San Lazzaro, trecento anni di cultura armena (Nuovavenezia 20.09.17)

Prima fu lebbrosario, poi l’abbandono. Sbocciò in tutta la sua bellezza con Mechitar nel 1717, oggi i monaci tramandano il messaggio del fondatore di Vera Mantengoli

VENEZIA. L’Isola degli Armeni festeggia i suoi primi trecento anni. Èra infatti l’8 settembre 1717 quando il monaco Mechitar, dopo essersi guadagnato la stima del futuro doge Alvise Mocenigo, ricevette in concessione l’isola di San Lazzaro, usata in passato come lebbrosario e poi abbandonata. Sono passati 300 anni e l’isola non ha mai perso il ruolo di punto di riferimento della cultura armena grazie ai monaci mechitaristi, che da secoli tramandano il messaggio del fondatore.

Prima degli armeni. Le notizie che si hanno dell’Isola di San Lazzaro risalgono all’810, quando è sede dell’ordine dei benedettini. Nel 1182 si edifica un ospizio per pellegrini e una chiesa dedicata a San Leone Magno.

Un secolo dopo, nel 1262, il Senato decide di farci un lebbrosario che rimane fino al 1348 quando si iniziano dei lavori di restauro e l’isola passa sotto la giurisdizione di San Pietro di Castello.

Diminuiti i lebbrosi, l’isola diventa un luogo per accogliere i poveri. Per qualche decennio, dal 1645 al 1678, l’isola viene occupata dai domenicani che fuggono da Creta occupata dai turchi. Per un periodo qui si fabbricano armi per sostenere la guerra in Morea.

Dal 1696 è usata per coltivare orti, ma lentamente viene abbandonata, per poi sbocciare in tutta la sua bellezza con l’arrivo di Mechitar.

Negli anni il sogno di un ordine monastico dedito all’elevazione spirituale e culturale del popolo armeno porta Mechitar, nato nel 1676 a Sabaste degli Armeni, a fuggire dall’Anatolia alla Morea, per poi trovare rifugio a Venezia.

Il monaco fonda la sua congregazione a Costantinopoli nel 1700, ma poi fugge arrivando a Modone, nella Morea greca governata dalla Serenissima. Nel 1712 la flotta ottomana sbarca nella penisola, costringendo Mechitar e i suoi monaci a fuggire a Venezia, dove c’è già una consolidata comunità di armeni a San Martino, in prevalenza mercanti. Essendoci troppe congregazioni religiose a Venezia, un ne decreto vietava l’ammissione di nuove, ma non nelle isole.

Quando Mechitar approda a San Lazzaro ci sono soltanto una chiesetta e un edificio in rovina con qualche stanza, avvolta da sterpaglie. Un rudere, ma per chi come lui ha vagato senza trovare pace, quel fazzoletto di terra è finalmente una casa dove mettere radici.

Grande sognatore, ma provvisto anche di senso pratico, il monaco si rimbocca le maniche e comincia a progettare il monastero. La struttura odierna è ancora quella progettato da Mechitar, rinforzata nelle rive una quindicina di anni fa.

Il regno della cultura. L’isola, settemila metri quadrati di terra, si trova di fronte al Lido (vaporetto 20, fermata dopo San Servolo) ed è composta da un monastero con chiostro e da un giardino ricco di alberi, ulivi, melograni e i celebri roseti per la marmellata di rose realizzata dai monaci.

Le pareti sono coperte da scaffali con 170 mila libri, senza contare la biblioteca speciale finanziata dal benefattore Boghos Ispenian che custodisce 4500 preziosi manoscritti, come Il libro del Venerdì del 1512 e il lavoro di una vita del monaco, il primo dizionario della lingua armena classica, pubblicato pochi giorni dopo la sua morte nel 1749.

L’isola, come dimostrano le decine di lynotipe ancora esposte e utilizzate dal 1789 al 1989, fu sede di una straordinaria stamperia poliglotta in grado di pubblicare in 36 lingue.

Una targa nel cortile ricorda la permanenza nel 1816 di Lord Byron che s’innamorò della cultura armena. Proprio nella stanza di Byron oggi il monastero custodisce una vera e rara mummia, donata nel 1825, rivestita di una reticella ricamata con perline policrome in pasta vitrea.

Nelle sale, una affrescata dal Tiepolo e molte con quadri di Pietro Novelli, sono esposti le più svariate testimonianze e donazioni: dai dipinti del più famoso pittore armeno Ivan Aivazovsky al busto del salvatore delle canzoni tradizionali armene Komitas Vardapet. In alcune teche anche molti scritti del 1915/16.

Nel corso del genocidio morirono sette monaci mechitaristi. «La biblioteca è l’esempio dell’importanza della stampa per Mechitar e per i monaci», spiega Alberto Peratoner, docente della Facoltà teologica del Triveneto e amico della comunità armena, «si vede la cura minuziosa ed estetica del testo, la qualità delle incisioni, la scelta della carta, il risultato era un prodotto di altissima qualità».

Missione: volare. Oggi quelle radici continuano a dare i frutti che Mechitar piantò 300 anni fa. «Continuiamo a essere un ponte tra l’Armenia e la cultura occidentale per poter avere la possibilità di volare, come diceva il fondatore», spiega Padre Serafino, priore dell’isola.

«Mechitar diceva che bisogna avere due ali: una è la Bibbia, la religione e l’altra è la cultura e la scienza».

ti, ma lentamente viene abbandonata, per poi sbocciare in tutta la sua bellezza con l’arrivo di Mechitar.

 

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Molto di nuovo sul fronte occidentale.Viaggio in Nagorno Karabakh… (Tempi.it 20.09.17)

Viaggio in Nagorno Karabakh, dove tra antiche chiese e monasteri sventrati vive una comunità nobile e gloriosa, orgogliosa della propria identità

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Un viaggio in Armenia e Artsakh (ossia l’odierna Repubblica Armena del Nagorno Karabakh), in compagnia di Antonia Arslan. Per chi come me da anni nutre simpatia, vicinanza e profondo apprezzamento per il popolo armeno e la sua causa, si è trattato di un’occasione unica, sognata e realizzatasi. Con questo viaggio sono ipso facto divenuto persona sgradita in Turchia e Azerbaigian… pazienza. Il mio rammarico è per i due popoli, quello turco e quello azero, che meriterebbero dirigenze politiche ben diverse dalle attuali. È doveroso però ricordare che esistono, in seno al popolo turco e al popolo azero, scrittori, pensatori religiosi e laici, persone comuni, che dissentono dalle leadership governative e religiose dei due Stati e che, in relazione agli armeni, caldeggiano riflessioni nuove, ripensamenti del passato e del presente, strategie più rosee per il futuro.

Desidero premettere un interrogativo amaro, che mi accompagna da tempo e da cui non riesco a liberarmi. Con l’avvento dell’islam e le sue iniziali enormi conquiste, gran parte dei territori del Vicino Medio Oriente e del Nord Africa da cristiani divennero musulmani. Parimenti accadde nei territori bizantini e armeni dell’Asia Minore, dell’Anatolia e del Caucaso. Se è vero che questi cristianesimi orientali, al pari dell’ebraismo, coesistettero con l’islam governante e imperante, è pur vero che l’ebraismo e i cristianesimi orientali sopravvissero all’islamizzazione e al Dar al-Islam. I musulmani conquistarono anticamente quei territori, ma furono minoranze conquistatrici a fronte di ampie maggioranze cristiane conquistate. La domanda che si impone è: come fu possibile che migliaia di questi cristiani (e, in misura minore, ebrei) in pochi secoli si siano convertiti all’islam liberamente, abbracciando la fede dei conquistatori?

Probabilmente la risposta risiede, come molti studiosi indicano, nel sistema perverso di protezione e contemporanea umiliazione/svilimento della Dhimma, che permetteva ai cristiani e agli ebrei di risiedere in territori islamizzati. La Dhimma e le sue conseguenze rendevano allettante per molti la conversione all’islam, per stare finalmente tranquilli, per fugare discriminazioni, per esasperazione. È un dato di fatto che dove l’islam è giunto il cristianesimo è fortemente regredito. Armeni, ebrei e cristiani assiri, pur a fronte di perdite di centinaia di migliaia di loro fratelli, alcuni dei quali trasformatisi drammaticamente poi in delatori e persecutori, hanno “retto” meglio di altri. Fu molto più difficile cioè ottenere la loro conversione. Andare in Armenia e in Artsakh, come andare in Israele, per me è significato andare nella terra di chi, a costi immensi, è persistito nella propria identità. In questo caso, la più antica nazione cristiana del mondo.

Da europeo, credo altresì che siano vere le parole che ho udito personalmente da Bako Sahakhyan, il presidente dell’Artsakh: quel confine armeno è l’estremo confine attuale dell’Occidente. E io aggiungo, con convinzione, “con Israele”. Tuttavia, nella coscienza comune europea, se è già purtroppo complicata una riflessione simile in relazione ad Israele, la nescienza diviene assordante e colpevole per quanto riguarda le vicende armene. Vedere chiese e monasteri, per lo più di antichissima fondazione e di raro incanto, sventrati; steli religiose (khatchkar) infrante deliberatamente a decine di migliaia; villaggi rurali di contadini bombardati per cancellare la presenza armena e la sua storia è un fatto che perdura da decenni. Palmira, cioè, non è per nulla un fatto nuovo, un inedito. Questa è una lezione intrisa di sangue che le pietre di Armenia urlano a noi occidentali, una lezione che molti di noi disprezzano, perché non la conoscono e non vogliono conoscerla, e perché turba le loro delicate menti “cosmopolite”. È verissimo che al genocidio è seguito il genocidio culturale, che è stato perpetrato impunemente, nel silenzio dell’Occidente, per decenni. Innumerevoli paesini montani del Nagorno Karabakh testimoniano per il visitatore tutto questo, paesini che rivedono oggi gli eredi del popolo che abitò e fecondò per secoli e millenni questa terra. Un popolo di contadini ingegnosi e dignitosi, di mercanti e di monaci, di architetti e sognatori, di poeti e di raffinate copiste (sì, al femminile, come fu per la giovane Gayané) di Bibbie e codici. La distruzione del bello e delle vestigia antiche in certe parti del mondo non è solo un orrore bellico, è una strategia inveterata. L’Isis ha copiato stilemi ben più vecchi, ancor più vecchi delle distruzioni che sto ora raccontando.

Un popolo solare
Eppure il governo dell’Artsakh, piccola enclave di tenaci resistenti armeni, non abbatte le moschee presenti, ma le fa restaurare. Anche per evidenziare agli osservatori internazionali una sostanziale differenza rispetto alle forze nemiche. E così accade per i molti cimiteri islamici, che non vengono rimossi e i morti lasciati al loro riposo. È chiaro che la frontiera che ho visitato è una frontiera in guerra, calda. Ed il popolo armeno lì residente è ben armato e militarizzato (due anni di servizio militare obbligatori, da poco facoltativo anche per le ragazze). E ho conosciuto l’arcivescovo Pargev Martirosyan, un eroe nazionale: un arcivescovo letteralmente in trincea e combattente per il suo popolo, non solo con le armi della preghiera. Alla domanda se Sua Eccellenza fosse sul fronte durante la terribile guerra, la risposta è immediata: «Si capisce. Dove altro avrei dovuto essere? Il vescovo è un padre per i figli e per i nipoti. Dovevo stare con i miei familiari e difendere la mia gente».

Ma se il confine è caldo e le armi realtà tristemente ben nota, è altrettanto vero che questo è un popolo solare, che ama mangiare il proprio pane e bere il proprio vino. E brindare, molte volte brindare. Con gli armeni, come con gli ebrei, i vicini hanno invalidato e capovolto drammaticamente la profezia di Isaia per cui le lance si sarebbero mutate in falci. E però questo è un popolo di giovani che si sposano e fanno bambini, tanti bambini. E che vogliono il meglio per i loro figli, il che significa per gli armeni: cultura, cristianesimo e ospedali.

Scuole, asili, case per soldati
Una lezione di vita me l’hanno data i miei compagni di viaggio armeni della diaspora, per lo più americani, promotori di iniziative di solidarietà per l’Artsakh legate alla Fondazione Tufenkian. Persone colte, stimati professionisti, donne e uomini estremamente affabili con la volontà inesausta di beneficare il proprio popolo, di investire in se stessi. Un’attenzione delicata e materna, pacifica e nobile, per scuole, asili, case per giovani soldati feriti, centri medici, aiuti per l’agricoltura locale. E infine non posso non pensare, in chiusura, a un’amica cara, ossia alla nostra Antonia Arslan. Noi italiani abbiamo in mente l’autrice italo-armena della Masseria delle Allodole e di altri scritti. Solo pochi hanno capito che l’autrice della Masseria rappresenterà per la letteratura italiana e la sua storia ciò che rappresentò Se questo è un uomo di Primo Levi, ossia un fondamentale, nuovo tassello. Ma comprendo anche i silenzi dei critici, immersi nel mare di scribacchini starnazzanti nostrani.

Quello che ho visto in Armenia e in Artsakh è però molto di più. Ho visto giovani donne fermarsi per capire se era lei o non era lei. Ragazze commuoversi, vecchie tremare. Bambini farle festa e decorati militari mettersi sull’attenti. Antonia, con Charles Aznavour, è la voce e la bandiera di un popolo antico, nobile e glorioso, sofferente e risorto, combattivo e ospitale. Antonia è per questa gente ciò che Elie Wiesel è stato per gli ebrei. Ed è segno che c’è ancora speranza, forza, coraggio e senso nella letteratura.

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Il sangue degli agnelli (Tempi.it 20.09.17)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – A partire dal 2010, con l’avvento delle rivolte arabe e di Daesh, le persecuzioni nei confronti delle minoranze religiose in Medio Oriente sono aumentate. Nell’ultimo numero della rivista semestrale Strategiques Orients, edita da L’Harmattan e intitolato “Le sort des minorités au Moyen-Orient”, attraverso una serie di saggi si fa il punto sulla condizione di alcune comunità religiose ed etniche della regione. Sopravvissute per secoli alle varie ondate persecutorie, queste affrontano oggi nuove sfide e minacce alla loro esistenza.

 Una delle comunità più perseguitate è quella dei cristiani. Nel saggio La géopolitique des chrétiens du Moyen-Orient, la studiosa Céline Merheb-Ghanem afferma che esistono almeno sette grandi Chiese d’Oriente: i copti, gli armeni, i melchiti (cattolici e greco ortodossi), i protestanti, i caldei, gli assiri, la Chiesa latina e i maroniti. Tale varietà dottrinale, però, pone un duplice problema: da un lato, cristiani appartenenti a una stessa confessione sono dislocati in più paesi, come gli armeni, presenti in Siria, Iran, Libano e Giordania. Dall’altro lato, in uno stesso paese ci sono più chiese sparse in diversi territori, come nel caso del Libano, dove si contano almeno dodici confessioni.

Le divisioni interne ostacolano i cristiani dall’acquisire peso politico nei governi di residenza, esponendoli a persecuzioni e discriminazioni. Secondo monsignor Pascal Gollnisch, intervistato dal direttore Pierre Berthelot, i cristiani d’Oriente assumono un atteggiamento ambiguo per sopravvivere: da un lato essi si pongono come mediatori nei confronti delle altre comunità, dall’altro si avvalgono del sostegno di attori extra-regionali. Il religioso francese è presidente dell’associazione cristiana “Œuvre d’Orient”, che da più di 160 anni sostiene le scuole cristiane in Medio Oriente e Asia. Egli ha accusato americani e inglesi di aver abbandonato le comunità cristiane rispettivamente in Iraq ed Egitto. Tale vuoto è stato però riempito da Francia e Russia le quali, insieme al Vaticano e al Libano, nel 2015 hanno fatto appello all’Onu per fermare il “genocidio culturale” dei cristiani. Non bisogna tralasciare il fatto, però, che certi stati proteggono i cristiani per difendere i propri interessi nella zona.

I cristiani d’Oriente in fuga da Siria e Iraq, comunque, possono ancora trovare rifugio in Giordania e Libano. In particolare, il paese dei Cedri è uno dei pochi in cui i cristiani costituiscono circa il 35 per cento della popolazione e hanno una rappresentanza politica: infatti, in base al patto nazionale del 1943, la presidenza della Repubblica è affidata a un maronita. Tuttavia dal 2014 al 2016 questa carica è rimasta vacante, sintomo di una grave crisi all’interno della comunità. Lo studioso Raphaël Gourrada, nel suo studio Le positionnement politique du Patriarche maronite au Liban, ha ripercorso la storia della minoranza maronita e del suo stretto legame con la politica del paese. In particolare, ha sottolineato il ruolo dell’attuale patriarca, Béchara Boutros Raï, criticato a causa delle sue esternazioni politiche, dovute in realtà al tentativo di colmare il vuoto di potere lasciato dal fronte laico.

La crisi istituzionale libanese, comunque, non riguarda solo i cristiani. Nel 2013 la minoranza turcomanna, supportata dalle istituzioni turche, ha fatto breccia nel fronte sunnita, presentando un progetto per ottenere due seggi parlamentari ad hoc. Come spiega la ricercatrice Jana Jabbour nel suo saggio La minorité turkmène au Liban, i turcomanni sono gli eredi dei soldati turchi mandati nel territorio libanese dal sultano Sélim I nel XIV secolo, poi seguiti dai fuggitivi cretesi durante la guerra greco-turca nel 1897. Nonostante essi si considerino cittadini libanesi sunniti, con l’avvento dell’Akp nel 2000 sono stati oggetto delle politiche di sviluppo socio-economico per le minoranze turche ideate dall’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. Si tratta, dunque, del caso in cui una minoranza viene strumentalizzata da una potenza regionale al fine di influenzare la politica interna di un altro paese.

La lunga oppressione degli sciiti
Oltre ai cristiani, anche gli sciiti subiscono persecuzioni, soprattutto per quanto riguarda altre ramificazioni confessionali: è il caso della minoranza ismaelita, raccontata dallo studioso David Rigoulet-Rouze in La minorité confessionelle ismaélienne du royaume d’Arabie Saudite. Questa fede predica l’avvento del settimo imam, anziché del dodicesimo, come fa la componente sciita maggioritaria. Concentrati soprattutto nelle province al confine tra Arabia Saudita e Yemen, gli ismaeliti sono perseguitati dal regno wahhabita almeno dal 1930. I sauditi hanno vietato le celebrazioni, arrestato predicatori e fedeli, chiuso le moschee e dichiarato l’ismaelismo un’eresia. Di recente, la situazione è peggiorata, non solo a causa delle nuove persecuzioni perpetrate da Daesh. Infatti, nel 2015, con l’inizio della guerra in Yemen, gli abitanti della provincia di Najran si sono ribellati, costituendo un ulteriore fattore di instabilità per il regno saudita, che ha aumentato le rappresaglie.

Il conflitto siriano, invece, ha esposto un altro ramo sciita: si tratta degli alawiti. Perseguitati fin dai tempi dei sultani mamelucchi e ottomani, gli alawiti avevano trovato una pace relativa sotto il mandato francese. Cosicché, attraverso la famiglia Assad, hanno raggiunto i vertici dello Stato siriano. Con lo scoppio dei disordini nel 2011, però, alle persecuzioni religiose si sono aggiunte quelle politiche, benché, come spiega il ricercatore Stéphane Valter in Les alaouites, entre vindicte religieuse et oppression historique, la comunità alawita non appoggi unanimemente il presidente Bashar al-Assad.

Il riscatto degli yazidi
Non sempre gli sciiti in Medio Oriente sono una minoranza: vedi l’Iran. Nel 1979 gli ayatollah hanno sì sancito la libertà di culto religioso (art. 13 Cost.), ma solo per alcune minoranze, cioè zoroastriani, ebrei e cristiani. In effetti, spiega lo storico Alain Chaoulli in La minorité juive en Iran, i cittadini ebrei iraniani sono ben integrati nella società, nonostante la rivalità con Israele. Tuttavia, il regime reprime duramente la comunità bahà’i. Erede del movimento Bàb, nato in Iran nel 1819 per una riforma radicale dell’islam, il bahaïsmo è considerato un’apostasia e i suoi adepti sono perseguitati, arrestati e spesso condannati a morte. La loro sopravvivenza, secondo lo studioso Foad Sabéran in Les baha’s: le destin tragique d’une communauté réprimée en Iran, è dovuta unicamente alla solidarietà da parte del popolo iraniano e di alcuni attori internazionali.

La solidarietà è spesso l’unica àncora di salvezza per le minoranze, come anche nel caso degli yazidi. La politologa italiana Emanuela Del Re, in The Yazidi minority in the Middle East: from victims to strategic actors, racconta la loro odissea dalle origini alla 73esima persecuzione, quella perpetrata nel 2014 da Daesh. Stavolta, però, gli yazidi hanno reagito facendo fronte comune con altre minoranze, come quella curda, e dando risonanza internazionale alla loro causa, anche grazie ai social media. Il riscatto di questa comunità è un esempio di come anche nel Medio Oriente martoriato dall’oppressione sia ancora possibile per Davide sconfiggere Golia.

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Noi armeni e i curdi fratelli nella tragedia (Larepubblica.it 19.09.17)

Di Antonia Arslan

Non avevo mai conosciuto un curdo di persona, ma quanto ne avevo sentito parlare! La zia Henriette, il mio angelo tutelare, la persona che mi coccolava e amava  incondizionatamente, ne aveva una enorme paura (…). Aveva tre anni e giocava sulle ginocchia di sua madre quando il padre venne ucciso., decapitato, e la sua testa fu gettata addosso alla moglie….Leggi l’articolo in pdf

Nuova impasse nel processo per l’elezione del Patriarca armeno di Costantinopoli (Agenzia Fides 15.09.17)

Istanbul (Agenzia Fides) – Il processo per l’elezione del nuovo Patriarca armeno di Costantinopoli, sta vivendo una nuova fase di stallo, legata a episodi di silenzioso boicottaggio da parte delle istituzioni turche, ma anche alle perduranti divisioni che si registrano all’interno della comunità armena.
Dopo l’elezione – il 15 agosto 2016 – dell’Arcivescovo Karekin Bekdjian come nuovo locum tenens del Patriarcato, in sostituzione dell’Arcivescovo Aram Ateshyan, e dopo la costituzione di un gruppo di lavoro incaricato di far avanzare il processo elettorale, le lettere ufficiali inviate dal Patriarcato armeno alle autorità turche per sollecitare il riavvio delle procedure per l’elezione del Patriarca non hanno avuto risposta. Bagrat Estukian, direttore della sezione armena di Agos – giornale bilingue armeno-turco pubblicato a Istanbul – ha riferito all’agenzia Armeniapress che il Patriarcato armeno non ha ricevuto nessun invito a partecipare alle commemorazioni ufficiali turche per la festa della vittoria, lo scorso 30 agosto, dove invece erano stati invitati i rappresentanti di tutte le altre Chiese e comunità religiose presenti in Turchia. Nella comunità armena tale mancato invito è stato percepito come un segnale di avversione nei confronti dell’attuale locum tenens del Patriarcato. Lo stesso Estukian ha anche accennato al ruolo negativo giocato da personaggi in vista della comunità armena che puntano ad accreditarsi come “intermediari” tra la sessa comunità e le autorità turche, vantando entrature di alto livello nelle istituzioni nazionali.
Secondo indiscrezioni riprese dallo stesso Agos, proprio alcune delle persone selezionate dall’arcivescovo Bekchyan non sarebbero graditi agli apparati politici e istituzionali turchi. E le difficoltà presenti sarebbero connesse anche all’atteggiamento di sostenitori dell’ex locum tenens Aram Ateshyan, che auspicano le dimissioni di Bekdjian e del gruppo di lavoro, trovando appoggi all’interno delle istituzioni turche.
L’ultimo accordo sulle procedure da seguire per eleggere il successore di Mesrob II Mutafyan – giovane e intraprendente Patriarca armeno di Costantinopoli reso inabile da una malattia incurabile che lo ha colpito dal 2008 – erano state concordate tra alcuni alti rappresentanti del Patriarcato durante un summit convocato a Erevan, presso la Sede patriarcale di Echmiadzin (Armenia) dal Patriarca Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni, lo scorso 23 e 24 febbraio. (GV) (Agenzia Fides 15/9/2017).

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Istoria Viaggi, itinerario in Israele con Antonia Arslan e David Meghnagi (Travelquotidiano.com 15.09.17)

“Storie di donne, armeni ed ebrei” è il titolo del viaggio speciale in Israele organizzato dal tour operator Istoria dal 29 ottobre al 5 novembre. A far da guida saranno la scrittrice italo-armena Antonia Arslan (nella foto) e il prof. David Meghnagi, direttore del master sulla didattica della Shoah all’Università Roma Tre. Accompagneranno il gruppo anche don Andrea Varliero (diocesi Adria-Rovigo) e Vittorio Robiati Bendaud (tribunale Rabbinico del centro-nord Italia). La quota è di mille 950 euro (supplemento singola di 495 euro). L’itinerario inizia a Tel Aviv e si conclude a Gerusalemme dopo aver fatto tappa a Tiberiade, Cafarnao, Galilea e molte altre località legate al tema del viaggio. Per informazioni e iscrizioni: www.istoriaviaggi.com

 

Armeni Mechitaristi, parla l’arcivescovo Zekyian: tre secoli di storia e un futuro su tre “pilastri” (Gente Veneta 13.09.17)

L’amore per lo studio, la conservazione di un patrimonio culturale inestimabile, la diffusione e declinazione contemporanea di uno stile ecumenico.

Ci sono almeno questi tre pilastri a tenere in piedi, oggi e in vista del domani, la congregazione dei padri Armeni Mechitaristi.

Sono tre pilastri che affondano le radici nel passato, ma guardano decisamente al futuro. Proprio come aveva fatto Mechitar di Sebaste, l’abate armeno che tre secoli fa diede vita ad un’esperienza monacale che in laguna di Venezia, nell’isola di San Lazzaro, ha avuto il suo cuore.

Il monaco Mechitar era stato un innovatore e i religiosi della congregazione da lui creata possono oggi, a distanza di tre secoli, trovare i modi per declinare nel presente la spinta innovatrice ed evangelizzatrice del fondatore.

Ne è convinto mons. Lévon Boghos Zekiyan, 73 anni, arcieparca di Costantinopoli e delegato pontificio per la Congregazione mechitarista, nonché presidente della Conferenza episcopale di Turchia. Mons. Zekiyan ha un legame molto forte con Venezia, non solo perché a lui è affidata la congregazione che ha il suo centro storico a San Lazzaro, ma anche perché dal 1955 vive e opera nel territorio lagunare.

Era un ragazzino, infatti, Lévon Boghos Zekiyan quando arrivò per la prima volta a Venezia, per studiare. E qui è rimasto, fino all’ordinazione episcopale, insegnando per molti anni lingua e letteratura armena a Ca’ Foscari.

Ma oggi che si celebrano i trecento anni da quando – l’8 settembre 1717, Mechitar e i suoi discepoli si insediarono nell’isola di San Lazzaro, concessa loro dal doge – si tratta di portare avanti e innovare la sostanza di questa storia tri-secolare.

Tutto ciò anche per garantire la continuità della presenza dei monaci. Oggi la congregazione ne conta solo 24, molti meno dei circa 80 di cui disponeva a metà del Novecento. La crisi delle vocazioni, certo, non è un problema che si pone solo per i Mechitaristi: tutte le famiglie religiose, sia pure con numeri e modalità diversi, ne sono afflitte.

Ma proprio perciò si tratta di dare linfa attuale alla ricchezza che il carisma di Mechitar ha generato. Un dottore della Chiesa armena, ricorda l’arcivescovo Zekiyan, dice che l’amore per lo studio è immagine dell’amore di Dio. E questo si fa chiaro a coloro che ne fanno esperienza. Questo amore per lo studio, per la conoscenza e la ricerca è tuttora una delle ragioni di fondo della missione.

A San Lazzaro, data la lunga storia, fa tutt’uno con la conservazione e la tutela di un grande patrimonio.

Sono più di 4mila, infatti, i manoscritti conservati. Dopo la biblioteca nazionale di Yerevan, la capitale dell’Armenia, San Lazzaro è lo scrigno di più ricco di documenti antichi: «E, dal punto di vista della varietà tematica – precisa il vescovo Zekyian – la collezione veneziana è la più importante in assoluto. Quindi è un tesoro. Perciò dico spesso che già solo poter conservare questo patrimonio, giovandoci di criteri e tecniche attuali, è una missione sufficiente per i nostri monaci».

Ma c’è un terzo “pilastro”, altrettanto e forse più essenziale per l’oggi: «Mechitar ha avuto, da anticipatore, una visione ecumenica della Chiesa. Ha precorso i secoli, sulla scia della tradizione della Chiesa armena».

Il monaco fondatore ha innestato, cioè, il nuovo sull’antico. E questo è proprio il risultato cui è chiamata la congregazione, trecento anni dopo, per mostrare la sua attualità.

Chiarisce mons. Lévon Boghos Zekiyan: «L’odierno ecumenismo si fonda sulla distinzione fra la sostanza della fede e il linguaggio che esprime questa sostanza. Il linguaggio può variare, mentre la sostanza resta la stessa. Questo principio Mechitar lo sostenne apertamente ed esplicitamente. Perciò credo che la congregazione, da questo punto di vista, abbia una missione particolare nel dialogo ecumenico, che possa essere fruita come modello per la Chiesa universale. La congregazione stessa è un vissuto concreto ed esistenziale di questo principio ecumenico».

E Venezia non è estranea alla genesi e alla vitalità di questo stile ecumenico: «È una mia ipotesi – sostiene l’arcivescovo armeno di Costantinopoli – ma sono convinto che Mechitar non sarebbe potuto sopravvivere, con questo ideale ecumenico, in quell’epoca post-tridentina, se non fosse stato a Venezia».

Giorgio Malavasi

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L’Arcivescovo Marayati: “La guerra si combatte con il perdono” (Agenzia Fides 13.09.17)

Munster (Agenzia Fides) – “La guerra non si combatte con la guerra, ma con il dialogo, con il perdono, con la riconciliazione e con la volontà di cominciare una nuova vita camminando su strade di pace”: lo ha detto l’Arcivescovo armeno cattolico di Aleppo, Butros Marayati, all’incontro internazionale “Strade di Pace” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Munster, in Germania. Come appreso da Fides, Marayati, che guida la comunità armena della città di Aleppo, luogo simbolo del lungo conflitto siriano, ha ricordato gli altri due Vescovi di Aleppo, il siro-ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Paul Yazigi, rapiti il 22 aprile 2013, rinnovando un appello per la loro liberazione: “Aleppo attende il ritorno dei suoi vescovi e sacerdoti rapiti, aspetta la fine della guerra, spera e confida nel Signore” ha detto. Ricordando l’immane sofferenza di bambini, donne e dei profughi che attendono la pace, l’Arcivescovo Marayati ha concluso: “Da tutti loro sale il grido ‘mai più la guerra’, perché la guerra è sempre un’inutile strage”.
I due Vescovi metropoliti di Aleppo furono rapiti nell’area compresa tra la metropoli siriana e il confine con la Turchia. L’auto su cui viaggiavano i due Vescovi fu bloccata dal gruppo dei rapitori e l’autista fu freddato con un colpo alla testa. Da allora, nessun gruppo ha rivendicato il sequestro. Intorno al caso sono state fatte filtrare a più riprese indiscrezioni rivelatesi infondate. A oltre quattro anni dal sequestro, non vi sono notizie certe sulla sorte dei due.
Nei mesi scorsi, in un messaggio congiunto, due Patriarchi di Antiochia, il greco ortodosso Yohanna X e il siro ortodosso Mar Ignatios Aphrem II, avevano richiamato la comunità internazionale a far memoria dei due Metropoliti rapiti e ad adottare sforzi adeguati per ottenerne il rilascio. (PA) (Agenzia Fides 13/9/2017)

L’Arena fa scuola in Armenia (Larena.it 12.09.17)

KRASAR (ARMENIA)

Un nugolo di bambine dalle lunghe trecce agghindate con pon pon di toulle e fasce decorate, abitini blu, bandierine e musiche caucasiche. Un vortice di danze, ritmi e costumi tradizionali apre la giornata e l’anno scolastico in questo villaggio di 550 anime nel nord-ovest dell’Armenia, Krasar, a duemila metri di altitudine. S’inaugura la nuova scuola in pietra (LA FOTOGALLERY). E si consolidano così l’amicizia e la solidarietà tra l’Armenia, l’Italia, Verona e L’Arena. Duramente colpita, l’Armenia, il 7 dicembre del 1988, dal terremoto che provocò 25mila morti e 700mila senzatetto, su una popolazione allora, quando era ancora nell’Unione Sovietica – è indipendente dal 1991 – di tre milioni di abitanti.

Le lezioni, per un centinaio di ragazzi di elementari e medie, si aprono in una nuova scuola in muratura a due piani, con palestra e sale computer. Costruita con criteri antisismici per iniziativa di Garen Kökciyan, 56 anni, un ingegnere armeno nato in Turchia, a Istanbul, trasferitosi in Italia nel 1978 e residente ad Avigliana (Torino). Attivatosi con la Banca mondiale e con l’Armenian Territorial Development Fund, aiutato da un gruppo di benefattori per costruire un edificio scolastico al posto di quello che andò distrutto dal terremoto.

Alunni e studenti hanno a disposizione quest’anno anche 3.000 euro, donati dalla Società Athesis, editrice del nostro giornale, che servirà ad acquistare libri e quaderni per quattro anni. Il legame con Verona continua. Già, perché a Krasar, come L’Arena ha raccontato anche di recente, il 7 dicembre 1989, esattamente un anno dopo il sisma, fu inaugurata la «Scuola Verona». Cioè un prefabbricato in cartongesso – che sopperì alla mancanza della scuola – realizzato grazie a una sottoscrizione promossa dopo il sisma da L’Arena, che raccolse 300 milioni di lire.

In quella scuoletta, costruita dalla Ofma, di Udine, ora quasi inagibile per infiltrazioni d’acqua – d’inverno si arriva a 40 gradi sotto zero – hanno studiato in quasi trent’anni duemila ragazzi, fino al giugno scorso. Fu Un miracolo. A cui se ne è aggiunto un altro. Quello di Garen Kökciyan, venuto a conoscenza da un nostro reportage da qui dell’esistenza della Scuola Verona e della necessità, ora, di un edificio vero.

Dentro la nuova scuola però – all’inaugurazione bandiere rosso blu arancio armene e verde bianco rosso dell’Italia – è stata collocata la targa «Scuola Verona-L’Arena ottobre 1989», «come segno di eterna gratitudine ai veronesi, lettori de L’Arena», dice l’ingegnere, tagliando il nastro con Giovanni Ricciulli, ambasciatore d’Italia in Armenia. Presenti il vicepresidente della Regione Shirak, Seyran Petrosyan, alunni, insegnanti, genitori. Un’altra targa ricorda il legame «Italia-Verona-L’Arena», con un «Grazie». Nella palestra, poi, una chicca di arte. Frutto di un popolo antico, colto, che ha sopportato vari genocidi, fino all’ultimo cent’anni fa, attuato dai turchi: un milione e mezzo di morti. Si esibisce per i convenuti il Quartetto d’archi Komitas, con primo violino Eduard Tadevosyan, un mito in Armenia, e poi con Syuzi Yeritsyan, Aleksandr Kosemyan e Angela Sargsyan, che in futuro potrebbero esibirsi a Verona.

Bruno Panziera, ex giornalista de L’Arena, che attuò il progetto della Scuola Verona – la quale diventerà un centro d’incontro – consegna alla direttrice i 3.000 euro della Società Athesis per il materiale didattico e formelle su Verona prodotte dalla Cooperativa sociale Filo Continuo, di Pescantina. E L’Arena riceve a sua volta una formella con il «grazie per aver contribuito in maniera determinante all’educazione dei nostri giovani in questi 28 anni».

Letti messaggi di augurio del sindaco di Verona, Federico Sboarina, e di monsignor Claudio Gugerotti, veronese, ora nunzio apostolico in Ucraina, a Kiev, e per 10 anni nunzio in Armenia, Georgia e Azerbaigian, dopo essere stato responsabile del settore armeno della Congregazione delle Chiese orientali. Si era attivato lui per costruire l’ospedale Redemptoris Mater, ad Ashotsk, qui vicino, donato da Giovanni Paolo II utilizzando fondi della Caritas italiana. C’è poi padre Tovma Khachatryan, parroco della comunità della Chiesa apostolica armena di Milano.

«Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno contribuito materialmente, moralmente o anche soltanto leggendo i messaggi sull’avanzamento dei lavori, alla realizzazione del progetto», dice commosso Kökciyan. Che ha messo il cuore e le mani per la sua Armenia, «la terra delle pietre urlanti».

Enrico Giardini

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«Tante opportunità  di rapporti e sviluppo  tra italiani e armeni» larena.it 12.09.17

KRASAR (ARMENIA)

Prima di tagliare il nastro della nuova scuola in pietra, l’ambasciatore d’Italia in Armenia, Giovanni Ricciulli, visita il villaggio e la scuoletta in prefabbricato, la Scuola Verona, costruita da L’Arena nel 1989. Con lui c’è Garen Kökciyan, l’ingegnere armeno promotore del nuovo edificio in muratura.

«Sono due opere frutto della grande generosità degli italiani, che hanno consentito e consentiranno ancora di mantenere l’istruzione in questo piccolo centro sperduto, per dare futuro a tanti ragazzi», dice Ricciulli, che esprime «un grande ringraziamento al giornale L’Arena, per quanto continua a fare per l’Armenia, e all’ingegner Kökciyan, per aver realizzato il nuovo edificio». Ricciulli, calabrese, è da quattro anni attivo in Armenia, nella capitale Yerevan, a 180 chilometri da Krasar. Sottolinea, l’ambasciatore, che i rapporti tra l’Italia e l’Armenia, oltre che improntati alla massima cordialità, siano già consolidati a livello istituzionale, ma anche in crescita dal punto di vista economico e culturale.

«In numerosi settori la cooperazione e gli scambi sono già stati implementati di recente», spiega Ricciulli, «grazie a incontri avvenuti anche a Roma, con imprenditori e amministratori italiani e armeni. Sul fronte dell’agricoltura, ma anche dell’agroindustria e delle energie rinnovabili, il ruolo dell’Italia qui può essere rilevante».

E.G.

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Leader religiosi di Russia, Armenia e Azerbaigian per la pace in Nagorno Karabakh (Interris.it 09.09.17)

Incontro a Mosca tra il patriarca Kirill, il Catholicos di tutti gli armeni e lo Sheikh ul-Islam azero: firmata una dichiarazione che chiede il rilascio dei prigionieri di guerra

Ieri, 8 settembre, Mosca ha ospitato un incontro tra il patriarca russo-ortodosso Kirill, lo Sheikh ul-Islam azero Haji Allahshukur Pashazade e il Catholicos di tutti gli armeni Karekin II.

Il conflitto in Nagorno Karabakh

Al centro dei colloqui tra i tre leader religiosi il conflitto nel Nagorno Karabakh, regione caucasica ufficialmente parte dell’Azerbaigian e per la quale l’Armenia rivendica una Repubblica indipendente. Le attività belliche tra gli eserciti dei due Paesi riprendono periodicamente. Ultimo episodio grave è avvenuto nell’aprile 2016, quella conosciuta come la “guerra dei quattro giorni”ha provocato novanta morti secondo fonti armene e trecentoventi secondo fonti azere.

L’impegno per la pace

Come riferisce l’agenzia azera Apa, i tre leader hanno firmato una dichiarazione sui risultati della riunione, in cui si chiede il rilascio dei prigionieri di guerra.

Il patriarca Kirill ha espresso soddisfazione per l’incontro nell’incontro con i giornalisti avvenuto a margine: “La differenza di opinioni può essere eliminata solo basandosi sui principi di vicinato e sui valori morali. Gli azeri e gli armeni dovrebbero vivere fianco a fianco. Pertanto, c’è bisogno di pace e di cooperazione. Preghiamo per la soluzione pacifica di tutti i problemi umanitari legati al conflitto”.

Il rispetto dei luoghi di culto

Kirill ha posto l’accento sulla necessità di escludere i civili dal conflitto. “Chiediamo il rilascio di coloro che non hanno partecipato alla guerra ma sono rimasti coinvolti durante il conflitto”, ha detto. Importante è inoltre “la protezione delle chiese, delle moschee e di altri luoghi sacri nella zona di guerra”.

Trattative politiche

Contestualmente si lavora per una via d’uscita al conflitto nel Nagorno Karabakh anche nelle alte sfere politiche. A Baku, sempre ieri, si sono incontrati il capo di Stato maggiore della Federazione Russa Valerij Gerasimov e l’omologo dell’Azerbaigian, Najmeddin Sadykov. L’ufficio stampa del ministero della Difesa azero ha diffuso un comunicato, ripreso da AgenziaNova, che afferma: “Si è discusso della situazione militare e politica nella regione. Il generale Sadykov ha osservato che il conflitto nel Nagorno Karabakh è la principale minaccia per la sicurezza regionale. Il capo di Stato maggiore ha sottolineato l’importanza di ottenere una soluzione al conflitto nelle norme del diritto internazionale”.

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