Energia: premier armeno Pashinyan, prezzo del gas non aumenterà (Agenzianova 31.12.18)

Erevan, 31 dic 2018 10:24 – (Agenzia Nova) – Il prezzo del gas in Armenia non subirà alcun cambiamento. Lo ha detto oggi il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan in una diretta streaming su Facebook. “Ieri ho avuto due conversazioni telefoniche con il presidente russo Vladimir Putin. L’argomento di queste conversazioni telefoniche è stato il prezzo del gas fornito all’Armenia, e in effetti possiamo dire che siamo giunti a una soluzione almeno per il prossimo futuro”, ha spiegato Pashinyan. Attualmente il paese caucasico beneficia di due canali di fornitura gestiti dalla russa Gazprom e dalla sua filiale locale, Gazprom Armenia. “Gazprom Armenia e Gazprom devono rivedere il prezzo di fornitura del gas. Ci saranno alcuni cambiamenti e un aumento del prezzo. Tuttavia, grazie ai nostri regolamenti interni, non vi sarà alcun cambiamento nei prezzi del gas per i consumatori armeni”, ha spiegato il capo del governo armeno, secondo cui il tema del prezzo del gas sarà una costante nei colloqui fra Erevan e Mosca, con l’intento di impedire a tutti i costi dei riflessi negativi sui consumatori armeni. (Res) © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

In Armenia a passo lento (suggestioninviaggio.it 27.12.18)

Da qualche tempo il turismo mostra un certo interesse per la regione caucasica dell’Armenia che viene considerata alquanto tranquilla. Si tratta di un grande impero divenuto un territorio di circa 30.000 chilometri quadrati a est del monte Ararat, racchiusa fra Turchia ad Ovest, Iran a sud, Azerbajan a sud est, Georgia a nord. Ai suoi tre milioni di abitanti si devono aggiungere i circa dieci milioni di Armeni sparsi per il mondo, che contribuiscono ad alimentare le risorse economiche della loro povera nazione. Dal 21 settembre 1991 l’Armenia è uno stato sovrano che risente, come gli altri stati satelliti dell’ex Unione Sovietica, di una grande crisi di risorse, pur con l’apparente benessere della capitale.

Il suo antico nome era Hayastan, ossia terra di Hayq, figlio di Jafet e nipote di Noè; gli Armeni sono uno dei popoli indoeuropei più antichi. Nel I secolo a.C divenne protettorato romano e nel 63 d. C Nerone,fece costruire il tempio di Mitra in stile ellenistico perfettamente conservato che si trova a Garni, a circa trenta chilometri da Yerevan, ed è sulla strada di Gheghard , dove sarebbe stata venerata la lancia che ferì il costato di Cristo. Gli Armeni sono stati accostati al popolo ebraico per la sua storia sofferta che li hanno portati a costruirsi una propria identità.

L’Associazione denominata “Movimento lento” propone un itinerario che dalla capitale Yerevan, in senso orario si spinge a nord sfiorando la Georgia e scende verso sud est, costeggiando il lago Sevan, per arrivare alle pendici dell’Ararat, in Turchia, per una camminata o pedalata di circa 550 chilometri. Lasciando la capitale, città che supera il milione di abitanti, ci si sposta a ovest di 25 chilometri concludendo la tappa a Edjmiadzin, lungo chilometri di fatiscenti case da gioco, in una sorta di Las vegas dei poveri; a metà percorso si possono visitare i resti dell’antica basilica di Zvartnots (sec.VII). La sopracitata località è la sede del catholicòs, il pontefice della chiesa armena ed è un grande parco animato da una moltitudine di fedeli e da cerimonie solenni.Tappe successive sono Aruk, Talin ed Artik con campagne deserte e rilievi fra i quali si erge il monte Ararat, alto 5137 metri.

Si cammina con un programma di tappa ma non sapendo dove si alloggerà al termine della giornata, fra alberghetti o sistemazioni precarie. Dopo sei giorni si raggiunge Gyumri, 160 chilometri a nord della capitale, con circa centomila abitanti, in un’ampia vallata dominata dal monte Aragats che supera i quattromila metri. Spostandosi ad est, superando un colle, si scende su Spitak, seguendo la ferrovia che va in Georgia. Nei dintorni di Stitak è stato costruito, in seguito al terremoto, il villaggio Italia che ora è gestito dai nostri alpini in congedo. A Vanadzor ci si dirige verso nord per raggiungere Alaverdi in due giorni in un paesaggio georgiano, che ha l’aspetto alpino, nonostante la quota sia più bassa. Si notano valli chiuse e strette, più verdeggianti rispetto all’aridità precedente con vasti

altipiani, nascosti in alto. La tradizione dice che nel villaggio pastorale di Odzun,con una chiesa antichissima, sia passato l’apostolo Tommaso. Sopra Alaverdi si trovano due monasteri imperdibili poiché inseriti nel Patrimonio Unesco: Sanhahin e Haghpat, raggiungibili con minibus e fuoristrada. Ridiscendendo verso sud-est, attraversando la regione abitata dai “molocani”, una comunità di contadini (al contrario degli armeni pastori)di origine russa, così denominata per la loro dieta a base di latte, che giunse dalla Russia all’inizio del XIX secolo perché considerata eretica rispetto alla chiesa di Mosca. I due villaggi di Liermontovo e Filetovo, sono incastonati in una piana circondata da montagne.

L’undicesima tappa del viaggio porta al lago Sevan: a poco meno di 2000 metri, con un’estensione di 3650 chilometri quadrati è un ottavo dell’Armenia, tanto che occorrono due giorni di cammino per costeggiarlo da nord a sud. Come fecero gli invasori ed i mercanti, si percorrono le orme di Tamerlano sulle vie della seta e delle spezie. Yeghegnadzor, dal nome impronunciabile, è sede di monasteri e di antiche università; un pellegrinaggio dovuto è quello al monastero di Kor Virap, affacciato alla terra di nessuno che divide l’Armenia dalla Turchia, Dopo una ventina di giorni si rientra a Yerevan, alle comodità e alle certezze quotidiane ma con la nostalgia degli spazi infiniti e il desiderio di riassaporare le molteplici suggestioni accostate.
Giuseppina Serafino

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Olanda. Per evitare il rimpatrio di una famiglia armena la messa va avanti da due mesi (La Stampa 26.12.18)

Agenpress. Va avanti da due mesi esatti, dal 26 ottobre scorso, la funzione religiosa nella chiesa protestante di Bethel, all’Aja, per evitare il rimpatrio di una famiglia armena che si è vista rifiutare la richiesta di asilo, nonostante viva in Olanda da nove anni.

Per legge in Olanda la polizia non può interrompere una funzione religiosa così pastori e fedeli, provenienti da tutto il Paese, si danno il cambio per non dare la possibilità alle autorità di avvicinarsi.

E’ scattato un vero e proprio pellegrinaggio che coinvolge anche persone di altri Paesi che si sono mobilitate per la famiglia Tamrazyan, una coppia cristiana con tre figli di 15, 19 e 21 anni che vive nel Paese dal 2010 e che ora si è trasferita nella chiesa.


Una messa no-stop di due mesi per salvare una famiglia dal rimpatrio (La Stampa 26.12.18)

na celebrazione no-stop, 24 ore al giorno, che va avanti ormai da giorni. L’obiettivo non è entrare a far parte dei Guinness dei primati ma impedire il rimpatrio di una famiglia armena (i Tamrazyan) che, dopo aver vissuto in Olanda per 9 anni, si è vista respingere l’asilo politico. La legge del Paese impedisce ai poliziotti di entrare in chiesa durante un rito religioso. E così centinaia di pastori e volontari hanno deciso di trasformare la cappella di Bethel a L’Aia in una sorta di rifugio. Dal 26 ottobre va in scena una lunghissima preghiera di protezione (oltre 1400 ore). Nel corso dei giorni l’evento è diventato molto popolare (ne hanno parlato tra gli altri il New York Times la Cnn), costringendo gli organizzatori a emettere dei biglietti per controllare l’affluso di chi voleva partecipare.

Il pastore Axel Wicke ha detto che il servizio nato per proteggere la famiglia armena è finito col diventare un “pellegrinaggio” che ha coinvolto migliaia di persone da tutti i Paesi Bassi e non solo. «Abbiamo dovuto fare i conti con tantissime persone che vogliono visitare la chiesa durante il periodo natalizio» racconta spiegando che alcuni dei servizi sono stati trasmessi anche in streaming la vigilia e il giorno di Natale.

Finora il ministro olandese per le migrazioni, Mark Harbers, ha rifiutato di intervenire personalmente per risolvere la situazione e consentire loro di restare nel Paese. I rappresentanti religiosi si sono detti delusi dal ministro e hanno promesso di continuare con il servizio. «Quando celebriamo Dio ci sentiamo rafforzati, non possiamo abbandonare la nostra responsabilità nei confronti della famiglia Tamrazyan» ha spiegato in una nota il reverendo Theo Hettema, presidente della Chiesa protestante dell’Aia.

La ventunenne Hayarpi – la figlia maggiore della famiglia di cinque persone – ha dichiarato su Twitter che la partecipazione della Chiesa ha incoraggiato lei e i suoi famigliari ad andare avanti: «Non so davvero quale sarà il risultato, ma speriamo di poter rimanere qui (in Olanda), perché questa è la nostra casa, questo è il posto a cui apparteniamo. Mio fratello, mia sorella e io siamo cresciuti nei Paesi Bassi». Ora sperano in un miracolo natalizio.


 

La messa è infinita. I fedeli si danno il turno per evitare il rimpatrio di una famiglia armena (Rainews 26.12.18)

Va avanti da due mesi esatti, dal 26 ottobre scorso, la funzione religiosa nella chiesa protestante di Bethel, all’Aja, per evitare il rimpatrio di una famiglia armena che si è vista rifiutare la richiesta di asilo, nonostante viva in Olanda da nove anni. Per legge in Olanda la polizia non può interrompere una funzione religiosa così pastori e fedeli, provenienti da tutto il Paese, si danno il cambio per non dare la possibilità alle autorità di avvicinarsi. Dell’evento si sono occupati diversi media internazionali, tra cui Cnn e New York Times, ed è scattato un vero e proprio pellegrinaggio che coinvolge anche persone di altri Paesi che si sono mobilitate per la famiglia Tamrazyan, una coppia cristiana con tre figli di 15, 19 e 21 anni che vive nel Paese dal 2010 e che ora si è traferita nella chiesa. “Siamo contenti di tutto il sostegno che stiamo ricevendo, ma non siamo liberi”, ha detto ai media olandesi la Hayarpi, la figlia 21enne, che studia economia all’università. “Quando abbiamo iniziato, sapevamo che sarebbe stata una lunga celebrazione, che sarebbe durata settimane, se non mesi”, spiega Theo Hettema, presidente del consiglio generale della Chiesa protestante a L’Aja. L’obiettivo dell’iniziativa – dice – è creare anche lo spazio di dialogo con il governo su un dilemma che non dovrebbe porsi per nessuna chiesa: scegliere tra il rispetto della legge e la tutela dei diritti dei bambini. Tuttavia Hettema non si illude: “Potrebbe finire da un momento all’altro”. Il ministro per le Migrazioni, Mark Harbers, ha confermato un mese fa che “la famiglia non può restare nel Paese”. Intanto la Chiesa si è appellata alla comunità sul proprio sito: chi volesse dare un contributo può mandare una mail per organizzarsi con i turni, basta arrivare possibilmente in bici per non infastidire i vicini. Si cercano in particolare “nottambuli e mattinieri” e “non serve essere religiosi” per partecipare.

– See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/media/La-messa-infinita-I-fedeli-si-danno-il-turno-per-evitare-il-rimpatrio-di-una-famiglia-armena-cdb60a05-43a9-49cb-a009-4a5ab17ad4f8.html

Alle radici della rivoluzione dei giovani che vuole cambiare l’Armenia (Ilfoglio 23.12.18)

Prosegue il viaggio di Kiosk, giunto alla decima puntata, la penultima di questo 2018. Una puntata ricca di voci e musiche che dedichiamo a un riferimento imprescindibile per la nostra redazione: il pensatore e politico sudtirolese Alexander Langer, scomparso nel 1995. E come Langer, nel nostro piccolo, abbiamo costruito ponti per raccontarvi di Paesi e temi poco battuti dai grandi media: dall’Armenia alla Turchia, fino a una vicenda straordinaria, quella dei profughi polacchi negli anni quaranta, che da Varsavia passa per i gulag siberiani e per l’Iran, per giungere in Africa.

Iniziamo parlando del Paese dell’anno per questo 2018 secondo The Economist: l’Armenia, che dalla Rivoluzione di velluto alle elezioni di dicembre ha dato prova di una grande vitalità politica. Un Paese che sembrava destinato all’immobilismo più totale, dopo dieci anni di presidenza Sargsyan, ma che a partire da questa primavera ha innescato un cambiamento inarrestabile partito dal basso e senza alcun spargimento di sangue. La disobbedienza civile, a Yerevan, si è dimostrata un’arma temibile quanto incruenta.

Proseguiamo raccontando, insieme a Lorenzo Berardi che vi ha dedicato un articolo su Centrum Report, la vicenda di 18mila profughi polacchi accolti in Africa 75 anni fa, dopo essere passati per l’Iran. Ex deportati in Siberia, costretti a lasciare il Paese occupato dall’URSS a seguito del patto Molotov-Ribbentrop, questi profughi furono spinti verso un’epopea infinita che non si concluse neppure con la fine della guerra. Una storia di accoglienza davvero bella, ma anche un cortocircuito della storia, se pensiamo alle ultime vicende nel nostro continente e alla crisi dei rifugiati.

Passiamo quindi alla Turchia, per parlare dell’inchiesta internazionale #BlackSitesTurkey insieme a Lorenzo Bagnoli, che vi ha partecipato. Rapimenti all’estero, voli misteriosi, deportazioni e torture riservati agli oppositori del regime di Erdogan. Un fenomeno allarmante di cui nessuno ancora aveva scritto e che, a quanto riportano gli autori dell’inchiesta, è condotto dai servizi segreti turchi con la complicità di diverse cancellerie internazionali. Un buco nero, una Guantanamo turca, come è stata definita, dove finiscono (e scompaiono) oppositori provenienti da tutto il mondo.

Concludiamo parlando dell’eredità umana e politica di un grande del Novecento, Alexander Langer, insieme a Edi Rabini, direttore della Fondazione Alexander Langer, che porta avanti con il suo lavoro l’eredità umana e politica straordinaria del politico sudtirolese. E insieme a Rabini, storico collaboratore di Langer, ci siamo interrogati su quale sia il lascito e il significato della sua opera a oltre vent’anni dalla sua scomparsa.

Il tutto condito con musiche tutte ad est, brani di ieri e di oggi, in un viaggio immaginario che ci porta dalla Germania a Israele, passando per l’Iran, l’Afghanistan e l’Armenia. Buon ascolto!

 

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Roma – Si è chiusa in bellezza la maratona di concerti della Roma Youth String Orchestra (Lavoceromana.it 23.12.18)

Nella magnifica chiesa di S.Nicola da Tolentino a Roma i ragazzi dell’orchestra giovanile da camera d’archi diretta dal M° Alberto Vitolo hanno suonato per il terzo giorno consecutivo in uno splendido concerto di musica barocca e brani natalizi. Dopo aver suonato mercoledì 19 nella moderna Chiesa di Sant’Angela Merici, nel quartiere Nomentano e giovedì nell’accogliente Biblioteca Vaccheria Nardi, venerdì 21 hanno riscosso fragorosi applausi da parte di un caloroso pubblico accorso numeroso nella centrale chiesa di S.Nicola da Tolentino, a un passo da piazza Barberini.
Quest’ultima è la Chiesa ufficiale della comunità armena, da quando papa Leone XIII l’ha donata nel 1883 al Pontificio Collegio Armeno, ed è stata l’occasione per aprire a nuovi orizzonti musicali gli eventi organizzati dall’Associazione Culturale Insieme Oltre la Musica, che sostiene i ragazzi dell’orchestra. Nel corso della serata infatti è intervenuto anche il valido soprano lirico Marine Grigoryan, dalla timbrica dolcissima e dall’espressività avvolgente che, accompagnata con maestria all’organo da Anna Manukian, ha interpretato una ninna-nanna, Nnjea vordeak di Galajian e due brani tratti dalla liturgia armena come Surb, surb (Santo, Santo) e soprattutto Hreshtakain “Angelico”, che hanno condotto in un attimo tutto il pubblico negli affascinanti echi sonori della chiesa d’Oriente.
La serata si è aperta con i soli violini (Emilia Nigro, Edoardo Rauco, Gabriel Quaglietta, Chiara Politano, Ludovica Simeoli) e con il M° Alberto Vitolo, che non solo li ha diretti, ma si è messo generosamente in gioco suonando con loro. Insieme hanno fatto risuonare dal transetto alla navata il concerto per quattro violini di Telemann, un brano scritto a soli 17 anni da quello che viene considerato il Vivaldi tedesco, eseguito in quest’occasione da musicisti in media ancora più giovani, ma già in grado di dominare le parti solistiche in forma concertante. Un pezzo perfetto per mettere in evidenza le doti di ogni singolo musicista.
Il brano successivo ha visto l’esecuzione da solista dell’unica viola dell’orchestra, Giovanni Nigro che, con il prezioso supporto dei tre violoncellisti (Giulio Scialpi, Piero Liuzzi e Francesca Lovotti) e del pianista Valerio Tesoro al basso continuo, hanno suonato il Concerto in Sol maggiore per Viola, archi e basso continuo di Telemann. Un concerto in quattro movimenti, propri della Sonata da chiesa e del Concerto grosso corelliani, che nella sua scansione è così lontano dalla tripartizione usata da Vivaldi, tanto da trarre in inganno più volte il pubblico al momento degli applausi.
La viola solista è abilmente messa in risalto da una vera e propria cadenza, soprattutto nell’Andante, alternando ritornelli orchestrali di plastica evidenza a episodi solistici ma contenuti, brillanti e fantasiosi. Un concerto grosso che, anche solo per la sua durata, richiede un notevole esercizio di concentrazione in chi lo esegue: splendida palestra mentale per dei giovani che, oggi come oggi, sono abituati alla comunicazione frammentaria di Whatsapp e delle frasi smozzicate sui social.
Con il concerto in la minore di Bach, anche Emilia Nigro ha potuto dare prova della sua preparazione in qualità di solista, con particolare dolcezza melodica. Per non parlare della figurazione tracciata nell’Andante, in cui il violino solista si contrappone al basso ostinato, sottolineato dagli accordi gravi degli archi in un dialogo di straordinaria efficacia espressiva.
Ancora Bach con “Widerstehe doch der Sünde“, aria col da capo così bene interpretata dal contralto Tiziana Pizzi, alle prese con una cantata di difficile esecuzione, soprattutto per la lunghezza delle frasi e la scarsità di punti in cui prendere fiato. “Resisti al peccato, prima che il suo veleno si impadronisca di te” sono le prime parole di quest’aria in cui il movimento sfuggente delle quartine di semicrome dei violini sembra rappresentare la tentazione, in contrasto con le lunghe note del canto sulla parola “widerstehe” (“resisti”), richiamo alla vigilanza.
L’atmosfera natalizia è stata evocata nel passaggio all’Allegro e Pastorale dal Concerto Grosso op.VI, n.8 “fatto per la Notte di Natale” di Corelli e da due brani tratti dal Messiah di Haendel, “Pifa”, Sinfonia Pastorale e “He shall feed his flock” , duetto per soprano (Roberta De Nicola) e contralto (Tiziana Pizzi), carezzevoli e melodiose, particolarmente affiatate dalla loro pluriennale esperienza comune di artiste nel Coro dell’Accademia di Santa Cecilia e ugualmente generose nella loro esibizione con la Roma Youth String Orchestra.
Trionfo finale di voci ed orchestra, con il prezioso supporto, oltre che del soprano Roberta De Nicola e del contralto Tiziana Pizzi, anche del tenore Paolo Foti e del basso Roberto Montuori, anch’essi artisti del coro dell’Accademia di Santa Cecilia che, insieme al giovane Francesco Percuoco, già cantore della Cappella Sistina e ora valido pianista nella Roma Youth String Orchestra, hanno dato vita con le loro splendide voci ad un’antologia di celebri brani natalizi come “Tu scendi dalle stelle”, “Stille Nacht”, “Adeste fideles” e “White Christmas”: non poteva esserci conclusione migliore per scaldare i cuori ed il pubblico in un concerto proposto a poche ore dal Natale.
Una serata davvero speciale, un concerto intenso da cui è emerso l’impegno profuso su più fronti: dei ragazzi, dell’ospitalità da parte della comunità armena, dei musicisti professionisti e soprattutto dell’attenta cura del Maestro Alberto Vitolo, non solo violinista di pregio, ma concertatore e direttore della Roma Youth String Orchestra, nonché promotore di quest’ambizioso progetto che mira a far crescere musicalmente e a far diventare nel tempo questo gruppo un’orchestra di professionisti, portandoli ad un alto livello musicale attraverso lo studio, l’analisi e le collaborazioni con altri artisti.
Solo con uno studio intenso e continuativo i giovani musicisti che ne fanno parte potranno diventare un giorno soci responsabili dell’orchestra (attualmente lo sono i loro genitori con l’Associazione Culturale “Insieme Oltre la Musica”) e del progetto che hanno costruito nel tempo. In tal modo i ragazzi della Roma Youth String Orchestra potranno trasformare in professione la loro passione per la musica. Un progetto davvero ambizioso, ma soprattutto originale e costruttivo che davvero non ha eguali nel panorama musicale italiano.
Ora l’orchestra si preparerà a nuovi impegni: per questo, a partire dal nuovo anno, si terranno audizioni permanenti per 4-5 violini, una viola e un contrabbasso.

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L’ultima puntata di Kiosk, la radio sintonizzata sull’est! (Eastjournal 22.12.18)

Prosegue il viaggio di Kiosk, giunto alla decima puntata, la penultima di questo 2018. Una puntata ricca di voci e musiche che dedichiamo a un riferimento imprescindibile per la nostra redazione: il pensatore e politico sudtirolese Alexander Langer, scomparso nel 1995. E come Langer, nel nostro piccolo, abbiamo costruito ponti per raccontarvi di Paesi e temi poco battuti dai grandi media: dall’Armenia alla Turchia, fino a una vicenda straordinaria, quella dei profughi polacchi negli anni quaranta, che da Varsavia passa per i gulag siberiani e per l’Iran, per giungere in Africa.

Iniziamo parlando del Paese dell’anno per questo 2018 secondo The Economist: l’Armenia, che dalla Rivoluzione di velluto alle elezioni di dicembre ha dato prova di una grande vitalità politica. Un Paese che sembrava destinato all’immobilismo più totale, dopo dieci anni di presidenza Sargsyan, ma che a partire da questa primavera ha innescato un cambiamento inarrestabile partito dal basso e senza alcun spargimento di sangue. La disobbedienza civile, a Yerevan, si è dimostrata un’arma temibile quanto incruenta.

Proseguiamo raccontando, insieme a Lorenzo Berardi che vi ha dedicato un articolo su Centrum Report, la vicenda di 18mila profughi polacchi accolti in Africa 75 anni fa, dopo essere passati per l’Iran. Ex deportati in Siberia, costretti a lasciare il Paese occupato dall’URSS a seguito del patto Molotov-Ribbentrop, questi profughi furono spinti verso un’epopea infinita che non si concluse neppure con la fine della guerra. Una storia di accoglienza davvero bella, ma anche un cortocircuito della storia, se pensiamo alle ultime vicende nel nostro continente e alla crisi dei rifugiati.

Passiamo quindi alla Turchia, per parlare dell’inchiesta internazionale #BlackSitesTurkey insieme a Lorenzo Bagnoli, che vi ha partecipato. Rapimenti all’estero, voli misteriosi, deportazioni e torture riservati agli oppositori del regime di Erdogan. Un fenomeno allarmante di cui nessuno ancora aveva scritto e che, a quanto riportano gli autori dell’inchiesta, è condotto dai servizi segreti turchi con la complicità di diverse cancellerie internazionali. Un buco nero, una Guantanamo turca, come è stata definita, dove finiscono (e scompaiono) oppositori provenienti da tutto il mondo.

Concludiamo parlando dell’eredità umana e politica di un grande del Novecento, Alexander Langer, insieme a Edi Rabini, direttore della Fondazione Alexander Langer, che porta avanti con il suo lavoro l’eredità umana e politica straordinaria del politico sudtirolese. E insieme a Rabini, storico collaboratore di Langer, ci siamo interrogati su quale sia il lascito e il significato della sua opera a oltre vent’anni dalla sua scomparsa.

Il tutto condito con musiche tutte ad est, brani di ieri e di oggi, in un viaggio immaginario che ci porta dalla Germania a Israele, passando per l’Iran, l’Afghanistan e l’Armenia. Buon ascolto!

 

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Armenia. Il dopo voto e le difficili sfide del governo Pashinyan (Notiziegeopolitiche 22.12.18)

di Marco Vito Limburgo –

Dopo il successo della rivoluzione di velluto, che in modo assolutamente pacifico ha destituito il governo sempre più autoritario di Serzh Sarkissian, è andata consolidarsi la figura dell’ex giornalista riciclato alla politica nonché principale volto e ideatore delle proteste, Nikol Pashinyan. Divenuto primo ministro dopo le dimissioni forzate del predecessore si è ritrovato con il pesante fardello di parlamento quasi completamente egemonizzato dai partiti avversi (forte era la compagine di deputati della forza politica precedentemente al potere, il Partito Repubblicano) e quindi non ha destato scalpore la decisione del primo ministro di rassegnare le dimissioni e convocare nuove elezioni, sfruttando il successo di risultati ampiamente positivi a livello locale, capitalizzando il prestigio al fine di ottenere una forte maggioranza parlamentare.
Come largamente previsto il partito di Pashinyan, l’”Alleanza Il mio passo”, ha ottenuto una forte vittoria elettorale che con il 70% di voti lascia bene poco spazio alle rimostranze degli oppositori. Quasi completamente cancellato il residuo supporto al Partito Repubblicano che con il 4,70% dei voti rischia di andare in contro a una quasi scontata dissoluzione. A entrare in parlamento, superando la soglia di sbarramento del 5%, solo i conservatori filorussi di “Armenia Prospera” e i liberali pro-Europa di “Armenia luminosa” con rispettivamente l’8,27% e il 6,37%. Restano fuori dai giochi anche i nazionalisti di Sasna Tsrer (protagonisti in negativo della crisi degli ostaggi del 2016 a Yerevan) e la Federazione Rivoluzionaria Armena, storico partito socialista fra i più antiche del paese.
L’affluenza al 49% è stata criticata dagli oppositori come segno della pesante disaffezione dell’opinione pubblica ma è dato ingannevole: nel processo di voto in Armenia si contano anche i cittadini presenti all’estero (la diaspora è sempre stata una componente fondamentale della vita sociale, culturale ed economica della nazione) che per difficoltà e cattiva gestione non sempre riescono attivamente esprimere la propria preferenza nonché le croniche difficoltà nella mobilitazione dei cittadini rurali (carenza di autobus e servizi). Un affluenza che più pragmaticamente si attesta, quindi, intorno al 62%. Gli osservatori delle organizzazioni internazionali non hanno riscontrato palesi irregolarità o pressioni e quindi abbiamo potuto assistere a un processo elettorale trasparente, partecipato e con un risultato ampiamente previsto.
Non sono certo mancate le rimostranze da parte dei partiti sconfitti che hanno denunciato un pesante clima intimidatorio frutto dell’afflato rivoluzionario che tutt’ora pervade la nazione ma il risultato deludente dei repubblicani e di altri partiti considerati establishment non può che essere causato dalle cattive politiche passate che hanno reso il sistema politico armeno fra i più corrotti, nepotisti e clientelari nel Caucaso. Pashinyan ha impegnato notevoli energie personali nella campagna elettorale che lo ha visto organizzare raduni di piazza, tour in ogni angolo del paese e massiccio utilizzo dei social media mentre gli avversari han preferito un approccio più remissivo, sponsorizzando la protezione dei valori tradizionali messi in pericolo da un governo potenzialmente vicino all’Europa o paventando una vittoria troppo larga della compagine “Il mio Passo” che potrebbe trasformare il paese in un’autocrazia a partito unico come nel caso del vicino Azerbaijan. Il controllo quasi totale del parlamento lascerà mano libera alla coalizione del primo ministro ma forse è proprio il clima di grande fiducia e le aspettative che potrebbe maggiormente danneggiare la futura tenuta del governo.
Le sfide che il paese si appresta ad affrontare, dalla politica interna a quella estera, sono relativamente ampie e la necessità di riforme strutturali richiederà dei sacrifici che la già provata popolazione potrebbe dimostrarsi incapace di affrontare e sopportare. Se il vangelo rottamatore di Pashinyan ha sedotto una grande maggioranza trasversale dei cittadini armeni, le politiche realiste e le congiunture internazionali rischiando di diffondere disillusione generale che potrebbe scavare un solco profondo fra cittadinanza e politica aprendo la strada a pericolose derive estremiste o autoritarie.

Una revisione dell’apparato economico deve essere la necessaria priorità del governo; tamponare la proibitiva situazione del deficit di 34,8 miliardi di dram, lotta alla corruzione diffusa, creazione di posti di lavoro nei servizi, diversificazione dell’economia troppo dipendente dall’import-export russo o dalle rimesse dei 6 milioni di immigrati (di questi due lavorano principalmente nelle grandi città russe), attrarre investimenti dai progetti di collaborazione in costante crescita con l’Unione Europea e in ultimo ma non meno importante contrastare il potere economico e di conseguenza politico degli oligarchi legati al vecchio governo con interessi ramificati principalmente nelle province. Contro questi oligarchi si è espresso più volte e con asprezza lo stesso Pashinyan: “Mi riferisco a quei sindaci e amministratori di villaggi: sappiate che personalmente vi verrò a trovare, vi prenderò per la gola e vi butterò fuori dai vostri uffici”. Non dovete camminare nelle strade del paese. Il vostro posto è in prigione e voi tutti, criminali, saccheggiatori e canaglie, ci finirete”. Ma ancora scarse e insufficienti appaiono le misure prese fin ora. Non sarà l’economia l’unico argomento che agiterà il dibattito interno nei prossimi anni ma anche il fortissimo tasso di emigrazione che non accenna a diminuire, complice la fuga di laureati, imprenditori o semplici lavoratori manuali, privando il paese di necessari capitali umani, la crisi demografica sempre più drammatica e l’invecchiamento della popolazione che renderà necessarie nuove e più stringenti leggi in campo pensionistico. L’approvazione nel giugno scorso di una contestata riforma pensionistica avviata quattro anni prima che ha in parte privatizzato un sistema asfittico e non funzionale (280.000 lavoratori nati dopo il 1973 verranno tutelati da fondi pensioni in mano a società europee) ha causato dei malumori e timide reazioni di insoddisfazione anche nella compagine fedele alla linea politica del primo ministro.
Se la politica interna sembra promettere grossi grattacapi al futuro governo del paese la priorità rimane, in una piccola nazione incastonata tra due mortali nemici e ponte fra Caucaso e Medio Oriente, la politica estera. Tralasciando la travagliata ma indispensabile relazione con la Russia, le relazioni con tre paesi costituiscono la priorità dell’agenda politica governativa: Azerbaijan, Turchia e Iran.

Risale al 7 dicembre scorso l’ultimo incontro fra il “presidente” azero Ilham Aliyev e Nikol Pashinyan nel corso dei lavori dell’ultimo summit informale della Comunità degli Stati Indipendenti. I due capi di stato concordano sulla congiuntura positiva delle relazioni bilaterali fra i due paesi e sul prolungamento dello status quo e relativo clima di pace che si registra lungo il confine tra Yerevan, la repubblica non riconosciuta del Nagorno Karabakh e Baku, senza però compiere dei necessari passi avanti per la risoluzione della crisi. Quello in corso nella regione non è altro che l’ennesimo conflitto congelato retaggio dell’epoca sovietica che contrappone una regione etnicamente armena al governo centrale azero che ne pretende la sovranità che ad oggi è cogestita da Armenia e Karabakh in un contesto di parziale autonomia e legittimità.
Il conflitto del 1992 ha lasciato in eredità oltre che un continuo stato di insicurezza, vari sono stati gli sconfinamenti reciproci, i bombardamenti al confine e gli atti intimidatori, un pesante sentimento di reciproca animosità trasversale nei due paesi che rende difficile far avanzare un progetto realistico di risoluzione definitiva del conflitto. In questo frangente le opinioni pubbliche polarizzate, il clima di odio e la strumentalizzazione politica dettano la policy di entrambi i governi che sembrano cosi preferire un precario status quo a dolorose amputazioni di territorio foriere di pesanti ripercussioni a livello elettorale.
La figura stessa e il passato del primo ministro armeno fanno sperare ben poco gli analisti su futuri colpi di scena e lasciano ben poco spazio all’ottimismo. Uno dei figli di Pashinyan ha partecipato in passato ad operazioni militari nella repubblica contesa e il primo ministro stesso non ha lesinato dichiarazioni di fuoco e aperto sostegno alla linea dura ampiamente condivisa nel paese. “Il Karabakh non deve far parte dell’Azerbaijan”, ha dichiarato in un recente discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Uniti denunciando l’intenzione della leadership azera di attuare una pulizia etnica non dissimile a quella operata nel Naxcivan (exclave azera confinante con Yerevan) spiegando cosi l’impossibilità di cedere senza negoziati la repubblica a Baku non prima di reciproci compromessi e in un atmosfera di collaborazione e fiducia reciproca. Dichiarazioni forti non dissimili a quelle del presidente azero Aliyev in grado di rassicurare l’opinione pubblica armena e gli influenti apparati militari vicini ai destini di Stepanakert (capitale del Nagorno Karabakh) ma che allontanano ogni possibile speranza di distensione.

A pesare sulle relazioni con la Turchia resta sicuramente il nodo centrale del genocidio armeno, tragedia nazionale e elemento fondante nella formazione della nazione nonché la chiusura totale della frontiera Yerevan – Ankara: la Turchia infatti non solo non riconosce ad oggi il genocidio compiuto dai Giovani Turchi nel 1915-1917 ma continua a sponsorizzare un nazionalismo panturco (solidale all’alleato azero) negando e riscrivendo la storia in maniera distorta. Nel novembre 2018 Pashinyan ha ribadito che l’Armenia è pronta a normalizzare le sue relazioni con la Turchia senza condizioni preliminari ma ha affermato che il riconoscimento del genocidio non è “una questione di relazioni armeno-turche”, ma è “una questione di sicurezza per noi e una questione di sicurezza internazionale, ed è il nostro contributo al movimento e al processo di prevenzione del genocidio”. La Turchia per il nuovo primo ministro armeno deve fare i conti con il suo sanguinoso passato ma la normalizzazione delle relazioni bilaterali continua ad essere per Ankara una mossa politica rischiosa attualmente impossibile da implementare nonostante le pressioni degli Stati Uniti, a loro volta pressati dall’influente a Washington lobby armeno americana.

Stringere e rafforzare la cooperazione con la repubblica islamica d’Iran rappresenta una scelta obbligata per sfuggire all’accerchiamento turco-azero e alla dipendenza della Russia ma rischia di danneggiare le già tese relazioni con gli Stati Uniti. Uno strano rapporto quello fra Teheran e Yerevan che si nutre delle affinità culturali secolari fra la Persia e il Caucaso e sulla condivisa avversione reciproca nei confronti del panturchismo. L’Iran, a scapito di una cospicua percentuale di cittadini di origine azera (tra il 17 e il 20%), persegue fin dai tempi degli shah un rapporto di fruttuosa cooperazione commerciale e diplomatica con l’Armenia frutto della volontà dei decisori della repubblica islamica di influire maggiormente nel puzzle caucasico e di indebolire l’irredentismo azero. La rivoluzione di velluto ha riacceso le speranze in Rouhani nel ristrutturare e migliorare le relazioni bilaterali danneggiate dalla mancanza di chiara leadership del precedente governo Sargsyan. Il 26 settembre nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite i leader delle due nazioni si sono incontrati accordandosi sull’ampliamento della zona commerciale di confine di Meghri che oltre che generare necessaria liquidità per entrambe le nazioni schiacciate dalla crisi economica o dalle sanzioni americane, rispettivamente, potrebbe rappresentare uno importante corridoio strategico nell’alveo della difficile relazione fra Iran e Russia. Putin ha più volte espresso il desiderio di voler coinvolgere nell’Unione economica eurasiatica eppure, in passato, è stata proprio la Russia ha sabotare alcune iniziative persiane in Armenia nel campo dell’esportazione di idrocarburi temendo l’eccessiva influenza di Teheran nel piccolo paese caucasico ma il timore dell’offensiva americana che accomuna Russia e Iran rischia di coinvolgere le due nazioni in un potenziale abbraccio euroasiatico che potrebbe strangolare le aspettative decisionali delle élite politiche a Yerevan.
Recepito con timidezza invece il messaggio che Maja Kocijancic, portavoce per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea ha lanciato alla coalizione vincitrice all’indomani dei risultati elettorali: “Siamo ansiosi di lavorare con il nuovo Parlamento democraticamente eletto e il futuro governo per approfondire le nostre relazioni politiche ed economiche sulla base degli impegni congiunti dell’accordo di partenariato globale e rafforzato Ue-Armenia”.
L’Armenia è costretta a giocare un ruolo di primo piano nell’arena geopolitica che ben poco si addice alle sue scarse risorse materiali e umane. Se il nuovo primo ministro sarà in grado di affrontare e vincere le sfide interne e rompere l’accerchiamento lungo le sue frontiere, coltivare alleanze proficui con i partner di sempre tessendo al contempo nuove relazioni con attori emergenti (Cina, Asia, Europa) dipenderà dalla volontà del popolo armeno di compiere sforzi titanici che potrebbero cambiare il destino della nazione.

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Armenia: proteste ad Echmiadzin contro rilascio ex generale Manvel Grigoryan (Agenzianova 22.12.18)

Erevan, 22 dic 12:06 – (Agenzia Nova) – I residenti della città di Echmiadzin, nell’Armenia occidentale, sono scesi in strada questa mattina per protestare contro il rilascio di Manvel Grigoryan, generale in pensione dell’esercito armeno ed ex parlamentare arrestato nel giugno scorso con l’accisa di appropriazione indebita di rifornimenti militari e possesso illegale di armi da fuoco. È quanto riporta l’agenzia di stampa “Panorama”, secondo cui i manifestanti hanno bloccato diverse strade della città, fra cui l’accesso all’autostrada Yerevan-Armavir. Grigoryan è stato rilasciato ieri su cauzione dalla Corte di Erevan. L’ex generale era stato arrestato lo scorso 19 giugno, dopo essere stato privato della sua immunità parlamentare.
(Res)

Per l’Economist il paese dell’anno è…l’Armenia (Reppublica.it 21.12.18)

…l’Armenia. Perché la piccola ex-repubblica sovietica del Caucaso ha risposto a un tentativo di imposizione di un regime autocratico con una pacifica protesta di piazza, l’elezione di un premier riformatore e una campagna contro corruzione e incompetenza. Pur convinto della scelta, l’Economist ricorda che la disputa territoriale con l’Azerbaigian nella regione autonoma del Nagorno-Karabak, fonte di un’aspra guerra dai tempi dell’Urss, rimane irrisolta e potrebbe riaccendersi. “Ma una antica nazione spesso mal governata ha una chance di democrazia e rinnovamento in un’area turbolenta e per questo l’Armenia è il nostro paese dell’anno”, afferma il settimanale. Altra ragione: di sviluppi positivi non ce ne sono stati tanti nel 2018. Accontentiamoci di questo.

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