Leader cristiani: grave e catastrofica la politica di annessione della destra israeliana (Asianews 08.05.20)

I patriarchi e capi delle Chiese di Gerusalemme osservano “con preoccupazione” i piani unilaterali che bloccano “qualsiasi accordo pacifico”. Critiche anche alle potenze mondiali e agli organismi internazionali tuttora inerti. Nel mirino pure le “dispute interne” ai palestinesi. Intanto Israele annuncia migliaia di nuove case nei territori occupati.

Gerusalemme (AsiaNews) – I piani di annessione promossi “da fazioni legate alla destra” israeliana sollevano “questioni gravi e catastrofiche”. È quanto scrivono in un messaggi i patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme, secondo cui si moltiplicano i dubbi sulla fattibilità “di un qualsiasi accordo pacifico” che possa mettere fine al pluri-decennale conflitto Israele-palestinese. I capi cristiani osservano con “preoccupazione” i piani unilaterali, l’inerzia delle potenze mondiali (in primis Stati Uniti e Russia) e degli organismi internazionali fra cui l’Onu, e le troppe “dispute interne” fra palestinesi dentro e fuori l’Olp. 

Nelle scorse settimane si sono moltiplicati gli attacchi di coloni ebraici contro palestinesi in Cisgiordania, con l’obiettivo di espropriare ulteriori terreni. Intanto le autorità israeliane hanno annunciato un piano finalizzato alla costruzione di migliaia di nuove case per i coloni nei territori occupati, nel contesto di un sostegno crescente di Washington ai progetti di annessione. Per il premier ad interim Benjamin Netanyahu l’obiettivo è avviare l’iter entro il primo luglio con la dichiarazione di sovranità su insediamenti e valle del Giordano. E in questi giorni ha dato il via libera a 7mila nuove case a Efrat, mentre sul fronte politico si lavora con la diplomazia americana al progetto voluto da Trump con il controverso “Accordo del secolo”.
Ecco, di seguito, il messaggio dei leader delle Chiese di Gerusalemme:

Conseguenza della stagnazione del processo di pace in Medio oriente fra israeliani e palestinesi, una serie di piani avanzati da Israele e finalizzati all’annessione unilaterale di terre in Cisgiordania – sostenuti soprattutto da fazioni legate alla destra – sollevano questioni gravi e catastrofiche. Si moltiplicano i dubbi in merito alla fattibilità di un qualsiasi accordo pacifico, che possa mettere fine a un conflitto lungo decenni, il quale continua a mietere vittime innocenti nel contesto di un circolo vizioso di tragedia umana e ingiustizia.

Il Consiglio dei patriarchi e dei capi delle Chiese di Terra Santa osserva questi piani unilaterali di annessione con crescente preoccupazione e invita lo Stato di Israele ad astenersi dal compiere queste azioni di propria iniziativa. Sono gesti che potrebbero causare la perdita anche delle residue speranze di successo per un futuro piano di pace.

Il Consiglio si rivolge pure agli Stati Uniti d’America, alla Federazione Russa, all’Unione europea e alle Nazioni Unite perché rispondano a questi piani unilaterali di annessione con una iniziativa di pace delimitata e graduale. Una azione che deve essere in linea con il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite sulla questione, al fine di garantire una pace giusta, comprensiva e duratura in questa parte del mondo. Un’area che è considerata sacra da tutte e tre le grandi religioni monoteistiche che derivano da Abramo.

Ci rivolgiamo infine all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), quale unica e legittima rappresentante del popolo palestinese, esortandola a mettere fine alle dispute interne così come ai conflitti con le altre fazioni che non rientrano all’interno dell’organismo. Ciò rappresenta un passaggio fondamentale per presentare un fronte unito, che si adoperi per raggiungere una vera pace e per costruire uno Stato vitale fondato sul pluralismo e sui valori democratici.

Patriarca Teofilo III, Patriarcato greco-ortodosso
Patriarca Norhan Manougian, Patriarcato della Chiesa apostolica armena ortodossa
Mons. Pierbattista Pizzaballa, Amministratore Apostolico del Patriarcato latino
P. Francesco Patton, Custode di Terra Santa
Mons. Anba Antonius, Patriarcato copto ortodosso di Gerusalemme
Mons. Gabriel Daho, Patriarcato siriano ortodosso
Mons. Aba Embakob, Patriarcato etiopico ortodosso
Mons. Yaser AL-Ayash, Patriarcato melkita
Mons. Mosa El-Hage, Esarcato Maronita
Mons. Souheil Dawani, Chiesa Episcopale di Gerusalemme e del Medio Oriente
Vescovo Ibrahim Sani Azar, Chiesa evangelica luterana di Giordania e Terra Santa
P. Ephram Samaan, Esarcato siro cattolico
Rev. Joseph Nersès Zabarian, Esarcato armeno cattolico

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8 maggio 2020 – 21:57 Mkhitaryan: “Cambiare molti club è stata una svolta per la mia carriera” (forzaroma.info 08.05.20)

Henrikh Mkhitaryan, attaccante della Roma, ha rilasciato un’intervista al canale ufficiale Instagram dell’associazione COAF (Childern of Armenia Fund). L’ente ha anticipato il tutto riproponendo sui suoi social un video del 2017 in cui Mkhitaryan aveva incontrato alcuni ragazzi armeni, per i quali lui rappresenta un vero eroe. Queste le parole del calciatore romanista: “Non c’è un segreto per diventare un calciatore, è più un desiderio. Devi essere in grado di privarti di molte cose, di avere uno scopo, di lavorare sodo. Solo il talento non è abbastanza, devi fare del tuo meglio. Devi sempre cercare di fissarti un obbiettivo“.

Sul suo sogno di essere calciatore
Ho sempre detto che il mio obiettivo era quello di diventare un calciatore, non ho mai avuto dubbi. Ci sono state difficoltà, delle delusioni, ma sono durate poco e dopo sono riuscito ad andare avanti. Da bambino ho giocato a tennis, ma solo un giorno, è stato il primo e l’ultimo. Non mi andava granché. Mia sorella ci giocava, ho deciso di provare, ma dopo un giorno ho capito che non faceva per me.

Sulla vita da calciatore
Ci sono molte critiche nella vita di un calciatore․ Fai una brutta partita e tutti ti criticano. Devi essere in grado di essere pronto a tutto. Se ti piace il calcio i tifosi ti rispetteranno. Se sei debole, non puoi giocare a calcio, ma puoi fare sport. Devi avere nervi saldi e resistere a tutto ciò.

Sugli inizi
Ho mosso i primi passi nel mondo del calcio grazie a mio padre. Lui ancora oggi è la mia motivazione e voglio dare il massimo per renderlo felice. Nonostante non siamo stati vicini negli ultimi 24 anni, credo che veda tutto e che sia felice.

Sulla carriera
I punti di svolta nella mia carriera sono stati tutti i passaggi da un club all’altro.

Sull’importanza di conoscere la lingua
È sempre importante conoscere le lingue in modo da poter comunicare più facilmente con le persone, i compagni, lo staff e i tifosi. Quando sono andato in Germania ho patito tanto la barriera linguistica. Il tedesco era molto difficile, non mi piaceva, ma da quando ho cominciato a vivere e giocare lì l’ho imparato. Circa sei mesi dopo l’ho appreso con grazie ai libri, la TV e la radio. È stato molto importante perché ho potuto comunicare con i ragazzi dentro e fuori dal campo. La stessa situazione si è verificata in Italia, anche se l’italiano mi è risultato più semplice del tedesco. Dopo 3 mesi ho migliorato il mio italiano e mi sono sentito molto meglio. Mi fa piacere poter parlare la mia lingua con i compagni. Nella vita, prima o poi la conoscenza torna utile. Da bambino volevo imparare spagnolo e italiano. Poi, quando ne ho avuto la possibilità, ne ho approfittato”.

Sul lockdown in Italia
Questi ultimi due mesi sono stati molto difficili per tutti noi. È stata davvero una dura prova non poter uscire di casa. L’unico modo per farcela era rimanere sereni.

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MKHITARYAN: “Per diventare calciatore devi essere in grado di privarti di molte cose”

Trequartista di proprietà dell’, attualmente in prestito alla Roma, e capitano della nazionale armena, Henrikh MkhitaryanUNICEF Goodwill Ambassador, è intervenuto in una diretta social con la pagina  di ‘Children of Armenia Fund‘ (COAF), associazione non-governativa che mira al potenziamento dell’istruzione e al miglioramento dell’assistenza sanitaria dei giovani delle comunità rurali dell’Armenia. Il 77 giallorosso ha risposto alle domande dei ragazzi dei villaggi del suo Paese rimasti a casa per l’emergenza Coronavirus. Queste le sue parole:

Come si diventa calciatori?
Non c’è un segreto per diventare un calciatore, è più un desiderio. Devi essere in grado di privarti di molte cose, di avere uno scopo, di lavorare sodo. Solo il talento non è abbastanza, devi fare del tuo meglio. Devi sempre cercare di fissarti un obiettivo.

E
Ho sempre detto che il mio obiettivo era quello di diventare un calciatore, non ho mai avuto dubbi. Ci sono state difficoltà, delle delusioni, ma sono durate poco e dopo sono riuscito ad andare avanti.

La vita da calciatore?
Ci sono molte critiche nella vita di un calciatore․ Fai una brutta partita e tutti ti criticano. Devi essere in grado di essere pronto a tutto. Se ti piace il calcio i tifosi ti rispetteranno. Se sei debole, non puoi giocare a calcio, ma puoi fare sport. Devi avere nervi saldi e resistere a tutto ciò.

Sulla carriera…
I punti di svolta nella mia carriera sono stati tutti i passaggi da un club all’altro.

Testa in Georgia, piedi in Armenia: vita in un villaggio di frontiera (Osservatorio Balcani e Caucaso 07.05.20)

07/05/2020 –  Gita Elibekyan

(Pubblicato originariamente da OC Media  )

“Anni fa potevo prendere lamponi e more a secchi dal bosco. Potevo persino venderli”, racconta Leyla Simonyan, residente di Khojorni, a OC Media. “Quasi tutto ciò che avevamo è stato portato via da lì: legna da ardere, cibo per animali domestici, persino l’acqua”.

Il fitto bosco a cui si riferisce è a soli 70 metri da casa sua, ma sul lato armeno del confine.

L’inasprimento delle frontiere tra Armenia e Georgia ha reso la vita difficile alle persone di Khojorni. Situato nella municipalità di Marneuli, nel sud della Georgia, Khojorni confina con l’Armenia su tre lati.

Un altro residente del villaggio, Dmitri Kharibyan, dice che deve legare le sue mucche quando vanno al pascolo in modo che non vadano in Armenia. Altrimenti, dovrà seguirle e rischiare l’arresto per aver attraversato il confine illegalmente.

Viviamo qui come se fosse una colonia, dice, aggiungendo che spera che i due paesi vicini un giorno possano trovare una soluzione per facilitare le loro vite.

Khojorni ha una popolazione mista armeno-azera, la maggior parte è comunque armena: 200 delle 240 famiglie residenti.

“Devo stare molto attento con le mie mucche”, conferma Huseyn Abdurakhmanov a OC Media. Abdurakhmanov, un azero-georgiano, lavora come insegnante nelle classi azere della scuola pubblica di Khojorni. Dice che non ha mai avuto problemi con nessuno dei suoi compaesani.

“Non voglio che scoppi un conflitto armeno-georgiano a causa delle mie mucche”, scherza, ipotizzando di causare un incidente internazionale a causa del vagabondaggio del bestiame.

Huseyn specifica che il villaggio è unico in quanto è situato al confine armeno-georgiano ed ha una popolazione mista armeno-azera. “Quando finalmente la situazione al confine sarà più tranquilla questo villaggio dovrebbe diventare il più originale villaggio della Georgia, un esempio per altri villaggi di confine e anche per i paesi in conflitto”, sottolinea.

Il confine armeno-georgiano è lungo circa 225 chilometri. Una commissione intergovernativa istituita nel 1996 si è occupata della delimitazione e demarcazione del confine.

La portavoce del ministero degli Affari Esteri armeno, Anna Naghdalyan, ha dichiarato a OC Media che, al momento, la Commissione ha concordato 147 chilometri di confine. Tuttavia, l’area di confine che comprende Khojorni, così come i villaggi di Akhkorpi, Chanakhchi e Brdadzor, è ancora in discussione.

Dato che i negoziati sono riservati, i ministeri degli Esteri di Armenia e Georgia mantengono il silenzio ed hanno rifiutato di dichiarare se vi sono aspetti problematici. “Vi sono alcune aree su cui dobbiamo ancora raggiungere un accordo e, date le dinamiche sempre più positive nelle nostre relazioni bilaterali, speriamo che la questione sia risolta in linea con gli interessi di entrambi i paesi”, hanno specificato dal ministero degli Affari Esteri della Georgia a OC Media.

Il ministero ha affermato che entrambe le parti sono pronte a lavorare in modo costruttivo per raggiungere un accordo finale.

La casa in due paesi

“La nostra testa è in Georgia e i nostri piedi sono dall’altra parte, in Armenia”, Mihran Simonyan racconta a OC Media, citando Totò e Fernandel nel film La legge è legge (1958), ambientato ad Assola, un villaggio attraversato dal confine franco-italiano.

Per Makar Hakhverdyan, 92 anni, la metafora è proprio  adatta.

Gli abitanti del villaggio ci consigliano di visitare ‘nonno Makar’, che dicono “dorme davvero così”. Nel 1970, Hakhverdyan costruì la sua casa esattamente ai margini del villaggio, proprio sul confine armeno-georgiano.

Ha detto a OC Media che sapeva che la posizione della casa lo avrebbe tecnicamente collocato in un paese diverso rispetto ai suoi vicini, ma in quel momento entrambi i paesi erano all’interno dell’Urss e non credeva che sarebbe diventato un problema.

“Quando [i rappresentanti di entrambi i paesi] sono venuti a misurare l’area, hanno detto: ‘La tua casa è dalla parte armena, vuoi rimanere in Armenia o in Georgia?’. Ho detto ‘Georgia’ perché non c’era una strada diretta da qui verso l’Armenia”, racconta Makar Hakhverdyan.

Ma mentre la sua casa era allora in Georgia, il bagno e la maggior parte del giardino rimasero sul lato armeno. “Ora, a volte i funzionari armeni mi dicono: ‘Hai costruito una casa in Georgia ma il tuo bagno è in Armenia, hai la carta per andare al tuo bagno?’ Rispondo loro che la carta è in bagno. Cos’altro potrei dire?”

Makar specifica anche che non ha più alcun problema con i funzionari armeni o le guardie di frontiera.

Prima del crollo dell’Urss, Makar Hakhverdyan ha lavorato come guardia forestale per la Repubblica sovietica dell’Armenia, per 37 anni, piantando centinaia di alberi nelle foreste dell’Armenia appena sopra la sua casa. Non gli è più permesso metterci piede. Una piccola consolazione, dice, è che può ancora andare nel suo frutteto, anch’esso diviso in due dal confine.

Produce alcolici dalle mele che raccoglie nel suo giardino georgiano-armeno definendo la bevanda “una vodka dell’amicizia armeno-georgiana”.

Pur specificando che la decisione finale circa la delimitazione del confine poco cambierebbe per lui, Makar ha voluto fare un appello alle autorità di entrambi i paesi: “Non siamo criminali, non attraverseremo la foresta, lasciateci solo muovere senza intoppi a beneficio di due paesi amici”․

Acqua dall’Armenia

Khojorni riceve acqua dal lato armeno del confine fin dal periodo sovietico․ A quel tempo, i residenti locali trovarono una fonte d’acqua su una montagna vicina e la collegarono a un sistema di tubature che arrivava nelle loro case.

Prima del regime di confine post-sovietico, per gli abitanti del villaggio era facile riparare eventuali perdite o tubi danneggiati. Ma ora, quando i tubi sono danneggiati o intasati, gli abitanti del villaggio devono fare un lungo giro e entrare in Armenia attraverso il checkpoint Sadakhlo-Bagratashen, a 13 chilometri di distanza. Devono poi percorrere 80 chilometri per raggiungere l’acquedotto tra le montagne armene.

Se gli abitanti del villaggio avessero il permesso di entrare su territorio armeno da Khojorni, dovrebbero percorrere solo 2-4 chilometri per raggiungere la fonte d’acqua.

“L’ultima volta, abbiamo raccolto fondi, li abbiamo inviati in Armenia e gli abitanti del villaggio più vicino al confine l’hanno riparato”, ha raccontato a OC Media il residente locale Alexander Suqiasyan. I residenti riferiscono che a volte ci vuole fino a un mese prima che venga ripristinato l’accesso all’acqua dopo un’interruzione del servizio.

Arsen Hakhverdyan, membro del Consiglio comunale di Marneuli responsabile per Khojorni e i vicini Berdadzor, Gulubagh e Tsopi, ha dichiarato a OC Media che il problema dell’acqua sarà presto risolto․ “Abbiamo una fonte d’acqua vicino al confine armeno-georgiano, ma sul territorio georgiano”, specifica Arsen Hakhverdyan. Ha aggiunto che sperano di risolvere il problema entro la fine dell’anno.

“Un confine senza guardie di frontiera”

Le persone a Khojorni affermano di voler rimanere nel loro villaggio perché ha un buon clima per la coltivazione e l’allevamento del bestiame, ma sotto l’attuale regime di frontiera è semplicemente impossibile.

I terreni coltivati dagli abitanti del villaggio si trovano all’interno della zona riservata di 500 metri, che è sotto il controllo del ministero della Difesa georgiano. Di conseguenza, devono presentare documenti ufficiali alle guardie di frontiera ogni volta che vanno a lavorare sulla loro terra.

Ancora più difficile è la situazione per coloro che allevano bestiame in quanto i pascoli più erbosi si trovano sul lato armeno del confine.

Alexander Suqiasyan ha dichiarato a OC Media che, nonostante le difficoltà, spera ancora che, se i rapporti tra Georgia e Armenia miglioreranno, si potrà avere un “confine senza guardie di frontiera”.

“Non vogliamo linee divisorie tra i nostri due paesi amici”, ha detto.

Khojorni, così come una serie di altri villaggi lungo il confine, continua a vivere con queste restrizioni.

La portavoce del ministero degli Affari Esteri armeno, Anna Naghdalyan, ha dichiarato che non vi è stata nessuna riunione congiunta della commissione intergovernativa dal 2007. Tuttavia, ha affermato che la questione è stata discussa durante le consultazioni tra la Commissione economica intergovernativa armena-georgiana e tra i ministri degli Affari esteri dei due paesi, nell’ultimo incontro tenutosi a maggio 2019 in Armenia.

Preparativi per la prossima riunione sarebbero in corso.

In una dichiarazione a OC Media, il ministero degli Esteri georgiano ha affermato che la delimitazione del confine di stato è una questione estremamente importante.

“Riteniamo che, nel nostro caso, la definizione del confine di stato tra i nostri due paesi amici non separerà le nostre nazioni ma, viceversa, stabilirà legami migliori e creerà opportunità di cooperazione transfrontaliera. Riteniamo inoltre che la soluzione finale debba essere raggiunta in base agli interessi di entrambe le parti”.

Il genocidio degli Armeni torna a dividere (Orwell.live 06.05.20)

La notizia, di un paio di settimane fa, è passata come ovvio sotto silenzio e non solo a causa della pandemia, ma perché è una di quelle “notizie scomode” che sollevano il velo su storie che “è meglio dimenticare”. In occasione del 105° anniversario, il Parlamento siriano ha approvato all’unanimità una risoluzione che riconosce come “genocidio” lo sterminio dei cristiani armeni pianificato in Turchia negli anni 1915-1916.

Abbiamo parlato ieri della drammatica situazione che stanno vivendo i siriani sotto attacco da parte delle milizie islamiste appoggiate dall’esercito turco. Questa risoluzione, richiesta direttamente dal presidente Bashar al-Assad, che in passato si era già espresso sulla tragedia del popolo armeno, è sicuramente destinata a far aumentare le tensioni tra Damasco e Ankara

Ancora oggi, infatti, l’articolo 301 del codice penale turco punisce come reato “contro lo Stato turco” chi parla in pubblico del “genocidio degli armeni”.

Si può rischiare da sei mesi a due anni di carcere, nelle prigioni turche, non certo famose per il rispetto dei diritti umani. Pena già inflitta, in questi anni, a circa 300 persone, tra giornalisti e intellettuali, che non condividono la linea politica di Erdogan.
Peggio è andata al giornalista Hrant Dink che non ha mai smesso di ricordare il popolo armeno e, per questo, è stato assassinato, nel 2007, da killer sapientemente addestrati che non sono mai stati trovati e forse neanche cercati.

La Turchia è nata sul sangue di un genocidio

La pianificazione del genocidio avvenne tra il dicembre del 1914 e il febbraio del 1915 con l’aiuto di consiglieri tedeschi, alleati della Turchia nell’ambito del Primo conflitto mondiale. Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. Unitamente all’eliminazione dell’élite armena (di religione cristiana), si procedette, a partire dal gennaio del 1915, al disarmo e all’uccisione dei soldati armeni arruolati. Da maggio, fu intrapresa un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor, dove giunsero in pochi, decimati lungo la strada.

La quasi totalità degli Armeni scomparve dalla terra dove l’identità e la cultura di quel popolo si erano sviluppate nel corso di più di duemila anni. Le vittime di quella prima strage furono almeno un milione e mezzo e si calcola che circa un terzo delle vittime avesse meno di 18 anni. Molte di queste furono trucidate in modo inenarrabile, ci furono numerosi atti di inaudita violenza (raccontati parzialmente nel film: La masseria delle allodole).

Moltissimi armeni sono stati volontariamente lasciati morire di fame e di sete nei campi di concentramento turchi o durante le lunghe marce forzate. Le “leggi speciali” del governo turco, infatti, vietavano ai cittadini locali di portare cure, dare cibo o acqua, agli armeni affamati e debilitati.

Fu una “pulizia” etnica e religiosa

Una delle principali cause del genocidio, insieme all’appartenenza etnica odiata dagli ottomani, fu la fede religiosa che ebbe un ruolo rilevante; anche se “ufficialmente” le motivazioni della pulizia etnica vanno ricercate anche al di fuori della disputa religiosa. Sicuramente il governo turco face leva sul sentimento religioso per rafforzare nella popolazione l’avversione nei confronti del nemico da eliminare; rafforzando così l’azione genocida e trasformandola progressivamente, fino a farle assumere le motivazioni e le sembianze di una guerra di religione.

In quegli anni, però, il governo di Ankara era guidato dai Giovani Turchi, una organizzazione politica laica, “di ispirazione mazziniana” (quindi massonica e antireligiosa). Furono loro ad aizzare la popolazione musulmana contro i cristiani, solo per dare maggiore credibilità al loro piano politico che mirava a distruggere le élite economiche, militarie e culturali del Paese.

Rimane il fatto che un intero popolo fu quasi del tutto sterminato, anche coloro che avevano servito fedelmente il proprio Paese non furono risparmiati. Anche gli Armeni, infatti, erano stati chiamati alle armi a causa della guerra in atto ma, un decreto del 1915, aveva stabilito il disarmo di tutti i militari di etnia armena, che furono poi isolati e massacrati. Di 350.000 soldati armeni, nessuno si salverà.

Il silenzio dei colpevoli

Ancora oggi, che pure la Turchia non è più il Paese “laico” di allora ma  ha sposato con Erdogan l’islamismo estremista ottomano, il governo continua ogni anno a spendere milioni di dollari per promuovere le tesi “negazioniste”, minacciando boicottaggi politici ed economici verso gli Stati che si azzardano a riconoscere ufficialmente il genocidio degli armeni. La paura che la verità storica emerga e una coscienza non certo cristallina, determinano, ancora oggi, questo atteggiamento delle autorità di Ankara.

Nonostante qualche passo in avanti di diverse nazioni che, negli ultimi 30 anni, hanno riconosciuto la verità e le proporzioni del genocidio armeno, questa enorme, sanguinosa pulizia etnico-religiosa, resta ancora completamente impunita.

La questione del riconoscimento del genocidio coinvolge l’intera comunità internazionale, perché va ricordato che lo sterminio degli armeni avvenne sotto gli occhi e con la consapevolezza dei maggiori Stati del tempo, che venivano informati dai propri diplomatici di ciò che stava avvenendo, ma evitarono di intervenire.

Purtroppo la storia è piena di “indifferenze” analoghe: basti pensare a ciò che è avvenuto in Cambogia negli anni ’70, in Ruanda negli Anni ’90, in Sud Sudan ancora oggi. Oggi come ieri, la comunità internazionale, con i suoi massimi organismi resta a guardare, bloccata da interessi e veti incrociati, che le fanno volgere lo sguardo altrove, smascherando tutta l’ipocrisia di una politica inefficace se non, a volte, inesistente.

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Il filo rosso che lega le donne armene e azerbaijane (Osservatorio Blacani e Caucaso 06.05.20)

È innegabile che le misure adottate per l’emergenza Covid-19 dai governi di tutto il mondo stiano producendo degli effetti psicologici non indifferenti su molte persone. Sono molteplici le origini di sentimenti che aumentano il senso di ansia e claustrofobia. Queste, insieme alla ridotta mobilità, hanno generato un aumento  di casi di violenza domestica in tutto il mondo.

L’entità della violenza domestica e della discriminazione di genere varia molto nel mondo. Ci sono alcuni paesi dove le donne sono discriminate più di una volta: in quanto vittime di violenza ed in quanto nate in un paese dove la violenza domestica è e rimane un affare privato.

Donne coraggiose

È il caso delle donne nate in Armenia o Azerbaijan, due paesi con una popolazione altrettanto alle prese con le misure di isolamento. In entrambi i paesi, secondo i dati  del Georgian Institute for Women Peace and Security per il 2019, i tassi di discriminazione e violenza di genere sono piuttosto elevati (l’Armenia si trova all’82esimo posto e l’Azerbaijan al 123esimo su 167 stati).

In questo contesto importante riportare di un avvenimento  risalente ad alcuni mesi fa. Lo scorso 4 marzo, tra le donne che hanno ricevuto l’annuale Premio Internazionale Donne Coraggiose (più noto con il titolo inglese International Women of Courage Award- IWCA -) sono figurate sia un’azerbaijana che un’armena. Si tratta di Shahla Qumbatova, noto avvocato difensore dei diritti umani in Azerbaijan, e di Lucy Kocharyan, la giornalista che ha lanciato l’hashtag “Voices for Violence”  , e che ha permesso a centinaia di donne – ed anche molti uomini – di affrontare il problema della violenza di genere pubblicamente od anche in forma anonima, rendendo quindi condivisibile un dibattito che è per lo più soggetto a forti tabù in Armenia.

Nessuna attenzione è stata data alla vicenda in Azerbaijan. Alcuni media del paese si sono piuttosto concentrati sulla vicenda del processo contro Shahla Qumbatova. Secondo alcuni di questi ultimi  , la stessa si sarebbe “rifiutata di testimoniare presso la Direzione Generale anti–corruzione” per il fatto di “essere convinta di essere perseguitata per motivi politici”. Shahla Qumbatova ha diretto i suoi sforzi in difesa dei perseguitati politici del suo paese, come il leader dell’opposizione Intigam Aliyev  ed il blogger Mehman Huseynov. È stata la difesa del primo a costarle l’accusa di “falsificazione di documenti”, dopo che Shahla Qumbatova era riuscita a recuperare dei documenti che approvavano l’assegnazione di una donazione a Intigam Aliyev e che erano stati eliminati dal sito del ministero della Giustizia, ma che mettevano in discussione le accuse di “imprenditoria illegale e traffico illecito di denaro” contro di lui. Da novembre 2019, le è stato sospeso il potere di esercitare la professione a seguito di una decisione  dell’Associazione degli Avvocati dell’Azerbaijan.

Una questione transnazionale

L’assegnazione dell’IWCA a due donne di nazionalità azerbaijana e armena nello stesso anno avrebbe potuto far sorgere l’occasione per parlare di un problema transnazionale – quello della violenza di genere – che, al di là della barriera di silenzio lungo le divisioni etniche e nazionali, affligge molte donne dei due paesi alla stessa maniera. Invece l’avvenimento è passato in sordina. E dove è stato maggiormente affrontato, vale a dire tra la stampa armena, ci si è soffermati poco o nulla sul fatto che anche una cittadina azera fosse stata premiata.

La violenza di genere, fisica o psicologica, è una piaga sociale molto diffusa in Armenia e Azerbaijan. Non a caso, in entrambi gli stati, in maniera disgiunta ma parallela, alcuni gruppi di donne attiviste hanno dato vita a dei movimenti per l’uguaglianza di genere. Le loro richieste si concentrano in particolare sulla ratifica della Convenzione di Istanbul  contro la Violenza sulle Donne. In Armenia, sebbene lo stato abbia aderito con una firma (e non ancora con la ratifica), si è acceso un forte dibattito tra le forze più conservatrici e i gruppi che invece chiedono un cambiamento sociale. Tra chi si oppone alla ratifica c’è il parlamentare Gevorg Petrosyan  , del partito Armenia Prospera, il quale sostiene che tale convenzione “distruggerebbe” i valori nazionali e che c’è già una legislazione interna che protegge le donne vittime di violenza.

Si riferisce alla legge del 2017 sulla “Prevenzione della Violenza Domestica e Ristorazione dell’Armonia e della Famiglia”. La legge si presenta tuttavia debole in diversi punti. Ad esempio, non contempla casi di violenza di genere che accadano al di fuori del rapporto coniugale.

Diversamente, l’Azerbaijan non ha firmato né ratificato la Convenzione. Le manifestazione delle attiviste azere sono sistematicamente proibite nel centro della città e permesse solo in zone periferiche, difficilmente raggiungibili da molte donne. Le tre più grandi manifestazioni contro la violenza di genere (avvenute rispettivamente l’8 marzo e il 20 ottobre 2019 e l’8 marzo 2020), avvenute nel centro di Baku, sono state sistematicamente disperse dalla polizia. Nell’ultima  di queste proteste, alcune donne sono state caricate nelle auto della polizia e rilasciate in zone rurali e desolate lontano dalla capitale.

Una narrativa sconveniente

Al di là di considerazioni culturali, c’è forse un altro motivo per cui le questioni di genere non spiccano in cima all’agenda politica di entrambi i governi. Esse rappresentano un denominatore comune ed un potenziale punto di contatto tra le società civili azere ed armene.

Entrambi gli stati stanno perpetuando un modello autoritario di gestione del conflitto, alimentato da discorsi divisivi lungo linee etniche costruite ed immaginate su processi artificiosi di rivisitazione storica a ritroso nei secoli. Questi processi tendono ad oscurare qualsiasi elemento di contatto e l’esistenza di memorie passate condivise dai due popoli. Contribuiscono a perpetrare lo status quo e a congelare i rapporti diplomatici.

A questa narrativa esclusivista se ne oppone una maggiormente inclusiva, pacifista e costruita dal basso, patrocinata spesso da gruppi di donne. Sono spesso donne le promotrici di iniziative di pace, quali l’organizzazione di gruppi di lavoro per il monitoraggio sull’applicazione dell’agenda Donne, Pace e Sicurezza  in base alla Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite. Grazie al supporto del Global Fund for Women  , è stato aperto un ufficio in Nagorno Karabakh, con il proposito di intervenire nelle aree direttamente colpite dal conflitto ed è stata inaugurata l’iniziativa “Donne del Caucaso Meridionale per la Pace”, che riunisce 13 gruppi di attiviste dall’Armenia, Azerbaijan e Georgia. È recente la fondazione da parte di alcune donne armene del gruppo “Donne in Nero per l’Armenia”, quale appendice regionale del più grande movimento transnazionale “Donne in Nero”: sorto in Israele durante la prima intifada, per la sua vocazione anti–militarista e femminista, il movimento ha generato proseliti in varie zone del mondo caratterizzate da conflitti.

Tuttavia, simili iniziative non trovano il supporto dei rispettivi governi ed anzi spesso i tentativi di riconciliazione sono ostacolati e biasimati. È la storia della giornalista ed attivista di pace azera, Arzu Abdullayeva, che ha intrapreso una serie di iniziative di dialogo con alcuni attivisti armeni e per questo è stata vittima di minacce ed insulti. Chi intraprende queste iniziative deve fare i conti con i conseguenti meccanismi di stigmatizzazione da parte della società, galvanizzati da una narrativa dominante che tende a demonizzare il nemico ed a condannare ogni iniziativa di avvicinamento.

Non è un caso che sono proprio gruppi di donne, sia in Azerbaijan che in Armenia, le organizzatrici di manifestazioni pacifiste. C’è quindi questo filo rosso che lega le esperienze di donne armene ed azere e le pone in contatto, almeno su un piano ideologico. Entrambe non rifiutano la guerra in quanto donne e quindi – come supposto da alcuni filoni della letteratura femminista – pacifiche (o pacifiste) per natura. Le donne rifiutano la guerra nella misura in cui rifiutano la cultura militarista e spesso patriarcale, che alimenta il radicamento di stereotipi di genere nella società e le costringe spesso ad ruolo passivo di mogli fedeli e di madri premurose, estraneo alla partecipazione politica.

In certi casi le donne sono di fronte al doloroso dilemma di dover scegliere tra sentirsi madre di un soldato madre della nazione. Vale a dire la condizione di dover accettare che i propri figli vadano in guerra per un dovere politico e morale superiore. In casi peggiori, la retorica di guerra, che implicitamente predilige la nascita di figli maschi, legittima alcune pratiche silenziose ed aberranti, quali gli aborti selettivi, diffusi in alcune zone rurali del Caucaso meridionale.

Soprattutto nelle zone di confine poi il fardello economico della guerra pesa molto di più sulle spalle di giovani donne, che nel giro di poco tempo, a causa della partenza in guerra degli uomini, si sono ritrovate a gestire da sole la propria famiglia, senza gli adeguati mezzi per farlo. Le opportunità di trovare lavoro sono molto inferiori per una donna che per un uomo, a causa del mancato accesso ad un’istruzione adeguata. Ciò le costringe spesso a trovare lavoro nel mercato nero e, nel peggiore dei casi, in quello sessuale.

Quello di difendere la patria è un principio morale che si va sempre più sgretolando dinnanzi ai trent’anni di tentativi diplomatici di risoluzione falliti per il Nagorno Karabakh. Diventa sempre più assurdo e faticoso credere che i sacrifici fatti a causa del conflitto valgano la pena.

Il potere trasformativo delle strategie di coping

Sono molte le donne, soprattutto nelle regioni di confine e nei campi profughi, che elaborano una serie di pratiche comuni per resistere al senso di angoscia quotidiano dato dalle precarie condizioni economiche e di salute nelle quali sono costrette a vivere. Queste pratiche, considerate strategie di coping [capacità di far fronte ad una determinata situazione] per combattere lo stress psicologico, possono consistere in creare degli spazi sicuri anche solo per condividere una tazza di tè ed alleviare il peso delle sofferenze comuni od anche semplicemente danzare insieme. Tali pratiche contribuiscono alla creazione di significati condivisi, incentivano l’agire collettivo ed hanno un potenziale trasformativo spesso sottovalutato.

In uno studio  promosso dalla fondazione svedese Kvinna til Kvinna, donne sia armene che azere, residenti in zone direttamente afflitte dal conflitto, hanno dichiarato, in una serie di interviste, di essere favorevoli ad un dialogo con la controparte femminile, confidando che anche loro provassero la stessa sofferenza e fossero favorevoli a ristabilire una pace attraverso il dialogo. Ciò fa presupporre che, se declinati su un livello più ampio, vale a dire transnazionale, gli sforzi delle comunità di donne potrebbero far nascere delle iniziative comuni non solo per combattere lo stress provocato dal conflitto, ma anche per ristabilire delle interazioni amichevoli, o addirittura rotte commerciali per alleviare il fardello della disoccupazione. Tali iniziative potrebbero dar vita a degli spazi sicuri per le vittime di violenza domestica, come per esempio dei centri di rifugio e dei numeri verdi a cui rivolgersi, che per il momento sono scarsi ed inadeguati.

Qualcosa di simile è già successo nel territorio dell’ex Jugoslavia durante gli anni della guerra e del dopoguerra, in cui le donne sono state protagoniste di iniziative transnazionali per la protezione di donne vittime di abusi e violenza, in uno sforzo contrario alle spinte centrifughe, alimentate dai nazionalismi. Se l’esperienza della Jugoslavia ci insegna qualcosa, è che questo tipo di iniziative, che sorgano dal basso, raggiungono dei risultati considerevoli se e quando supportate da attori internazionali. Il che ci spinge a riconsiderare l’approccio nella gestione del conflitto anche per quanto riguarda il Nagorno Karabakh.

Affrontare il discorso sul conflitto del Nagorno Karabakh secondo una prospettiva di genere può far luce anzitutto sulla responsabilità degli stati verso la protezione delle donne ma anche in merito agli ostacoli posti alle iniziative di pace. Un simile approccio permetterebbe di indagare a fondo sull’operato delle organizzazioni internazionali e regionali, ad esempio l’OSCE ed altre ONG coinvolte nella gestione del conflitto. Permetterebbe di rivalutarne le azioni al fine di garantire maggiore protezione alle donne del Caucaso Meridionale ed incentivare le iniziative di pace locali.

La costruzione di una nuova narrativa per la gestione del conflitto, in cui le comunità transnazionali di donne, e non gli stati nazione, costituiscono una nuova unità di ricerca, potrebbe essere la base per la valutazione di nuove strategie di peacebuilding, elaborazione di sistemi adeguati alla protezione dei diritti umani e politiche di sicurezza efficaci nella regione.

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Armenia: coronavirus, dal 4 maggio revocate le restrizioni agli spostamenti (Agenzianova 01.05.20)

Erevan, 01 mag 15:21 – (Agenzia Nova) – L’Armenia ha in programma di revocare le restrizioni agli spostamenti introdotte a causa della pandemia di Covid-19 a partire da lunedì 4 maggio. Lo ha detto oggi il viceministro dell’Economia, Varos Simonyan, secondo cui “tutti i cittadini sul territorio armeno potranno muoversi liberamente. Allo stesso tempo, rimarrà in vigore il divieto di trasporto pubblico a causa del rischio di diffusione dei contagi”, ha detto Simonyan nel corso di un briefing con la stampa. Secondo il viceministro, quasi tutte le restrizioni sul commercio al dettaglio e all’ingrosso saranno revocate, ma i centri commerciali rimarranno chiusi ancora per qualche tempo. “Verranno aperti tutti i settori dell’industria manifatturiera. Sarà consentita l’apertura di tintorie, parrucchieri e saloni di bellezza e riprenderà la produzione di tessuti, mobili, scarpe, oltre alle attività di stampa”, ha aggiunto Simonyan. Il viceministro ha concluso specificando che riapriranno i locali di ristorazione con uno spazio all’aperto, mentre quelli al coperto, i bar e le caffetterie rimarranno chiusi per il momento. In Armenia è in vigore uno stato d’emergenza che, secondo i piani del governo, sarà revocato il 14 maggio. Sono 2.148 i casi totali di Covid-19 registrati in Armenia, mentre 33 sono le vittime dei contagi.

Nella notte (Valtellinanews.it 30.04.20)

Sondrio , 30 aprile 2020   |

Nella notte

di Gabriella Stucchi

Il libro proposto è la traduzione, da parte di Letizia Leonardi, dell’originale scritto da Inga Nalbandian, che collaborò attivamente con la Società delle Nazioni Unite in difesa dei diritti dei rifugiati sopravvissuti al genocidio armeno e morì nel 1929.

Nella notte

Così scrive Letizia nella Nota iniziale: “Ho tradotto il libro perché dalla lettura di questi episodi traspare tutta la disperazione e il dolore di un popolo ignorato per troppo tempo, che solo con la sua dignità e determinazione ha saputo voltare pagina volutamente trascurata e nascosta, che è giusto riportare all’attenzione di tutti, e in ogni modo possibile”.
L’autrice Inga spiega di aver presentato sotto forma di racconti “per descrivere gli eventi più efferati e incredibili di questa guerra mondiale, eventi che hanno segnato le ineffabili tracce della morte nella mia vita e in quella dei miei nipoti”.

Si inizia con una toccante lettera inviata al signor Vahann Ohannian (chiamato Effendi, che significa “maestro” o “signore”) Direttore dell’ospedale armeno di Costantinopoli in cui è descritta la condizione drammatica della città di Bardisak, “vuota”! Vahann con suo fratello e professori armeni del Robert College avevano parlato del piccolo paradiso nascosto nelle montagne, completamente armeno, con una meravigliosa vegetazione.

Poi, un giorno, incaricato di recarsi nel luogo per proteggere la scuola, dal momento che gli armeni venivano deportati, si presenta un quadro di indescrivibile disperazione: case semivuote, colpi di bastone e di coltello su chi non vuole abbandonare la propria casa, gente calpestata in chiesa, dove si era rifugiata. Ovunque pianti, grida, brutalità e disordine. Bambini assassinati; donne violentate; gruppi di uomini allontanati con i bastoni dal loro villaggio sulla strada per la montagna e non sarebbero più tornati. Si addusse il pretesto che il governo turco aveva pieno diritto di espellere tutti gli armeni perché così non si sarebbero uniti ai russi.

Mariam è inserviente dell’ospedale da più di due anni e aspetta ancora che il marito Bedros torni dalla guerra dei Balcani; Arakel, l’ultimo dei quattro bimbi, è morto, assassinato dai turchi a Bitlis insieme a quelli della loro razza.

Nella festa di Vartavar, di Anahit, la dea della felicità e della fertilità, una festa pagana della natura, trasformata in “festa del diluvio”, in ricordo del diluvio che Dio ha mandato per punire i peccatori, Mariam sente le voci dei canti dei bambini e pensa al suo Arakel: sarà bruciato o annegato? Vahann Effendi tiene un piccolo discorso e ricorda che quelli che rimangono sono pochi, però invita a far volare le colombe perché torni la pace sulla terra. Mariam, portando nel cuore il suo piccolo Arakel, si avvia verso la chiesa.

Nel III capitolo è descritto il rapporto che si instaura nel padiglione dei malati di mente tra il vecchio Mihran-Agha e Humaiak, un ragazzo di dodici-tredici anni (sfuggito ai massacri di Trebisonda) che, seduto ai piedi, gli legge la Bibbia. Quando il vecchio gli chiede se sa qualcosa di Sivas (Sebaste) gli risponde che sa soltanto che nessuno è rimasto a Sibas e, con voce rotta, dice che li hanno legati tutti insieme, li hanno spinti verso sud e chi non è stato ucciso è morto per la stanchezza e la fame.

Toccante è la testimonianza di Humaiak, un ragazzo di dodici anni che con estrema sofferenza espone con strazio a Vahann Effendi la storia della sua famiglia: il gendarme che a poco a poco ha privato il padre di tutto ciò che possedeva, con minacce, rivolgendosi infine ai figli stesi a terra, camminandovi sopra. I ragazzi poi sono stati portati via, le donne radunate in carri bestiame, condotte alle barche sul fiume e vendute, come pure i bambini. Anche la mamma è stata messa su una barca, ma con lei non c’era il fratello Nichan, che si era perso. Lui, come altri, è stato costretto a camminare a piedi, colpiti da manganelli per spingerli. Cavavano gli occhi se qualcuno cercava di scappare. Il terzo giorno il massacro, con asce e bastoni; alcuni gettati in acqua.

La morte di Haik Hovsepian, giovane medico apprendista tra i più promettenti, avvenuta in Asia minore, a est di Konia, è lo spunto di un dialogo tra Vahann Effendi e il dott. Delacombe, oculista, francese di 65 anni che, non potendo ritornare in Francia, continua il suo lavoro puramente civile di oculista all’ospedale armeno, con l’animo teso vero la sua Francia. In un momento di tranquillità Vahann Effendi racconta a Delacombe le difficoltà affrontate con coraggio dalla moglie di Haik per ritrovare il marito in Germania, dove curava ufficiali di gendarmeria della scorta. È pure incaricato di curare la figlia di un capo, malata nella tenda del suo harem; la guarisce e gli viene proposto di prenderla in moglie. Al netto rifiuto di Haik non tanto per motivi religiosi, quanto perché per le usanze della sua razza non poteva sposare più donne e lui non voleva tradire sua moglie, viene ucciso. Finito il discorso, Delacombe fa ascoltare a Vahann Effendi il canto dei bambini che si diffonde nel giardino, in cui si chiede a Dio che doni la pace al mondo. Delacombe aggiunge che il suo cuore canta con loro. I due medici si lasciano con una stretta di mano.

Nei due capitoli successivi sono descritti due momenti estremamente drammatici: l’esplosione delle bombe e gli arresti di una cinquantina di persone…Vahann Effendi sta male, il vecchio prete di Yedikule raggiunge l’ospedale, parlano e il medico gli confida il suo grande sogno: che la pace arrivasse prima, che i rifugiati potessero sopravvivere; invece ci si sta avvicinando ad un’altra guerra, e sicuramente ce ne sarà una terza.

Il testo si chiude con la Postfazione di Daniela Cecchini, giornalista professionista, che esprime il suo elogio per l’opera della scrittrice Letizia Leonardi, che con storie ed immagini molto cariche di umanità descrivono il genocidio armeno compiuto dai turchi nel 1915, ma con origini pregresse e purtroppo oscurate dalla storia per diversi decenni.

Un libro che fa rivivere in modo vivo e intenso i drammi del genocidio (massacro, olocausto) degli armeni, commemorato il 24 aprile.

Inga Nalbandian NELLA NOTTE – Paoline – euro 13.00

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Genocidio Armeno, botta e risposta tra il deputato della Mozione unitaria in Parlamento e la Turchia (Ilmessaggero 30.04.20)

Città del Vaticano – «Negli archivi della Santa Sede sono custoditi i carteggi degli anni compresi tra il 1915 e il 1920 e proprio in questi 8 volumi di recente pubblicazione, sono documentati i momenti più bui e tristi del genocidio degli Armeni. Sarà un piacere poterglieli far avere proprio per continuare il confronto e l’opera di ricostruzione dei fatti. Nel 2023, a 100 dalla firma del Trattato di Losanna, il suo Governo avrà una grande opportunità quella di ridare dignità alla Sua storia, riconoscendone legittimane gli errori affinché come lei afferma “il ricordo delle vittime possa essere commemorato senza discriminazioni“». E’ questo l’invito che Giulio Centemero – il deputato leghista che nel 2019 ha guidato in Parlamento la mozione unitaria e bypartisan sul riconoscimento del genocidio armeno – ha rivolto al governo di Ankara. Il confronto ha avuto inizio con una lettera che Centemero ha ricevuto dall’ambasciatore in cui sostanzialmente si negava uno sterminio in quelle proporzioni lamentando «l’assenza di un dibattito accademico  e un consenso legale» su questo tema.

Il negazionismo sul genocidio a livello internazionale di fatto è iniziato nel 1923, quando con il Trattato di Losanna – siglato dopo la prima guerra mondiale – fu messa la pietra tombale alla questione armena da parte di tutte le nazioni europee.

Il Parlamento italiano aveva già riconosciuto il genocidio nel novembre del 2000, ma da allora mancava ancora il risconoscimento dell’esecutivo. Per sollecitarlo era stata presentata una mozione a prima firma Paolo Formentini (Lega) e Centemero che ebbe l’approvazione di tutti i partiti tranne, almeno nella presentazione del testo, di Forza Italia.

Centemero afferma che è oggi doveroso « stigmatizzare fatti che non accettano un contraddittorio, anche se questi trovano un riscontro evidente nella realtà, e come il negazionismo debba essere condannato in ogni sua forma».

«Un paese moderno, come quello che Lei rappresenta – scrive – ha una grande opportunità, quella di rivendicare la sua idea di progresso e rispetto delle diversità, proprio partendo dalla constatazione e ammissione di quanto accaduto durante il genocidio del popolo armeno. Così come ha fatto la Germania, il mio stesso paese e tutte nazioni che si sono macchiate di efferati crimini contro i propri simili».

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Nel Nagorno Karabakh. Elezioni presidenziali concluse (Opinione Pubblica 29.04.20)

Il 31 marzo e il 14 aprile si sono svolte le elezioni presidenziali nell’ex stato-stato sovietico noto come Regione autonoma del Nagorno Karabakh (NKAR), che dopo il crollo dell’URSS si unì con la regione shahumiana abitata dagli armeni, per formare la Repubblica del Nagorno Karabakh (NKR), con capitale Stepanakert. Nel 1988, dopo un referendum esplose un conflitto sanguinoso quando le autorità locali nel Nagorno Karabakh votarono per separarsi dall’Azerbaijan e unirsi all’Armenia. La NKR ha poi dichiarato la sua indipendenza il 2 settembre 1991, cercando il pieno rispetto delle norme e dei principi fondamentali del diritto internazionale. Da allora, la leadership della Repubblica ha costantemente perseguito una politica di mantenimento della pace, nonostante  nell’aprile 2016, il Nagorno-Karabakh è stato teatro dei peggiori scontri peggiori tra Azerbaigian e Armenia dall’armistizio firmato nel 1994. Con la mediazione di Russia, Kirghizistan e il Consiglio interparlamentare della CSI, l’Azerbaijan, il Nagorno Karabakh e l’Armenia fu firmato il Documento di Bishkek nella capitale del Kirghizistan, il 5 maggio 1994. Secondo tale documento, le parti in conflitto hanno concordato di un cessate il fuoco, in vigore dal 12 maggio 1994 ad oggi.

Nel marzo 1992, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) ha aderito al processo di risoluzione del conflitto tra Azerbaijan Nagorno Karabakh. Nel 1997 è stato creato l’istituto di copresidenza di Russia, Francia e Stati Uniti del gruppo OSCE di Minsk, che da allora è stato l’unico formato concordato, con il mandato dell’OSCE di condurre attività di mediazione per la soluzione pacifica del conflitto Azerbaigian-Karabakh.

Dopo il conteggio dei voti del 31 marzo, non avendo nessuno dei candidati superato il 50% + 1 dei voti, si è andati al secondo turno il 14 aprile. Al primo turno l’ex primo ministro della Repubblica ArtsakhA. Harutyunyan, aveva ricevuto il 49,26% dei voti, seguito dal ministro degli esteri M. Mayilyan, il 26,4%., e dall’ex segretario del Consiglio di sicurezza V. Balasanyan il 14,7%. Hanno partecipato il 73,5% degli elettori. Erano 14 i candidati per il ruolo presidenziale. Nel secondo turno del 14 aprile, è stato eletto Presidente Arayik Harutyunyan che ha ricevuto 39.860 voti (84,5%), mentre Masis Mayilian ha ricevuto 5.728 voti (12,1%).

Cinque partiti hanno ottenuto seggi nell’Assemblea nazionale del Nagorno: Patria libera, Blocco dell’Unità Civile Patria Unita, Partito della Giustizia, l’ARF-D e il Partito Democratico hanno superato la soglia necessaria. Il parlamento di NKR è composto da 33 deputati. Nella sua prima dichiarazione alla stampa ha detto: “Sono pronto a collaborare con tutti. Ho indicato l’agenda di lavoro: un programma socio-economico generale, la questione del Karabakh, la sicurezza e un lavoro armonioso con il governo dell’Armenia. Sono pronto a collaborare con tutti attorno a questo programma. Presto inizierò gli incontri con i partiti politici parlamentari e sono aperto alla cooperazione anche con i partiti politici non parlamentari“, ha affermato Harutyunyan.

Il nuovo Presidente dell’Artsakh è un ex combattente per l’indipendenza. Nel 1992 si unì all’Esercito di difesa del Nagorno Karabakh e partecipò alla guerra di liberazione. È laureato in economia all’Università dell’Artsakh, è stato poi bancario. In seguito è stato direttore in alcune imprese private. Fra il 1995 ed il 1997 è stato assistente del Ministro delle finanze. Il suo ingresso in politica risale al 2004 allorché appoggiò uno dei candidati all’elezione di sindaco della capitale. È sposato ed ha due figli. È già stato primo ministro nel 2017

All’appuntamento elettorale erano stati accreditati 9 rappresentanti di media internazionali, oltre 37 punti di osservazione per i mass media accreditati con 197 rappresentanti. C’erano anche osservatori di vari organismi internazionali come l’ONG Civic Pill, Legal Education NGO-119, Aparaj Youth Union, Hayk Serund, ONG dell’Unione dei cittadini, la ONG del Centro internazionale anticorruzione di Transparency e altre minori per un totale di circa 600 membri di 38 paesi. La situazione legata all’emergenza del Coronavirus ha in parte modificato la presenza fisica di alcuni di loro ma ogni organismo è riuscito a garantire la presenza di suoi membri.

L’alta partecipazione popolare e il coinvolgimento degli elettori sono sicuramente un messaggio forte alla Comunità internazionale e verso Baku (Azerbaigian), una conferma della volontà giustificata del proprio diritto all’indipendenza e alla sovranità nazionale. La propaganda dell’Azerbaijan verso la comunità internazionale, non può offuscare questa realtà di fatto. Non va dimenticato che alla vigilia delle elezioni in Artsakh, i propagandisti azeri supportati dalla Turchia, hanno cercato di influenzare i paesi mediatori nel processo di soluzione pacifica del conflitto, invitandoli a priori, a non presenziare con osservatori e a non riconoscere i risultati delle elezioni statali in Artsakh.

Per le autorità dell’Artsakh queste elezioni sono la dimostrazione che questa prospettiva non può più essere messa in discussione, come d’altronde quasi trent’anni di effettiva indipendenza sono lì a testimoniare.
Vladimir Zakharov, direttore dell’Istituto di studi politici e sociali della regione del Mar Nero-Caspio (Mosca) e osservatore della Russia, intervistato nella capitale del NK, ha affermato: “Baku e Ankara diranno quello che vogliono, ma ciò non significa che stiano dicendo la verità. Se rimarranno su queste posizioni finiranno in una fossa. È impossibile persuaderli perché hanno uno scopo chiaro. Hanno bisogno di una guerra, vogliono un’escalation qui. È tempo di riconoscere che Artsakh è uno stato. Qui vi è un processo ormai irreversibile”. Per la Russia, che è in stretta alleanza con l’Armenia, sulla base della cooperazione militare del CSTO (e fa anche parte dell’Unione Eurasiatica), che però ha costantemente cercato anche di non danneggiare le relazioni con l’Azerbaijan, arrivare ad una soluzione della questione di quell’area, è un obiettivo geopolitico di non secondaria importanza.

Un ennesimo conflitto provocherebbe il coinvolgimento dell’Armenia, costringendo la Russia ad un coinvolgimento sul campo, questo da un lato frena la bellicosità azera sapendo che in simile scenario non ci sarebbe partita militare possibile, ma complicherebbe ulteriormente le relazioni con la Turchia, alleata degli azeri (che sono di discendenza turca, seppure sciiti).

La posizione dell’Armenia, che non ha rivendicazioni sull’Azerbaijan, è quella di cercare semplicemente di mantenere lo status quo in Nagorno Karabakh e altrove. Per questo motivo non ha alcun interesse a iniziare una guerra e incendiare la regione caucasica.

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Aids in Armenia: sieropositivi condannati allo stigma (Osservatorio Balcani e Caucaso 29.04.20)

Vi sono diverse migliaia di persone sieropositive in Armenia oggi. Ma, nonostante sia noto che la malattia non si trasmette attraverso le vie aeree o il semplice contatto, vengono spesso isolate. Chi ha contratto l’Hiv è costretto così a nascondersi e tacere il problema

29/04/2020 –  Armine Avetisyan Yerevan

“L’Hiv può essere trasmesso durante rapporti sessuali non protetti, quando si scambia una siringa o un ago, quando si usa uno strumento non disinfettato, può essere trasmesso durante una gravidanza dalla madre infetta al bambino, durante il parto e l’allattamento, oppure con trasfusione di sangue infetto o dei suoi componenti”, Karen di 45 anni (il nome è di finzione), residente a Yerevan, sieropositivo da 10 anni, inizia il suo racconto con fatti duri, dicendo che è stanco dell’opinione distorta della società, che l’infezione può essere trasmessa ad esempio bevendo acqua dalla stessa tazza o con una semplice stretta di mano.

“L’anno era il 2010, mi sentivo costantemente debole, ero in una situazione che non capivo. Ho cercato informazioni su varie malattie su Internet, ho pensato di avere un tumore, poi finalmente ho capito che dovevo fare un esame medico. Quando ho sentito la diagnosi, ho pensato al suicidio. Non ho pensato ad altro che a morire. Ho capito che non sarei stato in grado di sopportare gli atteggiamenti nei miei confronti delle persone”, dice l’uomo.

Karen osserva che molti cittadini armeni, così come i residenti di molti altri paesi del mondo, hanno un’idea sbagliata di questa malattia: per questo motivo sta cercando in ogni occasione di informare il pubblico su quali siano i mezzi di trasmissione dell’infezione, e quali invece no.

“Gli psicologi hanno lavorato con me per un bel po’ di tempo, ne ho passate tante, fino a quando non sono stato in grado di accettarmi così come sono. Ho però un problema: nascondo il mio nome perché non voglio mettere in pericolo mia moglie. So che molte persone nella comunità finirebbero per non accettarla, indipendentemente dal fatto che sia infetta o meno”.

Secondo i dati del Centro repubblicano armeno per la prevenzione dell’Aids, dal 1988 al 31 gennaio 2020 sono stati registrati in Armenia 3825 casi di Hiv, di cui 448 nel corso del 2019. 2653 (69%) sono maschi, mentre 1172 (31%) sono femmine. 63 casi (1,7%) di infezioni da Hiv sono stati registrati tra i bambini.

Circa la metà dei sieropositivi, il 50,5%, aveva un’età compresa tra i 25 e i 39 anni al momento della diagnosi.

Le principali vie di trasmissione dell’infezione da Hiv in Armenia sono rapporti eterosessuali (72%), uso di droghe iniettabili (19%). Inoltre, sono stati registrati casi di trasmissione dell’Hiv tramite rapporti omosessuali, da madre a figlio e attraverso trasfusioni di sangue.

Il numero più alto di casi di Hiv è stato registrato tra i residenti di Yerevan – 1161 casi, che rappresentano il 30% della totalità. La regione di Shirak è al secondo posto, con l’11.3% (433).

“Forse la frase più atroce che abbia mai sentito in vita mia è stata quella che mi comunicava la diagnosi della mia sieropositività. Mio marito mi ha contagiato con l’Hiv ed è morto”, racconta la 37enne Gayane (il nome è di finzione).

Gayane vive a Gyumri, la seconda città della Repubblica. Porta il peso sia del silenzio sulla causa della morte di suo marito che della sua malattia. Racconta che anche se non vivono in una piccola città, anche il destino dei loro figli potrebbe essere terribile se qualcuno dovesse venire a sapere della sua sfortuna personale. “Sto crescendo due figlie. Per fortuna non sono state contagiate, ma non posso bussare alla porta di tutti e raccontare della mia malattia, della genetica e della trasmissione delle infezioni. Se qualcuno scopre che ho un problema le mie figlie saranno condannate alla solitudine”.

Gayane viene sottoposta ad esami medici e cure farmacologiche presso un centro specializzato di Yerevan. Racconta che il giorno in cui deve andare nella capitale, trova sempre qualcosa da dire alla famiglia sul perché va a Yerevan. “Lavoro da freelance, da casa. Sono fortunata in questo senso: ogni volta che ne ho bisogno, posso dire che ho un incontro con i miei colleghi a Yerevan”.

Anche l’apparato statale armeno è consapevole dell’atteggiamento discriminatorio. Una soluzione al problema è stata trovata: un mese fa il governo ha deciso di unire in un’unica struttura il Centro repubblicano armeno per la prevenzione dell’Aids e l’ospedale clinico per le infezioni “Nork”.

Il ragionamento alla base della decisione sosteneva che lo scopo della fusione dei due centri è quello di gestire efficacemente le risorse di due entità giuridiche (personale, finanziarie e patrimoniali), di aumentare le capacità diagnostiche di laboratorio (compresi gli esami a raggi-x ed ecografie), l’efficienza e la produttività dell’utilizzo dei dispositivi medici, di ottimizzare l’infrastruttura amministrativa, di organizzare il lavoro sistematico ed efficiente delle organizzazioni del sistema sanitario. “Un’altra importante considerazione riguarda l’attuale atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone sieropositive e dei malati di Aids nella nostra società, al quale, a nostro avviso, contribuisce l’organizzazione della diagnosi e del trattamento dell’infezione in un’istituzione separata. Ci aspettiamo quindi che la riorganizzazione descritta contribuisca anche all’eliminazione della stigmatizzazione e della discriminazione nei confronti delle persone che convivono con l’Hiv nel nostro paese”, è stato sostenuto a giustificazione dell’integrazione da parte del ministero della Salute armeno.

Questa decisione ha causato qualche malinteso. Vi è stato chi sosteneva che il Centro repubblicano per la prevenzione dell’Aids stesse chiudendo.

“Si intende solo integrare le misure di lotta contro l’Hiv/Aids al sistema sanitario generale di sviluppo e nessun servizio viene chiuso. Si va verso una riforma del sistema per fornire un maggiore accesso e un servizio di alta qualità”, ha chiarito il ministro della Salute armeno Arsen Torosyan in un’intervista rilasciata ad alcuni giornalisti.

“Sai, l’unico aspetto problematico che vivo è quello di non poter far sapere a nessuno che tipo di infezione ho dentro di me. Ci sono stati casi in cui un medico ha parlato del suo paziente a un suo conoscente e poi la notizia si è diffusa. Quel paziente non vive più in Armenia: non poteva vivere sotto il peso di questo atteggiamento discriminatorio. Non abbiamo bisogno di molto: abbiamo bisogno di non essere additati, non abbiamo bisogno di attenzioni extra…”, dice Gayane.