Giornata della memoria: il 24 aprile a Carloforte la presentazione del volume sul genocidio armeno (Spondasud 18.04.17)

Il Centro Italo Arabo e del Mediterraneo, in collaborazione con la rivista Spondasud, ha scelto il comune di Carloforte per ricordare la giornata della memoria del genocidio del popolo armeno, che quest’anno celebra il suo 102esimo anniversario. L’appuntamento è per lunedì 24 aprile, alle ore 18, alla sala convegni dell’EXME. Sarà presentato il volume: “Il Genocidio armeno: 100 anni di silenzio. Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti” (Arkadia Editore). Interverrà uno degli autori, Alessandro Aramu, che ripercorrerà i momenti salienti del reportage in Armenia dal quale è nato il volume sul primo crimine contro l’umanità del secolo scorso. Modera il giornalista de L’Unione Sarda Mariano Froldi.  Il volume ha visto la partecipazione di altri due importanti giornalisti italiani: il reporter di guerra Gian Micalessin (Il Giornale) e Anna Mazzone (Tg2). Le foto sono di Romolo Eucalitto, la prefazione di Raimondo Schiavone.

La presentazione cade in un momento storico particolare, a pochi giorni dal referendum che trasforma la Turchia in una repubblica presidenziale, con Erdogan che avrà poteri illimitati fino a oltre il 2030. Ankara, ancora oggi, a distanza di oltre un secolo, nega il genocidio del popolo armeno e attua una politica repressiva nei confronti di tutti colori che in patria usano questa espressione per definire quell’orrendo crimine.

Il giorno della memoria è una data significativa: la notte del 24 aprile 1915 iniziava infatti l’orrendo sterminio del popolo armeno nei territori dell’Impero ottomano. In un solo mese più di mille intellettuali (giornalisti, scrittori, poeti, politici) furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati. A costoro si unirono altre centinaia di migliaia di persone uccise con ferocia inaudita. Uomini sepolti vivi, donne stuprate e sventrate, bambini crocifissi. Un orrore senza precedenti. Alla fine gli armeni cristiani massacrati furono circa un milione e mezzo.

 A distanza di un secolo da quel genocidio parlano da Yerevan gli ultimi sopravvissuti di una tragedia che ancora oggi il governo della Turchia si rifiuta di riconoscere, facendo di tutto perché se ne taccia o se ne parli secondo la visione di Ankara. Un atteggiamento negazionista che uccide due volte le vittime.

«Abbiamo intervistato tre sopravvissuti, tutti residenti nella capitale armena», spiega Aramu. «Sono racconti che rievocano pagine storiche legate a quel crimine, come la resistenza nella città di Van e quella eroica a Mussa Dagh, il Monte di Mosè, dove circa 5 mila armeni per quasi due mesi resistettero in armi contro la minaccia di sterminio da parte dei turchi, fino a essere salvati da una nave francese che transitava nel golfo di Antiochia»

« Un capitolo del libro è dedicato interamente alle donne. Tra le tante storie,  – spiega Aramu – c’è anche quella di una sopravvissuta, Silvard Atajyan, che ha fornito uno sguardo tutto al femminile di quella vicenda. Raccontiamo la storia delle donne tatuate, giovani salvate dai turchi solo per diventare, giovanissime, spose-schiave costrette a soddisfare gli impulsi sessuali di quei maschi. Una volta libere, quel marchio era vissuto come una vergogna da nascondere anche dai loro padri e fratelli. E poi il bellissimo racconto di Nazie, una giornalista armena, che riporta, in maniera intensa, la storia della sua famiglia spezzata dal genocidio».

Il volume, oltre alle eccezionali e uniche testimonianze degli ultimi tre sopravvissuti, descrive il terrificante passato facendo i dovuti parallelismi con l’attualità del Medio Oriente, in cui il governo turco, ancora oggi, persegue una politica brutale e finanzia movimenti come l’Isis. E così gli eccidi di ieri sono attualizzati dalla incredibile disinvoltura dei vertici di uno stato che finanzia e foraggia, sotto gli occhi di tutti, i tagliatori di teste, compresi quelli che massacrano gli armeni di Aleppo e della Siria. Per non dimenticare, per non ripetere gli stessi errori.

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La tragedia del popolo armeno tra gli appuntamenti saluzzesi di “Aprile. Un mese di Resistenza” (Targatocn.it 17.04.17)

Tra i relatori ci saranno Monica Ellena, giornalista saluzzese e Agop Manoukian, sociologo di origine armene

Wikimedia Commons, la marcia degli Armeni

Per “Aprile. Un mese di Resistenza”, mercoledì 26 aprile alle ore 21, nel Salone dell’Antico Palazzo Comunale di Saluzzo, Monica Ellena (giornalista) e Agopik Manoukian (sociologo, presidente onorario dell’Unione Armeni d’Italia) terranno una conferenza dal titolo: “Il popolo armeno: la tragedia di ieri, la memoria di oggi”

Nella notte tra 23 e il 24 aprile 1915 centinaia di intellettuali armeni in Costantinopoli vennero arrestati e deportati dando inizio a quello che gli armeni chiamano Medz Yeghern”, “il grande crimine” ovvero lo stermino della popolazione cristiana armena in Turchia.

Per Raphael Lemkin, lo storico americano che ha coniato il termine genocidio, si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito lo sterminio di un intero popolo. La maggior parte degli storici concorda che l’impero Ottomano progettò la deportazione di massa della vasta minoranza armeni – le marce attraverso il deserto, verso la Siria, coinvolsero oltre un milione di persone, a migliaia morirono per sfinimento, fame, sete, malattie e violenze. Gli uomini in età da servizio militare furono concentrati nei battaglioni di lavoro dell’esercito turco, per poi essere uccisi. Gli storici concordano che circa un milione e mezzo di persone morirono, mentre per la Turchia il bilancio fu tra le 300mila e le 500mila vittime.

La Turchia non ha mai accettato la definizione di genocidio – pur riconoscendo che i massacri avvennero, la versione ufficiale è che la repressione fu una conseguenza della collaborazione degli armeni con la Russia zarista durante le prima guera mondiale. Ad oggi ventidue paesi riconoscono ufficialmente il genocidio armeno. Tra questi l’Italia, che vanta un rapporto secolare con la comunità armena – l’isola di San Lazzaro degli armeni di Venezia ospita dal XVIII secolo il monastero dei padri armeni mechitaristi, che nei secoli è stato protetto da Napoleone e ammirato da George Byron.

Monica Ellena, giornalista saluzzese vive a Tbilisi dal 2009 ed è responsabile editoriale della pluri-premiata piattaforma multimediale Chai Khana. In Italia ha scritto per Repubblica e Il Sole 24ore, all’estero ha lavorato per ABC News e Bloomberg News, collaborando tra gli altri per il Financial Times. È stata portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle nazioni Uniti in Kosovo e in Georgia ha insegnto comunicazione politica alla Caucasus University.

Agop Manoukian, sociologo, è nato a Como nel 1938 da madre italiana e da padre armeno, quest’ultimo scappato ancora bambino con la famiglia dai massacri di Adana del 1909 e arrivato in Italia nel 1925. Ha insegnato Sociologia presso le università di Trento e Milano e ha avuto un ruolo attivo alla vita associativa della comunità degli armeni residenti in Italia. È stato presidente dell’Unione degli armeni d’Italia (ne è tuttora Presidente onorario), e guida il Centro studi e documentazione della cultura armena di Venezia.

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Viaggio nell’Armenia lacerata tra Mosca e Bruxelles (Lettera43.it 17.04.17)

trano Paese quello che va a dormire pronto a festeggiare l’ingresso nell’Unione europea e si sveglia alleato della Russia; che venera un monte fuori dal suo territorio; che vanta una storia millenaria ma si trova intrappolato nel passato più recente. Strano Paese l’Armenia, nel mezzo di un cambiamento politico che potrebbe consolidarla o farla sprofondare nei meccanismi autarchici che contraddistinguono molti dei suoi vicini caucasici. «Siamo seduti sulle ginocchia della Russia e le tiriamo la barba. Ci piace definirci europei ma abbiamo paura che le loro politiche sociali distruggano i nostri valori. Almeno siamo flessibili e non chiudiamo le porte a niente e nessuno», si schernisce Maria Titizian, armena della diaspora che vive fra il Canada e Yerevan, dove ha fondato il portale d’informazione indipendente EVNreport.

METAMORFOSI DI UNA REPUBBLICA. Due settimane fa in Armenia si sono tenute le elezioni parlamentari. È stato il primo test nel passaggio da repubblica semi-presidenziale a parlamentare pura. Il 6 aprile 2015 un referendum voluto e vinto dal Presidente in carica Serzh Sargsyan ha stabilito che dal 2018 il Parlamento e il primo ministro saranno più importanti del capo dello Stato. Le opposizioni accusano Sargsyan di aver messo mano alla Costituzione per mantenere il potere anche dopo la fine del suo mandato, nell’aprile del prossimo anno, ripresentandosi come primo ministro. I filo-governativi forniscono la spiegazione opposta: «Abbiamo cambiato per avere maggiore democrazia: il vice presidente del Consiglio spetterà alle opposizioni, le decisioni vitali avranno bisogno del voto di due terzi del Parlamento e le minoranze avranno i loro rappresentanti. Abbiamo cambiato per avvicinarci all’Europa», spiega la portavoce del Parlamento.

BROGLI E CONDIZIONAMENTI. Gli osservatori internazionali delle Nazioni Unite hanno monitorato lo svolgimento delle elezioni, dopo che numerosi brogli e condizionamenti erano stati segnalati in occasione del referendum. E non molto è cambiato: «Sfortunatamente il processo elettorale è stato minato dalla compravendita di voti e atti intimidatori nei confronti degli elettori», hanno scritto nel comunicato successivo alle elezioni. «Uno dei problemi dell’Armena è la qualità dell’informazione. Ci sono solo cinque canali televisivi, di cui uno è di proprietà del governo e due di altri leader politici», ha ammonito Jan Petersen, coordinatore della missione Ocse ed ex ministro norvegese.

Politica, business e informazione sono concentrati nelle mani di pochi oligarchi. Gagik Tsarukyan, leader di Armenia Prospera, partito che fino al referendum era al governo con i repubblicani di Sargsyan e poi è passato all’opposizione, è fra i più ricchi del Paese. Campione mondiale ed europeo di lotta libera negli anni ’90, Tsarukyan vive in una villa appena fuori Yerevan con tanto di zoo privato. Sua è la fabbrica di cognac più antica del Paese, l’Ararat Factory che dopo essere stata spacchettata e venduta in parte ai francesi si chiama Noy (Noè, ndr); suo è il birrificio Kotayk Abovyan, a completare il monopolio sugli alcolici; e sua è Kentron Channel, quarto polo televisivo per ascolti. «Noi siamo la voce dell’opposizione, ma siamo pronti a fare accordi con i repubblicani per governare insieme», spiega Naira Zohrabyan, allo stesso tempo portavoce di Armenia Prospera e direttrice di Kentron Tv, di cui però rivendica la «totale indipendenza».

UNO SGUARDO AL 2018. Non da meno è Karen Karapetyan, primo ministro in carica, repubblicano: «In campagna elettorale Karapetyan ha presentato al mondo il suo club degli investitori, un circolo di oligarchi russi e armeni che hanno promesso di investire tre miliardi di dollari in tre anni se il loro protetto venisse riconfermato», dice Artak Aleksanyan, direttore di ArmNews, la più diffusa tivù privata – e non politica – locale. Nulla di strano, considerando che lo stesso Karapetyan è stato per quasi dieci anni amministratore delegato della ArmRosGazprom, la compagnia petrolifera che impersonifica la joint-venture politica ed economica con la Russia. Ambizioso e carismatico, Karapetyan ha conquistato l’elettorato con messaggi ottimisti impregnati di fiducia e promesse di crescita, che hanno garantito al partito repubblicano oltre il 49% dei voti. Molto probabilmente Karapetyan sarà confermato primo ministro, ma resta da capire se nel 2018 Sargsyan avrà voglia di sfidarlo o gli lascerà le redini del partito e del Paese.

LA DISAFFEZIONE DEI CITTADINI. Le elezioni non hanno risolto la disaffezione degli armeni nei confronti della classe politica, come testimonia l’affluenza sotto al 60%: «Nessuno vuole veramente cambiare questo Paese, se non i giovani. Ma non ce ne danno la possibilità», lamenta Vanuhi, psicologa trentenne di Yerevan. La città non riesce a nascondere le origini sovietiche e alle spalle della rossissima Piazza della Repubblica spuntano gli oltre 5 mila metri del monte Ararat. La montagna su cui Noè salvò quel che rimaneva dal diluvio universale è il simbolo delle frustrazioni armene. A pochi passi dal confine turco, l’Ararat e molte città simbolo dell’impero armeno sono su terra nemica: «Per noi l’Anatolia è l’Armenia occidentale e quel confine chiuso impedisce di riunirci con i nostri parenti», spiega Vanuhi.

Il genocidio armeno di 100 anni fa mai riconosciuto da Ankara è un ostacolo ancora insormontabile fra i due Paesi, nonostante i prodotti turchi affollino il mercato armeno. Anche l’altro confine, quello con l’Azerbaijan, è chiuso e la guerra per il Nagorno Karabakh non aiuta le relazioni: «È l’ultimo pezzo di terra che l’Armenia ha perso dopo il genocidio», sottolinea Maria Titizian. «Rappresenta una questione identitaria molto forte che chiunque governi l’Armenia deve tenere in considerazione».

IL CONFLITTO CON GLI AZERI. Il territorio a maggioranza armena al confine fra i due Paesi si è dichiarato autonomo nel 1992 e da allora armeni e azeri se lo contendono in un conflitto a intensità variabile, che anche un anno fa ha avuto un’escalation di quattro giorni con diverse centinaia di morti. «Riusciamo a combattere l’Azerbaijan grazie alle armi che ci vendono i russi. A proteggerci al confine con la Turchia ci sono 5 mila soldati di Mosca. Certo che non siamo un Paese del tutto indipendente. Ma chi lo è?», sorride sornione Aleksanyan. Nel 2012 l’Armenia aveva iniziato le trattative per l’ingresso nell’Unione europea, come le vicine Georgia e Ucraina, che avrebbero dovuto finalizzarsi nel settembre 2014. Quando tutto sembrava ormai fatto, il presidente Sargsyan annunciò l’adesione dell’Armenia alla comunità economica Eurasiatica, una sorta di Ceca con Bielorussia, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan creata tre anni fa da Putin per unire i Paesi dalla Turchia alla Cina.

I COLLOQUI CON L’EUROPA. «Nessuno sapeva chi aveva deciso questo cambio di rotta e perché», ricorda Aleksanyan. «Col senno di poi, visto quello che è successo in Georgia e Ucraina, è andata meglio così». Indipendente da 25 anni, ancora pregna della cultura russa – nelle scuole pubbliche si insegna il russo e i più anziani si fidano solo di Russia Today, per dire – in questi mesi l’Armenia ha ricominciato la discussione con l’Europa per un’unione almeno commerciale. Il cervello a Mosca e il cuore a Bruxelles, stando ben attenta a non intaccare quell’equilibrio che tanto bene fa agli oligarchi e tanto odiano i giovani.

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Siria, l’ultimo genocidio (Ansa 15.04.17)

(ANSA) – BEIRUT, 15 APR – RICCARDO CRISTIANO, SIRIA. L’ULTIMO GENOCIDIO (CASTELVECCHI, PP. 192, 17,50 EURO). Se il Novecento in Europa è stato il secolo breve, conclusosi con la caduta del muro di Berlino nell’89, nel Medio Oriente il Novecento sembra proprio il secolo lungo, il secolo dei genocidi. Per questo Riccardo Cristiano, a lungo vaticanista della Rai, presenta nel suo libro “Siria, l’ultimo genocidio” gli eventi siriani come l’ultimo anello di una catena di genocidi cominciati nel 1915 con lo sterminio degli armeni.
Contro tutto questo, afferma Cristiano, si è levata nuovamente profetica la voce di papa Francesco, che con coerenza ha cercato di riaccendere i riflettori sulla tragedia siriana che rischia di avere enormi conseguenze non solo sulla geopolitica ma anche sul dialogo interreligioso. Sono Bergoglio e Bauman le figure che, dall’inizio alla fine del libro, accompagnano il lettore in un’altra visione del mondo e della prospettiva salvifica per il Medio Oriente: la costruzione della cittadinanza. A partire dal genocidio armeno, considerato difensivo: “I funzionari ottomani erano determinati a smascherare qualsiasi quinta colonna (o presunta tale) che vedesse con favore gli obiettivi territoriali degli Alleati”, scrive Cristiano. E nel corso della storia, prosegue l’autore, le quinte colonne sono state viste ovunque. In Siria, le quinte colonne sono state viste annidarsi tra i fratelli musulmani arroccati ad Hama (1982); il regime, minando l’intero centro cittadino, lo fece crollare su un numero imprecisato di sepolti vivi, forse 10 mila, forse 50 mila, forse ancora di più. In Iraq, le quinte colonne sono state viste tra i curdi, sterminati da Saddam Hussein con i gas ad Halabja (1988), durante il conflitto con l’Iran.
Quello in atto in Siria è dunque l’ultimo genocidio difensivo, dei siriani sunniti, da espellere dal loro territorio come “possibili” quinte colonne dell’Arabia Saudita. Aleppo e la Siria sono così il simbolo della bancarotta politica araba, che ha in panarabismo e panislamismo due ideologie fallite che producono solo regimi cleptocrati e totalitari e terrorismi, scrive Cristiano. Tutto questo – secondo l’autore – accade mentre nel mondo occidentale è in atto una profonda e costante negazione di quanto sta accadendo in Medio Oriente. Si è negata dapprima la “rivoluzione siriana” e ora si nega quello che sotto ogni aspetto è il genocidio di un popolo. Un’indifferenza figlia dell’emergenza-terrorismo, dell’ideologia rossobruna, che accomuna nell’antiamericanismo le radicalità di destra e sinistra; della “teologia della geopolitica sovietica”, secondo cui Mosca e i suoi alleati arabi, nasseriani ma soprattutto baathisti, hanno sempre ragione. Si è arrivati così, afferma Cristiano, a non vedere i massacri “genocidiari” di Saddam Hussein e di Hafez al Assad in passato e quelli di Bashar al Assad oggi, dietro i quali si nasconde l’esportazione della rivoluzione iraniana fino alle coste del Mediterraneo, a mezzo della più feroce operazione di pulizia etnica della storia recente. (ANSA).

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Questa è Metsamor la più pericolosa centrale nucleare del mondo (Ilgiornale.it 14.04.17)

Una manciata di minuti a mezzogiorno. Una scossa di 6,9 della scala Richter metteva in ginocchio un piccolo paese di circa 35mila abitanti nell’Armenia del nord. Quel 7 dicembre 1988 a Spitak c’era neve ovunque, quasi ad attutire i rumori della terra che tremava e i dolori della gente. Per i bambini e ragazzi ancora a scuola, quella mattina la campanella non ha più suonato. Sono state contate oltre 25mila vittime.

A settantacinque chilometri dall’epicentro, e neanche trenta dalla capitale Yerevan, c’è Metsamor. Una serie di palazzoni del classico immaginario architettonico sovietico, abitati da poco più di 10mila persone. Una scuola che fa da asilo, elementari e medie, un presidio sanitario, una palestra e una manciata di botteghe dove si può trovare di tutto. Fondata negli anni ’70 per dare alloggio ai lavoratori della omonima centrale nucleare, adesso è un crocevia di esistenze disparate in mezzo a strutture fatiscenti. Militari, disoccupati, rifugiati. Un migliaio gli operai rimasti. Il vecchio Sporting Complex, la Casa della Cultura e il lago artificiale sono ormai fantasmi. Ovunque mura crepate dalle scosse telluriche.

A meno di venti chilometri il confine turco e poco più in là il Monte Ararat, tanto sacro alla cultura armena. Secondo la Bibbia, sulla sua vetta arrivò Noè sopravvivendo al Diluvio Universale. Per la cristiana Armenia, una grande sofferenza poterlo vedere e non toccare. I rapporti tra i due paesi continuano a rimanere freddi e i confini chiusi. Il mancato riconoscimento del Genocidio del 1915 da parte del Paese musulmano risulta uno dei nodi fondamentali ancora da sciogliere.

Appena fuori Metsamor iniziano campi sterminati che arrivano fino alla zona invalicabile attorno alla centrale. Durante l’estate le quattro torri di raffreddamento si stagliano nette all’orizzonte. Sorvegliano dall’alto, ben visibili, ogni quotidianità. Inverni rigidi e temperature raramente oltre i -10° li nascondono in una coltre bianca di ghiaccio e nebbia. Nel 1989 il governo sovietico decise di chiuderla allertato dal terremoto dell’anno precedente. Col crollo dell’Urss e l’urgente fabbisogno energetico, il governo armeno fu spinto nel 1995 alla sua riapertura.

La centrale di Metsamor è l’unica funzionante fuori dalla Russia che continua a montare due vecchi reattori di progettazione sovietica ormai obsoleti, VVER440, di cui soltanto uno ancora attivo. È croce e delizia per i pochi armeni davvero interessati alla sua presenza sul territorio. Oppositori e sostenitori spesso mossi non da vere personali riflessioni, ma da interessi economico-politici. Chi vi scorge motivo di orgoglio nazionale e modernità, chi la ritiene una spada di Damocle sulla testa degli abitanti di questa fetta di Caucaso. Ricerche realizzate da Turchia e Azerbaijan, nemici giurati, sono per la sua immediata chiusura; quelle della stessa Armenia e Russia inevitabilmente favorevoli.

«La centrale è molto importante perché produce circa il 30-35% del fabbisogno dell’intera Armenia, però dal punto di vista della salute degli abitanti è estremamente pericolosa», esordisce così Hakob Sanasaryan, capo del partito dei Verdi armeno, da una stanza del Ministero per la Protezione della Natura, in pieno centro a Yerevan. Siede a una scrivania, in un ambiente scarno ed essenziale. Risponde a fatica alle domande. I vecchi stereotipi da regime sovietico fatti di controlli e diffidenze continuano a essere forti. Però va avanti: «La questione della sicurezza è stata discussa molto sia ai tempi dell’Urss che successivamente. La zona dove è stata costruita la centrale è sismica e quindi pericolosa. Anche spendendo tutti i soldi possibili la sicurezza non si può mai garantire».

Di parere diametralmente opposto è ovviamente Movses Vardanyan, direttore della centrale. Il suo ufficio si trova all’interno della stessa. La stanza è molto grande, così come le due finestre. Una scrivania e un tavolo da dieci posti. Pareti bianche e disadorne. Le fotografie sono proibite per motivi di sicurezza. È cordiale e sorridente. Sembra ben istruito su cosa dire. «La centrale è molto sicura. Dopo il terremoto ha avuto una serie di rinforzi strutturali. Attualmente è in funzione soltanto l’Unità 2. Vi lavorano comunque 1.700 dipendenti, di cui almeno 900 vivono a Metsamor». E con una punta di orgoglio, prima smentisce la vox populi per cui erano presenti importanti coinvolgimenti russi nella gestione della centrale, poi conferma il suo mantenimento fino al 2026.

«Secondo una decisione del governo armeno, nel 2018 inizieranno la costruzione di una seconda centrale nucleare che finirà nel 2026, chiudendo così la prima. Pur avendo terminato il suo utilizzo consentito nel 2016, continueranno a usarla finché non avranno costruito la nuova», aveva spiegato Sanasaryan qualche giorno prima. «Anche l’Unione Europea preme da diversi anni per una sua chiusura. Secondo me è inammissibile costruire una seconda centrale nella medesima zona altamente sismica. Gli stessi soldi che servono per realizzare una nuova servono anche per smantellare la vecchia sia in termini di messa in sicurezza sia di gestione delle scorie. Per il popolo armeno, questo è un altro aspetto, oltre quello della salute. Infatti questa mossa andrebbe a incidere ancora di più sulle tasse della gente».

Benik aspettava invece affacciato alla finestra dell’ultimo piano dell’anonimo palazzo sovietico dove vive. Uno scricciolo d’uomo che arriverà sì e no a un metro e sessantacinque. Capelli bianchi e sigaretta in bocca. Rughe come quelle del soffitto del salotto. Occhietti ancora vispi su un viso da ottantenne. Ha 68 anni e nel gennaio 2017 è andato in pensione. Ha lavorato per più di vent’anni nella centrale. Per lui era un lavoro come un altro. Non ha mai avuto paura, e ne era contento. «In effetti gli stipendi medi percepiti dagli operai sono sui 700 dollari, nettamente superiori alla media del Paese» spiega. «Con la fortissima disoccupazione presente, la possibilità di un lavoro del genere significa sopravvivenza per te e la tua famiglia. Poco importa la sua pericolosità, reale o presunta.

A un paio di chilometri da casa di Benik vive la signora Anahit con le sue due figlie, Sima e Haykuhi. Moglie di un militare di stanza nella zona, non ha mai scelto di vivere nella Valle dell’Ararat. «Non abbiamo paura della centrale», racconta. «Ma si sente che è molto radioattiva. Spesso abbiamo mal di testa perché l’aria è diversa».

«Quando è caldo, il fumo è pesante e fastidioso. Ma l’inverno tutto sembra normale», aggiunge Ruzan, contadina di 51 anni. «Da più di trent’anni abito qua assieme a mio marito. Il governo non ha dato agevolazioni e non fa niente per aiutare la gente che vive attorno alla centrale. Noi produciamo vodka dalla nostra uva, e la terra è il nostro unico sostentamento. I campi vicino alla centrale non hanno l’irrigazione e non arriva l’acqua. È davvero dura non far seccare il raccolto».

È quasi l’ora di pranzo e Arshak chiacchiera tranquillamente con suo figlio Zhora davanti all’entrata della serra. Ha 60 anni ed è un ricco proprietario terriero. Possiede vivai dotati di acqua e può coltivare anche durante le gelate invernali. Racconta con soddisfazione dei suoi broccoli e dei rifornimenti che riesce a fare ai più grandi supermercati di Yerevan.

La maggior parte della popolazione armena vive di coltivazioni e allevamento. Ma come ricorda Sanasaryan: «Non ci sono studi e dati sulle condizioni di aria, acque e terra in quella zona. Con l’Urss era tutto monitorato, sia all’interno della centrale sia nelle zone circostanti. Adesso controllano soltanto dentro. Quindi non ci sono informazioni. Però si può dire con sicurezza che nel raggio di un chilometro di una qualsiasi centrale nucleare funzionante siano presenti gas inerti che producono cambiamenti a livello molecolare sia nel mondo vegetale che umano».

In l’Armenia è notte fonda, così scura come le strade della sua Metsamor quando allo scoccare della mezzanotte spengono i lampioni per risparmiare elettricità.

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Matteo Orfini rassicura gli armeni, nessuno ci dovrà più chiamare Giovani Turchi (IlMessaggero.it 12.04.17)

Roma – Matteo Orfini raccoglie l’appello della Comunità Armena in Italia e prende definitivamente le distanze da tutti coloro che continuano a chiamare «Giovani Turchi» la sua area politica di riferimento dentro al Pd. «Il nome vero di quell’area politica, peraltro ormai sciolta, era infatti Rifare l’Italia». Orfini è rammaricato: «Desidero esprimere tutto il dispiacere mio e dei miei colleghi per il fatto che, nonostante la nostra disapprovazione più volte manifestata, privatamente e pubblicamente, la stampa ci abbia voluto attribuire l’appellativo Giovani Turchi, una definizione che non ci appartiene».

Alcune settimane fa gli armeni italiani hanno invitato Orfini a prendere posizione, spiegandogli che continuare a leggere l’appellativo «Giovani Turchi» riferito alla sua area politica senza che fossero fatte rettifiche costituiva una offesa alla memoria delle vittime del genocidio armeno, costato la vita a un milione e mezzo di persone, e pianificato nel 1915 proprio da coloro che facevano parte dei Giovani Turchi. Orfini in una lettera inviata ai vertici della Comunità spiega di essere consapevole del «dolore che il richiamo ai Giovani Turchi suscita in voi, tanto da avere io stesso firmato con altri la proposta di legge per l’istituzione della Giornata in ricordo del genocidio del popolo armeno, presentata in Parlamento il 20 febbraio 2014. Ribadisco l’amicizia mia e del nostro partito nei confronti del popolo armeno».

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Ambasciatore turco: «stop mozione su genocidio armeni» (Vvox.it 12.04.17)

La mozione di condanna del genocidio armeno del 1915 proposta dalle opposizioni in consiglio comunale a Camponogara (Venezia), suscita le ire dell’ambasciatore turco in Italia che ha chiesto di bloccarla. «Le illazioni degli armeni riguardanti gli eventi accaduti nel 1915 – sbotta Murat Esenli (a sinistra in foto) in un articolo di Alessandro Abbadir su La Nuova Venezia a pagina 29 – non si basano su una sentenza di tribunali internazionali o su prove storiche, bensì rappresentano esclusivamente un’interpretazione soggettiva che essi tentano di presentare all’opinione pubblica dei paesi terzi o dei loro parlamenti come se fosse l’unica assoluta realtà. Un reato del genere può essere determinato solo da un Tribunale internazionale competente. In merito agli eventi del 1915 non esiste un consenso legale o storico che li definisca come genocidio».

«La Turchia si aspetta dai rappresentanti del popolo italiano il rispetto delle varie opinioni, anziché l’accettazione delle affermazioni armene basate su informazioni distorte, e l’astensione dal prendere parte a iniziative unilaterali», si legge nellalettera inviata dall’ambasciatore turco al sindaco Giampietro Menin (Pd) che per tutta risposta ha fermato la votazione in consiglio e invocato l’istituzione di una commissione di esperti per«approfondire». Una mossa duramente criticata dalle opposizioni che parlano di resa al diktat dello «stato semi dittatoriale guidato da Erdogan» e invitano a non piegarsi alla «prepotenza» del leader turco. Il genocidio degli armeni è riconosciuto in 29 paesi in tutto il mondo compresa l’Italia e il Vaticano.

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Genocidio armeno, la Turchia contro la mozione del Pirellone (Milano.corriere.it 11.04.17)

La Turchia contro la Lombardia, l’ambasciatore di Erdogan contro il Consiglio regionale del Pirellone. Tutta colpa di una mozione approvata due anni fa e del giudizio storico espresso sul massacro degli armeni del 1915. La lettera firmata il 20 marzo da Murat Salim Esenli è arrivata all’attenzione dell’ufficio di presidenza del Pirellone solo lunedì: la Turchia contesta il contenuto del testo con la quale il parlamentino lombardo condannava, a larghissima maggioranza, il «genocidio» degli armeni durante la Grande Guerra.

I toni dell’ambasciatore turco sono perentori: «Spero che la vostra risoluzione, contenendo molti errori storici e giuridici, possa essere revocata, essendo questo tipo di risoluzioni molto importanti dal punto di vista giuridico. In tal modo la vostra Regione eviterà un serio errore storico e giuridico e contribuirà all’amicizia Turchia-Italia come da essa ci si aspetta». Non si è trattato di genocidio, scrive in sostanza il diplomatico. Nella lettera spedita in via Fabio Filzi si fa riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui «gli eventi del 1915 non possono essere considerati uguali all’Olocausto». Conclusione accorata: «La Turchia si aspetta dai rappresentanti del popolo italiano, che considera amico, il rispetto delle varie opinioni anziché l’accettazione di affermazioni armene basata su informazioni distorte e l’astensione dal prendere parte a iniziative unilaterali».

La lettera turca mette però per una volta tutti d’accordo, destra, sinistra, grillini: ieri il presidente Raffaele Cattaneo (Lombardia popolare) ha ricevuto mandato unanime per rispondere in maniera netta alla «sollecitazione» dell’ambasciata: la mozione è un atto democratico e come tale non passibile di censure. «Una richiesta semplicemente irricevibile, la terza assemblea legislativa italiana non può farsi dettare l’agenda da uno Stato estero», sintetizza per tutti il Cinque Stelle Eugenio Casalino.

Ma cosa diceva di così compromettente il documento votato due anni fa dai consiglieri lombardi? La mozione proposta allora da Stefano Bruno Galli (Lista Maroni) sottolineava le responsabilità del governo turco che «non riconosce, nelle motivazioni e nelle dimensioni messe a fuoco dagli storici, il genocidio degli armeni e punisce con l’arresto e la reclusione sino a tre anni chi pubblicamente ne fa menzione» e insieme invitava la giunta a «promuovere iniziative pubbliche volte alla commemorazione di quella pagina di storia allo scopo di promuovere la cultura della democrazia, della pace e dell’autodeterminazione dei popoli».

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Turchia, chiesto l’ergastolo per 30 giornalisti e dipendenti del giornale Zaman (La Repubblica.it 11.04.17)

A pochi giorni dal referendum che dovrà approvare la riforma presidenziale voluta da Erdogan, il procuratore capo di Istanbul ha chiesto la condanna all’ergastolo per 30 tra giornalisti ed ex dipendenti del gruppo media Zaman, accusati di “partecipazione in organizzazione terroristica”. Il gruppo editoriale Zaman pubblicava il principale quotidiano di opposizione del paese quando, a marzo dell’anno scorso, fu prima commissariato dopo un blitz della polizia nella redazione, poi stravolto nella linea editoriale e infine chiuso d’imperio. Facendo parte delle imprese di proprietà di Fetullah Gulen, imam miliardario autoesiliatosi negli Usa dopo la rottura dei rapporti con Erdogan, il giornale – 650 mila lettori quotidiani – era stato accusato di partecipare attivamente al complotto contro le istituzioni di cui Gulen era ritenuto il capo supremo.

L’accusa per i 30 giornalisti e dipendenti, per cui è stata chiesta una pena aggiuntiva di 15 anni, riguarda ora una presunta “partecipazione in organizzazione terroristica”. Secondo il pubblico ministero, il gruppo Zaman avrebbe “usato il giornalismo come un’arma eccedendo i limiti di libertà di espressione e di stampa” al fine di “manipolare la società”, usando termini mirati a “minare la pace sociale e giustificare un golpe”. Tutti comportamenti messi in atto, secondo l’accusa, ben prima del fallito golpe di luglio che ha poi scatenato una repressione generalizzata in tutti i gangli dello stato e della società. Il 27 luglio, dodici giorni dopo il tentato colpo di stato, il governo dispose la chiusura di 45 giornali e 16 canali televisivi di news, tutti con l’accusa generica di complottare contro lo stato. A oggi, secondo gli osservatori internazionali, i media chiusi sono stati 158, mentre circa 150 giornalisti sono tuttora detenuti e sotto processo.

La situazione della libertà di stampa, con la libertà di accesso ai seggi in alcune zone del paese, è il fattore che preoccupa di più la comunità internazionale in vista del voto di domenica prossima sul referendum. Tana de Zulueta, che guida la missione internazionale di osservatori elettorali dell’Osce/Odihr, con membri di venti paesi, ha detto oggi che di fatto non esiste par condicio e che i sostenitori del no alla riforma hanno enormi difficoltà a far sentire le proprie ragioni: “Abbiamo avviato un monitoraggio su 5 tv e 3 giornali nazionali – dice De Zulueta – . Possiamo già constatare che ci troviamo a osservare una situazione in cui i media di simpatia governativa sono preponderanti. Inoltre, con un decreto dello stato d’emergenza la commissione elettorale centrale è stata spogliata del suo potere di comminare sanzioni in caso di violazioni dell’equilibrio nei messaggi elettorali”.

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“La voce delle pietre urlanti”, a Torino si parla di Armenia tra vecchi e nuovi genocidi (Torinooggi.it 10.04.17)

In programma un convegno e uno spettacolo teatrale voluti dal consiglio regionale del Piemonte

Un doppio appuntamento per fare memoria e non dimenticare. In occasione del 102° anniversario del genocidio armeno – iniziato il 25 aprile 1915 – il Comitato regionale per i Diritti umani, presieduto dal presidente del Consiglio regionale Mauro Laus, in collaborazione con Associazione solidale (Asso), propone giovedì 20 aprile il convegno e lo spettacolo teatrale “La voce delle pietre urlanti”.

“Un titolo – spiega il presidente Laus – ispirato alla definizione dell’Armenia coniata dal poeta simbolista russo Osip Mandel’štam per rendere l’idea del destino di un popolo pesantemente segnato dal dolore, dalla separazione e dalla negazione. Una definizione ancora oggi tremendamente attuale se si considera che quegli stessi orrori e quelle stesse ‘marce della morte’ continuano a ripetersi, un secolo dopo, nel deserto siriano”.

Alle 10.30 la Sala Viglione di Palazzo Lascaris, sede dell’Assemblea legislativa piemontese, ospita un convegno cui intervengono, con il presidente e il vicepresidente del Comitato Laus e Giampiero Leo e la presidente di Associazione solidale Silvana Zocchi, i giornalisti del quotidiano Avvenire Nello Scavo e del Tg Rai Piemonte Matteo Spicuglia.

Alle 17 al Teatro Vittoria di via Gramsci 4 viene proiettato il documentario “Le pietre sacre d’Armenia” di Paolo Chiodarelli e messo in scena lo spettacolo realizzato da Progetto Nor Arax, laboratorio artistico permanente sulla cultura armena con testi tratti da opere di Ryszard Kapuśhiński, Daniel Varujan, Elise Ciarenz, Osip Mandel’štam e Zahrat e musiche di padre Komitas, Georges Gurdjieff e Aram Kačaturjan

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