Genocidio armeno, Germania prepara una risoluzione di condanna (Askanews.it 26.05.16)

E riconosce la sua parte di responsabilità nell’accaduto

Ankara, 26 mag. (askanews) – Sarà sottoposta a inizio giugno al voto del Bundestag, la camera bassa del parlamento tedesco, la risoluzione che riconosce per la prima volta il genocidio degli armeni da parte dell’Impero ottomano, oltre che “la parte di responsabilità” della Germania in questi crimini. Il testo è in via di definizione e la France Presse ne ha ottenuta una bozza.

Il Bundestag “deplora gli atti commessi dal governo turco dell’epoca, che hanno portato allo sterminio quasi totale degli armeni”, si legge in questo testo intitolato “In ricordo e commemorazione del genocidio degli armeni e delle altre minoranze cristiane nel 1915 e 1916”.

La risoluzione presentata da entrambi i partiti della coalizione al potere a Berlino – conservatori della Cdu-Csu e socialdemocratici dell’Spd – e dal gruppo di opposizione dei Verdi, parla “delle deportazioni e dell’annientamento pianificato di oltre un milione di armeni”; deve essere votata il 2 giugno, giovedì prossimo.

Il Bundestag condanna inoltre “il deprecabile ruolo del Reich tedesco che, in quanto principale alleato militare dell’impero ottomano e malgrado le esplicite informazioni provenienti da diplomatici e missionari tedeschi riguardo le deportazioni e lo sterminio organizzato degli armeni, non ha fatto nulla per fermare questo crimine contro l’umanità”.

“Il Reich ha una parte di responsabilità in questi avvenimenti”, sottolinea il testo della risoluzione, ribadendo quanto aveva dichiarato lo scorso anno il presidente Joachim Gauck, primo alta carica tedesca ad aver definito ‘genocidio’ il massacro degli armeni da parte dell’Impero ottomano nel 1915.

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“La maschera della verità”, il genocidio armeno con Elena Pau e Irma Toudjian (Sardiniapost.it

Dopo il concerto che ha visto sul palco il pianista jazz Alessandro Di Liberto, la rassegna Le Salon de Musique, organizzata dall’associazione Suoni & Pause, prosegue venerdì 27 maggio con una serata dedicata al Genocidio Armeno. L’appuntamento è alle 20.30, sempre nei suggestivi spazi del Palazzo Siotto (a Cagliari, in via Dei Genovesi 114), con “La maschera della verità”, reading tratto dall’omonimo libro di Pinar Selek, autrice turca considerata tra le più interessanti del panorama contemporaneo.

Sotto i riflettori a ripercorrere il romanzo della Selek saranno l’attrice Elena Pau e la pianista Irma Toudjian, che daranno così corpo al racconto personale e impegnato di una delle pagine più buie della storia turca: quella del Genocidio degli armeni, avvenuto nel 1915. Un argomento, questo, che in Turchia è considerato tabù e che l’autrice della Maschera della verità riporta a galla insegnando al lettore dall’interno cosa significhi crescere e costruirsi declamando a scuola slogan che proclamano la superiorità nazionale, studiando su manuali lacunosi o menzogneri; vivendo accanto a compagni timorosi e silenziosi, in una città dove i nomi armeni sono stati cancellati dalle insegne.
Sociologa, femminista, antimilitarista e attivista per la pace, Pinar Selek per lunghi anni ha vissuto tacciata di terrorismo, accusa mossale dal governo turco in seguito all’esplosione al Bazar delle Spezie di Istanbul del 1998, e per ben due volte caduta grazie all’assoluzione davanti al tribunale. Per lo stesso motivo il governo sta ora cercando di accusarla per la terza volta, per questo i suoi legali hanno deciso di portare il suo caso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

L’edizione 2016 di Le Salon de Musique, Piano è realizzata con il contributo di: Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato alla cultura e del Comune di Cagliari, Assessorato alla cultura. In collaborazione con: Fondazione “Giuseppe Siotto”, La Fabbrica Illuminata, Luna Scarlatta, Itaca e Ojos Design.

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Russia, tempi duri anche per l’integrazione eurasiatica (L’infro 25.05.16)

Non si può dire che l’Unione economica eurasiatica, fortemente voluta dalla Russia, sotto la spinta politica della crisi ucraina, come una sorta di sia pur modesto contraltare all’Unione europea, sia nata sotto i migliori auspici. Al contrario, è stata messa quasi al tappeto dalla crisi economica russa, con inevitabili ricadute sui partner minori più o meno strettamente legati all’ex componente di gran lunga più grossa della defunta Unione Sovietica.

Innanzitutto, cioè, su Bielorussia e Kazakistan, già affiancati ad essa in un’Unione doganale che costituiva, dal 2010, il nucleo originario dell’UEE, chiaramente concepita almeno a Mosca come strumento per la reintegrazione economica (ma con ovvii risvolti anche politici) di quanto più possibile dello spazio ex sovietico, dalla parte europea come da quella asiatica. Già il decollo, nel gennaio 2015, non era stato dei più felici, avendo poi risposto all’appello, per di più con scarso entusiasmo, solo la piccola Armenia e la prevalentemente pastorale Kirghisia.

Tutte le altre repubbliche non più ‘sorelle’ all’insegna della bandiera rossa si sono chiamate fuori, anche se qualcuna si è mostrata possibilista circa un’eventuale futura adesione. Sulle loro diserzioni hanno pesato la crescita esponenziale dei multiformi legami con la Cina, in particolare nell’Asia centrale (Turkmenistan, Uzbechistan e Tagichistan), la ricchezza energetica (Azerbaigian) e la perdurante attrazione per la UE (Moldavia e Georgia). Senza ovviamente contare, oltre all’Ucraina, le tre repubbliche baltiche ormai da tempo passate armi e bagagli nel campo occidentale. Nella quindicina di mesi sinora trascorsi è successo un po’ di tutto il necessario per scoraggiare eventuali ripensamenti e semmai incoraggiarne tra gli aderenti, pur fermo restando il timore presumibilmente generale che il ‘grande fratello’ possa finire col ricorrere almeno in qualche caso alle maniere forti, dal cui uso ha chiaramente dimostrato di non rifuggire.

L’effetto combinato del crollo del rublo e dell’unificazione doganale, con l’estensione a tutti i membri della UEE di dazi vicini a quelli russi, più alti degli altri, è stato micidiale. Gli scambi commerciali del Kazakistan con il resto del gruppo si sono ridotti del 34% e rotti, ossia di circa un quarto le esportazioni e del 40% le importazioni. La Kirghisia ha visto non solo contrarsi il flusso dei propri emigrati in Russia e falcidiate le loro vitali rimesse, ma anche il drastico ridimensionamento del fiorente bazar Dordoi, il più importante mercato di tutta l’Asia centrale, che dava lavoro a 55 mila persone e vantava un giro d’affari annuale di 2,8 miliardi di dollari.

A complicare le cose è sopraggiunto il riaccendersi dell’interminabile conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Al secondo non è mancato l’appoggio non solo morale degli altri paesi musulmani contro la rivale cristiana. Nella fattispecie, soprattutto del Kazakistan, che si è fermamente opposto all’inclusione nella UEE del Nagorno-Karabach, la provincia già azera abitata in maggioranza da armeni, conquistata di forza da questi ultimi ventiquattro anni fa e trasformata provvisoriamente in repubblica indipendente priva di qualsiasi riconoscimento internazionale. Ne è nata una disputa che ha assunto aspetti quasi grotteschi. Già nel 2014 l’insistenza armena e l’opposizione kazaka avevano ritardato l’ammissione dell’Armenia nella nuova Unione, e nel marzo dello scorso anno il presidente armeno Serzh Sarkisian aveva disertato il suo primo vertice svoltosi ad Astana, la capitale del Kazakistan.

Adesso è stata la volta del presidente kazaco, Nursultan Nazarbaev, a rifiutarsi di partecipare al vertice che era stato fissato per l’8 aprile a Erevan, la capitale armena, benchè nel frattempo Sarkisian e compagni si fossero rassegnati all’ostracismo alla pseudorepubblica. La scusa, questa volta, è stato l’asserito persistere armeno nel violare la tregua d’armi nel Karabach, pur non essendo affatto sicuro che non lo faccia almeno altrettanto (e più credibilmente) la controparte azera.

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NAGORNO-KARABAKH: Il conflitto arriva all’Eurovision 2016 (Eastjournail 25.06.16)

Si parlava ancora di Repubbliche Socialiste Sovietiche, quando Armenia e Azerbaigian entrarono nel vivo di quello che sarebbe stato uno dei conflitti più efferati del Caucaso. Sulla scia delle neonate dottrine di Gorbachev, nel 1988 il Soviet del Nagorno-Karabakh, all’epoca oblast’ autonoma dell’Azerbaigian, fece riemergere le rivendicazioni nazionali chiedendo l’annessione all’Armenia e dando il via a campagne militari e pulizie etniche che si sarebbero susseguite per anni tra le due repubbliche. Nonostante il cessate il fuoco raggiunto nel 1994 e la mediazione dell’OSCE attraverso il Gruppo di Minsk, le tensioni lungo la linea di confine non si sono mai arrestate. Al contrario, lo scorso autunno è stata registrata un’escalation di violenza nella regione, che ha raggiunto il suo picco all’inizio di Aprile e sembra essere ancora in corso.

Quello che per più di vent’anni è rimasto all’apparenza un conflitto congelato ha da sempre determinato gli affari interni, e ancor di più quelli internazionali, dei due Paesi protagonisti. Ma non è tutto: le rivalità che intercorrono tra le due parti non sono mai state celate, neanche quando si tratta di eventi che vanno al di là della politica.

E’ il caso di Eurovision. Da quando Armenia e Azerbaigian sono stati ammessi al concorso canoro europeo (rispettivamente nel 2006 e 2008) molte sono state le occasioni in cui la disputa è stata portata sul palco. Ed era quasi prevedibile che quest’anno le polemiche di natura politica non sarebbero mancate, proprio alla luce degli ultimi avvenimenti in Nagorno-Karabakh e con i due presidenti impegnati in nuovi dialoghi a Vienna.

La provocazione è arrivata dalla cantante armena Iveta Mukuchyan. Durante la prima semifinale di Eurovision 2016, in diretta da Stoccolma, l’esuberante artista ha esultato per il suo passaggio in finale mostrando la bandiera del Nagorno-Karabakh.
In conferenza stampa, chiamata a rispondere del gesto da un giornalista svedese di Aftonbladet, l’artista si è espressa in maniera piuttosto neutra: negando la matrice politica del gesto, ha affermato che gli artisti in gara sono i rappresentanti del proprio paese, e in quanto tali, portano con se’ “il cuore, i pensieri, i sentimenti e tutte le emozioni legate alla madrepatria. L’unica cosa che voglio diffondere – ha continuato – è la pace. Io voglio solamente la pace ai confini, l’Armenia vuole la pace.”
Nonostante gli sforzi del moderatore, intervenuto per ricordare che i giornalisti sono tenuti a porre domande agli artisti, e non ad esprimere commenti di natura politica, la situazione è diventata successivamente piu’ tesa, quando un giornalista azero ha preso la parola per puntualizzare che il gesto viola ogni norma di diritto internazionale, oltre che a quelle del concorso, poiché la regione appartiene de jure all’Azerbaigian.

Le polemiche non sono tardate ad arrivare. Immediatamente si è espresso il ministro degli esteri azero Hikmet Hajiyev, che ha denunciato l’azione come provocatoria e inaccettabile, accusando gli armeni di usare la visibilità data dall’evento per perseguire fini politici, oltre che per supportare le formazioni illegali che combattono in quello che gli azeri considerano il proprio territorio.

La reazione degli organizzatori è arrivata invece il giorno dopo. Attraverso una dichiarazione ufficiale pubblicata su Facebook, l’UER (Unione Europea di Radiodiffusione) si è detto consapevole della tensione esistente tra Armenia e Azerbaigian sulla questione del Karabakh, motivo per cui reputano l’azione di estrema gravità. L’ente organizzatore ha condannato la vicenda e avvertito che un ulteriore atto di questa natura sarebbe costato la squalifica dall’edizione in corso o dalle successive. Inoltre, i responsabili hanno affermato che un procedimento è in corso per sanzionare l’emittente armena AMPTV.

Ad aggravare la posizione armena rispetto alla sanzione, che verrà stabilita in Giugno, c’è anche una precedente dichiarazione di Gohar Gasparyan, capo della delegazione armena, la quale avrebbe dichiarato già in Aprile di voler portare con se’ la bandiera del Nagorno-Karabakh, a seguito della pubblicazione della lista delle bandiere non permesse allo spettacolo.

Infatti, al fine di salvaguardare la natura non-politica di Eurovision, poco prima dell’inizio del concorso era stata pubblicata una lista di stati non riconosciuti, i cui simboli non potevano essere esposti presso la Stockholm Globe Arena che ospitava la kermesse. La lista si aggiunge all’articolo 1.2.2h del regolamento di Eurovision Song Contest 2016, il quale afferma che “nessun messaggio che promuova organizzazioni, istituzioni, cause politiche o altro, aziende, marchi, prodotti o servizi potrà apparire durante la trasmissione.”

La vicenda che ha coinvolto la delegazione armena è tuttavia solo una delle tante occasioni in cui eventi culturali o sportivi vengono politicizzati. E’ ormai consolidata la teoria secondo cui molti paesi, tra cui la Russia e l’Azerbaigian, utilizzino la partecipazione o l’organizzazione di mega-events per fini meramente politici, come mezzo di rivendicazione nazionale o di promozione internazionale: basti pensare alle Olimpiadi Invernali di Sochi del 2014 o ai giochi Olimpici Europei di Baku del 2015.

Lo stesso ragionamento può essere applicato ad Eurovision: nonostante norme e provvedimenti che vietano la pratica, anno dopo anno la politica sovrasta la performance artistica e il sogno dell’Europa unita svanisce, persino dai palchi televisivi. Nei giorni scorsi, infatti, una polemica di portata ancora maggiore ha investito la cantante ucraina Jamala, che ha vinto proprio questa ultima edizione del concorso canoro con una provocatoria canzone anti-russa.

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Il doppio dramma degli armeni siriani (Il Giornale d’Italia 23.05.16)

L’arcivescovo di Aleppo racconta la situazione della sua comunità, vittima del genocidio ottomano prima e delle bombe jihadiste oggi

Genocidio. E’ questa, purtroppo, la parola che viene subito in mente quando si parla degli armeni. Un dramma che quel popolo ha vissuto esattamente cent’anni fa: era infatti il 1915 quando l’impero ottomano mise in atto deportazioni e stermini, che causarono un milione e mezzo di morti. Questa terribile pagina della loro storia, che gli armeni chiamano “Grande crimine” e che commemorano il 24 aprile, oggi viene rivissuta in Siria.

Qui, prima dello scoppio della guerra, vivevano più di centomila armeni. Una minoranza perfettamente integrata nella società siriana in quanto, come ha spiegato a Sputniknews il professor Baykar Sivazliyan, Presidente dell’Unione Armeni d’Italia e docente di lingua armena presso l’Università degli studi di Milano, abitavano nel Paese già molto prima che esso divenisse uno Stato indipendente. La stragrande maggioranza degli armeni di Siria “è costituita da sopravvissuti al Genocidio e loro discendenti. L’ultima fermata delle deportazioni era infatti il deserto siriano, tanto che a Dir al Zor vi era una chiesa armena che fungeva da memoriale” e che custodiva le reliquie delle vittime del 1915. Un luogo sacro, che i terroristi di al Nusra hanno distrutto. Oggi il numero di armeni siriani si è ridotto a sedicimila, “concentrati per lo più ad Aleppo, a Damasco e in Latakia, nella zona del villaggio di Kessab – ha detto ancora il professore – più volte caduta nelle mani del Califfato e liberato dalle forze siriane”.

Aleppo dunque, che le cronache delle ultime settimane vedono al centro di una furiosa battaglia. Alla quale, per la popolazione, si aggiunge il dramma della mancanza anche di generi di prima necessità. A poco sembra essere servita, in questo senso, la fragile tregua che si sta tentando in tutti i modi di mantenere. E il futuro non appare per niente roseo.

Sembra esserne convinto l’arcivescovo degli armeni cattolici della città, che in un’intervista rilasciata a Zenit.org ai margini della sua recente visita a Roma, ha espresso tutta la sua disperazione per le sorti della popolazione di Aleppo. La situazione in città attualmente “è molto drammatica. Il cessate il fuoco è ormai terminato e sono ricominciati i bombardamenti” ad opera dei ribelli jihadisti che controllano una parte della città: “sono loro a lanciare missili, bombe e colpi di mortaio – spiega monsignor Boutros Marayati – sui quartieri controllati dall’esercito regolare, dove vivono le comunità cristiane e i musulmani moderati. Il punto è che i ribelli hanno in mano la centrale elettrica e l’acquedotto, dunque controllano gli approvvigionamenti e non consentono di farli arrivare a noi. Chi paga il prezzo di questa contrapposizione tra i due blocchi siamo noi civili, soprattutto i bambini”. E nonostante le Chiese stiano cercando di “aiutare la gente a rimanere, sta avvenendo un nuovo esodo da Aleppo. Del resto manca tutto. La nostra speranza è che ci siano i margini affinché le parti in conflitto si mettano d’accordo. Il popolo di Aleppo sogna la fine di queste atrocità, è davvero stanco di subire” dice ancora l’arcivescovo. Che, per quanto riguarda il contesto internazionale, si dice convinto che la soluzione del conflitto “è nelle mani delle grandi potenze” ovvero Usa e Russia. “Dobbiamo solo augurarci che si arrivi ad un’intesa tra loro per aprire un futuro di speranza per la Siria”.

E anche per l’Europa. Perché risulta evidente che fino a che non si apriranno scenari di pace, la crisi dei profughi nel Vecchio Continente è destinata a peggiorare. “Se c’è davvero interesse a risolvere questo dramma – dice monsignor Marayati – bisogna impiegare ogni energia per far cessare la guerra in Siria” ovvero “impegnarsi ad aiutare i profughi a non fuggire dalla propria terra. Ricordo sempre che prima che iniziasse questa guerra, noi siriani non eravamo mai stati dei profughi. Al contrario, era la Siria ad aver sempre ricevuto persone che fuggivano dalle guerre: dal Libano, dalla Giordania, dall’Iraq. E ora è arrivato il nostro turno. Una cosa che sembrava davvero impensabile, perché la Siria è storicamente un Paese di convivenza, di pace, di cultura”.

Le Chiese cristiane per arginare l’esodo “stanno dando un grande contributo” in termini di aiuti. “Ma la gente è stanca di soffrire. I siriani non vogliono più piangere i loro morti, non vogliono più veder scorrere fiumi di sangue. Ciò che chiediamo è che l’impegno che viene profuso per mandarci gli aiuti venga impiegato per far pressione alle potenze internazionali affinché cessino i bombardamenti”.

Cristina Di Giorgi

NAGORNO-KARABAKH: Sargsyan e Aliyev si incontrano a Vienna, ma al fronte si continua a sparare (East Journal 23.05.16)

Lo scorso 16 maggio Serzh Sargsyan e Ilham Aliyev, presidenti di Armenia e Azerbaigian, si sono incontrati a Vienna per parlare della problematica situazione del Nagorno-Karabakh, regione contesa dai due paesi che negli ultimi mesi sta vivendo una situazione sempre più instabile. L’evento è avvenuto nell’ambito di una serie di incontri organizzati dal Gruppo di Minsk, struttura creata nel 1992 dall’OSCE (all’epoca CSCE) per crecare di mediare una soluzione pacifica al conflitto del Nagorno-Karabakh.

L’incontro tra Sargsyan e Aliyev è stato il primo dalla grave escalation di violenza verificatasi all’inizio di aprile nel Nagorno-Karabakh, la più violenta degli ultimi vent’anni, che in pochi giorni ha causato la morte di oltre un centinaio di persone e che ancora oggi non sembra essersi del tutto esaurita, come confermano le continue morti che si registrano lungo la linea di confine che separa l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaigian. L’ultima volta che Sargsyan e Aliyev si sono incontrati ufficialmente per discutere della situazione in Nagorno-Karabakh è stato lo scorso dicembre a Berna, in Svizzera, sempre durante un colloquio organizzato attraverso la mediazione del Gruppo di Minsk.

Oltre ai presidenti di Armenia e Azerbaigian e alle loro delegazioni, all’incontro di Vienna hanno preso parte tra gli altri anche John Kerry, segretario di stato degli Stati Uniti, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri della Russia, e Jean-Marc Ayrault, ministro degli Esteri della Francia, in rappresentanza dei tre paesi che attualmente siedono alla presidenza del Gruppo di Minsk; mentre a rappresentare l’OSCE è stato Andrzej Kasprzyk, rappresentante personale del presidente in esercizio.

Durante l’incontro Sargsyan e Aliyev hanno convenuto sulla necessità di rispettare il cessate il fuoco (imposto nel 1994 in seguito all’Accordo di Bishkek ma da allora più volte violato), e sul voler risolvere la questione attraverso vie esclusivamente pacifiche. Riguardo agli incidenti lungo la frontiera armeno-azera, per far fronte alle continue violazioni del cessate il fuoco, i rappresentanti del Gruppo di Minsk hanno proposto di aumentare il monitoraggio in loco installando delle telecamere lungo la linea di confine per documentare eventuali future violazioni. Al termine del colloquio, entrambe le parti, che hanno mostrato una apparente sintonia, hanno espresso la volontà di incontrarsi nuovamente verso giugno per valutare la situazione, tenendo nel frattempo sotto controllo l’evolversi del contesto. Nella stessa giornata, Sargsyan e Aliyev hanno avuto anche due colloqui separati con Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, durante i quali si è ribadita la necessità di risolvere il conflitto del Karabakh attraverso vie diplomatiche.

Nonostante sia Sargsyan che Aliyev si siano dichiarati soddisfatti dell’esito dei colloqui di Vienna, sostenendo la necessità di trovare una soluzione pacifica al conflitto, la realtà dei fatti mostra però come al fronte l’atteggiamento dei due eserciti non rispecchi le buone intenzioni sostenute dai rispettivi leader durante i colloqui, come dimostrano i continui incidenti con tanto di nuove vittime registrati lungo la linea di confine; il tutto proprio poche ore dopo l’incontro dei due presidenti nella capitale austriaca e nonostante le molteplici promesse di pace fatte davanti ai rappresentanti del Gruppo di Minsk.

La verità è che le due parti sono attualmente molto distanti dal trovare un accordo, e al contrario i leader dei due paesi negli ultimi anni hanno più volte dichiarato di essere pronti all’uso della forza per difendere i propri interessi nella regione. Il presidente azero Aliyev ad esempio, nel caso la diplomazia internazionale non dovesse rivelarsi efficace, ha spesso affermato di essere disposto a ricorrere alla guerra per riprendersi il Karabakh; inoltre, come affermato recentemente da Elkhan Sahinoğlu, membro del think tank azero “Atlas“, nel caso l’incontro di Vienna non dovesse aiutare a migliorare concretamente la situazione nella regione, il rischio che in futuro si verifichi un’altra escalation di violenza come quella dello scorso aprile rimarrebbe alto.

Il conflitto tra armeni e azeri per il possesso del Nagorno-Karabakh è scoppiato nel 1988, con l’Unione Sovietica ormai in fase di collasso, mentre si è trasformato in guerra aperta nel 1992, in seguito al raggiungimento dell’indipendenza di Armenia e Azerbaigian. Dopo una dura guerra durata due anni, che è costata la vita a circa 30.000 persone e che ha visto gli armeni prendere il controllo dell’intera regione e di altri sette distretti situati in territorio azero, nel 1994 le due parti si sono accordate per un cessate il fuoco che ha congelato il conflitto. Attualmente la regione è amministrata dal governo della Repubblica de facto del Nagorno-Karabakh, la quale non è però riconosciuta da alcuno stato della comunità internazionale.

Proprio recentemente, come conseguenza dei violenti scontri di inizio aprile, il governo armeno ha approvato una proposta di legge sul riconoscimento del Nagorno-Karabakh, dopo che già più volte negli ultimi anni diversi parlamentari avevano provato a sostenere questa causa. Dopo avere ottenuto l’approvazione del governo di Yerevan, prima di entrare in vigore la proposta di legge dovrà però ricevere anche l’approvazione del parlamento, che per il momento non ha voluto prendere in esame la questione, temendo una reazione azera, preferendo aspettare l’evolversi del contesto.

A complicare ulteriormente la situazione vi è l’ambiguo ruolo della Russia, che da una parte manda Lavrov a Vienna a rappresentare Mosca in occasione dei colloqui di pace organizzati dal Gruppo di Minsk, del quale proprio la Russia è co-presidente, mentre dall’altra continua a vendere armi a entrambi gli schieramenti, contribuendo così alla frenetica corsa agli armamenti di Yerevan e Baku, che secondo una classifica elaborata dal BICC (Bonn International Center for Conversion) si posizionano rispettivamente al 3° e all’8° posto tra le nazioni più militarizzate al mondo.

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Nagorno-Karabakh, la pace può attendere (Lastampa.it 21.05.16)

Per qualcuno è una guerra dimenticata. Per altri un conflitto congelato. C’è anche chi parla di proxi war, un confronto indiretto tra Turchia e Russia: Ankara alleata alla famiglia Aliyev, da cinquant’anni al potere in Azerbaigian; Mosca al fianco dell’Armenia con il suo consistente contingente militare schierato nella regione. È lo scontro che da quasi venticinque anni contrappone Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh. Questa piccola Repubblica incastrata a sud del Caucaso, negli Anni 90 ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza dall’Azerbaigian a cui era stata concessa in epoca sovietica. È uno Stato de facto perché nessuno lo ha mai riconosciuto, neanche la madrepatria armena. Drammatico il bilancio, perché la guerra fino ad oggi è costata trentamila morti, un milione di profughi e miliardi di dollari in armamenti. La tensione tra i due Paesi a inizio aprile ha subito una nuova drammatica escalation: oltre trecento le vittime, centinaia gli sfollati, interi villaggi evacuati, case e scuole distrutte. Per comprendere il dramma in corso, basta uscire pochi chilometri da Stepanakert, capitale del Karabakh. La strada per Martakert e Talish, obiettivi dell’ultima incursione nemica, è forse l’immagine più eloquente della situazione. Una dopo l’altra, non lontano dalla prima linea che segna il confine con l’Azerbaigian, scorrono le città rase al suolo dal conflitto scoppiato nel ‘92. Ci sono le rovine di Aghdam, – un tempo popolata da oltre ventimila azeri uccisi o costretti alla fuga – battezzata Hiroshima del Caucaso. Poco oltre i resti di Maragha, al centro di uno degli episodi più sanguinosi di questa lunga guerra, il pogrom in cui vennero trucidati decine di armeni inermi.

 

A Martakert si fondono gli orrori di ieri e di oggi, perché alle distruzioni di vent’anni fa si sono aggiunti i danni della recente offensiva che, secondo gli armeni, sarebbe stata scatenata da Baku. Opposta la versione azera, che accusa i nemici di aver lanciato per primi l’attacco. In ogni caso la città è stata colpita da razzi che hanno danneggiato seriamente molte abitazioni e ferito o ucciso alcuni civili. Non solo. «Alcuni villaggi sono stati bersagliati con cluster bomb di fabbricazione israeliana» sostiene Halo Trust, fondazione inglese dal 2000 impegnata nello sminamento del Nagorno-Karabakh. «Hanno lanciato centinaia di bombe a grappolo vietate dalle convenzioni internazionali: gli azeri hanno colpito obiettivi civili tra cui i villaggi di Nerkin Horatagh e Mokhratagh» spiega Yuri Shahramanyan, responsabile degli interventi nella regione. A Mataghis ne ha fatto le spese la scuola: un Grad ha centrato l’edificio mandando in frantumi tutti i vetri e solo per un miracolo non ci sono state vittime. Ora la cittadina – a una manciata di chilometri dalla frontiera – è diventata il crocevia dei mezzi militari che a decine, incessantemente, trasportano uomini e rifornimenti verso le trincee. La vecchia strada, dopo l’offensiva di aprile è stata abbandonata perché battuta dall’artiglieria. Ne è stata aperta una nuova protetta da un argine di terra che gli escavatori stanno completando sfidando il tiro dei cecchini. Fuoristrada Uaz ammaccati arrancano a tutta velocità schivando buche e proiettili: oltre la barriera artificiale, campi verdi a perdita d’occhio che resteranno a lungo incolti per il timore che gli azeri sparino anche ai trattori.

Lo sterrato termina a Talish, villaggio fantasma incuneato tra montagne cupe e umide. Ora è popolato da soldati in mimetica: hanno visi stanchi, giacche a vento fradice, mitragliatori Ak47 in spalla. Molti sono volontari, armeni della diaspora giunti da tutto il mondo per difendere questo lembo di terra che chiamano orgogliosamente Artsakh. Gli abitanti hanno invece abbandonato tutto, sono fuggiti a Stepanakert, oltre due ore di macchina che su queste strade sembrano non finire mai. «Lassù era troppo pericoloso – mormora un’anziana sfollata con la nuora e i nipoti nella capitale – mio figlio è invece rimasto là a combattere». A Talish gli azeri hanno trucidato tre anziani. Poi li hanno mutilati, gli hanno reciso le orecchie «come fanno le milizie islamiste: erano mercenari giunti dalla Siria ora al soldo dell’Azerbaigian» sostengono gli armeni. Sul conflitto si è così allungata l’ombra della guerra di religione: «L’Islam è alle porte, siamo l’ultimo baluardo della cristianità» ripete un ufficiale. Il commando si è dileguato sparando all’impazzata contro le case sgangherate abitate da pastori e agricoltori. La battaglia per riprendere il villaggio è stata dura, ovunque macchine dilaniate dalle esplosioni, tetti sfondati dalle granate, muri crivellati da proiettili.

Un razzo Grad è piovuto sulla scuola demolendo l’unica parte terminata del vecchio edificio sovietico: i frammenti hanno ucciso un ragazzino, nelle aule restano banchi ammassati, quaderni sparsi, vetri rotti, la lavagna aggrappata al muro per miracolo. Un altro ordigno ha completamente demolito il fabbricato in cui gli abitanti si radunavano per le feste riducendolo a un ammasso di macerie, lamiere contorte, sedie annerite. Nelle case abbandonate ora si rintanano i soldati che stanno cercando di ricacciare i nemici oltre le alture perdute, a poche centinaia di metri. Non sarà facile, i militari si riparano dietro vecchi muri in pietra che i tiratori scelti azeri battono con precisione chirurgica, mietendo vittime, specie all’imbrunire. Un mese fa è stato un blitz in piena regola: il Karabakh, colto di sorpresa e impreparato, ora accusa Erevan di non aver dato l’allarme. Perchè non è stata una scaramuccia qualsiasi, sul terreno sono rimaste centinaia di vittime, è stato l’attacco più violento dal cessate il fuoco del 1994. «Lo abbiamo respinto con decisione» sostiene un alto funzionario dei servizi segreti. Non ne vuol sapere di svelare il nome, ma mostra senza esitare il video dei carrarmati azeri – mezzi di ultima generazione forniti dalla Russia, il principale alleato dell’Armenia – che avanzano sicuri, vengono colpiti, ripiegano nel caos. «La gente è stanca del doppio gioco di Mosca, che vende armi a entrambi le parti e specula da troppo tempo su questo conflitto», accusa Karen Ohanjanyan, coordinatore locale di Helsinki Initiative 92, organizzazione non governativa impegnata da anni nella pacificazione dell’area. Qualcuno teme una nuova guerra del Nagorno-Karabakh sia alle porte. La prima è durata un quarto di secolo ed è stata combattuta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale.

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“Chi siete?” di Doriana Vovola, ponte tra Oriente ed Occidente a S. Lazzaro degli Armeni (Infooggi.it 21.05.16)

Memorie e musica armene e “Chi siete?” di Doriana Vovola, ponte tra Oriente ed Occidente a S. Lazzaro degli Armeni
VENEZIA – L’ Arcivescovo e filosofo armeno di Istanbul Boghos Levon Zekiyan, insignito da Papa Francesco in occasione del Centenario del Genocidio Armeno, la drammaturga per i diritti umani Doriana Vovola, di calibro internazionale e pluripremiata, che con il suo libro “Chi siete?” unisce l’ Occidente e l’ Oriente e ildudukista armeno Aram Ipekdjian, interprete sonoro delle Messe a S. Pietro di Papa Francesco si uniscono il 24 maggio 2016 alle ore 17 al monastero mechitarista dell’ isola S. Lazzaro degli Armeni (Venezia) per dare vita ad un evento unico tra filosofia armena e non solo, teatro, musica armena e riflessione su temi d’ attualità ed eterni quali memoria, libertà e prigionia da persecuzione, fratellanza, negazionismo, resistenza spirituale, identità, genocidio.
Una Lezione toccante, appositamente ideata, dell’ Arcivescovo Boghos Levon che ruoterà attorno al libro di D. Vovola “Chi siete?” (Europa edizioni) che tratta di prigionia e libertà psichica e fisica, elettricità emotive e perdita di baricentro esistenziale. Sensitività, poesia, filosofia e mistica in paradigma teatrale come atto di presenza verso popoli, etnie, culture, sensibilità devastate dalle persecuzioni e dalle guerre… un libro che, con successo di pubblico e critica, mette d’ accordo le culture umane del mondo, dall’ ebraica alla tibetana, dall’ armena alla nativa americana.

Doriana Vovola, autrice e attrice che reciterà frammenti del libro in dialogo con le melodie del duduk del Maestro Ipekdjian, ha all’ attivo, tra i molti successi, la scena alla Biennale di Venezia 2015- Padiglione Tibet e i prestigiosi “Premio Eudonna 2013/2014” per le eccellenze femminili europee – sezione speciale drammaturgia e “Premio Italia Diritti Umani 2013” – Amnesty International e Free Lance International Press.

Il duduk è un antico strumento musicale armeno che custodisce e sprigiona la memoria sonora del suo popolo e che l’ Unesco ha dichiarato “patrimonio orale e intangibile dell’umanità”.

L’ Isola di S. Lazzaro si raggiunge col traghetto che parte da Piazza S. Marco, Venezia

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Azerbaijan, la terra del fuoco (Osservatorio Balcani e Caucaso 20.05.16)

Una delegazione del Parlamento europeo in visita in Azerbaijan, dopo che lo scorso settembre l’eurocamera ha condannato in modo netto le violazioni dei diritti umani. Reportage

Gelo polare fra Bruxelles e Baku. Non è un bollettino meteorologico che preannuncia paurosi sconvolgimenti climatici nel vecchio continente; si tratta semplicemente dello stato delle relazioni fra il parlamento europeo e il Milli Mejlis, l’assemblea legislativa dell’Azerbaijan. A scatenare la tempesta diplomatica è stata una risoluzione dell’eurocamera che il 10 settembre dello scorso anno ha condannato in modo netto e inequivocabile le persistenti violazioni dei diritti umani nella repubblica caucasica. “Si chiede l’immediata ed incondizionata liberazione di tutti i prigionieri politici e dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli attivisti della società civile” recita il testo adottato che sollecita le autorità a cessare la repressione in corso ponendo termine alle pratiche correnti di persecuzione criminale selettiva. Parole dure, senza mezzi termini, con tanto di nomi e cognomi delle vittime e richieste di intervento da parte della diplomazia europea che hanno provocato la stizzita reazione del governo di Baku che ha subito rispedito al mittente la risoluzione in oggetto. D’altronde l’Unione Europea ha fame di idrocarburi e chi meglio dell’Azerbaijan può provvedere al suo fabbisogno considerando le tensioni con la Russia? Chi controlla i rubinetti di gas e petrolio, ritengono a torto o a ragione gli azeri, non può essere sottoposto a critiche pena pesanti ritorsioni commerciali. Più che una risposta una minaccia.

Heidi Hautala è una esperta e volenterosa eurodeputata finlandese che presiede l’assemblea parlamentare Euronest, l’organo che comprende le delegazioni dei parlamenti dei sei paesi del Partenariato Orientale oltre a quella dell’europarlamento. A lei e al suo collega georgiano Viktor Dolidze è stato affidato il compito di recarsi a Baku per cercare di riannodare le relazioni con la controparte azera sempre più trincerata su posizioni di scontro. All’ultimo momento anch’io vengo aggiunto alla missione che ottiene il semaforo verde dopo un lezioso rimpallo di corrispondenza con le autorità azerbaijane cui fanno seguito alcuni tentativi andati a vuoto e pretestuosi intoppi burocratici. Viaggio fuori programma ma ordine di servizio quanto mai benvenuto se si tratta di raggiungere luoghi che presentano aspetti che vanno al di là del lavoro. Fra una riunione e l’altra è sempre piacevole approfittare delle pause per fare due passi fra piazze, monumenti e mercati gettando uno sguardo veloce sugli scorci di maggiore interesse. Ci sono città che offrono sempre qualcosa di nuovo anche all’ennesima visita e Baku è una di queste. Passo, così, nel giro di poche ore dall’atmosfera surreale dell’aeroporto devastato di Bruxelles, appena riaperto dopo gli attentati terroristici, a quella sfavillante dello scalo della capitale azera inaugurato nel giugno scorso in occasione dei primi giochi olimpici europei.

L’hotel dove alloggio si trova in centro, vicino al lungomare e non lontano dalla città vecchia. E’ lo stesso della scorsa volta, un cinque stelle dal design moderno con vista mare, solo che nel giro di tre anni i prezzi delle camere sono dimezzati. Questo, ovviamente, per chi paga in euro ma non per chi paga in manat, la moneta locale. Due svalutazioni a distanza di pochi mesi, di cui l’ultima a seguito della decisione della banca centrale di lasciare fluttuare liberamente la valuta sui mercati internazionali, hanno portato il cambio con il dollaro da 0,78 a 1,55. E per un paese come l’Azerbaijan che importa quasi tutto ciò ha comportato un aumento generalizzato del costo della vita compreso i generi di prima necessità. La gente, quindi, è tornata dopo tanto tempo a manifestare nelle piazze della capitale e delle principali città trattenuta a stento dalle forze di polizia. Tempi duri per i petro-stati. Se poi si considera che l’export dell’Azerbaijan è basato al 95% sugli idrocarburi si fa presto a intuire la parabola dell’economia del paese precipitata in poco tempo dall’opulenza sfarzosa alla crisi recessiva. I tassi di crescita a due cifre di inizio decennio sono ormai un lontano ricordo e non si intravede ancora luce in fondo al tunnel. Secondo stime approssimate nel 2008, quando il prezzo del petrolio aveva raggiunto i 145 dollari al barile, le casse dello stato hanno incamerato 36 miliardi di dollari e il flusso di denaro è continuato fino al 2013 quando si sono manifestati i primi segni di cedimento dei prodotti petroliferi. Si tratta di quantità enormi se si pensa che la repubblica caucasica conta meno di dieci milioni di abitanti. Dove, poi, sia realmente finito questo fiume di dollari e chi ne abbia veramente beneficiato è tutta un’altra storia.

Panem et circenses

Appuntamento alle otto per la colazione con l’ambasciatrice dell’Unione Europea e puntualmente alle otto mi faccio trovare, come da programma, nella sala da pranzo dell’hotel dove un collega ancora assonnato mi avverte dell’inconveniente. “Anche tu hai sbagliato l’ora?”, mi accoglie ironico Philippe mentre sorseggia il caffè. “No, non posso essermi sbagliato”, ribatto io mostrando l’orario sul mio cellulare. Purtroppo ha ragione lui indicandomi l’orologio appeso alla parete che segna le sette. Entrambi cerchiamo di capire come possa essere accaduto il pasticcio. Come in tutti i paesi europei anche quest’anno in Azerbaijan a fine marzo avrebbe dovuto entrare in vigore l’ora legale. Un ripensamento dell’ultimo momento, però, ha indotto il presidente Alyiev a convocare una riunione straordinaria della commissione scientifica delegata in materia che ha stabilito che per l’anno in corso non ci sarebbe stato il cambio dell’ora. Essendo computer e smart phone programmati oramai da tempo sull’orario estivo i cittadini azeri hanno fatto ricorso in tutta fretta a software di aggiornamento messi a disposizione gratuitamente dalle case produttrici. Non così i viaggiatori stranieri che capitano da queste parti che usano apparecchi elettronici ignari, ovviamente, delle decisioni prese dalle autorità azere. Inconveniente bizzarro a prima vista salvo scoprire, poi, che, secondo le malelingue, sono state esigenze televisive ad obbligare il repentino contrordine. Il 14 giugno fa tappa in Azerbaijan per la prima volta il circo della Formula 1. L’ora legale avrebbe messo a rischio l’indice di ascolto, e quindi gli interessi degli sponsor, nei paesi europei tradizionalmente legati alle corse automobilistiche quindi meglio soprassedere e confermare l’ora solare con buona pace di chi non vuol saperne di Hamilton, Vettel, Ferrari e Mercedes. D’altronde in città fervono ovunque i preparativi per il Gran Premio. Si tratta di un circuito cittadino che attraversa i viali principali della capitale. Operai e mezzi meccanici passano il giorno a stendere e lisciare sulle strade una nuova coltre di almeno venticinque centimetri d’asfalto creando non pochi problemi di inciampo ai pedoni distratti. Dopo i giochi olimpici europei del 2015 il regime offre in pasto all’opinione pubblica internazionale, e a quella domestica, un’altra vetrina dove sfoggiare lustro e prestigio. “Panem et circenses” è una ricetta antica che funziona sempre e garantisce lunga vita a chi è al potere. Salvo poi dover fare i conti il giorno dopo con una realtà tutt’altro che idilliaca rispetto a quanto messo in mostra.

Dalla collina su cui si trova il grande edificio che ospita il Milli Mejlis si gode una splendida vista della baia di Baku. Samad Seyidov, presidente della Commissione Esteri, ci da il benvenuto nel parlamento azero in un’ampia sala accompagnato da altri deputati. Il sorriso e le parole di circostanza mascherano a fatica il disappunto. “Siamo stati i pionieri di Euronest e del dialogo interparlamentare”, esordisce, “ma oggi non ne capiamo più le ragioni”. “Questa assemblea”, aggiunge asciutto, “ci ha portato più mal di testa che benefici e mi riferisco, in particolare, ad alcune risoluzioni adottate che pregiudicano gli interessi del mio paese”. Per Seyidov ormai l’assemblea parlamentare del Partenariato Orientale è una perdita di tempo e di denaro che non merita più alcuno sforzo. L’incapacità europea di gestire i flussi migratori, inoltre, ha messo a nudo la debolezza dell’UE agli occhi dell’opinione pubblica azera. “Noi siamo fondamentalmente pro-europei”, aggiunge il deputato che gli siede a fianco, “ma dopo la fine dell’Unione Sovietica non abbiamo bisogno di un altro grande fratello”, sottolinea usando il termine tradizionalmente riferito all’ingombrante vicino russo. Anche la crisi ucraina, secondo le parole di Seydov, avrebbe contribuito a raffreddare i rapporti con Bruxelles consigliando alla diplomazia di Baku di evitare di cadere nella trappola in cui è precipitata Kiev.

Idrocarburi e frutta secca

Sulla stessa lunghezza d’onda è anche Ogtay Asadov che dal 2005 presiede il parlamento azero. La sala in cui ci accoglie è, forse per ragioni di rango, ancora più spaziosa di quella che ha ospitato il nostro precedente incontro e il corteo degli accompagnatori, fra segretari, portaborse, consiglieri e personale di servizio, ancora più numeroso. Volti attempati sormontati da folte capigliature pettinate all’indietro ricordano per l’aspetto la nomenklatura sovietica. “L’atteggiamento del Parlamento europeo nei confronti del mio paese è fondato su pregiudizi”, inizia con tono pacato ma fermo. “Ho scritto personalmente al presidente Schulz per manifestargli il mio disappunto ma non ho ancora ricevuto risposta”, puntualizza richiamando le risoluzioni di condanna dell’Azerbaijan adottate dall’assemblea di Strasburgo. E riferendosi ai prigionieri politici, che lui accompagna sempre con il termine “cosiddetti” per accentuare che si tratta solo di una nostra opinione, si lamenta del ruolo giocato nella campagna in corso dalle organizzazioni non governative usate, a suo dire, da agenti esterni per aumentare la pressione sul governo di Baku. Per ultimo Asadov mette sul tavolo la carta degli idrocarburi come fosse l’asso nella manica. “Tanap e Tap (NB i due gasdotti complementari che dovrebbero portare il gas azero in Europa attraverso la Turchia, i Balcani e l’Italia)”, enfatizza, “ridefiniranno la situazione energetica del vecchio continente dando una boccata di ossigeno a tutta l’Unione”, conclude convinto che la partita volga a suo favore.

Frutta secca da sgranocchiare sorseggiando il tè sui divani del salone a lato del ristorante riservato ai deputati del Milli Mejlis. Arachidi, pistacchi, noci, nocciole, prugne e albicocche secche sono fra i pochi generi, oltre a gas e petrolio, di cui l’Azerbaijan abbonda tanto da riuscire ad esportarne ai paesi vicini. Ci concediamo una pausa con i padroni di casa in attesa dell’incontro successivo e l’atmosfera si fa più amichevole superando la fredda accoglienza e il clima di sospetto iniziali. Gli scambi di vedute sono più concilianti, qualche battuta ammorbidisce i toni e si intravede anche qualche sorriso. Avevo notato prima di partire che nel programma della visita non era previsto alcun ricevimento ufficiale. Chi frequenta queste zone sa benissimo che l’assenza di un qualsivoglia invito a pranzo o cena è il segnale che gli ospiti non sono graditi. Bastano, però, pochi momenti di cordialità per far cambiare idea al presidente della Commissione Esteri che ci dà inaspettatamente appuntamento la sera in un ristorante della città vecchia rinunciando ad impegni precedenti.

Mahmud Mammad-Guliyev è uno dei quattro sottosegretari che affiancano il ministro degli Esteri. Il nostro arrivo a Baku coincide con la ripresa delle ostilità in Nagorno Karabakh, il conflitto che dalla fine degli anni ottanta contrappone l’Azerbaijan all’Armenia. Era dal 1994, anno in cui venne firmato dalle parti il cessate-il-fuoco, che non si registravano scontri così violenti sulla linea di contatto. Fonti ufficiose parlano di quasi 200 morti e parecchi feriti soprattutto fra i civili. Baku e Yerevan si rimpallano le responsabilità accusandosi a vicenda. La guerra è tornata al centro dell’agone politico con il conseguente vortice di patriottismo che obnubila le coscienze e storna l’attenzione dalla crisi che attanaglia il paese. Inevitabile, quindi, che il vice-ministro concentri il suo intervento sugli ultimi avvenimenti. “La nuova escalation è partita dall’Armenia”, attacca, “con l’obiettivo di impedire l’imminente costruzione del gasdotto che porterà il metano del Mar Caspio in Europa”. “Ci fa piacere, però – aggiunge Mammad-Guliyev – che l’Unione Europea si sia pronunciata a sostegno dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan analogamente a quanto ha fatto in precedenza con Georgia, Moldova e Ucraina”. E per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani il sottosegretario fa presente come nessun paese della regione possa considerarsi indenne dal fenomeno. “E’ sbagliato puntare il dito solo contro di noi”, afferma, “bisogna guardare cosa avviene anche in casa d’altri”, rimarca alludendo a quanto accade nel resto d’Europa.

Bandiere rosse, verdi e blu, i colori azeri, sono appese ovunque. Non c’è pace nel Caucaso vittima di vampate periodiche di nazionalismo con la complicità, il beneplacito e la mano nascosta dopo avere lanciato il sasso della Russia. Mosca è il principale fornitore di armi di entrambi i contendenti. E’ legata all’Armenia da un accordo bilaterale di difesa che contempla anche lo stazionamento di soldati e mezzi militari russi e allo stesso tempo dal 2009 al 2011 ha venduto armamenti all’Azerbaijan per un valore di quattro miliardi di dollari. La guerra conviene a tutti: ad armeni e azeri che periodicamente ricorrono al richiamo dell’unità di patria per tacitare gli oppositori e, soprattutto, ai russi che fanno soldi con la vendita di armi e tengono sotto scacco sia gli uni che gli altri mantenendoli agganciati alla propria area di influenza.

Crisi economica

Un sole lucido e splendente si riflette sulle acque del Caspio. Tante sono le persone che passeggiano nei floridi giardini del lungomare meticolosamente, quasi maniacalmente curati per dar lustro alla capitale. Gli scheletri di due grandi grattacieli con le gru ferme e i cantieri chiusi in bella vista a ridosso della riva ricordano drammaticamente, però, che siamo in tempi di crisi. Secondo le stime ufficiali fornite dalle autorità il tasso di disoccupazione è al 6%. Basta leggere fra le righe per accorgersi, però, che la realtà è ben diversa. Chi possiede anche un piccolo appezzamento di terra per esempio, e sono in molti, in base ai criteri statistici delle agenzie governative viene automaticamente catalogato come agricoltore anche se non svolge attività agricola o se la proprietà non è sufficiente a garantire il sostentamento minimo per campare.

Analisi indipendenti collocano ormai la percentuale dei disoccupati attorno al 20% con più di un milione di azeri partiti per la Russia alla ricerca di un futuro migliore. Le difficoltà economiche sono più evidenti nelle campagne mentre in città gli standard di vita appaiono ancora  accettabili senza considerare il numero abnorme di negozi di generi di lusso che ancora fiancheggiano le vie pedonali del centro, esibendo articoli più per gli occhi che per le tasche degli improbabili clienti.

Dal molo dove partono i battelli che collegano l’Azerbaijan al Turkmenistan si può cogliere una splendida vista di Baku dal basso che si stende e si appoggia sulle alture retrostanti. Spiccano nuovi edifici nello skyline, in particolare il complesso delle “torri di fuoco” nei pressi del parlamento. Sono tre grattacieli di vetro le cui forme stilizzate richiamano una lingua di fuoco dando l’idea da lontano, insieme, di un’unica fiamma. Sono, ormai, diventate il simbolo della capitale di un paese che si definisce con l’appellativo di “terra di fuoco”. E’ in Azerbaijan e nel confinante Iran, infatti, che nacque e si sviluppò migliaia di anni fa il culto di Zaratustra i cui seguaci adoravano il fuoco. C’è ancora un tempio di questa antica religione nella vicina penisola di Absheron che ho avuto occasione di visitare in passato. E le viscere di questo paese in alcune zone sbuffano spontaneamente gas naturale in superficie producendo spettacolari fuochi perenni. L’industria del petrolio ha fatto la storia di Baku determinandone splendori e miserie. La zona sudorientale della capitale ospitava un tempo gli insediamenti principali del settore petrolifero. Veniva chiamata “black city”, città nera. Quando la produzione si spostò altrove rimase solo desolazione, degrado, rovine e sporcizia. Negli anni scorsi il governo della città ha adottato un ambizioso piano di recupero ribattezzando idealmente la vasta area “white city”, città bianca, con l’obiettivo di costruire moderni quartieri residenziali per 50.000 persone. L’unica testimonianza del passato rimasta è Villa Petrolea, la residenza della famiglia Nobel venuta dalla Svezia sulle sponde del Caspio a fine Ottocento per cercare fortuna. E’ una tappa obbligata per l’eurodeputata finlandese che accompagno la cui nonna centenaria nacque proprio qui da una delle tante famiglie europee chiamate dallo zar in Azerbaijan a sviluppare la tecnologia di estrazione degli idrocarburi. Foto, cimeli e mobili d’epoca arredano le stanze dell’elegante edificio trasformato oggi in un club esclusivo dall’élite petrolifera locale.

Baku e i diritti umani

Baku è bella di giorno ma forse lo è ancora di più quando cala l’oscurità. In un caratteristico ristorante ricavato da un vecchio caravanserraglio riadattato nella città vecchia ci aspettano di nuovo i rappresentanti del parlamento azero. E’ molto più facile discutere a tavola che nelle austere sale del Milli Mejlis. Anche se fra le genti del Caucaso meridionale sono quelli che più hanno mantenuto il compassato stile sovietico, gli azeri a cena manifestano allegria e convivialità. Cibo e vino non mancano sull’imponente desco in legno massiccio con verdure di stagione e piatti freddi di salse appena speziate che precedono le tradizionali portate principali di carne, in particolare di montone, che io, da buon vegetariano guardo appena. Si parla di tutto e non appena si presenta l’occasione solleviamo di nuovo la questione dei diritti umani. “Se fosse per me”, confessa Seyidov, “avrei già rimesso in libertà tutti quelli che voi chiamate prigionieri politici ma occorre rispettare l’indipendenza della magistratura”. “Non bisogna dimenticare”, aggiunge, “che queste persone sono accusate di gravi reati”. Frode fiscale, malversazione, finanziamenti illeciti, alto tradimento sono alcuni dei capi di imputazione che il regime azero ha usato in questi anni per silenziare attivisti come Leyla Yunus, Rasul Jafarov e Khadija Ismayilova, coraggiosi esponenti del mondo non governativo locale che si battono da anni per difendere e fare rispettare i diritti di tutti.

Ci congediamo convinti di essere riusciti a rompere il ghiaccio facendo breccia nell’iniziale diffidenza della controparte. Fuori ci aspetta Baku di notte che appare fascinosa, rivestita di un’efficace e abile illuminazione che ne valorizza gli angoli più suggestivi. Passeggiare lungo le mura della città vecchia costeggiando gli eleganti edifici di inizio secolo scorso è una bella esperienza con i giochi di luce sullo sfondo che trasformano in fiamme ardenti le torri di fuoco simulando quasi un incendio.

Appelli, lettere e risoluzioni non sono caduti nel vuoto. Già un paio di settimane prima della nostra partenza il presidente Ilham Aliyev aveva concesso la grazia ad una decina di difensori dei diritti umani. Il compito non dichiarato della missione era anche quello di ristabilire i contatti con la società civile azera portando sostegno e solidarietà a chi guarda e si rivolge all’Europa come modello di democrazia e di tutela delle libertà civili. Molto si è discusso e si discute fra le forze politiche a Bruxelles sull’opportunità e l’efficacia dei testi adottati dal Parlamento europeo. C’è chi li giudica controproducenti e dannosi perché complicherebbero e renderebbero ancora più difficile la vita di chi si vorrebbe difendere, mentre altri ritengono che non sia possibile tacere di fronte a violazioni flagranti che contraddicono i valori su cui è nata e si fonda la stessa Unione Europea. Nel redigere le risoluzioni anch’io mi interrogo, a volte, sull’utilità di quello che scrivo e ogniqualvolta si presenta l’occasione di incontrare le persone oggetto dei miei testi pongo loro la domanda per ottenere conforto.

Intigam Aliyev (nessun legame di parentela con il presidente) è il più noto avvocato azero protagonista di tante battaglie in difesa dei diritti umani. Lo incontriamo nell’ambasciata dell’UE pochi giorni dopo la sua scarcerazione. Due anni di prigione non sono pochi e risultano ancora più pesanti se si basano su accuse inventate di sana pianta dal regime, miranti solo ad impedire il suo instancabile impegno civile. “Grazie del vostro sostegno e del sostegno di tutto il Parlamento europeo”, esordisce sorridente, “ma non so se debbo essere felice per la mia liberazione o triste per la situazione in cui versa la società civile in Azerbaijan”. “E’ importante che nei colloqui con le autorità voi solleviate la questione dei finanziamenti internazionali alle organizzazioni non governative”, osserva preoccupato, “che, di fatto, le nuove leggi rendono impossibile”. Intigam si riferisce alle recenti disposizioni che obbligano donatori come l’Unione Europea a passare attraverso complicate procedure burocratiche che in pratica bloccano gli aiuti alle associazioni che si occupano dei diritti dell’uomo. Lo trovo in forma e per nulla provato nonostante il lungo periodo di detenzione. E alla mia domanda se fosse servita alla sua causa la risoluzione dell’europarlamento di settembre risponde determinato: “Quando ci è arrivata la notizia abbiamo festeggiato in cella”. “Quello che avete fatto”, afferma risoluto, “ci ha dato forza, morale e legittimità”, conclude sottolineando come sia necessario non rinunciare mai ai principi per cui ci si batte, specialmente con i regimi autoritari. Lo stesso concetto ci viene ripetuto anche dagli altri rappresentanti della società civile che incontriamo successivamente. “Una volta tornati a Bruxelles non dimenticate che i miei colleghi sono in galera per gli stessi vostri ideali europei”, ci ricorda una di loro con un appello accorato che suona come monito.

Una moderna superstrada trafficata collega la capitale all’aeroporto. Ai lati passano davanti ai miei occhi in rapida successione il villaggio olimpico, oggi riadattato in quartiere residenziale, il nuovo stadio e l’arena. Tutto luccica, tutto risplende. Fuoco nel sottosuolo, fuoco in superficie. Bella gente, bella città. Ghiaccio bollente fra Baku e Bruxelles.

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Genocidio degli Armeni: Canosa primo Comune della Bat che lo riconosce come crimine contro l’umanità (Ilovecanosa.it 19.05.16)

Il Comune di Canosa è il primo nella provincia di “Barletta-Andria-Trani” ad aver riconosciuto ufficialmente il genocidio degli Armeni come crimine contro l’Umanità. Ad annunciarlo è l’assessore alla Cultura e Pubblica istruzione, Sabino Facciolongo.

“L’Amministrazione comunale di Canosa – dichiara Facciolongo – nella seduta di Giunta del 17 maggio scorso, ha espresso la propria condanna per le violenze perpetrate a carico di quel popolo, ormai da un secolo a questa parte. Il problema della sopravvivenza fisica e culturale del popolo armeno è infatti questione ormai annosa, che coinvolge grandi potenze europee e mondiali, come la Turchia e la Russia, ed ha riflessi diretti sulla stessa adesione della Turchia all’Unione Europea”.

Un problema talmente sentito da convincere la Comunità internazionale a determinare il 24 aprile come “Giornata del ricordo per il genocidio degli Armeni”. “La domanda potrebbe nascere spontanea – prosegue Facciolongo -: perché un Comune pugliese dovrebbe ricordare una tragedia così distante geograficamente da esso? Cosa accomunerebbe la nostra realtà a quella di quel Paese? La risposta è semplice: il valore della pace che è strettamente interconnesso alla qualità del nostro vivere civile. Perciò prendere coscienza della necessità di sostenerlo in qualunque parte del mondo esso appaia un pericolo, è uno dei modi per poterne ribadire la necessità anche per il nostro territorio. Non siamo un’isola e ciò che ci accade è anche frutto di ciò che succede a livello nazionale ed internazionale,  è bene ricordarlo. Viviamo infatti in un mondo sempre più interconnesso e, pur stando attenti a ciò che succede nella nostra città, non possiamo di tanto in tanto non sollevare lo sguardo oltre il nostro immediato orizzonte. Lo ha compreso bene anche l’attivissimo Club per l’Unesco di Canosa, con la sua presidente Patrizia Minerva ed i suoi collaboratori , anima e principale fonte di stimolo di questa iniziativa. Un’associazione che si sta facendo sempre più incisiva sul territorio svolgendo, al pari delle altre di cui è fortunatamente ricca la città, un’azione encomiabile nell’inserire la nostra Comunità nell’alveo delle nobili iniziative di cui  l’Unesco si fa promotrice a livello internazionale”.

E proprio in tale contesto si inserisce l’incontro “Armenia tra fede e cultura”, che si svolgerà il prossimo 21 maggio presso la Cattedrale di Canosa, alle ore 20.00, alla  presenza delle figure più rappresentative della comunità canosina, oltre che di autorevoli  studiosi della questione armena. L’incontro sarà preceduto, all’inaugurazione, nell’androne del Museo dei Vescovi, della mostra fotografica “Lo sguardo di Aznive”, che sarà visitabile dal 22 al 28 maggio. “Incontrarsi in uno dei luoghi più significativi della nostra Città – conclude il sindaco Ernesto La Salvia – ed il riconoscimento ufficiale dell’Amministrazione comunale, a nome di tutti i canosini, evidenziano quanta importanza annetta Canosa al ricordo di questo evento, certi come siamo che il valore della pace non abbia colore o latitudine, e che sia quanto mai necessario riaffermarlo soprattutto mentre piccole o grandi illegalità purtroppo  continuano a  caratterizzare la nostra convivenza civile”.

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