Novità in Libreria: “Armenia Oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente” di Simone Zoppellaro

Armenia Oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente” di Simone Zoppellaro  (Guerini e Associati, 2016).”

Come si giunge a raccontare una “Nazione vivente”, (il riferimento è a una poesia di Pasolini), i suoi drammi, le sue sfide?

Simone Zoppellaro, corrispondente dal Medio Oriente per Osservatorio Balcani e Caucaso, lo fa percorrendo le strade della piccola Armenia indipendente, mescolandosi alla gente, vivendo la loro quotidianità nella condivisione del cibo, della preghiera, delle Memorie; innanzitutto la memoria del genocidio, parte integrante dell’identità armena “custodita con amore e insieme dolorosa”, non relegata a un lontano passato, ma mescolata ai drammi del presente.

L’autore ci racconta chi sono gli armeni oggi, una realtà vissuta con intelligenza conoscitiva e competenza ma soprattutto con una intensa partecipazione emotiva. Questo tratto particolare della sua narrazione ci restituisce un mondo armeno vivo, mobile, composito e ci aiuta a immergerci in esso, a farlo nostro, a dialogare con questa realtà.

Antonia Arslan, nella prefazione a questo importante contributo di Zoppellaro – che va ad arricchire la collana dell’editore Guerini Frammenti di un discorso Mediorientale – parla di una “affettuosa dolcezza” che segna il modo di raccontare dell’autore; forse “quell’inquietudine d’amore” che gli ha consentito di giungere al cuore della gente e di una terra che è ponte, non certo baluardo, tra Occidente e Oriente, una terra che sentiamo vicina non solo perché è stata la prima nazione a convertirsi al cristianesimo, ma anche per i contatti e gli scambi con l’Europa e il resto del mondo, mai venuti meno nei secoli, al di là e oltre il dramma diasporico degli esuli.

È partito dall’Iran il viaggio dell’autore, dalle comunità armene grandi e piccole che hanno contribuito ad arricchire il paese con il loro lavoro e la loro cultura; ha toccatoaltre regioni del Caucaso, la Turchia, il Libano, la Siria per poi approdare a Yerevan la capitale dell’Armenia prima persiana, poi zarista, sovietica e infine indipendente dal 1991.

È il 2015, l’anno del centesimo anniversario del genocidio, la data simbolo che tieneinsieme le fila del racconto. Intensità delle celebrazioni di un anniversario atteso e temuto per il peso insopportabile del negazionismo del governo turco, reso tuttavia più lieve dal riconoscimento forte e deciso di papa Francesco che fa cadere tanti muri dì silenzio. Un’esperienza fortemente empatica porta l’autore a mettere a nudo le molte contraddizioni di una terra che aspira a uscire dall’ isolamento subìto e non voluto e a restituirci il sentire di un popolo capace, anche se impegnato ancora una volta a lottare per la propria sopravvivenza, di vivere un legame profondo con le proprie radici e insieme di guardare al futuro.

Le cerimonie ufficiali, la grande trepidazione per i capi di Stato attesi al Memoriale del genocidio, la Fortezza delle rondini che guarda all’Ararat perduto, ma soprattutto l’interminabile corteo di un popolo che depone i fiori fino a notte intorno alla fiamma perenne, è stato il messaggio più eloquente: il popolo armeno esiste ancora, i sopravvissuti hanno fatto rinascere la nazione, le profezie dei carnefici sono state smentite.

La celebre rock band dei System Of A Down, composta interamente da armeni, ha lanciato nella grande piazza della Libertà di Yerevan, il suo “urlo contro il genocidio”, ma il “culmine emotivo”, racconta Zoppellaro, è stato raggiunto quando la voce forte e chiara di Sergej Tankian, il vocalist più impegnato nella battaglia per rompere il silenzio che avvolge il milione e mezzo di vittime, ma anche il più aperto al dialogo e alla riconciliazione, è risuonatacome grande messaggio di speranza. Ha raccontato un atto di “bene” dentro la catena del male estremo: la nonna salvata da un turco che non ha voluto stare dalla parte dei carnefici; di questo atto Ankara dovrebbe essere orgogliosa.

Zoppellaro racconta anche l’esperienza del movimento Electric Yerevan, una protesta giovanile per l’aumento del costo dell’energia elettrica che ha scosso l’Armenia nell’estate del 1915, repressa pesantemente dalla polizia. Scarsi i risultati, ma sicuramente un segnale che secondo l’autore ha posto fine alla “lunga stagione di apatia e di silenzio”, eredità della cultura sovietica. “Una speranza per il futuro” – conclude Zoppellaro – “per un domani finalmente all’altezza di una nazione povera ma colta, stanca ma invincibile”.

Ci sarà la stessa energia per sostenere la crisi del Nagorno Karabakh, guerra strisciante che dura da vent’anni e che vede oggi una pericolosissima escalation di violenza? Una tregua fragilissima che non regge di fronte alla corsa agli armamenti del presidente Aliyev, deciso a riappropriarsi di un territorio “occupato”. Pagine toccanti quelle di Zoppellaro che si è unito alle giovani reclute del fronte, figli delle classi più povere. Ha colto gli aspetti più drammatici della loro realtà, in un “paese che non c’è”, dove purtroppo il seme dell’odio torna a crescere con una rapidità inimmaginabile. Uno dei tanti drammi e delle sfide dell’Armenia di oggi, ai quali si aggiunge la presenza di circa 20.000 profughi siriani e migliaia di yazidi, accolti e aiutati dal governo armeno sia pure tra mille difficoltà.

Povertà, disoccupazione, corruzione, disagio sociale, classe media in totale declino, guerra, recrudescenza dei nazionalismi ai quali i piccoli paesi accerchiati sembrano più esposti. E tuttavia in questo quadro tragico e disperante, Simone Zoppellaro crede ancora nella realtà di una “nazione vivente”, che non subirà il “genocidio culturale” evocato nei versi di Pasolini. L’identità armena è un’identità forte, che ha resistito nei secoli per la fede, la cultura, la capacità di lavoro, l’impegno educativo, il valore dato alla famiglia e alle tradizioni. La speranza, che coincide con l’obiettivo che l’autore si è posto, è di confrontarsi con la realtà presente, la cui salvezza dipende dalla capacità di promuovere e vivere una cultura della convivenza, unico antidoto al risorgere della “barbarie etnocentrica”. La memoria, anche quella tragica di un genocidio negato, non può che essere, ribadisce l’autore, una “opzione aperta”, che riguarda non solo gli armeni, ma tutte le minoranze in Medio Oriente e in altre parti del mondo.

“Se la memoria non si pone come pietra di paragone del nostro presente, il ricordo diviene allora un peso inutile da cui le generazioni future tenteranno presto di liberarsi, o abbiamo già cominciato noi tutti?”, si chiede l’autore nella conclusione, pur mantenendo salda la sua fiducia nel popolo armeno:

“La cultura di quei luoghi è ancora fatta d’aria, di pietre e tempo…La fede, gli ideali e i sogni di queste persone non hanno ancora interrotto quel legame eterno con le loro radici, che sono dure come pietre”.

Anna Maria Samuelli

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Armenia, le ragioni dietro l’escalation di violenza (Lettera43 31.07.16)

In Armenia si torna a sparare. Non nelle zone contese del Nagorno-Karabakh, ma a Yeravan, la capitale.
Il governo armeno per il momento è stabile, ma la protesta si sta allargando.
Scontri con le forze dell’ordine, arresti e barricate si sono succedute in questi giorni, anche se per ora solo in scala ancora ridotta.
Ma le radici dell’insoddisfazione sono profonde nel Paese.
DERIVA AUTORITARIA. «Il potere del presidente Serzh Sargsyan e del partito repubblicano che lui rappresenta, secondo molti armeni, avrebbe intrapreso una deriva autoritaria», spiega a Lettera43.it Simone Zoppellaro, autore di Armenia Oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente (Guerini e Associati, 2016).
Ciononostante, precisa, «almeno per gli standard della regione l’Armenia resta un Paese relativamente libero. Pesano la corruzione, la povertà diffusa e le disuguaglianze, ma il dato positivo è che la società civile è sempre più attiva e si sta scrollando di dosso pian piano ciò che rimane del torpore sovietico».
INSORTI SUL PIEDE DI GUERRA. I componenti del gruppo armato che il 17 luglio ha assaltato e occupato una caserma della polizia il 27 hanno preso in ostaggio il personale sanitario inviato sul posto per curare i feriti.
Gli insorti chiedevano il rilascio del loro leader, Jirair Sefilyan, e di altri prigionieri.
Inoltre, vogliono le dimissioni del presidente Sargsyan e la formazione di un governo di transizione. «Ma si tratta di un obiettivo non molto realistico», precisa Zoppellaro.
Le autorità armene, continua l’esperto, «esitano a ricorrere alla forza per evitare un bagno di sangue». E questo è un pericolo concreto, perché gli insorti sono ben addestrati e ben armati.

La tensione in Armenia e il braccio di ferro con l’Azerbaigian

Evidenziata nella mappa, la regione del Nagorno-Karabakh.

Evidenziata nella mappa, la regione del Nagorno-Karabakh.

Sefilyan, un armeno-libanese arrestato a fine giugno per possesso e traffico illegale di armi, è un veterano della guerra del Karabakh che successivamente si è dato alla politica.
«Nel Paese», spiega Zoppellaro, «è noto per le sue posizioni ultra-nazionalistiche e per la sua ferma opposizione a ogni compromesso con l’Azerbaigian per quel che riguarda il conflitto del Karabakh».
Il suo seguito politico «non è per nulla numeroso, ma è anche vero che è molto rispettato dalla popolazione, soprattutto perché si è distinto per un ruolo di primo piano nella guerra».
LA CONTESA SUL KARABAKH. Il conflitto del Nagorno-Karabakh nasce negli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica a causa di una questione territoriale.
Il Karabakh, che era parte della Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, era abitato da una larga maggioranza armena.
La fine dell’Urss fu vista da molti armeni come un’occasione di annettere questo territorio alla madre patria.
L’Azerbaigian si oppose, ne nacquero pogrom e massacri da entrambe le parti, la situazione sfuggì di mano e si trasformò in una guerra aperta che durò fino al 1994. Quando si giunse a un cessate il fuoco, a cui non fa però seguito alcun accordo di pace.
NESSUNO HA CERCATO LA PACE. «Una pace che nessuno hai mai cercato, né i Paesi coinvolti né la comunità internazionale», precisa Zoppellaro. «Per oltre vent’anni c’è stata una serie infinita di incontri, dichiarazioni e affermazioni retoriche di una volontà di pace, ma la realtà è molto diversa. I regimi al potere nei due Paesi coinvolti, col tempo, hanno fatto del conflitto un elemento di coesione molto forte nei loro giovani Stati».
Non solo. Secondo l’esperto «si è poi sviluppata tutta un’economia legata a questa guerra, con interessi enormi, anche per l’acquisto delle armi».

Una regione cruciale dal punto di vista energetico

Da un punto di vista geopolitico, «c’è inoltre la volontà delle grandi potenze di tenere sotto scacco una regione cruciale da un punto di vista energetico. E una guerra è un’ottima garanzia che il regime al potere in Azerbaigian, Paese ricco di petrolio e gas, non possa alzare troppo la testa, una specie di tallone di Achille che ne ridimensiona le ambizioni di potenza».
Per questa ragione, «ma anche per un cinismo bieco e ipocrita da parte delle istituzioni europee e degli Stati coinvolti nella “mediazione”, inclusi Russia e Usa, una guerra assurda che potrebbe finire domani si trascina da oltre un quarto di secolo».
30 MILA MORTI DAGLI ANNI 90. Il risultato è che il Karabakh, abitato ormai quasi solo da armeni, si è auto-proclamato Repubblica indipendente, senza però che alcun Stato al mondo lo riconosca.
Per questo resta a livello ufficiale parte dell’Azerbaigian, che lo rivendica come suo. E periodicamente riesplode la violenza.
Come nello scorso aprile, quando in appena quattro giorni di combattimenti sono morte oltre 300 persone. Tra loro molti civili.
«Questa guerra continua dai primi Anni 90», dice Zoppellaro, «ha prodotto 30 mila morti, 1 milione di profughi e sfollati e la distruzione di intere città e villaggi».
Come Aghdam, un tempo abitata dagli azeri e chiamata l’Hiroshima del Caucaso perché completamente rasa al suolo: «Ancora oggi, come se il tempo si fosse fermato a cent’anni fa, abbiamo alle frontiere dell’Europa un paesaggio di trincee dove i giovani di entrambe le parti muoiono ogni mese».
YEREVAN PERDE TERRENO. Negli scontri di aprile, l’Armenia ha perso diversi chilometri lungo la frontiera.
Per giorni, dopo l’ultima escalation, le autorità hanno smentito, ma in seguito è stato lo stesso presidente ad ammetterlo parlando con i giornalisti.
«Di sicuro posso dire, essendoci stato a maggio, che la frontiera a ridosso del villaggio di Talish si è spostata a favore dell’Azerbaigian», spiega Zoppellaro. «Questa e altre perdite hanno di fatto creato un terremoto nei vertici politici armeni. Sono saltate le teste di diversi ufficiali dell’esercito e ci sono stati scambi molto duri di accuse contro il governo».
Negli ultimi giorni, intanto, ci sono stati molti arresti e fermi di polizia a Yerevan e in altre città contro membri dell’opposizione. «Con ogni probabilità», conclude Zoppellaro, «gli ultimi episodi di violenza finiranno per rafforzare ulteriormente il potere del partito di governo e di Sargsyan. Tutto l’opposto di quello che gli insorti vorrebbero».

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Armenia, si arrende gruppo asserragliato in commissariato Erevan (Rassegna del 30 e del 31.07.16)

Armenia: resa commando asserragliato (Ansa 31.07.16)

ANSA) – IEREVAN –  Si sono arresi anche gli ultimi 20 uomini armati del commando asserragliato da due settimane in una centrale di polizia della capitale dell’Armenia, Ierevan, mettendo fine alla crisi. Lo rende noto la polizia armena. La vicenda aveva animato proteste di sostegno al commando, che si sono ripetutamente scontrate con le forse dell’ordine.
Degli iniziali 31 uomini, il commando – che chiedono la liberazione di un leader d’opposizione – ha perso una decina di uomini, fra quelli colpiti dal fuoco della polizia e quelli che si sono arresi spontaneamente. In due settimane due agenti sono rimasti uccisi: uno nel giorno dell’assalto e uno ieri, colpito mentre si trovava in auto a 400 metri di distanza.


Armenia, si arrende gruppo asserragliato in commissariato Erevan (Askanews 31.07.16)

Erevan (Armenia) 31 lug. (askanews) – Il gruppo armato che il 17 luglio scorso si era asserragliato con alcuni ostaggi all’interno di un commissariato di Erevan si è arreso: lo hanno reso noto fonti della sicurezza armena, che ha effettuato venti arresti.

“L’operazione antiterroristica è terminata ed ha costretto i membri del gruppo a deporre le armi e ad arrendersi alle autorità: venti terroristi sono stati arrestati”, si legge in un comunicato della sicurezza armena.

I membri del gruppo erano sostenitori di Jirair Sefilian, importante esponente dell’opposizione arrestato nel giugno scorso dopo un tentativo di occupazione degli edifici governativi e dei centri di telecomunicazione nelle capitale armena.

Nel corso dell’assedio sono stati uccisi due poliziotti; i due ultimi ostaggi ancora in mano ai terroristi – che chiedevano le dimissioni del presidente filorusso Serge Sarkissian – erano stati rilasciati nel corso della notte.


Si sono arresi i ribelli che avevano occupato la stazione di polizia in Armenia (TPI.it 31.07.16)

Armenia, si è concluso senza sangue assedio di Erevan: 20 arresti (Askanews 01.08.16)

 

 

Armenia, si consegnano alla polizia i ribelli di Erevan (Euronews 01.08.16)


Rassegna 30 luglio 2016

Armenia, l’opposizione tenta il colpo gobbo. Situazione in stallo a Yerevan (It.Ibtimes.it 31.07.16)

Poche ore dopo il fallimento del golpe militare in Turchia, mentre Recep Tayyip Erdogan si apprestava a dare il via alla più ampia operazione di pulizia politica interna alle istituzioni turche che la storia della Repubblica ricordi, a Yerevan, capitale dell’Armenia, un gruppo armato faceva irruzione nel quartier generale della Polizia. Era l’alba di domenica 17 luglio 2016.

In quelle ore convulse i giornali italiani si sono affrettati a titolare “tentativo di golpe in Armenia” sulla falsariga di quello turco ma se è vero che i destini di Turchia e Armenia sono storicamente legati ciò non significa necessariamente che quel che accade in Turchia debba accadere anche in Armenia – e viceversa. Immediatamente, proprio in virtù di quanto accadeva nella vicina Turchia, i servizi dell’Armenian National Security si sono affrettati a chiarire che “non si tratta di un colpo di Stato” e che era stata instaurata una negoziazione con il commando armato composto da una ventina di persone facenti capo al gruppo ultranazionalista Sasna Tsrer, che chiedeva l’immediato rilascio di tutti i “prigionieri politici”, le dimissioni del presidente Serzh Sarkisian e sopratutto il rilascio incondizionato del proprio leader, Jirayr Sefilyan, attivista dell’opposizione antigovernativa in arresto da giugno per traffico d’armi.

49 anni nato in Libano, durante la guerra civile libanese a cavallo tra il 1975 e il 1990 Sefilyan prese parte alla difesa di Bourj Hammoud, il quartiere armeno di Beirut, e nel 1990 si unì al movimento nazionalista popolare Karabakh avente l’obiettivo di portare la regione del Nagorno Karabakh, prevalentemente popolata da armeni, dalla giurisdizione azera a quella armena, non chiedendo l’indipendenza né svolgendo propaganda anti-sovietica, almeno all’inizio. L’anno successivo però, nel 1991, sia il Nagorno Karabakh che l’Armenia dichiararono la propria indipendenza e pochi mesi dopo, nel gennaio 1992, scoppiò la guerra del Nagorno Karabakh contro l’Azerbaigian. Durante la guerra è stato comandante di brigata e infine luogotenente dell’esercito della Repubblica di Armenia. Arrestato nel 2006 assieme a uno dei leader di un gruppo di opposizione, secondo molte organizzazioni umanitarie per ragioni puramente politiche ed anche la Corte Europea di Giustizia nel 2012 ha parlato di “insussistenza di prove” all’origine del suo arresto. Fonda un partito di opposizione e nel 2015 viene espulso dal Nagorno Karabakh dalle autorità e durante l’uscita la polizia attaccò la colonna di 30 auto sulla quale viaggiava Sefilyan. Tra il 2015 e il 2016 viene arrestato altre due volte, accusato di attentato alla sicurezza nazionale e cospirazione contro lo stato armeno, che nel frattempo ha concesso lo sfruttamento di alcuni territori all’Azerbaijan: uno schiaffo ai nazionalisti e a quanti hanno combattuto la guerra contro gli azeri.

La negoziazione con gli assalitori del comando della Polizia di Yerevan è ancora in corso e si pensava risolta il 23 luglio, dopo giorni di stallo; nel frattempo però diverse manifestazioni popolari hanno animato Yerevan e le principali città armene, con qualche migliaio di persone che protestavano contro il governo e per tutta risposta sono state arrestate, fermate o ferite dalle forze dell’ordine. Secondo quanto sostiene Richard Giragosian, opinionista di al-Jazeera e direttore del Regional Studies Center armeno, a Gli Occhi Della Guerra l’occupazione del comando di Polizia e la presa di ostaggi da parte del gruppo di oppositori “è un atto di totale disperazione”: gli insorti speravano forse di provocare una reazione a catena di proteste di piazza ma così non è stato, o almeno non nella misura in cui si aspettavano.

Tra il 20 e il 21 luglio la polizia e i servizi di sicurezza armeni hanno arrestato altre decine di persone, che si sommano con gli attivisti ultranazionalisti e i loro leader già in carcere. La crisi degli ostaggi nel comando di Polizia si è risolta con un morto, due feriti e il rilascio di alcuni ostaggi mentre il gruppo di insorti ha chiesto e ottenuto di incontrare i media in una zona neutrale nei pressi della stazione di polizia di Erebuni, periferia sud di Yerevan. L’occupazione dell’edificio è invece continuata ed è tutt’ora in atto.

La repressione delle autorità di Yerevan non si è fermata qui: nella notte tra il 26 e il 27 luglio 30 persone sono state arrestate, accusate di aver partecipato alle manifestazioni di solidarietà al gruppo armato durante la crisi degli ostaggi. Tra di loro c’è anche una donna, la quale si è dichiarata prigioniera politica ed ha annunciato l’inizio immediato di uno sciopero della fame.

Il giorno dopo, 27 luglio, il ministro della salute armeno ha convocato una conferenza stampa dando la notizia di un nuovo sequestro: questa volta si tratta di medici, quattro persone che erano entrate nella struttura per assistere i feriti dell’assalto del 17 luglio, due membri del gruppo armato che si rifiutano di andare in ospedale per paura di venire arrestati. Dopo poche ore un’infermiera è stata liberata e in ostaggio sono rimasti in tre, due medici e un altro infermiere: “Vogliono semplicemente che i medici restino nella struttura” ha spiegato un membro del partito di opposizione ai giornalisti.

Le autorità armene hanno ordinato di deporre le armi, liberare gli ostaggi ed arrendersi ma senza porre un ultimatum. Il clima è molto teso ma difficilmente il gruppo d’opposizione armato riuscirà ad ottenere maggior sostegno popolare di quanto già non ne abbia avuto: la posizione estrema del gruppo infatti non è condivisa dai tantissimi oppositori politici al presidente armeno, meno apatici di un tempo ma su posizioni meno intransigenti. Difficile quindi pensare che lo stallo possa durare ancora molto tempo.

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Nagorno Karabakh: superare il gruppo di Minsk? (Il Caffe Geopolitico 29.07.16)

Il conflitto in Nagorno Karabakh, dopo il riaccendersi delle ostilità militari nello scorso mese di aprile, ha riguadagnato – almeno per il momento – l’attenzione della comunità internazionale

Per evitare che gli scontri degli ultimi mesi deflagrassero in un conflitto vero e proprio, rischiando di destabilizzare l’intera regione, si sono moltiplicati gli sforzi della comunità internazionale per giungere ad un compromesso. Questo dovrebbe consentire in primis di garantire il cessate il fuoco nell’area, e in un secondo tempo l’avvio di negoziazioni strutturate per il raggiungimento di una soluzione definitiva del conflitto.

IL GRUPPO DI MINSK – Il Gruppo di Minsk – composto da Francia, USA, Russia, Italia, Germania, Turchia, Bielorussia, Svezia e Finlandia – è stato creato nel 1994 con l’obiettivo di favorire una soluzione diplomatica al conflitto tra Armenia ed Azerbaijan – che ne sono anche membri. Il Gruppo è guidato da Francia, USA e Russia, che detengono il ruolo di co-presidenti. Dalla sua creazione, se si esclude il mantenimento, più o meno duraturo, del cessate il fuoco nell’area, i risultati ottenuti non sono stati degni di nota. Il conflitto può essere, infatti, considerato congelato, ma gli scontri di aprile hanno riconfermato come tale status possa cambiare rapidamente. Le schermaglie degli scorsi mesi hanno inoltre enfatizzato la necessità di azioni immediate e risolutive per la soluzione di questa disputa decennale, visti i rischi di contagio per l’area circostante che lo scoppiare di un vero e proprio conflitto porterebbe con sé. Armenia ed Azerbaijan possono, infatti, contare su due importanti alleati, rispettivamente Russia e Turchia. Un coinvolgimento maggiore dei due attori che si stanno già confrontando, in maniera più o meno velata, su altri scenari – si

Dopo il raggiungimento di un’intesa sul cessate il fuoco grazie anche all’intervento di Mosca, il Presidente armeno Sargsyan ed il suo omologo azero Aliiyev si sono incontrati, con la mediazione dei ministri degli Esteri dei tre Paesi presidenti del gruppo di Minsk, a Vienna lo scorso 16 maggio e, successivamente, a Mosca lo scorso 20 giugno. Quest’ultimo incontro è stato fortemente voluto dalla Russia, anche allo scopo di rafforzare – o, più propriamente legittimare, – il proprio ruolo di negoziatore nei conflitti internazionali. Il meeting dello scorso giugno si è svolto in forma trilaterale, e gli altri co-presidenti del gruppo di Minsk sono stati informati dei risultati nei giorni successivi. Il ministro degli Esteri francese Ayrault ha evidenziato la volontà di Parigi di ospitare un nuovo incontro tra Armenia ed Azerbaijan, probabilmente nella stessa formula di quello tenuto a Mosca.
L’efficacia del nuovo format per questi incontri deve essere ancora provata, ma si tratta della conferma della necessità di superare il gruppo di Minsk, o perlomeno il suo modus operandi così come l’abbiamo conosciuto finora. Il coinvolgimento diretto di Vladimir Putin nella discussione, unito alla volontà degli altri ministri degli Esteri di porsi come mediatori, può essere visto come il primo passo verso tale direzione. Questo perché i tre co-presidenti del Gruppo sono tre ambasciatori – Igor Popov per la Russia, Pierre Andrieu per la Francia e James Warlick per gli USA – e non i ministri degli Esteri dei Paesi coinvolti, che stanno aumentando la propria assertività negli ultimi mesi.

GLI ESITI DELLA TRATTATIVA POST CESSATE IL FUOCO – Il forte attivismo registrato a seguito degli scontri sia del Gruppo di Minsk in generale, che della Russia in particolare, non sembra essere finora riuscito ad ottenere risultati significativi. Gli incontri ufficiali sopracitati si sono conclusi con dichiarazioni ottimistiche da parte dei membri del Gruppo, compresi i Paesi coinvolti nel conflitto. Tali dichiarazioni di principio non hanno, però, ancora trovato concreta applicazione, se non in minima parte.
Attualmente gli osservatori OSCE attivi nel Nagorno Karabakh sono soltanto sei, un numero irrisorio se rapportato alle dimensioni dell’area interessata dal conflitto. Armenia ad Azerbaijan sembravano, in un primo momento, aver accettato due dei punti principali delle trattative di pace che avrebbero dovuto cambiare tale situazione: l’istituzione di un meccanismo investigativo, una struttura che dovrebbe occuparsi di analizzare quanto accaduto ad aprile e il contestuale aumento degli osservatori attivi nell’area.
Il Presidente Aliiyev ha però immediatamente espresso la propria contrarietà all’istituzione del meccanismo investigativo. Secondo il Presidente azero, fino a quando l’occupazione armena del Nagorno Karabakh non avrà fine non ha senso avviare ulteriori investigazioni, perché tali attività non potrebbero produrre alcun tipo di risultato. Ovviamente il tentativo del Governo azero è quello di evitare che la propria posizione nella trattativa venga ad essere indebolita dal risultato delle indagini del nuovo meccanismo. Per quanto riguarda l’aumento degli osservatori dell’OSCE, l’idea di Aliiyev non si discosta molto da quanto sostenuto per il punto precedente: in linea di massima l’Azerbaijan non sarebbe contrario all’aumento degli osservatori, il problema è, in realtà, l’entità dell’aumento. L’Azerbaijan ha proposto che questo sia molto contenuto, e che gli osservatori passino dagli attuali 6 a circa 12-13 unità. Si tratterebbe, in pratica, di un consenso di facciata, vista l’ampiezza del territorio interessato dalla crisi – a causa della quale un semplice raddoppio degli osservatori non avrebbe nessun effetto sul loro lavoro. Il ruolo degli osservatori non verrebbe rafforzato e resterebbe, come già successo fino ad ora, marginale.
Nonostante le dichiarazioni trionfanti registrate al termine degli incontri ufficiali, siamo quindi ben lontani dall’avvio di un vero e proprio processo di normalizzazione dell’area. Se, infatti, era impossibile pensare di risolvere in poche settimane una disputa che si trascina da decenni, ma i risultati sono stati ben al di sotto delle aspettative. Fermo restando il cessare il fuoco, infatti, nessuno discussione sui punti di una possibile risoluzione del conflitto è stata seriamente avviata.
Si tratta, però, di una situazione che si spera potrebbe cambiare alla luce degli avvenimenti di aprile. Mosca, come già evidenziato in precedenza, vuole giocare un ruolo di primo piano nella vicenda: da un lato per dimostrare la propria capacità di negoziatore, e dall’altro per evidenziare la propria forza nei confronti degli altri attori che, direttamente o indirettamente, stanno muovendosi nell’area. Uno di questi attori è sicuramente la Turchia, che forte delle proprie relazioni con l’Azerbaijan (che negli ultimi anni si sono fortemente rafforzate), può essere considerato il maggior alleato di Baku nella questione Nagorno Karabah. Lo sviluppo delle relazioni tra Mosca ed Ankara assumerà, molto probabilmente, un ruolo fondamentale nel possibile congelamento definitivo del conflitto e/o nell’avvio di un efficace processo di pace. I due Paesi, infatti, dopo aver raggiunto il picco negativo nelle loro relazioni lo scorso anno, sembrano avviarsi verso una normalizzazione dei propri rapporti. In questo caso la questione del Nagorno Karabah potrebbe rappresentare un ulteriore banco di prova in tale percorso. Per Azerbaijan e Armenia diventerebbe, infatti, assai difficile opporsi a un’eventuale soluzione proposta dai loro principali alleati nell’area. A riguardo, non va dimenticato che Ankara aveva già provato, nel 2009, a proporsi come mediatore nel conflitto per il Nagorno Karabakh, ma con scarsi risultati. Non è quindi da escludere la volontà di riproporsi come possibile player nelle future trattative.

QUALI PROSPETTIVE NEL MEDIO PERIODO? – Se la guerriglia di aprile ha avuto il ruolo di riaccendere i riflettori sul conflitto nel Nagorno Karabakh, non è ancora chiaro se questa rinnovata attenzione si trasformerà in assertività da parte dei membri del gruppo di Minsk, oppure se ben presto la crisi sarà posta in secondo piano per dedicarsi alle criticità che stanno interessando altri quadranti geografici, anche con maggiore impatto sia mediatico che geopolitico.

Di sicuro sarà necessario un intervento incisivo da parte dei leader del Gruppo di Minsk e, probabilmente, anche di attori che fino ad oggi non hanno svolto un ruolo attivo nella vicenda pur facendo parte del Gruppo. Quanto avvenuto a Mosca, soprattutto in merito al coinvolgimento diretto di Vladimir Putin nella trattativa, potrebbe servire da spinta per ottenere un maggiore coinvolgimento anche degli altri due Paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk. A riguardo non va, però, dimenticato che l’agenda di Obama, ormai a fine mandato ed alla vigilia di un importante impegno elettorale, potrebbe non contemplare un coinvolgimento diretto in un’ulteriore disputa geopolitica. Anche la Francia sembra al momento essere ripiombata in altre discussioni che spostano in secondo piano la disputa sul Nagorno Karabakh. Non è però da escludere che ulteriori attori si muovano attivamente per la risoluzione del conflitto: l’importanza delle forniture di idrocarburi azeri per l’Europa non va, infatti, sottovalutata. Oltre alla Turchia non è improbabile che anche altri attori europei si facciano parte attiva nella discussione. Questo potrebbe essere per esempio il caso della Germania: il suo intervento, però, non dovrebbe limitarsi alle semplici dichiarazioni fatto dal ministro degli Esteri in visita a Yerevan nelle scorse settimane.

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Iran: gas, esportazione in Armenia verra’ triplicata entro 2019 (Informatore Navale 28.07.16)

Il ministro del petrolio iraniano Bijan Namdar Zanganeh ha dichiarato che la Repubblica Islamica triplichera’ le esportazioni di gas all’Armenia entro il 2019
Teheran, 28 luglio 2016 – Secondo i media iraniani, il ministro lo ha dichiarato oggi in seguito del colloquio a Teheran con il ministro dell’energia armeno Levon Yolyan. Attualmente Teheran fornisce Yerevan di 1 milione di metri cubi di gas al giorno ma tale quota verra’ portata a 3 milioni di metri cubi al giorno secondo gli accordi raggiunti oggi tra i due paesi. La decisione iraniana, spiega l’agenzia IRNA, ha anche un determinato significato politico dato che l’Armenia ha chiesto maggiore gas all’Iran a seguito di problemi sorti nell’importazione di gas naturale dalla Russia. Altro progetto fondamentale discusso da Iran ed Armenia, e’ l’esportazione di gas iraniano in Georgia attraverso l’Armenia. Il ministro del petrolio iraniano Zanganeh ha affermato che cio’ verra’ fatto in maniera sperimentale nei prossimi mesi e che se si trovera’ la formula giusta, cio’ potra’ proseguire. A seguito di recenti scoperte in Iran, la Repubblica Islamica risulta la nazione con maggiori di riserve di gas naturale di tutto il globo. Attualmente l’Iran esporta gas in Turchia attraverso un imponente gasdotto e sta ultimando la costruzione di un altro dotto per l’esportazione del gas in Pakistan.

Regione, si parla di Turchia tra il genocidio armeno del 1915, il golpe turco e le successive repressioni (Il Nuovo Giornale di Modena 28.07.16)

La storia passata e presente della Turchia al centro del dibattito nell’Assemblea della Regione Emilia Romagna. Sono state infatti approvate a maggioranza una risoluzione Pd-Sel-AltraER, primo firmatario Piergiovanni Alleva (AltraER), per impegnare la Giunta a sostenere progetti di approfondimento storico e di divulgazione del genocidio del popolo armeno, e una seconda risoluzione Pd-Sel, prima firmataria Lia Montalti (Pd), per condannare il tentato golpe in Turchia e la successiva repressione da parte del governo.

Piergiovanni Alleva (AltraER) ha citato Papa Francesco quando ha paragonato il genocidio degli armeni a degli ebrei. Occorre, ha evidenziato, “ci sia un riconoscimento come avvenuto in Germania con il genocidio degli ebrei, non dimentichiamo che lo stesso Hitler vide nella strage degli armeni una sorta di prova generale dell’abominio cui diede avvio”. Parlare del genocidio armeno in Turchia, ha aggiunto, “è ancora un reato, molti intellettuali sono fuggiti all’estero”. Dobbiamo contrastare, ha concluso, “la tesi negazionista e riconoscere quanto accaduto”.

Lia Montalti (Pd) ha ricordato che “le misure messe in atto dal governo turco hanno portato, ad oggi, ad almeno 10.000 arresti, di cui molti giornalisti, 11 mila cancellazioni dei passaporti e sospensioni in massa di dipendenti pubblici, insegnanti e magistrati”. Con questo atto, ha evidenziato, “vogliamo condannare il tentato golpe, azione volta a sovvertire governi democraticamente eletti, e disapprovare quanto sta accadendo ora in Turchia, sollecitando le istituzioni italiane ed europee a esprimersi contro la sospensione dello stato di diritto”.

È stata invece respinta una risoluzione della Lega nord, nell’atto si proponeva di vincolare l’ingresso della Turchia all’Ue al riconoscimento, della stessa, del genocidio armeno.

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TURCHIA: Ibrahim Pașa, il principe curdo che proteggeva i cristiani (East Journal 28.07.16)

In questo periodo la violenza per motivi etnici e religiosi ci viene costantemente somministrata dai media attraverso immagini, parole e suoni. Un esempio sono senza dubbio le violenze di massa portate avanti dallo Stato Islamico in Medio Oriente verso popolazioni cristiane e musulmane distruggendo anche importanti beni culturali d’inestimabile valore. Tuttavia, chissà se in questo momento tra le schiere del terribile Stato Islamico vi è un soldato, un ufficiale o un capo tribù come Ibrahim Pașa, che pur facendo parte volontariamente o forzatamente di questo sistema di violenza, abbia deciso di aiutare in qualche modo clandestinamente o alla luce del sole i perseguitati.

Nella storia dell’umanità vi sono stati personaggi che si sono distinti, nonostante la natura e il ruolo ricoperto, per azioni che potremmo considerare da “uomini giusti”. In quasi tutti i genocidi e massacri, partendo dal genocidio degli Armeni, passando per la Shoah fino ad arrivare al genocidio del Ruanda, vi sono stati uomini e donne che nonostante le condizioni in cui si trovavano e le facili opportunità di ricchezza e gloria ebbero la volontà di comportarsi diversamente dalla maggioranza mettendo in salvo delle vite.

Un “giusto” prima del genocidio

All’interno dell’intricata e vasta “questione armena”, i principali “giusti” sono stati individuati e valorizzati principalmente per il genocidio del 1915. Tuttavia, vi furono dei musulmani che aiutarono gli Armeni anche prima del 1915. Ad esempio, durante le violenze di massa del 1894-1897 accadute sotto il regno del sultano Abdülhamid II, come ben appurato dalla gran parte degli storici, vi furono casi di questo genere.

Grazie ai documenti diplomatici e religiosi europei dell’epoca è stato possibile venire a conoscenza dell’esistenza di un possibile “giusto” nel vilâyet di Diyarbakir. Il personaggio in questione era un capo tribù curdo chiamato Ibrahim Paşa che si distinse positivamente nella protezione degli Armeni e di altre popolazioni cristiane della provincia mentre imperversavano le suddette violenze di massa in tutta l’Anatolia orientale. Ma chi era Ibrahim Paşa nello specifico? In che modo e per quale motivo protesse i cristiani della sua provincia?

Il principe di Viranşehir

Andiamo per ordine. Ibrahim Paşa era un importante e potente capo curdo della tribù dei Milli e della confederazione tribale Milan della provincia di Diyarbakir. Fedele e devoto comandante della cavalleria Hamidiye, sul finire del XIX secolo era una figura locale di un certo livello con un quartier generale localizzato nella cittadina di Viranşehir a metà strada tra Mardin e Şanlıurfa. Ibrahim Pașa era un personaggio locale particolare, infatti, oltre a contendersi il territorio con le altre tribù curde e arabe concorrenti della zona era un abile diplomatico e aveva ottimi rapporti con i diplomatici e missionari europei residenti nel vilâyet di Diyarbakir nel XIX secolo.

A differenza degli altri comandanti Hamidiye che in altre province come Van, Bitlis, Erzeroum si distinsero negativamente per i drammatici casi di violenze di massa sugli Armeni, Ibrahim Paşa dalla sua ascesa 1890 al sua caduta nel 1909, fece in modo che nei territori controllati dalla sua tribù i cristiani ricevessero protezione e accoglienza. Durante le violenze di massa che colpirono il vilayet di Diyarbakir tra il 1895 e il 1897, Ibrahim Pașa diede riparo e sostegno agli armeni in fuga dai villaggi e dalle città ove imperversavano le violenze. La stessa città di Viranşehir e il suo territorio circostante divennero noti per le centinaia di famiglie armene (circa 500) che vi si stabilirono migliorando l’economia generale dell’area.

Amici e nemici

Ibrahim Paşa oltre ai nemici provenienti dalle tribù concorrenti era anche osteggiato dal notabilato curdo e turco di Diyarbakir che lo riteneva un personaggio scomodo per i loro interessi economici e politici nella provincia. Antipatia che di certo era anche dovuta all’attitudine del capo curdo di proteggere i cristiani della provincia. Amico del vice console francese Gustave Meyrier e del frate cappuccino Giambattista da Castrogiovanni, Ibrahim Pașa ebbe più volte occasione di ospitarli nella sua tenda persona e consumare dei pasti nelle residenze di quest’ultimi a Diyarbakir.

Il missionario nei suoi scritti descriveva Ibrahim Pașa come un leader molto abile nel gestire i rapporti tra il centro e la periferia, ma anche un ottimo stratega sul campo di battaglia. Doti queste che gli permisero di avere il controllo nel vilâyet di Diyarbakir della gran parte dei reggimenti Hamidiye e un’importante autonomia politica ed economica nei territori sotto la sua sfera d’influenza. Probabilmente, proprio grazie alla sua presenza che gli Hamidiye nella provincia di Diyarbakir non si scagliarono contro gli armeni nel 1895. Anzi, vi furono casi, ad esempio nel distretto di Mardin dove quest’ultimi impedirono ad altre tribù di perpetuare violenze sui cristiani.

Il potere di Ibrahim Paşa si esaurì nel 1909 con la caduta del sultano Abülhamid II, che lo considerava come un “figlio”, e con l’avvento dei Giovani Turchi. Questo leader curdo, la cui vita è ben descritta nell’opera della storica Janet Klein “The Margins of Empire”, rappresenta certamente una figura particolare e ricca di contraddizioni. Ancora oggi, nonostante il materiale d’archivio e gli studi fatti su questo mondo tribale curdo ottomano del XIX secolo, non è dato sapere quali fossero le motivazioni che stavano alla base della protezione in favore dei cristiani di Diyarbakir. Ci piace pensare che, nonostante la ferocia con cui era solito abbattere i suoi rivali, Ibrahim Paşa avesse anche esso qualcosa di quei tanti “giusti” esistiti nella storia per rendere meno bui alcuni dei momenti più oscuri della nostra umanità.

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Armenia, commando prende in ostaggio quattro sanitari (TGCOM24 27.07.16)

I membri del gruppo armato che il 17 luglio ha assaltato e occupato una caserma di polizia a Ierevan, in Armenia, hanno preso in ostaggio i sanitari mandati su loro stessa richiesta per curare i feriti. Si tratta di due medici e due infermieri. Nella notte c’è stata una sparatoria tra i poliziotti e il gruppo armato in cui sono rimaste ferite tre persone: un agente e due membri del commando.


Armenia, gruppo armato sequestra medici e infermieri l’Unione Sarda 27.07.16


Armenia, commando opposizione prende in ostaggio 4 medici (Askanews.it 27.07.16)

Erevan (Armenia), 27 lug. (askanews) – In Armenia quattro medici e infermieri sono stati sequestrati da un gruppo armato che occupa da più di una settimana una stazione di polizia nel Sud-Es di Erevan, per dimostrare sostegno al leader dell’opposizione in carcere Zhirair Sefilyan. Lo ha riferito il Ministero della Salute armeno. “Sono stati rapiti i medici Norayr Tevanian e Salvador Jechoián, e gli infermieri Tonoian David e Malina Markarian”, dice la nota.

Nella notte la polizia armena ha arrestato 30 persone a una manifestazione in appoggio del gruppo armato. Tra gli arrestati c’era una donna che ha dichiarato lo sciopero della fame. Gli agenti hanno rimosso inoltre gli striscioni che chiedevano le dimissioni del presidente Serzh Sargsyan.

Tutto è cominciato nella stazione di polizia di Erebuni, periferia di Erevan, il 17 luglio. Nella notte tra il 20 e il 21 la polizia ha arrestato decine di manifestanti dopo violenti scontri, cercando di sbloccare una situazione in stallo da giorni. Gli uomini armati pro opposizione avevano ucciso un ufficiale e hanno preso diverse persone in ostaggio.

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha condannato “l’uso della violenza per attuare un cambiamento politico in Armenia” e ha esortato il governo a “gestire la situazione con adeguata moderazione”. Sefilyan – il leader del piccolo gruppo di opposizione chiamato Nuova Armenia Fronte di salvezza pubblica – e sei dei suoi sostenitori sono stati arrestati nel mese di giugno. (con fonte Afp)

Il pasticcio armeno (L’Opinione 26.07.16)

Il fallito golpe in Turchia ha catturato l’attenzione dei media internazionali, ma la vicina Armenia ha vissuto negli stessi giorni la crisi interna più seria e pericolosa dalla dichiarazione di indipendenza del settembre 1991.

Una stazione di polizia alla periferia della capitale Erevan era stata presa d’assalto da una ventina di uomini armati appartenenti al gruppo ultra-nazionalista “Sasna Tsrer”, che avevano catturato diversi agenti di polizia e alcuni alti ufficiali che si trovavano in quel momento in visita alla caserma, tra i quali il vice capo della polizia nazionale e il vice capo della polizia di Erevan. Durante gli scontri è morto un poliziotto e altri agenti sono rimasti feriti. Gli insorti chiedevano la liberazione di Jirair Sefilian, capo di Sasna Tsrer e popolare eroe della guerra in Nagorno-Karabakh. Di genitori armeni, Jirair Sefilian è nato in Libano, dove ha militato da giovanissimo come attivista del partito armeno e ha combattuto durante la guerra civile nel 1980 nei ranghi delle Falangi Libanesi. Si è poi trasferito in Armenia per prendere parte alla guerra contro l’ Azerbaigian per il controllo della regione contesa del Nagorno-Karabakh, distinguendosi per atti di coraggio e guadagnandosi grande seguito tra i soldati armeni. Da sempre feroce critico del governo ed in particolare del potente presidente della Repubblica, Serž Azati Sargsyan, Sefilian era stato arrestato nel 2006 e imprigionato per 18 mesi dopo essere stato accusato del tentativo di rovesciare il governo con la violenza. Era stato nuovamente imprigionato nel 2015, di nuovo per tentativo di colpo di Stato.

Agli inizi di giugno la polizia lo aveva arrestato per l’ennesima volta, nell’occasione per possesso illegale di armi e con l’accusa di voler occupare edifici governativi e centri di telecomunicazione. Un arresto ritenuto da molti politicamente motivato che aveva fatto infuriare i suoi numerosi seguaci. Sefilian è ritenuto dal governo armeno molto scomodo per la sua posizione intransigente di opposizione a qualsiasi possibile accordo con l’Azerbaigian per la questione del Nagorno-Karabakh, nervo scoperto di migliaia di Armeni. Gli assalitori della stazione di polizia che hanno tenuto per giorni con il fiato sospeso l’intera Armenia, oltre alla liberazione del loro leader, chiedevano la scarcerazione di altri prigionieri politici e le dimissioni del presidente armeno Sargsyan.

Dopo che la notizia dell’assalto alla caserma della polizia si è diffusa, migliaia di persone, sostenitori di Sasna Tsrer e reduci della guerra in Nagorno-Karabakh, sono scesi in piazza per manifestare in protesta contro il governo ed a favore degli insorti. A mobilitare molte persone sono stati anche diversi video, foto e testimonianze di abusi perpetrati dalla polizia contro i manifestanti, diffusi sui social network, e le centinaia di fermi ed arresti, da molti ritenuti arbitrari, effettuati dalle forze di sicurezza nelle settimane scorse. La polizia ha reagito con estrema durezza, utilizzando idranti, granate stordenti e gas lacrimogeni. I manifestanti allora hanno attaccato gli agenti con un massiccio lancio di pietre e bottiglie molotov ed erigendo barricate con auto rovesciate, in una lunga guerriglia urbana andata avanti per ore. Solo l’intervento massiccio della polizia antisommossa ha bloccato i manifestanti. Almeno 51 persone, tra cui 25 poliziotti, sono rimaste ferite negli scontri. Decine di arresti in tutta la città e almeno 15 parlamentari del partito moderato di opposizione “Accordo civile”, compreso il popolare deputato Nikol Pashinyan, segretario del partito e alleato in parlamento di Sefilian, figurano tra gli arrestati.

Quando già si stava temendo per una inversione autoritaria in Armenia e una fine tragica degli ostaggi, la svolta: gli insorti asserragliati nella caserma della polizia hanno chiesto e ottenuto, per la liberazione degli ostaggi, di incontrare i media e la stampa. Infine, le ultime quattro persone nelle mani degli insorti sono state rilasciate dopo una lunga trattativa condotta dal generale Vitaly Balasanyan, capo delle forze popolari armene in Karabakh ed eroe della guerra di liberazione, che è riuscito finalmente a convincere gli assalitori. Tutti liberi e l’Armenia si è risvegliata da un brutto incubo.

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