularmi con Lei e con il Suo Popolo per la vittoria nella liberazione delle terre azere da un’occupazione che durava ormai da 28 anni, e per avere raggiunto l’accordo di pace. È meraviglioso poter essere testimoni di questo eccezionale e storico successo militare, ottenuto sotto la guida di una leadership forte e determinata, e in così breve tempo. Vogliamo quindi congratularci per la grande vittoria, che apre una nuova era nella storia moderna dell’Azerbaijan, così come nella storia dell’intera regione. Un fatto che apre a opportunità promettenti e uniche, prospettive brillanti per la cooperazione regionale e lo sviluppo sostenibile in un territorio di enorme potenziale e crescente importanza geostrategica. Auguriamo ulteriori e maggiori successi nel processo di ripristino dei territori liberati del vostro Paese. Auguriamo pace, progresso e prosperità al popolo della Repubblica dell’Azerbaijan. I più cordiali saluti. Andrea Maschio, vice presidente del Consiglio di amministrazione Gruppo Maschio Gaspardo”.

A margine, una sola parola: vergogna.

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