‘La bastarda di Istanbul’ a teatro (Ilfriuli.it 06.03.18)

Premio Persefone 2016 come miglior spettacolo teatrale, Premio Persefone e Premio Franco Cuomo 2016 come miglior attrice a Serra Yilmaz, un’infinità di “tutto esaurito” nei principali teatri italiani, questo il curriculum delle prime tre stagioni dello spettacolo di Angelo Savelli La bastarda di Istanbul che andrà in scena per la prima volta anche nel circuito ERT per due date: sabato 10 marzo al Teatro Odeon di Latisana e domenica 11 marzo al Teatro Candoni di Tolmezzo. Entrambe le serate inizieranno alle 20.45 e avranno per protagonisti sul palco, con Serra Yilmaz – attrice icona del cinema di Ferzan Ozpetek – anche Valentina Chico, Riccardo Naldini, Monica Bauco, Marcella Ermini, Fiorella Sciarretta, Diletta Oculisti ed Elisa Vitiello.
Tema centrale e ancora scottante dell’omonimo best seller di Elif Shafak, indiscussa protagonista della letteratura turca, grande conoscitrice del passato e profonda osservatrice del presente del suo Paese, è la questione armena che rimane ancora adesso un buco nero nella coscienza della Turchia. Ad Istanbul sbarca Armanoush, giovane e tranquilla americana che, in cerca delle proprie radici armene, arriva nella famiglia matriarcale del suo patrigno turco Mustafa. Lì incontrerà Asya “la bastarda”, sua coetanea, adolescente turca ribelle e nichilista, con una grande e colorata famiglia di donne alle spalle, e un vuoto al posto del padre. Nonne, madri, zie, sorelle, amiche. Quando sono le donne a dominare la scena, tutto si intreccia, si complica e diventa affascinante.
La bastarda di Istanbul è un’intricata e originale saga familiare multietnica, popolata da meravigliosi personaggi femminili, da storie brucianti e segreti indicibili. Un segreto lega la Turchia all’Armenia, i turchi agli armeni, Asya ad Armanousch. Un segreto che forse non verrà mai svelato. Un segreto che ha l’aspetto di un’antica spilla di rubini a forma di melagrana.
Serra Yilmaz, nata ad Istanbul, ha studiato psicologia in Francia. Nel ‘77 comincia a lavorare con un gruppo di formazione teatrale e da quel momento non smette di fare teatro. Nel 1983 esordisce al cinema come attrice nel lungometraggio del regista Atif Yilmaz Sekerpare. Dal 1987, grazie al film del regista Kavur Albergo Madrepatria arriva al successo internazionale e diventa una delle più prestigiose attrici turche. Dal 1988 al 2004 fa parte del Teatro Municipale di Istanbul non solo come attrice ma anche come responsabile delle relazioni internazionali. Nel 1999 partecipa ad Harem Suaré, il secondo film di Ferzan Ozpetek, regista del quale diventa attrice/icona, interpretando anche i successivi Le fate ignoranti, La finestra di fronte e Saturno Contro, tutti grandi successi di critica e di pubblico. Lavora in popolari produzioni televisive e teatrali turche ed in alcune sofisticate produzioni teatrali francesi. I suoi eclettici interessi l’hanno manche portata ad essere l’interprete del Presidente della Repubblica Italiana e dei due ultimi Papi nelle loro visite ufficiali in Turchia e a partecipare come vocalist nei concerti di giovani gruppi musicali turchi, come i Baba Zula o il gruppo di musica improvvisata Islak Kopek (Cane bagnato). Dal 2004 interpreta con straordinario successo lo spettacolo/cult L’ultimo harem di Angelo Savelli.

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Armenia: il nuovo Presidente si chiama Sarkissian (Il caffe geopolitico 04.03.18)

RistrettoDa venerdì scorso l’Armenia ha un nuovo Presidente. Si tratta di Armen Sarkissian, 64 anni, ex Primo Ministro e ambasciatore del suo Paese in diverse nazioni europee. Sarkissian prende il posto di Serzh Sargsyan, autentico mattatore della politica armena post-sovietica, e resterà in carica per i prossimi sette anni.

Nonostante l’autorevolezza del candidato prescelto, l’elezione del nuovo capo dello Stato è stata segnata da diverse polemiche e controversie. In base alle nuove disposizioni costituzionali introdotte nel 2015, Sarkissian è stato infatti eletto dal Parlamento e avrà poteri molto più limitati rispetto a quelli del suo predecessore. Al contrario sarà il Primo Ministro ad avere d’ora in poi un ruolo centrale nella vita politica nazionale, rendendo di fatto l’Armenia una repubblica parlamentare simile al modello italiano. Le principali forze d’opposizione hanno però visto tale cambiamento istituzionale come un tentativo di Sargsyan di rimanere ai vertici dello Stato armeno, lasciando la carica presidenziale (ormai non rinnovabile) per quella più influente di capo del Governo. Da qui la loro contrarietà alla candidatura di Sarkissian, che ha a lungo esitato prima di accettare la nomination offertagli dal Partito Repubblicano d’Armenia (RPA). Ciononostante, il neo-Presidente è stato eletto con una maggioranza schiacciante (90 voti a favore e solo 10 contrari) e prenderà ufficialmente possesso delle sue funzioni il prossimo 9 aprile.

Nel frattempo Sargsyan ha negato l’accusa di voler diventare Primo Ministro dopo la fine della sua esperienza presidenziale. Ma l’RPA lo sta comunque presentando come proprio candidato non ufficiale per il ruolo, confermando parzialmente i sospetti dei critici della riforma costituzionale e gettando ombre preoccupanti sul futuro della fragile democrazia armena. Ad ogni modo spetterà a Sarkissian rappresentare d’ora in avanti l’Armenia sulla scena internazionale. Un compito tutt’altro che facile, visto il persistente conflitto di Yerevan con l’Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh e la precaria posizione di equilibrio del Paese tra Russia e UE nel Caucaso.

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Il capo del protocollo Bettencourt nuovo nunzio in Armenia (Lastampa 03.03.18)

Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico in Armenia l’arcivescovo portoghese José Avelino Bettencourt, 55 anni, finora capo del protocollo della Segreteria di Stato. Lo scorso 26 febbraio il Papa lo aveva designato arcivescovo e nunzio, senza però stabilire una destinazione. Oggi, invece, la conferma dell’Armenia comunicata dalla Sala Stampa vaticana.

Nato nelle Azzorre, in Portogallo, il 23 maggio 1962, Bettencourt è stato ordinato sacerdote il 29 giugno 1993. Incardinato a Ottawa (Canada), è laureato in diritto canonico. È entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede il 1° luglio 1999 e ha lavorato presso la nunziatura apostolica nella Repubblica Democratica del Congo e presso la sezione Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. È stato nominato capo del Protocollo della Segreteria di Stato, il 14 novembre 2012.

La sua nomina segue di pochi giorni quella di un altro prelato di Curia, il maltese monsignor Alfred Xuereb, già segretario generale della Segreteria per l’Economia ed ex segretario particolare in seconda di Benedetto XVI, come nuovo nunzio in Corea del Sud e Mongolia

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È l’intervento più di significativo di una serie di quattro che la Santa Sede ha tenuto la settimana passata presso il Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra. In questa settimana, intanto, il Papa ha nominato due nuovi nunzi, continuando a riempire le caselle rimaste vacanti della diplomazia pontificia. Da segnalare anche la situazione che si è creata presso il Santo Sepolcro di Gerusalemme, su cui si è espresso, tra gli altri, anche l’ambasciatore di Palestina presso la Santa Sede.

Il capo del protocollo vaticano nominato nunzio in Armenia

È stato nominato nunzio in Armenia José Avelino Bettencourt, capo dell’ufficio del Protocollo vaticano. La sua nomina come nunzio era stata resa nota lo scorso 28 febbraio, insieme all’annuncio che monsignor Alfred Xuereb, storico secondo segretario di Benedetto XVI, era stato destinato alla nunziatura della Corea del Sud.

Non era stata però annunciata la destinazione di monsignor Bettencourt. L’1 marzo, è stato reso noto che monsignor Bettencourt sarà nunzio in Armenia. Una destinazione particolare, se si pensa che il nunzio in Armenia è da sempre nunzio in Georgia e in Azerbaijan, e la sede della nunziatura è a Tbilisi, la capitale della Georgia. In realtà, per questioni burocratiche, il governo georgiano ancora non ha dato il suo gradimento alla nomina, mentre quello armeno sì. E così, monsignor Bettencourt è stato intanto destinato all’Armenia, in attesa che si completino i passaggi burocratici per avere anche le altre due nomine nei Paesi del Caucaso.

La nomina è cruciale per la diplomazia del Papa, specialmente in ambito ecumenico. Dopo il viaggio nel Caucaso in due tappe, che ha visto Papa Francesco visitare nel 2016 l’Armenia a giugno 2016, e poi Georgia ed Azerbaijan ad ottobre 2016, si sono intensificati i rapporti ecumenici. Ai padri stimmatini missionari in Georgia e presenti al capitolo generale che ha eletto il nuovo superiore, il Papa ha chiesto con calore di salutare il Patriarca Ilia II. Mentre si parla di un prossimo evento in comunione con la Chiesa Apostolica Armena in Vaticano, che dovrebbe riguardare San Gregorio di Narek.

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Armenia, il parlamento ha eletto per la prima volta il capo dello stato (Sputniknews 02.03.18)

Il parlamento armeno ha eletto per la prima volta il capo dello stato dopo la transizione al sistema parlamentare, chiudendo in questo modo la riforma costituzionale. Lo riportano i media russi.

Armen Sargsyan, candidato del partito repubblicano ed ex ambasciatore dell’Armenia in Gran Bretagna, è stato eletto presidente con il 90% dei voti.

Sargsyan si insedierà ufficialmente il 9 aprile, dopo la scadenza del mandato dell’attuale presidente. Lo stesso il governo si dimetterà. Il primo ministro sarà eletto dal partito di governo o dalla coalizione di governo.

Dopo la sua elezione, Armen Sargsyan ha ringraziato il Parlamento per la fiducia accordatagli e ha promesso di applicare tutta la sua conoscenza ed esperienza al servizio dello stato.

Armen Sargsyan, 65 anni, si è laureato nel 1976 all’Università Statale di Yerevan, dove dal 1976 al 1990 ha insegnato fisica e ha fondato il dipartimento di modellazione matematica di sistemi complessi. Dal 1984 al 1985 ha tenuto conferenze e svolto attività di ricerca presso l’Astronomical Institute of Cambridge University. Dal 1986 al 1992 ha insegnato all’Università Statale di Mosca e negli atenei di Germania, Stati Uniti, Grecia e Regno Unito.

Negli anni Novanta è stato ambasciatore dell’Armenia in Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Città del Vaticano e Regno Unito.

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Armenia: parlamento elegge Sarkisian presidente

(ANSA) – MOSCA, 2 MAR – Il parlamento dell’Armenia ha eletto Armen Sarkisian come nuovo presidente del paese. Sarkisian, ex premier ed ex ambasciatore in Gran Bretagna, era l’unico candidato alla poltrona di capo dello Stato ed è sostenuto dal presidente uscente Serzh Sargsian, che potrebbe adesso diventare primo ministro e continuare di fatto a mantenere il potere. Per Sarkisian, 64 anni, hanno votato 90 parlamentari, 10 hanno votato contro, mentre “una scheda elettorale è stata compilata in modo irregolare”. (ANSA)

 

Georgia-Armenia: primi incontri per premier Kvirikashvili a Erevan (Agenzianova 02.03.18)

Erevan, 02 mar 12:04 – (Agenzia Nova) – La delegazione del governo georgiano guidata dal primo ministro Georgi Kvirikashvili è stata accolta all’aeroporto di Erevan dal capo del governo armeno, Karen Karapetyan. I rappresentanti delle autorità armene e georgiane, nel quadro della visita di Kvirikashvilidi in Armenia, hanno avuto un confronto sulla cooperazione bilaterale. I premier Kvirikashvili e Karapetyan terranno un incontro bilaterale, a cui farà seguito una discussione in un formato esteso. È previsto anche l’incontro del premier della Georgia con il presidente dell’Armenia, Serzh Sargsian. La delegazione georgiana, include il vice primo ministro, i ministri dell’Economia, degli Esteri, della Difesa, delle Finanze, del Turismo amministrazione, nonché vice presidente del parlamento.

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Nor Arax: il villaggio armeno a Bari (Ilsudonline 01.03.18)

Di Concetta Colucci

C’è un luogo fisico, un villaggio, vicino Bari, sulla via di Capurso, che novant’anni fa ha unito due popoli e le loro storie.
E’ il villaggio di Nor Arax, che nel 1924 accolse poco più di un centinaio di profughi armeni in fuga dal primo genocidio della storia moderna, durante gli anni ricordati come quelli del “grande crimine”. 

Migliaia di persone, in fuga da Smirne, in fiamme dopo la conquista da parte dei turchi, furono deportate in campi di concentramento: da qui ottanta di loro vennero liberate, riuscendo ad essere imbarcate a bordo di una nave della società di navigazione “Puglia”.
Gli ottanta fortunati superstiti, approdarono a Bari, attraverso il Pireo, grazie al sostegno di un poeta armeno, Hrand Nazariantz, che prima di loro nella stessa città si era rifugiato nel 1913 salvandosi dalla sentenza di morte emessa per il suo impegno politico non gradito al potere.
Gli altri intellettuali armeni rimasti in Turchia furono deportati in Anatolia e uccisi.

Un massacro perpetrato dal partito dei Giovani Turchi intorno al 1915. Furono circa un milione e mezzo le persone coinvolte nelle marce della morte e furono le vittime per le quali la Turchia non ha mai ammesso la definizione di genocidio, dichiarando quello un atto di difesa contro l’insurrezione del popolo armeno. Attualmente ventidue Paesi, fra cui l’Italia, riconoscono ufficialmente il genocidio. Stati Uniti e Israele non lo riconoscono.

A Bari, il “popolo che fu il più insidiato, il più perseguitato, il più tradito tra i popoli della Terra”, così come lo descrisse Nazariantz, trovò un pezzetto d’Armenia nel villaggio Nor Arax, la città che li ha accolti malgrado le precarie condizioni economiche in cui vivevano i baresi stessi e che oggi si fa portavoce della richiesta di riconoscimento, a livello internazionale, del genocidio del 1915.

Hrand Nazariantz, il poeta armeno, visse in Puglia, la terra che lo ospitò durante il suo esilio, fino alla sua morte, ma mai smise di pensare alla sua terra di origine e al popolo armeno. Questo popolo è stato l’unico nella storia a subire due genocidi, uno alla fine dell’800 e l’altro durante la Prima Guerra Mondiale, anticipando di qualche decennio lo sterminio ebraico.

Con il supporto economico del “Comitato Barese Pro Armenia”, Nazariantz riuscì a portare a Bari i suoi amici connazionali salvandoli da una morte atroce. Da esule in Italia lavorò senza tregua e con passione alla causa del suo popolo. La casa editrice Laterza creò per lui la collana “Conoscenza Ideale dell’Armenia” e lo nominò direttore. Numerosi intellettuali italiani e stranieri suggerirono la sua candidatura per l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura, che quell’anno, era il 1953, fu assegnato invece a Winston Churchill.

Il villaggio si chiama Nor Arax in memoria di Arax o Arasse, il nome del fiume che scorre alle pendici del monte Ararat che per quegli armeni che giunsero a Bari dal mare assunse un nuovo significato, divenendo il nome del villaggio che li avrebbe accolti e nel quale avrebbero vissuto insieme agli altri quaranta profughi che arrivarono in Puglia sei mesi dopo il primo sbarco.

Il villaggio di via Amendola a Bari, costituito da casupole in legno e cemento, diede modo agli armeni di avere una nuova vita in un luogo di pace e l’inclinazione al commercio dei baresi si unì alla antica tradizione della comunità armena di lavorare tappeti di alta qualità, in un clima di risolutezza che non si indurisce davanti al dolore. Questo luogo, di cui molti figli o nipoti degli anziani profughi continuano a mantenere vivo il ricordo, era costituito da una villa di campagna e da alcune casupole prefabbricate donate dall’Austria come pagamento dei danni dovuti all’Italia dopo la guerra. Negli anni a seguire a Nor Arax vissero circa 300 armeni in maniera completamente indipendente. La fabbrica di tappeti raggiunse il grande prestigio di arredare gli interni del treno reale di Vittorio Emanuele III e ancora oggi nel villaggio c’è chi continua a piantare e a curare, in mezzo alle case di nuova costruzione e al cemento, alberi di melograno, simbolo della Armenia.

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Guerra totale: la socialdemocrazia militarizzata del Karabakh (Osservatorio Balcani e Caucaso 01.03.18)

Con la sua flat-tax e tassi di crescita alle stelle, il Nagorno-Karabakh è stato descritto da alcuni come una tigre caucasica. Ma è un’economia pompata dall’esterno in una logica militaristica

01/03/2018 –  Aleksey S. Antimonov

(Pubblicato originariamente da OC Media il 19 gennaio 2018)

Da trent’anni, al confine tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan rieccheggiano fitte sparatorie: il rumore incessante del più antico “conflitto congelato” nell’ex Unione Sovietica. Tuttavia, per coloro che vivono nel Nagorno-Karabakh, da quando è stato firmato il cessate il fuoco del 1994, questo confine è sembrato andare sempre più lontano, quasi fino a svanire dall’orizzonte della rilevanza.

Gegham Baghdasaryan, a capo del Karabakh Press Club, ha illustrato questa situazione in un aneddoto raccontato a OC Media: anni fa, in una conferenza internazionale, fu chiamata a parlare una giovane donna armena del Karabakh. Alla domanda sul rapporto tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan, rispose: “Qual è il mio rapporto con l’Azerbaijan? Non esiste. Voglio solo essere lasciata in pace”.

Questa opinione è condivisa da molti in Karabakh. Un giovane sui venticinque anni ha detto che gli eventi di aprile gli avevano “aperto gli occhi” rispetto al “vero pericolo” rappresentato dall’Azerbaijan. Per lui e altri giovani, il cessate il fuoco era l’unica realtà conosciuta, e la retorica bellicosa e il lento, costante dribbling di morte sul confine erano diventati un rumore di fondo, fisso e permanente come le colline e il cielo.

Dagli scontri di aprile 2016 – quattro giorni di feroci combattimenti conclusi con oltre un centinaio di vittime e l’occupazione da parte dell’Azerbaijan di diverse posizioni chiave precedentemente controllate dalle forze armene – il conflitto ha assunto un’acuta immediatezza. Lo shock iniziale per la popolazione del Karabakh si è trasformato in rabbia sia verso l’Azerbaijan che verso la perdita di un senso di normalità.

Alcuni anni fa, le fiammate nel conflitto prolungato avrebbero potuto essere viste sia dagli abitanti che dai politici come eccezionali, ma questa recente violenta eruzione sembra aver consolidato nelle loro menti la sensazione che, piuttosto che un’eccezione, la guerra sia il normale stato di cose, e che gli interessi militari debbano circoscrivere e sommergere tutti gli altri.

Ricostruzione

La guerra del Karabakh è durata dal 1988 al 1994. Ha causato oltre 30.000 vittime, quasi un milione di sfollati e la completa devastazione di economia e infrastrutture. La regione ha subito danni per 5 miliardi di dollari (con una popolazione di soli 140.000 abitanti), ulteriormente aggravati dalla deindustrializzazione seguita al crollo dell’URSS.

Tuttavia, il Nagorno-Karabakh è sopravvissuto ed è stato ricostruito, con il sostanzioso aiuto dell’Armenia e le donazioni della diaspora armena. Nel 2007 ha avuto il tasso di crescita del Pil più alto della regione, tra il 10% e il 15% all’anno. Inoltre, a differenza dell’Armenia, non ha sofferto di calo demografico, con una crescita della popolazione del 10% tra il 2005 e i giorni nostri.

Questo letterale “risorgere dalle ceneri” è più evidente nella capitale del Karabakh, Stepanakert, che nel resto della regione. Da città bombardata con più di una rassomiglianza con la Sarajevo del dopoguerra, negli ultimi anni si è trasformata in un vivace centro urbano, con viali ben pavimentati, giardini ben curati e una vasta gamma di servizi pubblici.

La tigre caucasica

“All’inizio [lo sviluppo economico del Karabakh] era un’impresa patriottica”, ha dichiarato a OC Media Davit Babayan, portavoce dell’ufficio del presidente del Nagorno-Karabakh. “Ma non può funzionare per sempre”. Babayan sostiene che il motore economico del Karabakh negli ultimi dieci anni è stato l’impegno per un’economia “guidata dal mercato” e che solo creando “condizioni speciali per gli investimenti” lo sviluppo del Karabakh potrà continuare.

Ufficialmente, il Nagorno-Karabakh ha intrapreso un percorso esplicitamente orientato al mercato dal 2007, quando sotto la direzione del neo-eletto presidente Bako Sahayan ha intrapreso riforme economiche (neo)liberali, quali: la dissoluzione del servizio anti-monopolio (con lo slogan “Il mercato troverà la soluzione”), la creazione di una flat-tax per i lavoratori autonomi ($15 al mese) e la riduzione dei regolamenti sulle licenze di costruzione (solo tre giorni per l’approvazione di una nuova licenza). Le riforme hanno comportato anche la privatizzazione di una serie di beni di proprietà statale, in particolare l’azienda idroelettrica regionale.

In congiunzione con i tassi stellari di crescita economica, queste riforme hanno trovato consenso fra le voci liberali nella regione, che hanno persino definito il Karabakh “la tigre caucasica”.

Tuttavia, come le “Tigri asiatiche”, il Karabakh è meno miracolato dal mercato di quanto voglia far credere. Il suo rapido sviluppo è stato possibile solo grazie a importanti interventi governativi sul mercato e, in modo forse ancora più importante, ai continui trasferimenti di fondi dalla Repubblica di Armenia. Questo stato di cose è reso possibile solo dalla posizione geopolitica e ideologica unica del Karabakh.

Il cuore dell’Armenia

Il Nagorno-Karabakh è indubbiamente il fattore più volatile nella politica armena. Non è semplicemente un luogo, ma un’idea. Rappresenta la nazione armena e, in un paese in cui il genocidio armeno del 1915 definisce ancora la politica estera, fornisce una potente contro-narrazione al senso di vittimismo storico. Come ha dichiarato l’analista politica originaria del Karabakh Karen Avagimyan a OC Media, è “il cuore spirituale dell’Armenia”.

In termini pratici, ciò significa che se una parte significativa del territorio del Karabakh viene ripresa dall’Azerbaijan, il governo di Erevan probabilmente non sopravviverà. Ad esempio, nell’estate del 2016 un gruppo di veterani del Karabakh che si autodefinivano Sasna Dzrer (i Daredevil di Sasun) ha sequestrato una stazione di polizia e invitato alla rivolta contro il governo. Il punto centrale delle loro critiche al governo era l’affermazione secondo cui l’attuale amministrazione intendeva cedere parte del Karabakh all’Azerbaijan: un’affermazione falsa, ma che ha mobilitato migliaia di giovani che si sono scontrati con la polizia in difesa dei Sasna Dzrer.

La politica del governo armeno nei confronti del Karabakh e le politiche dello stesso governo del Karabakh vanno interpretate alla luce di questi eventi. L’integrità territoriale del Karabakh è l’obiettivo primario a cui subordinare tutte le politiche economiche e sociali.

Poiché il Nagorno-Karabakh è uno stato non riconosciuto, è escluso dalla maggior parte dei trattati commerciali internazionali. Ciò significa che il governo deve mantenere e pubblicizzare un clima favorevole agli investimenti se vuole continuare a ricevere investimenti “non patriottici” (principalmente dalla Federazione Russa). Tuttavia, questo crea un certo dilemma per le autorità. I mercati liberalizzati e amici degli investitori spesso promuovono gravi disuguaglianze sociali, con lavoratori locali meno competitivi e piccole imprese schiacciate dalle economie di scala. Come in gran parte del mondo, la povertà si trasforma facilmente in emigrazione, che è abbastanza tollerabile per la maggior parte dei governi, ma semplicemente fuori questione in Karabakh.

Agli occhi dei funzionari del Karabakh, l’emigrazione equivale a minore popolazione, minore popolazione significa meno soldati, e meno soldati non solo rendono il Karabakh militarmente più debole, ma incentivano l’Azerbaijan ad attaccare. Ciò significa che l’economia non può essere soggetta ai capricci del mercato, poiché le fluttuazioni della popolazione derivanti da periodiche crisi economiche metterebbero letteralmente in pericolo il Nagorno-Karabakh: il neoliberismo tout court non è quindi un’opzione sostenibile.

Socialdemocrazia militarizzata

In pratica, le politiche attuate per garantire stabilità economica e vivibilità nel Nagorno-Karabakh possono essere considerate una sorta di socialdemocrazia militarizzata: sono previsti meccanismi di welfare per ridurre l’impatto della disoccupazione o della povertà, ma differiscono dalla tradizionale socialdemocrazia europea in quanto questi meccanismi sono legati esplicitamente allo status militare. Ad esempio, una grande parte della popolazione sopravvive con pensioni militari e le famiglie di soldati uccisi o feriti al fronte hanno spesso anche alloggi gratuiti o altri beni e servizi essenziali. Lo stato assicura e risarcisce tutti i residenti vicino alla linea di contatto contro qualsiasi danno causato dal conflitto (come le case danneggiate dai bombardamenti o il bestiame ucciso da colpi di arma da fuoco).

Questo non vuol dire che il governo non faccia uso della tradizionale politica keynesiana. Al contrario, interviene spesso con sussidi e prestiti preferenziali ad imprese in difficoltà, tenendole a galla per garantire l’occupazione.

Questo può sembrare un po’ troppo per un governo che presiede una popolazione relativamente povera di 146.000 persone, e infatti è così. Il governo del Nagorno-Karabakh è tutt’altro che autosufficiente. Ufficialmente, almeno il 4,5% del bilancio nazionale dell’Armenia è stanziato per la regione, anche se il dato reale è probabilmente molto più alto, soprattutto perché i dati relativi a trasferimenti di bilancio relativi alla difesa sono tenuti riservati.

Questa direzione politica non ha fatto che consolidarsi dagli scontri di aprile. I villaggi vicini alla linea di contatto sono stati classificati “villaggi di confine”. Qui, secondo il portavoce del Primo Ministro Artak Beglaryan, lo scopo esplicito del governo è quello di mantenere e, se possibile, aumentare la popolazione al fine di creare una presenza che possa rilevare e scoraggiare gli attacchi azeri: un compito difficile, poiché questi villaggi sono direttamente sulla linea del fuoco, il che comprensibilmente scoraggia gli abitanti dal rimanere.

Ecco perché in questa nuova legislazione il governo ha aumentato i sussidi per questi villaggi – ad esempio, con un sussidio gas ed elettricità che copre interamente le bollette mensili per alcune famiglie – oltre a fornire sussidi e agevolazioni fiscali per gli investimenti nei villaggi di confine al fine di stimolare l’occupazione.

Ma la misura in cui il governo è disposto a lasciarsi alle spalle l’ortodossia economica neoliberale è ancora più evidente nel villaggio più colpito dal conflitto: Talish.

Un kolkhoz è un kolkhoz

Nelle prime ore del 2 aprile 2016, le colline nordoccidentali sopra il piccolo villaggio di 500 abitanti sono state invase dall’esercito azero. Quando le forze armene riuscirono a riconquistare Talish, era stato ridotto in macerie e, anche dopo la firma del cessate il fuoco, le colline strategiche che dominavano il villaggio sono rimaste in mano azera.

Con la maggior parte delle case distrutte, la popolazione di Talish è diventata senzatetto, ospitata presso parenti o in alloggi forniti dallo stato nei villaggi vicini, più lontano dalla linea di contatto. Tuttavia, anche nella sua attuale posizione strategicamente vulnerabile, il governo del Karabakh si è impegnato nella ricostruzione di Talish e nel ritorno dei suoi abitanti.

Ogni singola famiglia che ha perso la casa ne otterrà la ricostruzione. L’infrastruttura sarà riparata e ammodernata. Verranno inoltre aggiunti nuovi edifici, tra cui una casa della cultura e un centro ricreativo. Ma questi non sono i piani più ambiziosi per il villaggio: al fine di garantire un elevato livello di occupazione e un forte grado di solidarietà sociale, il villaggio sta ricostruendo le sue infrastrutture agricole e produttive in un modello collettivo.

Nelle parole del sindaco Vilen Petrosyan: “Sarà come un kolkhoz sovietico, ma diverso. Invece di dare i nostri profitti al governo, la comunità deciderà che cosa farne”. Gli inizi di questo nuovo/vecchio modello sono già in atto. Il “collettivo” di Talish produce miele, frutta e verdura, alcolici, carne e latticini. Le decine di lavoratori impiegati nell’impresa sociale sono ex residenti (tutti uomini) che sono tornati al villaggio come appaltatori governativi, lavorando per ricostruire le proprie case e difenderle in caso di un attacco.

Resta da vedere se il modello funzionerà e se sarà effettivamente democratico, ma la speranza dell’amministrazione locale è che il nuovo Talish non solo fiorisca, ma divenga un modello di economia e governance per altri villaggi nel Nagorno-Karabakh.

In viaggio da nessuna parte

Dal 1994 in poi, gli abitanti del Nagorno-Karabakh sperano in una normalizzazione pacifica della loro situazione. Ma, con il fallimento di un accordo di pace dopo l’altro, molti si erano adattati ad un nuovo status quo. Anche se la pace non fosse mai arrivata, la vita sarebbe andata avanti. Ma gli eventi dell’aprile 2016 hanno frantumato questo inquieto senso di stabilità.

Tuttavia, con una strana ironia, mentre il senso di stabilità del popolo del Karabakh andava in frantumi, l’ordine economico e politico esistente si rafforzava. Forgiata nel crogiolo del conflitto e ancora devastata quasi trent’anni dopo, la regione del Nagorno-Karabakh ha cessato di essere un luogo in cui l’esercito esiste per sostenere lo stato e la società. Ora, stato e società esistono per sostenere l’esercito, ed è improbabile che la situazione cambi presto.

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Dall’Italia al Caucaso, la storia di Gianluca Proietto: “Generare risorse da reinvestire in progetti sociali” (Ilgazzettinodisiclia 28.02.18)

Avrete sentito parlare molte volte di fuga dei cervelli dall’Italia o di esodo dei giovani. Di solito immaginiamo le classiche tappe di lavoro, Usa, Inghilterra, paesi arabi, ma nessuno immaginerebbe che c’è chi ha deciso di andar via non per lavoro, ma per realizzare una piccola opera a metà tra l’umanitario e la voglia di dare una struttura stabile a chi vive nel precariato umano e di guerra.

Gianluca Proietto è un ragazzo che ha fatto una scelta coraggiosa, ha deciso di andare a vivere nel Caucaso e realizzare qualcosa in un territorio pieno di conflitti. Gli abbiamo fatto qualche domanda ed è venuta fuori una realtà scomoda a volte poco conosciuta in occidente

Gianluca, allora, chiariamo subito, tu sei uno dei ragazzi che è fuggito dall’Italia, ma invece di cercare lavoro nei posti convenzionali o leggermente atipici come Svezia o Danimarca, hai scelto di andare nel Caucaso, posti comunque non proprio facili da vivere, spiegami cosa fai lì.

La scelta di abitare nel Caucaso – come dici – è senz’altro atipica per un italiano. Lo testimonia quotidianamente lo stupore dei Georgiani ed Armeni che scoprono le mie origini e la mia scelta di vita. Anche loro, come stai facendo tu, mi chiedono cosa spinge un ragazzo a lasciare un paese tutto sommato ricco e democratico per trasferirsi nel complicato spazio post-sovietico. Partiamo da un presupposto: in Italia avevo un lavoro, degli amici ed una vita normale. Non è stata la fame a portarmi lontano dal Belpaese, ma il bisogno di trovare il mio posto nel mondo. Questo mi ha portato a viaggiare, fare volontariato e lavorare in molte aree dell’Asia: dal Caucaso al Sud Est Asiatico, dal Medio Oriente alle infinite steppe dell’Asia Centrale. Durante un lungo viaggio in Mongolia in bicicletta, ho capito che ormai era giunto il momento di fermarmi ed insediarmi in una terra problematica e bellissima che da alcuni anni aveva rubato il mio cuore: il Caucaso, appunto. Mi sono stabilito tra queste montagne con l’intento di sfruttare le potenzialità turistiche e culturali di questi paesi ancora poco conosciuti per generare risorse da reinvestire in progetti sociali tangibili.

Per chi come me si intende di calcio, ci sono due particolari che mi ricordano quelle zone, uno è il Qarabag, squadra del Nagorno, che per il conflitto criptato ancora in corso, non gioca nella sua città. L’altro è il curioso sponsor che regna sulle maglie dell’Atletico Madrid, Azerbaijan land of fire. Piuttosto singolare. Perché in Europa si parla di territorio Azero?

È il risultato di una strategia adottata dalla famiglia Aliyev, la quale detiene le redini del governo azero saldamente nelle proprie mani da 25 anni. Bisogna fare una premessa: l’Azerbaijan è un paese che nell’ultimo decennio ha iniziato a disporre di ingenti capitali da reinvestire, provenienti dall’esportazione del gas e di altre materie prime. Il presidente Aliyev ha quindi deciso di rifarsi il trucco spendendo grosse somme di denaro nello sport e nell’organizzazione di eventi internazionali per presentarsi al mondo come paese moderno, ricco ed in ascesa. La sponsorizzazione dell’Atletico Madrid rientra proprio in quest’ottica. L’Azerbaijan ha anche ospitato la prima edizione dei Giochi europei nel 2015 e dal 2017 ospita il Gran Premio d’Azerbaijan di Formula Uno. Il caso del Qarabag invece è un po’ più complicato, ma per capirlo dobbiamo riavvolgere il nastro e tornare al 5 luglio 1921, ai tempi dell’Unione Sovietica della quale Armenia, Azerbaijan e Nagorno Karabakh facevano parte. Quel giorno Stalin – all’epoca era commissario del popolo per le nazionalità – decretò la sovranità territoriale dell’Azerbaijan sul Nagorno Karabakh, un territorio storicamente armeno, popolato al 94% da Armeni e solo in minima parte da Azeri. Iniziarono così i lunghi decenni di governo azero sul Karabakh: un periodo caratterizzato da repressioni, soprusi e politiche spietate attuate con il chiaro obiettivo di soppiantare gli Armeni del Karabakh e la loro cultura. Politiche che si rivelarono inefficaci: il Karabakh rimase infatti un territorio popolato prevalentemente da Armeni. Durante il disfacimento dell’Unione Sovietica aumentarono le tensioni nel Caucaso ed il Karabakh si sganciò da Mosca seguendo un iter legale assolutamente valido e democratico come fecero i vicini di Georgia, Armenia ed Azerbaijan. Gli Armeni nel 1991 dichiararono l’indipendenza dello stato sovrano del Nagorno Karabakh, scrissero la costituzione e fecero regolari elezioni politiche per formare il parlamento. Dal canto suo, l’Azerbaijan decise di non riconoscere l’iter di indipendenza del Karabakh, il quale – lo sottolineo ancora – fu totalmente legale, come del resto decretò anche la Corte Costituzionale Sovietica. L’Azerbaijan aggredì quindi il Karabakh, intenzionato a mantenerne il controllo con la forza. Gli Armeni riuscirono in due anni a respingere l’invasione dell’esercito azero ed ottenere la libertà al prezzo di decine di migliaia di vittime per entrambi gli schieramenti ed una devastazione spropositata. Da allora Agdam – una città azera in prossimità del turbolento confine tra Azerbaijan e Karabakh – è ridotta ad un cumulo di macerie, è disabitata ed è sotto il controllo dell’esercito del Nagorno Karabakh. Il Qarabag, che è la squadra di Agdam, da quel giorno gioca in esilio in Azerbaijan ed il governo azero distorce la storia di questo club calcistico per sostenere la sua anacronistica versione dei fatti. Durante le partite internazionali, infatti, vengono distribuiti volantini propagandistici che affermano che il Qarabag giochi in esilio a causa degli Armeni del Nagorno Karabakh, colpevoli – sempre secondo la propaganda – di aver sottratto la terra all’Azerbaijan. Come detto, fu invece l’esercito azero a calpestare i diritti degli Armeni del Karabakh ed a tentare di mantenere il controllo del territorio attraverso l’uso delle armi. Un evidente ribaltamento della verità.

Eppure a leggere sporadici articoli veramente critici su quella zona, non sembra che ci sia un clima di democrazia garantita, tu che ci vivi, mi sai dire che cosa succede davvero?

La realtà dell’Azerbaijan è ben diversa dall’immagine che la famiglia Aliyev si prodiga di promuovere all’estero attraverso lo sport ed i grandi eventi. Dietro i grattacieli scintillanti di Baku e le performance sportive sovvenzionate con i soldi del gas, si cela un regime dedito da anni ad appropriarsi delle ricchezze del paese. Ormai è infatti appurato che la famiglia Aliyev è riuscita a mettere le proprie mani su tutte le principali attività economiche nazionali, dalle miniere alle compagnie telefoniche, dal petrolio al gas. I Panama Papers testimoniano la presenza di decine di miliardi di dollari transitati verso i paradisi fiscali e derivanti dalle suddette attività economiche. Questo mentre il paese arranca: povertà, infrastrutture inadeguate, degrado nelle zone periferiche. Per evitare che qualcuno possa fermare questo sistema che genera ricchezza e potere per la famiglia presidenziale, l’opposizione ed il dissenso sono stati repressi in maniera brutale, i media sono stati ridotti a mero strumento di propaganda e le voci fuori dal coro sono state incarcerate. Gli standard democratici e la tutela dei diritti umani sono ormai ridotti ai minimi termini. Attraverso lo sport, l’Azerbaijan si presenta al mondo come un paese moderno ed in ascesa. Ma si tratta solo di un’elegante facciata dietro la quale si nasconde un oliato sistema di potere, appropriazione indebita e corruzione.

Il potere sembrerebbe concentrato quindi in mano ad una famiglia che però fa affari con l’Occidente e quindi non viene minimamente colpita da sanzioni pesanti o misure per ripristinare la democrazia, sbaglio?

L’Europa tende solitamente a perseguire i propri interessi senza interferire troppo nelle vicende interne degli altri paesi, fingendo di non vedere le palesi violazioni dei diritti umani, i pessimi standard democratici e le guerre: questa cinica realpolitik contraddistingue anche i rapporti con l’Azerbaijan. Gli interessi dell’Unione Europea nella regione sono dettati dalla necessità di ridefinire i partner energetici e spezzare la dipendenza dagli idrocarburi russi. In quest’ottica, l’Europa sta dunque tentando di diversificare le fonti di approvvigionamento e sta creando un hub meridionale del gas. L’Azerbaijan è riuscito a sfruttare questo nuovo assetto per ritagliarsi un ruolo come fornitore strategico ed affidabile. Attualmente è in costruzione un discusso gasdotto che – stando agli accordi – dovrebbe portare 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dall’Azerbaijan all’Italia. Tuttavia l’Azerbaijan non ha ottenuto l’appoggio – seppur titubante – dell’Occidente solo grazie ai rapporti commerciali ed ai mutamenti degli scenari geopolitici. È infatti ormai nota la capacità azera di influenzare le istituzione europee e bloccare sanzioni attraverso un costoso ma efficace sistema di corruzione, regali, ricatti e mazzette noto come Caviar Diplomacy, messo in atto dai lobbisti azeri. Per fare un esempio clamoroso, basta citare il caso del nostro connazionale Luca Volonté, rinviato a giudizio per aver intascato oltre 2 milioni di euro dal lobbista azero Suleymanov: una tangente versatagli per influenzare le votazioni di altri deputati del Consiglio d’Europa ed aiutare ad affossare un rapporto che denunciava violazioni dei diritti umani in Azerbaijan. Corruzione e business: è questa la strategia azera per tentare di tenere gli occhi dell’Europa ben chiusi sui problemi interni e sulla guerra del Nagorno Karabakh.

Gianluca, ma cosa vuoi realizzare in concreto in territori così difficili, che cosa ti spinge a volerlo fare?

Il mio legame con il Caucaso iniziò per caso alcuni anni fa quando mi imbattei in alcune fotografie che ritraevano il Genocidio Armeno. Le fotografie ingiallite da un lato testimoniavano la brutalità di cui gli uomini sono capaci, dall’altra erano lo specchio della mia ignoranza: ogni scatto mi ricordava che da qualche parte nel mondo un milione e mezzo di Armeni avevano subito il più aberrante dei crimini – il genocidio – ed io non sapevo nulla di quei fatti drammatici. Fu la scintilla che cambiò la mia vita. In breve tempo iniziai a viaggiare, a scoprire la dimensione del volontariato e ad approfondire le complesse vicende storiche e geopolitiche caucasiche e mediorientali. Presto familiarizzai con la frizzante modernità di Tbilisi e gli immutabili villaggi di montagna, con la meravigliosa e chiassosa ospitalità caucasica e le tristi storie che giungono dalle fangose trincee nelle quali Armeni ed Azeri continuano a morire. La natura di questi luoghi – spettacolari, poco battuti e fortemente bisognosi di aiuto – mi ha portato a focalizzarmi sulla promozione delle potenzialità turistiche per generare risorse da reinvestire in progetti sociali. Ho capito che avrei potuto aiutare i viaggiatori ad immergersi in profondità nel Caucaso e ripercorrere la storia di Georgia, Armenia e Nagorno Karabakh attingendo alle competenze acquisite ed alla mia rete di contatti. Ho così lanciato un progetto di turismo sostenibile che punta a creare tour storici in italiano ed a restaurare immobili in disuso da riportare a risplendere ed adibire ad ostelli per i viaggiatori. Attualmente sono alle prese con il primo step: il restauro di un vecchio edificio nel centro storico di Tbilisi – la bella capitale georgiana – e la creazione dei primi tour. Per coprire parte delle spese, ho lanciato una raccolta fondi. Ma come accennato, lo scopo della creazione di questa macchina turistica non è soltanto la promozione della cultura caucasica e la divulgazione della sua storia complessa. I proventi del turismo serviranno in parte a sovvenzionare attività extrascolastiche gratuite e di alto livello per i giovani del Karabakh. Il mio sogno è creare laboratori linguistici, sportivi ed artistici di vario tipo (fotografia, atletica, musica, calcio, recitazione, arti plastiche, rugby, ecc). L’obiettivo è quello di potenziare la formazione dei giovani, esaltarne i talenti e sottrarli alla quotidianità non facile di alcune aree povero o degradate. Nel corso degli anni ho maturato la convinzione che questo sia determinante non solo per migliorare l’infanzia e l’adolescenza dei bambini, ma anche per disinnescare l’odio e la paura che rendono impossibile il dialogo con coloro che stanno dall’altra parte della trincea. Credo che sia importante aiutare i giovani a scoprire che il nemico non è altro che un fratello con il quale è esistita una buona convivenza per svariati secoli. Niente meglio dello sport, dell’arte e della cultura possono guidare le nuove generazioni in questo importante percorso.

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Riapre il Santo Sepolcro (Adnkronos 28.02.18)

La Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme riaprirà domani, dopo che le autorità israeliane hanno congelato oggi le misure contestate. La riapertura è stata annunciata con un comunicato congiunto dei rappresentanti della Chiesa cattolica, la chiesa greco ortodossa e la Chiesa Armena apostolica, riferisce il sito di Haaretz.

ISRAELE – Le autorità israeliane hanno fermato stamane i provvedimenti che avevano causato la chiusura del Santo Sepolcro, come atto di protesta delle Chiese cristiane. Il governo ha congelato la controversa proposta di legge che aveva scatenato la crisi e la municipalità di Gerusalemme ha rinviato la raccolta delle tasse. Il capo del governo Benyamin Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno affidato ad una squadra guidata dal ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi il compito di trovare una soluzione soddisfacente per tutti, riferisce un comunicato dell’ufficio del primo ministro, citato dai media israeliani.

“Israele è orgoglioso di essere l’unico paese del Medio Oriente dove cristiani e fedeli di tutte le fedi godono di libertà di culto e religione. Israele è la casa di una fiorente comunità cristiana e accoglie i suoi amici cristiani di tutte le parti del mondo“, si legge nel comunicato dell’ufficio di Netanyahu.

Il team guidato da Hanegbi discuterà con i leader delle confessioni cristiane sia la questione fiscale che la legge sull’esproprio dei terreni di Gerusalemme venduti dalle Chiese. Nel frattempo tutto verrà sospeso. Le tasse arretrate che il comune di Gerusalemme esigeva, pari all’equivalente di 53 milioni di euro, riguardavano i beni della chiesa diversi dai luoghi di culto.

La legge in discussione alla Knesset autorizzava il governo ad espropriare terreni di Gerusalemme venduti dalle chiese. La maggior parte dei terreni, per un totale di circa mezzo chilometro quadrato, si trova in quartieri centrali di Gerusalemme ed è stata venduta a società immobiliari a partire dal 2010. Il provvedimento, nota Haaretz, era insolito dal punto di vista della giurisprudenza in quanto veniva ad incidere in modo retroattivo su contratti finalizzati anni prima.

Le autorità israeliane cercano così di chiudere una vicenda che rischiava di provocare gravi tensioni e incidere negativamente sul fiorente turismo religioso ad un mese dalla Pasqua. La chiusura indefinita del Santo Sepolcro, una misura senza precedenti, era stata annunciata domenica dalla Chiesa cattolica, la chiesa greco ortodossa e la Chiesa Armena apostolica.

Il documento congiunto diffuso dal Custode della Terrasanta Francesco Patton, il Patriarca greco ortodosso Teofilo III e il Patriarca armeno Nourhan Manougian parlava di “flagrante violazione dello status quo” religioso di Gerusalemme e di “rottura degli accordi esistenti e gli obblighi internazionali”, denunciando una “campagna sistematica di abusi contro le Chiese e i Cristiani”.

CUSTODE TERRA SANTA – “Dopo questo comunicato del primo ministro dobbiamo concordare con Theophilos III, patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, e Nourhan Manougian, patriarca armeno, una risposta comune che arriverà nelle prossime ore. Stiamo lavorando. Si tratta di una notizia positiva che apprezziamo molto”, aveva commentato nel primo pomeriggio al Sir padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, parlando della decisione del governo israeliano

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Gerusalemme, le Chiese cristiane nella morsa di Netanyahu (Lettera43.it 27.02.18)

Da un paio di giorni il custode musulmano del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, ha in mano le chiavi della basilica costruita sui siti per la tradizione cristiana di crocifissione, sepoltura e resurrezione di Gesù. Il luogo sacro è rimasto eccezionalmente chiuso ai fedeli di tutto il mondo fino al 27 febbraio per volontà delle tre Chiese cristiane che lo abitano. Perennemente in conflitto tra loro in Terra Santa, tant’è che da secoli la porta della basilica viene aperta e chiusa da incaricati musulmani super partes (e a Betlemme la Natività è presidiata da un comando della polizia palestinese), stavolta greci-ortodossi, armeni e francescani si sono uniti nella protesta contro le improvvise tasse richieste e gli espropri tentati dalle autorità israeliane. D’accordo come mai si ricorda lo siano state prima, le Chiese hanno ottenuto la sospensione dei provvedimenti almeno per tre giorni. Una protesta poi rientrata sulle promesse di Benyamin Netanyahu

IL BLITZ ISRAELIANO. A memoria d’uomo non si ricorda neanche che fosse mai stato sbarrato l’ingresso della basilica di Gesù. Tanto a lungo sicuramente mai, specie a ridosso dei giorni del Calvario e della Pasqua nella Gerusalemme piena di pellegrini disorientati. Un passo grave quanto la minaccia avvistata dal Patriarcato greco-ortodosso, da quello armeno e dalla Custodia di Terra Santa dei francescani: il Santo Sepolcro può anche restare off-limits a «tempo indefinito». Sottinteso: finché la municipalità di Gerusalemme e la Knesset, il parlamento israeliano, non metteranno una pietra tombale sulle ispezioni per le tasse pretese sulle proprietà delle Chiese e sulla concomitante proposta di legge – sospesa nell’approvazione, come le visite fiscali – sulla confisca di terreni venduti dalle istituzioni cristiane a privati dal 2010. Sequestri che a Gerusalemme possono scattare anche se alle ispezioni non si pagano gli arretrati.

Santo sepolcro Gerusalemme

La Pasqua ortodossa al Santo Sepolcro.

GETTY

Il Comune rivendica debiti pregressi verso le tre Chiese di quasi 150 milioni di euro. Tasse che, si affanna a ripetere il sindaco israeliano di Gerusalemme – per l’Onu senza autorità alcuna sulla città vecchia (parte del settore Est occupato dalla Guerra dei Sei giorni del 1967), ma di fatto amministratore anche nel centro storico – il businessman e multimilionario Nir Barkat in quota ai conservatori sionisti del Likud, non riguardano i luoghi di preghiera come il Santo Sepolcro. L’imposizione municipale è limitata a «siti commerciali» come negozi e alberghi, in ogni caso non ai luoghi esclusivamente religiosi delle tre chiese cristiane: 887 proprietà in tutto nel mirino, perché «non è giusto che i residenti comuni paghino sulle proprietà e attività e le istituzioni religiose no». Ma a detta delle Chiese ne va anche di cliniche e scuole dai servizi necessari, a rischio come centinaia tra lavoratori e residenti.

GLI ESPROPRI DI TERRENI. Ortodossi, armeni e cattolici temono in realtà che l’obbiettivo ultimo degli amministratori e dei legislatori israeliani non sia una mera Irap, o fosse anche una Imu che dir si voglia, laicamente comprensibili se non addirittura auspicabili anche in Terra Santa, ma l’esproprio dei terreni. Le nuove misure del Comune di Gerusalemme includono limitazioni, per le tre Chiese, di vendita ai privati delle loro proprietà. In tal caso, scatterebbe poi – se approvato – un disegno di legge approdato a febbraio alla Knesset, per autorizzare la confisca, da parte dello Stato di Israele, di loro terreni ceduti a privati negli ultimi otto anni e nel futuro. Si intravede insomma una manovra a tenaglia da parte del governo sionista di ultra-destra di Benjamin Netanyahu su imprenditori e residenti, ancorché possidenti privati, di origine cristiana che in prospettiva farebbero la fine dei profughi palestinesi.

Per dirimere il contenzioso fatto esplodere con le Chiese, il premier israeliano Netanyahu ha annunciato l’istituzione di una commissione governativa di parte

Vittime della costruzione di uno Stato etnico-ebraico israeliano, resterebbero privi delle loro case e attività e nei prossimi anni sarebbero progressivamente costretti a lasciare la Terra Santa. È accaduto di recente in Cisgiordania, ai salesiani di Betlemme espropriati dei loro antichi vigneti da destinare alle case in cantiere per i coloni. Potrebbe accadere anche a Gerusalemme Est: si teme che le tasse e i vincoli comunali e governativi – anche retroattivi – imposti sulla cessione dei beni delle tre Chiese a terzi siano un grimaldello per acquisire le antiche proprietà dei crociati medievali. Patriarcato greco-ortodosso, armeno e Custodia cattolica percepiscono una crescente volontà israeliana di smantellamento dello status quo, la legge che regola la lunga convivenza e i diritti delle tre religioni monoteiste in Terra Santa: è in atto, denunciano, una «campagna sistematica per indebolire la presenza dei cristiani».

Custode musulmano Santo Sepolcro

Il custode musulmano del Santo Sepolcro.

Il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, fissato per il 14 maggio 2018, è alle porte e Netanyahu e il suo governo non hanno mai fatto mistero di cercare l’annessione della città, per l’Onu con status internazionale e nei negoziati di pace a Ovest israeliana e a Est palestinese. La morsa si stringe, non a caso le Chiese hanno bollato il riconoscimento unilaterale degli Usa di Gerusalemme unica capitale di Israele «contrario allo status quo». Appena prima delle ispezioni fiscali, dei rappresentanti cristiani avevano incontrato il sindaco: i rapporti erano rimasti buoni, nessun accenno al debito poi preteso di colpo. Anche se Barkat nega triangolazioni con il ministero del Tesoro e il parlamento, si teme un’azione politicamente motivata di Israele. Con l’atto estremo della serrata del Santo Sepolcro, il premier Netanyahu ha annunciato l’istituzione di una commissione governativa, per negoziare in modo nettamente di parte sul contenzioso fatto esplodere con le Chiese.


Gerusalemme. Il Governo Israeliano congela le tasse alla Chiesa. Riapre il Santo Sepolcro (Ilfarodiroma 27.02.18)

La Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme riaprirà domani, dopo che le autorità israeliane hanno congelato oggi le misure contestate. La riapertura è stata annunciata con un comunicato congiunto dei rappresentanti della Chiesa cattolica, la chiesa greco ortodossa e la Chiesa Armena apostolica, riferisce il sito di Haaretz.

Le autorità israeliane hanno fermato stamane i provvedimenti che avevano causato la chiusura del Santo Sepolcro, come atto di protesta delle Chiese cristiane. Il governo ha congelato la controversa proposta di legge che aveva scatenato la crisi e la municipalità di Gerusalemme ha rinviato la raccolta delle tasse. Il capo del governo Benyamin Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno affidato ad una squadra guidata dal ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi il compito di trovare una soluzione soddisfacente per tutti, riferisce un comunicato dell’ufficio del primo ministro, citato dai media israeliani.

“Israele è orgoglioso di essere l’unico paese del Medio Oriente dove cristiani e fedeli di tutte le fedi godono di libertà di culto e religione. Israele è la casa di una fiorente comunità cristiana e accoglie i suoi amici cristiani di tutte le parti del mondo”, si legge nel comunicato dell’ufficio di Netanyahu.

Il team guidato da Hanegbi discuterà con i leader delle confessioni cristiane sia la questione fiscale che la legge sull’esproprio dei terreni di Gerusalemme venduti dalle Chiese. Nel frattempo tutto verrà sospeso. Le tasse arretrate che il comune di Gerusalemme esigeva, pari all’equivalente di 53 milioni di euro, riguardavano i beni della chiesa diversi dai luoghi di culto.

La legge in discussione alla Knesset autorizzava il governo ad espropriare terreni di Gerusalemme venduti dalle chiese. La maggior parte dei terreni, per un totale di circa mezzo chilometro quadrato, si trova in quartieri centrali di Gerusalemme ed è stata venduta a società immobiliari a partire dal 2010. Il provvedimento, nota Haaretz, era insolito dal punto di vista della giurisprudenza in quanto veniva ad incidere in modo retroattivo su contratti finalizzati anni prima.

Le autorità israeliane cercano così di chiudere una vicenda che rischiava di provocare gravi tensioni e incidere negativamente sul fiorente turismo religioso ad un mese dalla Pasqua. La chiusura indefinita del Santo Sepolcro, una misura senza precedenti, era stata annunciata domenica dalla Chiesa cattolica, la chiesa greco ortodossa e la Chiesa Armena apostolica.

Il documento congiunto diffuso dal Custode della Terrasanta Francesco Patton, il Patriarca greco ortodosso Teofilo III e il Patriarca armeno Nourhan Manougian parlava di “flagrante violazione dello status quo” religioso di Gerusalemme e di “rottura degli accordi esistenti e gli obblighi internazionali”, denunciando una “campagna sistematica di abusi contro le Chiese e i Cristiani”.

“Dopo questo comunicato del primo ministro dobbiamo concordare con Theophilos III, patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, e Nourhan Manougian, patriarca armeno, una risposta comune che arriverà nelle prossime ore. Stiamo lavorando. Si tratta di una notizia positiva che apprezziamo molto”, ha commentato nel primo pomeriggio al Sir padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, parlando della decisione del governo israeliano.

Armenia-Lituania: vicepresidente parlamento Sharmazanov incontra ambasciatore a Erevan, focus su cooperazione (Agenzianova 27.02.18)

Erevan, 27 feb 15:50 – (Agenzia Nova) – Il vicepresidente del parlamento armeno, Edward Sharmazanov, ha ricevuto oggi l’ambasciatore lituano in Armenia, Erikas Petrikas, per discutere di cooperazione bilaterale. Le parti hanno sottolineato la positività delle relazioni tra i due paesi, e Sharmazanov ha detto di apprezzare lo sforzo di Petrikas per lo sviluppo dei legami interparlamentari. Il vicepresidente del parlamento, che è anche a capo del gruppo di amicizia armeno-lituano, ha ricordato il centenario dell’indipendenza di Vilnius e ha sottolineato che la Lituania è stata il primo paese a riconoscere l’indipendenza di Erevan. “Si tratta anche dell’unico Stato baltico a riconoscere il genocidio degli armeni”, ha spiegato Sharmazanov, citato dall’agenzia di stampa “Armenpress”. “Il parlamento di Erevan ha sostenuto eventi culturali, anche all’estero, contro il negazionismo turco in merito al genocidio. Iniziative simili potrebbero essere organizzate anche in Lituania”, ha concluso Sharmazanov. Le parti hanno infine evidenziato l’importanza dell’accordo di partnership tra i due paesi, che deve ora essere ratificato dal parlamento lituano. Il genocidio degli armeni ad opera della Turchia, perpetrato tra il 1915 e il 1923, è considerato dagli esperti il primo del ventesimo secolo. (segue) (Res)