Genocidio armeno e sionismo (da Centro Studi Giuseppe Federici 21.04.16)

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza 
Comunicato n.36/16 del 21 aprile 2016, Sant’Anselmo
 
Genocidio armeno e sionismo
 
Il 24 aprile 2016 ricorre il 101° anniversario del genocidio armeno, relativo a circa 1.500.000 cristiani armeni (cattolici e scismatici) sterminati dai Turchi. Sull’argomento segnaliamo un articolo pubblicato l’anno scorso dal quotidiano israeliano “Haaretz”, relativo al ruolo che avrebbe avuto Theodor Herzl, padre del Sionismo, nella vicenda. 
 
Come Herzl liquidò gli armeni
 
Herzl sostenne il brutale sultano ottomano contro gli Armeni, credendo che questo inducesse il sultano a vendere la Palestina agli ebrei, di Rachel Elboim-Dror, Professoressa emerita di storia e cultura alla Hebrew University (“Haaretz” del 1/5/2015)
 
La questione armena ha interessato il movimento sionista sin da quando i turchi fecero un massacro di armeni alla metà degli anni 1890 – prima ancora del Primo Congresso Sionista. La strategia di Herzl si basava su un progetto di scambio: gli ebrei avrebbero pagato l’enorme debito dell’Impero Ottomano, e in cambio avrebbero ottenuto la Palestina e la possibilità di stabilirci uno stato ebraico, col consenso delle maggiori potenze. Herzl aveva cercato in ogni modo di persuadere il sultano Abdul Hamid II ad accettare, ma senza successo.
“Invece di offrire soldi al Sultano,” gli disse il suo agente diplomatico Philip Michael Nevlinski (che fece da consulente anche al sultano), “offrigli appoggio politico sulla questione armena e vedrai che accetterà la tua proposta, almeno in parte.” I paesi cristiani d’Europa avevano criticato l’assassinio dei cristiani armeni ad opera dei musulmani, comitati a sostegno degli armeni erano stati costituiti in vari paesi e l’Europa offriva anche rifugio ai leader della rivolta armena. Questa situazione rendeva assai difficile per la Turchia ottenere prestiti dalle banche europee.
Herzl seguì con entusiasmo il consiglio. Pensava fosse giusto tentare ogni strada per affrettare la nascita di uno stato ebraico. Acconsentì quindi a servire come strumento del Sultano e cercò di convincere i leader della rivolta armena che se si fossereo arresi al Sultano, questi avrebbe accolto alcune delle loro richieste. Herzl cercò anche di mostrare all’Occidente che la Turchia era anzi molto umana, che non aveva altra scelta che gestire in quel modo la rivolta armena, e che voleva la fine del conflitto e l’intesa politica. Dopo molti tentativi, il 17 maggio 1901 ebbe anche un incontro con il Sultano.
Il Sultano sperava che Herzl, giornalista famoso, sarebbe stato capace di mutare l’immagine negativa dell’Impero Ottomano. Quindi Herzl lanciò un’intensa campagna per soddisfare il desiderio del Sultano, presentando se stesso come un mediatore per la pace. Stabilì contatti ed ebbe incontri segreti con i ribelli armeni, nel tentativo di convincerli a cessare ogni violenza, ma i ribelli non si convinsero della sua sincerità e non credettero alle promesse del Sultano. Herzl tentò anche energicamente di usare per il suo disegno i canali diplomatici europei, che lui conosceva molto bene.
Come era nel suo carattere, non si consultò con altri leader del movimento sionista, e continuò ad agire in segreto. Tuttavia, occorrendogli un aiuto, scrisse a Max Nordau cercando di cooptarlo al suo progetto. Nordau rispose con un telegramma di una parola: “No”. Nella sua ansia di ottenere dai turchi la concessione della Palestina, Herzl dichiarò pubblicamente – quando l’annuale Congtresso Sionista era già iniziato – che il movimento sionista esprimeva la sua ammirazione e la sua gratitudine per il Sultano, sollevando le proteste di alcuni rappresentanti.
Il principale oppositore di Herzl su questa questione era Bernard Lazare, un intellettuale ebreo francese di sinstra, noto giornalista e critico letterario, che si era distinto nella battaglia contro il processo Dreyfus ed era un sostenitore della causa armena. Era così infuriato contro l’operato di Herzl che si dimise dal Comitato Sionista e abbandonò del tutto il movimento nel 1899. Lazare pubblicò una lettera aperta a Herzl in cui chiedeva: come è possibile che chi pretende di rappresentare un antico popolo la cui storia è scritta col sangue, offra una mano a degli assassini senza che nessun delegato del Congresso Sionista si levi a protestare?
Questo dramma che ha coinvolto Herzl – un leader che ha messo in secondo piano ogni considerazione umanitaria e si è posto al servizio del potere turco in nome dell’ideale di uno stato ebraico – è solo uno dei molti esempi di conflitto tra obiettivi politici e principi morali. Israele si è trovata più volte di fronte a simili tragici dilemmi, come dimostra la sua ormai annosa posizione di non riconoscre ufficialmente il genocidio armeno, così come da altre più recenti decisioni che riflettono la tensione esistente tra valori umanitari e considerazioni di realpolitik.
 
 
 
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Iran e Armenia guidano la nuova era della cooperazione internazionale (Lifegate.it 21.04.16)

L’Armenia cerca di crescere economicamente aggiungendo l’ultima pedina allo scacchiere euroasiatico. E c’è un nuovo protagonista: l’Iran.

Ora che le sanzioni commerciali nei confronti dell’Iran sono state abolite, il paese asiatico si trova di fronte a un’infinità di occasioni. Alla luce di questa nuova realtà, l’Iran sta unendo le forze con l’Armenia per cercare modi alternativi di fare affari e crescere economicamente.

Perché l’Iran crede nell’Armenia?

Negli ultimi due anni l’Armenia si è impegnata molto per riformare il proprio settore commerciale con l’obiettivo di diventare una piattaforma stabile e promettente dove fare affari. Dato che l’Armenia può costituire un ambiente neutrale, se l’Iran investe in questa nazione avrà presto l’opportunità di immettersi in mercati più ampi a cui prima non poteva accedere, tra cui quello dell’Unione Europea (Eu) e dell’Unione economica eurasiatica (Eeu).

L’Armenia gode – come previsto dal trattato dell’Eeu firmato alla fine del 2014 – del trasferimento di beni ammesso tra i paesi membri, cioè il Kazakistan, la Bielorussia, il Kirghizistan e la Russia. I prodotti armeni possono inoltre essere collocati sul mercato europeo a un prezzo competitivo. Il Sistema di preferenze generalizzate (Spg +) garantisce l’esportazione preferenziale di settemila prodotti armeni in Europa senza che questi vengano fermati in dogana.

Il corridoio che collega l’Europa all’Asia

Avere buone infrastrutture è la condizione necessaria per fare affari in modo efficiente e per creare un ambiente affidabile. A tal proposito l’Armenia ha iniziato a lavorare a un paio di progetti che ridurrebbero i costi e i tempi di trasporto. Uno di questi è il corridoio che collega l’Europa all’Asia e che coinvolge il confine tra Armenia, Georgia e l’Iran. Nel dicembre 2015 due sezioni del corridoio sono già state aperte.

Il progetto consiste nel miglioramento, ove possibile, delle strade già esistenti e nella costruzione di nuove strade dove ce n’è bisogno. Grazie a questo progetto la vita degli abitanti armeni potrebbe cambiare considerevolmente perché i tempi di spostamento saranno ridotti da tre a due ore, secondo alcune stime. Oltre al guadagno economico e sociale, c’è un altro aspetto di fondamentale importanza. Da quando l’Armenia ha chiuso le porte a due paesi confinanti (Turchia e Azerbaigian), deve far in modo di mitigare gli effetti di questo blocco.

Ci sono anche nuovi piani per una ferrovia di collegamento e forse per un secondo gasdotto.

Sia l’Iran che l’Armenia stanno facendo del loro meglio per trovare soluzioni alle questioni che attualmente devono affrontare, in modo da trarne vantaggio entrambi. Questa è una nuova era per la cooperazione internazionale e la crescita economica. Per fare sì che tutto ciò diventi realtà, l’Armenia si sta impegnando a costruire infrastrutture che favoriscano gli scambi commerciali tra le due nazioni

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I curdi denunciano: sulla Turchia l’ombra del genocidio degli Armeni (Secoloditalia.it 20.04.16)

Su Ankara l’ombra di un nuovo genocidio degli Armeni, circostanza sempre negata con forza dalla Turchia? Oggi l’incubo potrebbe ripetersi, denunciano i curdi, la minoranza etnica una parte della quale abita in Turchia. Dall’inizio delle operazioni militari contro il Pkk (partito terrorista curdo, di ispirazione comunista) nel sud-est della Turchia la scorsa estate «sono stati uccisi oltre 200 civili». Lo ha detto il leader del partito filo-curdo Hdp (Partito democratico del popolo, molti simile al greco Syriza), Selahattin Demirtas, presentando a Istanbul un rapporto sui 79 giorni di coprifuoco totale a Cizre, nella provincia sudorientale di Sirnak. «Abbiamo avviato contatti con Qandil (la leadership del Pkk in nord Iraq, ndr) per sostenere la ripresa di negoziati di pace, ma il governo non vuole tornare a trattare», ha aggiunto Demirtas, che ha accusato: «Nel sud-est della Turchia il governo turco ha compiuto e continua a compiere massacri di civili con la scusa della guerra al terrorismo. Il partito Akp (del presidente Recep Tayyip Erdogan) ha violato la legge molto più del Pkk». Demirtas ha concluso:«Anche se al momento non ci sono in Turchia magistrati abbastanza coraggiosi da sfidarlo, un giorno questo governo dovrà rendere conto dei massacri compiuti davanti a un tribunale internazionale. Fino ad allora, noi raccoglieremo prove sufficienti per farlo condannare», ha aggiunto il leader dell’Hdp.

I curdi minacciano di ricorrere a un tribunale internazionale

Intanto intensi scontri armati sono in corso nel nord-est della Siria al confine con la Turchia tra forze curde e milizie governative. Lo riferiscono fonti locali all’Ansa, che mostrano video e foto dei combattimenti tra l’aeroporto di Qamishli e il quartiere generale delle truppe di Damasco nella regione a maggioranza curda. Scontri tra le parti si verificano in maniera sporadica e solitamente hanno il carattere di scaramucce. Per numero di miliziani coinvolti e di uccisi – si parla di almeno 7 vittime finora – i combattimenti di queste ore sembrano indicare un innalzamento della tensione nell’area. Due giorni fa inoltre l’aviazione turca ha compiuto nuovi raid contro obiettivi del Pkk nel nord dell’Iraq. Lo rende noto lo Stato maggiore di Ankara, precisando che a colpire sono stati 22 jet da combattimento F-16 e F-4, che hanno preso di mira la regione di Gara. Nei raid, aggiunge la nota dei militari, sono stati distrutti depositi di munizioni, bunker e rifugi utilizzati dai ribelli curdi. E in questi giorni ìsi assiste a un irrigidimento di Ankara nei confronti della stampa: il direttore dell’edizione turca dell’agenzia di stampa filo-governativa russa Sputnik, Tural Kerimov, è stato respinto la scorsa notte all’aeroporto Ataturk di Istanbul, dove era giunto da Mosca su un volo Aeroflot. Lo rende noto la stessa agenzia, mostrando il relativo documento di “passeggero inammissibile”. Come già avvenuto in casi simili, le autorità turche non hanno fornito motivazioni ufficiali per il provvedimento. Nelle prossime ore è prevista l’espulsione di Kerimov in Russia. Secondo media turchi, al giornalista sono anche stati cancellati l’accredito stampa e il permesso di soggiorno. Martedì invece l’ingresso in Turchia era stato negato nello stesso aeroporto a Volker Schwenck, corrispondente per il Medio Oriente della tv pubblica tedesca Swr, poi rientrato al Cairo da cui era partito. Venerdì il sito di Sputnik era stato oscurato in Turchia, dove gli indirizzi web anti-governativi inaccessibili – soprattutto curdi – sono migliaia.

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Erdogan furioso per il rapporto Ue sulla Turchia, ‘influenzato dai curdi’

Armeni, Ebrei: l’orrore comune e il coraggio. (La Stampa 20.04.16)

marco tosatti

Fra quattro giorni gli Armeni in tutto il mondo commemorano l’inizio del Genocidio degli Armeni a Costantinopoli, un massacro organizzato dall’allora governo turco (il Trumvirato) e che ancora oggi il governo di Ankara si ostina a negare con un’attiva propaganda negazionista. Il risultato fu la morte programmata ed eseguita scientificamente di un intero popolo: un milione e mezzo di uomini, donne e bambini furono cancellati in mezzo a sofferenze inaudite nei campi di raccolta e nei deserti siriani. Esiste un legame stretto fra quel genocidio, il primo del secolo dei genocidi, e quello che avrebbe colpito qualche decennio più tardi il popolo ebraico. La Fondazione Raoul Wallemberg ricorda oggi la rivolta del ghetto di Varsavia, che ebbe inizio il 19 aprile del 1943, e durò fino al 16 maggio dello stesso anno, quando le ultime sacche di resistenza furono schiacciate dai nazisti. E afferma che “La rivolta…fu ampiamente ispirata dall’esempio dato dagli armeni nel 1915.”

Dieci anni prima uno scrittore austriaco di origine ebraica, aveva scritto “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, un romanzo basato su fatti storici reali. Raccontava di come sette villaggi, situati sulla costa siriana, ora Turchia, su un’altura chiamata Mussa Dagh, il “monte di Mosè” aveva resistito con le armi per oltre 45 giorni all’esercito turco che voleva deportarli, fino a che non furono salvati da un intervento della flotta francese.

“Secondo testimonianze e racconti storici – scrive la Raoul Wallemberg Foundation – il libro di Werfel era molto popolare fra la gente del ghetto di Varsvia, servendo come ispirazione alla loro rivolta imminente”. Non è questo il solo legame fra ebrei e armeni. La Fondazione offre la storia di Harutyun Khachatryan che trovate a questo LINK (in inglese). La Fondazione ha deciso di rendere omaggio a Franz Werfel, con un francobollo postale emesso da Israele.

Il presidente della Fondazione, Eduardo Eurnekian, afferma che “E’ nostro dovere mantenere viva la coraggiosa eredità mostrata da quanti hanno salvato (ebrei) e di tutti gli eroici combattenti che hanno partecipato alla Rivolta del Ghetto di Varsavia, molto ispirata dai coraggiosi Armeni che erano stati perseguitati tre decadi prima. E’ nostro dovere istillare le loro azioni nei cuori e nelle menti delle giovani generazioni”. Il legame fra i due genocidi ha anche altre radici, e collegamenti diretti e profondi, che potete trovare QUI (in italiano) .

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Le comunità cristiane fanno ricorso contro l’espropriazione delle chiese di Diyarbakir (Agenzia Fides 19.04.16)

Diyarbakir (Agenzia Fides) – I rappresentanti della Fondazione siriaca e gli esponenti della locale comunità cristiana evangelica hanno presentato ricorso alla Corte di Diyarbakir contro la disposizione di esproprio urgente con cui il governo turco, a fine marzo, ha sequestrato un’ampia area della metropoli che sorge lungo la riva del fiume Tigri, nel quadro delle operazioni militari messe in atto nella Turchia meridionale contro le postazioni curde del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Nell’area urbana sequestrata sorgono tutte le chiese presenti a Diyarbakir.
La disposizione di esproprio del governo (vedi Fides 30/3/2016) era stata pubblicata anche sulla Gazzetta ufficiale del Consiglio dei Ministri, e ha coinvolto la chiesa armena apostolica di San Giragos (Ciriaco), la chiesa siriaca dedicata alla Vergine Maria, la chiesa caldea di Mar Sarkis (San Sergio), la chiesa armeno-cattolica e un luogo di culto protestante, oltre a più di 6mila abitazioni, dislocate in gran parte nel centro storico. Già al momento dell’esproprio, nessuna chiesa cristiana di Diyarbakir risultava aperta al culto.
Il sequestro dell’area era stato giustificato come misura preventiva presa con procedura d’urgenza per salvaguardare il centro storico di Diyarbakir dalle devastazioni provocate dal conflitto. Già nei primi giorni dopo l’esproprio, Nevin Solukaya, a capo dell’Ufficio per la Cultura della città di Diyarbakir, aveva suggerito ai responsabili delle Fondazioni che risultano come titolari delle diverse chiese espropriate, di presentare ricorso contro la nazionalizzazione.
La chiesa armena di San Ciriaco, recentemente restaurata dopo lunghi anni di abbandono e estenuanti trattative con le autorità civili, è una delle più grandi chiese armene di tutto il Medio Oriente, e vanta una storia secolare. (GV) (Agenzia Fides 19/4/2016).

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La tragedia degli armeni di Siria, cent’anni dopo il “genocidio” (Lastampa.it 19.04.16)

Quando papa Francesco arriverà in Armenia, il 24 giugno, non troverà solo la prima nazione al mondo ad avere abbracciato il Vangelo. Convertiti al cristianesimo già all’inizio del IV secolo grazie all’opera di san Gregorio Illuminatore, gli armeni hanno fatto di questa religione un fondamento della loro identità per tutto il corso della loro storia. Il Pontefice troverà anche una parte di quell’umanità sofferente a cui è andato incontro nel suo ultimo viaggio a Lesbo.

 

Questo piccolo paese di 3 milioni di abitanti ha un cuore grande. A cinque anni dallo scoppio del conflitto siriano, l’Armenia ha accolto oltre 20mila rifugiati: il terzo paese in assoluto in Europa, secondo i dati riportati dall’Economist alla fine dell’anno scorso. Assai più di tante nazioni più ricche e popolose, inclusa la nostra.

Un esempio di solidarietà fra correligionari, certo, dato che la larghissima parte di questi rifugiati sono cristiani e armeni. Ma non solo: fra loro si trovano anche musulmani e yazidi provenienti dall’Iraq, che hanno in costruzione un nuovo tempio nel villaggio di Analish, in Armenia. All’origine di questa grande solidarietà è il dramma di una comunità, quella armena di Siria, che a un secolo dal «Genocidio» sembra condannata a rivivere lo stesso orrore. Un esodo, il loro, che ripropone una pagina che investì i loro padri e i loro nonni. Proprio in Siria approdarono infatti i pochi sopravvissuti alle marce della morte del 1915, e la comunità siriana è composta in larga parte dei loro discendenti.

 

Si stima che, degli oltre 100mila armeni presenti in Siria prima dell’inizio del conflitto, solo 10mila si trovino ancora nel paese. Tantissimi gli armeni che hanno perso la vita a causa della guerra, combattendo o come vittime civili, mentre molti altri sarebbero rapiti o scomparsi. Un colpo durissimo per la comunità è stato – nel settembre del 2014 – la distruzione della chiesa armena di Deir al-Zor, che fungeva da memoriale per il «Genocidio». La città siriana di Deir al-Zor fu la destinazione a cui giunsero da occidente, stremati, i pochi sopravvissuti allo Metz Yeghern, il «Grande Crimine» perpetuato dai turchi ottomani. Oltre a questa, sono novanta le chiese armene in Siria danneggiate o distrutte dalla guerra in questi cinque anni, secondo i dati forniti dalla comunità.

 

Uno dei problemi maggiori legati all’attuale presenza armena in Siria è che più dell’80% di loro, prima della guerra, risiedeva ad Aleppo, che a partire dal luglio 2012 è stata al centro di una interminabile battaglia che ha ridotto la città a poco più di un cumulo di macerie. Larghissima parte degli armeni ha lasciato la città, cercando rifugio nella più sicura Damasco, insieme a molti altri cristiani provenienti dai centri minori del paese. Un’antica presenza armena si trovava anche a Raqqa, l’attuale «capitale» del califfato dell’Isis, dove la situazione è ancora più drammatica. Oltre che in Armenia, altri 15mila di loro si trovano in Libano, secondo le stime.

 

Ai rifugiati siriani viene offerta la cittadinanza armena in pochi mesi, e spesso anche un aiuto per ciò che riguarda l’alloggio. E così, nonostante la povertà e le scarse possibilità di trovare lavoro offerte dal paese, oltre l’80% dei profughi siriani ha preferito restare a vivere in Armenia, anziché cercare fortuna altrove. Un dramma, il loro, che è parte di quella tragedia siriana a cui il mondo sembra restare indifferente. Non il Santo Padre che – ne siamo certi – troverà anche molti di questi profughi ad accoglierlo al suo arrivo. Quella parola, «Genocidio», pronunciata da papa Francesco lo scorso aprile, ha significato molto per loro.

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Venti di guerra (L’opinione 19.04.16)

Si sono accusati a vicenda, gli azeri da una parte e le autorità del Nagorno-Karabakh dall’altra, della violazione del cessate il fuoco che ha riacceso drammaticamente nei giorni scorsi il conflitto mai sopito tra Azerbaigian e Repubblica del Nagorno- Karabakh, provocando numerosi morti tra i due schieramenti. Gli osservatori stranieri hanno difficoltà a capire la dinamica dell’accaduto e resta un mistero anche il numero preciso delle vittime: quello che è certo è che lungo la caldissima frontiera si sono affrontati carri armati, elicotteri e l’artiglieria pesante con i razzi Katiuscia. Le fonti delle forze di autodifesa dei secessionisti a Stepanakert, la capitale del Nagorno- Karabakh, sostengono di aver ucciso almeno 200 soldati di Baku, tra i quali diversi elementi delle truppe speciali; il portavoce del ministero della Difesa azero parla invece di 100 caduti nemici e molti mezzi distrutti. Sono stati colpiti però anche insediamenti civili lungo la frontiera, molte case sono state distrutte e ci sarebbero anche vittime innocenti tra la popolazione.

Lo scoppio delle ostilità ha sorpreso anche la Russia, che è il garante della fragile tregua nel Nagorno-Karabakh e che si è subito attivata. Il presidente russo Putin ha rivolto un appello pubblico ai presidenti dell’Armenia, Serž Sargsyan – la popolazione del Nagorno-Karabakh è di origine armena e sono strettissimi i rapporti tra Erevan e la repubblica secessionista – e dell’Azerbaigian, Aliyev, sollecitando un immediato cessate il fuoco e li ha invitati ad usare la massima moderazione per impedire altre vittime. Il ministro della Difesa russo, Sergey Shoygu, ha inoltre telefonato ai colleghi sia di Baku che di Erevan ed ha messo a disposizione le truppe russe che si trovano nell’area per creare una zona cuscinetto tra i due schieramenti. Mosca schiera in Armenia una brigata aerea con i nuovissimi Mig 29S presso la base aerea di Erebuni a pochi chilometri dalla capitale Erevan e la 102 Divisione dell’Esercito russo è di stanza nella città di Gyumri, nella parte nord occidentale del paese.

Il riacuirsi del conflitto in Nagorno-Karabakh preoccupa non poco il Cremlino, che vuole evitare un altro fronte caldo alle porte di casa, con la crisi ucraina ancora da archiviare, la guerra in Siria e le tensioni con la Turchia ancora vive. Il Nagorno-Karabakh è una polveriera sin dai tempi di Stalin, che nel 1923 volle assegnare all’Azerbaigian musulmano l’enclave popolata in prevalenza da armeni cristiani. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1988 gli armeni del Nagorno-Karabakh decisero di staccarsi dal controllo di Baku per riunirsi alla madre Armenia. Le autorità di Baku ovviamente respinsero le istanze secessioniste del Nagorno-Karabakh e iniziarono scontri tra le due fazioni che ben presto assunsero le forme di un conflitto etnico, coinvolgendo direttamente anche l’Armenia che inviò uomini e armi nel Nagorno-Karabakh.

La drammatica guerra tra armeni e azeri è durata fino al maggio del 1994, quando a Biškek, capitale del Kirghizistan, venne firmato tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno- Karabakh, l’“Accordo di Biškek”, che prevedeva il cessate il fuoco tuttora in vigore. Il lungo conflitto ha provocato la morte di oltre 30mila persone, moltissimi civili, tra i quali donne e bambini, 80mila feriti, tra cui numerosissimi amputati, e centinaia di migliaia di profughi. In Armenia non sono rimasti più azeri e dall’Azerbaigian sono scappati gli armeni. Da quella data i rapporti tra Erevan e Baku non si sono mai rasserenati, malgrado i frequenti incontri tra le autorità dei due Paesi e gli sforzi di mediazione internazionali, primi tra tutti quelli di Mosca. Il Nagorno Karabakh resta formalmente un’enclave azera – Baku non ha mai accettato l’autoproclamatasi repubblica – che però è di fatto indipendente, con forti legami con l’Armenia.

E la frontiera continua ad essere vigilatissima da parte dei militari dei due schieramenti, con sporadici episodi di cecchinaggio tra i due lati, in una sorta di conflitto congelato. Sulla situazione in Nagorno-Karabakh si sono succedute commissioni dell’Onu che hanno perfino approvato all’unanimità risoluzioni mai poi applicate; l’Osce, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha costituito nel 1995 il Gruppo di Minsk allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata del conflitto, che però stenta a trovare una quadra tra i due contendenti. Forze di interposizione, prevalentemente russe, sono state poi dispiegate dopo ogni violazione del cessate il fuoco e ce ne sono state diverse da entrambe le parti. L’unica cosa che si è riuscita a ottenere in quasi trent’anni è stata una tregua davvero precaria. Lo schieramento di armi e uomini al confine è massiccio. L’Armenia è sostenuta dalla sua numerosa diaspora in tutto il mondo e dalla Russia; la Repubblica islamica dell’Azerbaigian ha nella Turchia, con cui il Paese vanta storici legami e una lingua simile, il più stretto alleato.

Ankara non ha mancato recentemente di esprimere aperte critiche verso l’Armenia, accusata di fomentare il conflitto contro Baku, attraverso le milizie del Nagorno- Karabakh. Secondo fonti dell’intelligence russa, non verificate, Erdogan avrebbe perfino ordinato ai soldati turchi di rafforzare le posizioni sulla frontiera con l’Armenia. E quando si parla di Turchia e Armenia il ricordo va al martirio di oltre 1,5 milioni di armeni, il cui centenario è stato celebrato lo scorso aprile con una solenne messa a San Pietro da Papa Francesco.

Il Pontefice ha in programma, tra pochi mesi, una visita pastorale in quella parte del mondo e toccherà anche l’Armenia. C’è da augurarsi che il messaggio di pace che il Papa porterà a quelle genti venga ascoltato da chi ha il potere di far cessare le ostilità. Il mondo ha bisogno di pace non di nuovi conflitti.

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Rassegna di Geopolitica. I combattimenti in Nagorno Karabakh e le tensioni tra Azerbaijan e Armenia (Radioradicale.it 18.04.16)

“Il nuovo scenario geopolitico nel conflitto del Nagorno Karabakh” a cura di Cesi-Italia, marzo 2016.

Puntata di “Rassegna di Geopolitica. I combattimenti in Nagorno Karabakh e le tensioni tra Azerbaijan e Armenia – @rass_geopol” di lunedì 18 aprile 2016 , condotta da Lorenzo Rendi .

Sono stati discussi i seguenti argomenti: Armenia, Azerbaigian, Caucaso, Esteri, Geopolitica, Guerra, Minoranze, Nagorno Karabak, Rassegna Stampa.

La registrazione audio di questa puntata ha una durata di 11 minuti Vai al sito ed ascolta la puntata

Armenia. Hanno trovato casa due orsi dello zoo più triste del mondo (Quotidiano.it 18.04.16)

Gli animali sono stati accolti dal santuario per plantigradi della Romania e hanno scoperto l’erba per la prima volta. Sistemati anche una leonessa con i cuccioli. Speranze per quelli che ancora restano nelle gabbie fatiscenti

Due coniugi del posto hanno sfamato gli animali abbandonati

 
Roma, 18 aprile 2016 – Capriccio di un miliardario e scaricati anche dalle autorità, alcuni degli animali dello «zoo più triste del mondo» – così è stato ribattezzato dai media – della cittadina armena di Gyumri hanno trovato una nuova casa. La buona notizia è per gli orsi Masha e Grisha che insieme a tre leoni e due porcellini d’india vivevano rinchiusi in anguste gabbie in pessime condizioni di salute. Gli animali facevano parte di un piccolo zoo privato allestito da un miliardario armeno che poi è fuggito abbandonandoli al loro destino.

Armenia: salvati gli orsi dello zoo più triste del mondo (Meteoweb 18.04.16)

Salvi gli orsi dello zoo “più triste del mondo” (Tio.ch 18.04.16)

La Turchia massacra i tesori d’arte, peggio dell’Isis (Linkiesta.it 18.04.16)

I devastatori del patrimonio artistico-archeologico mondiale hanno di solito alcune caratteristiche comuni: l’ignoranza, il fanatismo, un deviato senso di superiorità talvolta etnica talvolta religiosa, e l’avidità. Se in tempi recenti il primato in questa classifica è toccato agli uomini dello Stato Islamico – accecati tanto dall’odio verso gli “idoli pagani” distrutti quanto dal profitto verso quelli venduti al mercato nero -, si può valutare se il secondo posto spetti alla Turchia. Che l’accusa cada su un Paese membro della Nato e alleato dell’Occidente – a cui di recente l’Unione europea ha dato sei miliardi di euro per sostenerlo nella gestione dei profughi siriani – può sorprendere, ma la lista degli scempi turchi è lunga e variegata, e nell’ultimo periodo sotto la presidenza di Recep Tayyp Erdogan si è ulteriormente arricchita.

Bombe

Nella Turchia dell’est si sono avvicendate grandi civiltà, come quelle assira, hittita, persiana, greca, romana e bizantina, che hanno lasciato molte tracce. Fortunatamente alcune sono rimaste sepolte sotto terra ma altre – intorno a cui la Storia ha continuato a scorrere portando popoli, città e Stati nuovi – no, e quando le bombe hanno iniziato a cadere sono spesso rimaste danneggiate o distrutte.
La guerra scatenata, nel corso dell’ultimo anno, da Erdogan contro il Pkk curdo nella regione sud-orientale della Turchia ha già devastato Amida (Diyarbakir in turco), città abitata in maggioranza da curdi, che è sito dell’Unesco. La cinta muraria romana del IV sec d.C. è la seconda fortificazione antica più estesa al mondo dopo la muraglia cinese e pare sia gravemente danneggiata, dei meravigliosi edifici bizantini e medievali all’interno della città vecchia in molti casi restano solo calcinacci – altri sono stati parzialmente abbattuti per allargare le strade e far passare i carri armati turchi – e la cattedrale cattolica armena di San Sergio è andata quasi completamente distrutta. Anche il bazar storico, la moschea di Kurşunlu e un antico hammam sono stati gravemente danneggiati. Nisibi (o Nusaybin), altra città della Turchia sud-orientale abitata da curdi, è un importante sito archeologico di epoca romana e da più di 30 giorni consecutivi viene bersagliato dall’artiglieria turca (purtroppo non trapelano notizie né sulle condizioni della popolazione civile, né su quelle dei monumenti).
E Nisibi è solo un esempio: sono decine le città curde – spesso contenenti tesori archeologici di inestimabile valore – oggetto di bombardamenti turchi da più di un mese di cui non si ha nessuna notizia o quasi.

Dighe

Ma in Turchia non sono solo le bombe a minacciare il lascito delle civiltà antiche. Il colossale progetto per l’Anatolia del sud-est (Güneydoğu Anadolu Projesi, GAP), che tramite un vasto sistema di dighe sui fiumi Tigri ed Eufrate dovrebbe rendere coltivabili e più ricche diverse zone depresse del Paese (e al contempo danneggiare l’Iraq e la Siria, che si trovano a valle lungo il corso dei fiumi), è stato portato avanti con un rispetto pressoché nullo per il patrimonio culturale a rischio di allagamento. Se infatti in Egitto e in Siria, quando furono costruite le dighe di Aswan e di Tabqa, si fecero decine di scavi di emergenza e furono salvati i più importanti reperti (in Egitto i templi di Abu Simbel e molti altri meno noti, in Siria vari minareti medievali e il castello di Jabar), in Turchia la diga Ataturk sull’Eufrate – ultimata nel 1992 – ha sepolto in una tomba d’acqua diversi siti archeologici neolitici, la città romana di Samosata (capitale della Commagene e patria dello scrittore greco Luciano), ancora non scavata, e per metà quella di Zeugma, famosa per i meravigliosi mosaici romani frettolosamente messi in salvo dagli archeologi.
Ora, con Erdogan, la storia sta per ripetersi con la diga di Ilisu sul Tigri. La contestatissima costruzione è al momento interrotta a causa della guerriglia del Pkk, che sabota i lavori nella convinzione che la diga sia funzionale a un progetto di colonizzazione su base etnica-turca dell’intera regione. Se venissero ultimati verrebbe sommersa la città di Hasankeyf – storicamente araba/armena, di recente abitata in prevalenza da curdi -, altra perla archeologica (romana, bizantina, araba, armena e mongola) di una Turchia che sembra però ostentare un sempre maggiore disinteresse per i lasciti di civiltà diverse da quella Ottomana.

Abbandono

Un chiaro esempio del suddetto disinteresse – qui anzi sfociato in aperta ostilità – è la città di Ani, capitale dell’Impero Armeno. Distrutta dai mongoli nel XIII secolo, i suoi resti sono rimasti sepolti fino a inizio ‘900. Portati alla luce dall’archeologo Nikolai Marr furono devastati e ri-sepolti negli anni ’20 dai turchi, quando infuriava la guerra con gli armeni supportati dall’Urss. Successivamente per decenni sono rimasti in stato di abbandono, nonostante le prestigiose e frequenti denunce, e solo di recente qualcosa si è cominciato a fare. La Turchia ha promesso di proporre Ani come sito Unesco nel 2016, ma c’è ancora molto scetticismo. Un precedente poco incoraggiante è quello delle mura di Costantinopoli, gioiello ingegneristico dell’Impero Romano d’Oriente, rimaste in stato di abbandono per decenni e riparate negli anni ’80 solo per via delle pressioni straniere. I lavori furono eseguiti talmente male che quando un terremoto colpì Istanbul nel 1993 le parti restaurate crollarono, mentre quelle originali di 1600 anni prima rimasero pressoché intatte.

Islamizzazione

Ultimo affronto – questo esclusivamente imputabile al governo islamista del Akp e al presidente Erdogan – al patrimonio culturale dell’umanità è la pretesa di “islamizzare” luoghi di culto tradizionalmente altrui o, talvolta, in passato trasformati in museo perché tutti potessero goderne.
Il caso più noto è quello di Santa Sofia, il simbolo stesso di Costantinopoli prima e Istanbul poi, già chiesa e già moschea, ora museo. La voce sulle intenzioni di Erdogan gira da anni, e nel 2015 il neo-ministro della cultura e del turismo turco, Yalcin Topcu, ha detto che riaprire la Basilica di Santa Sofia come moschea è il suo “sogno, ambizione e obiettivo”.
Se per ora pare che tale sogno dovrà rimanere nel cassetto, non così bene è andata ad altre chiese meno note all’opinione pubblica mondiale. Un’altra Santa Sofia (ma stavolta nella città orientale di Trabzon), stupenda basilica del periodo dell’Impero di Trebisonda che era stata trasformata da Ataturk in un museo, nel 2012 è tornata ad essere una moschea. I suoi affreschi sono coperti, così come i suoi mosaici. Perché a quanto pare nella Turchia di Erdogan quello che non è turco, e quello che non è islamico, può essere abbandonato, convertito o distrutto senza troppi scrupoli.

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