Nagorno Karabakh. Il punto di vista dell’ambasciatore armeno in Vaticano (Faro di Roma 16.11.21)

“L’Armenia chiede ai partner internazionali di condannare fermamente le azioni dell’Azerbaijan contro la pace e la sicurezza nella regione. La soluzione sarebbe il ritiro completo e incondizionato delle forze militari azerbaijane dal territorio dell’Armenia”. Lo afferma Garen A. Nazarian, ambasciatore dell’Armenia presso la Santa Sede, in risposta alle dichiarazioni del suo omologo azero.

“Mentre l’Azerbaijan parla di pace, le sue forze militari – sostiene Garen A. Nazarian –  compiono attacchi e incursioni al confine orientale del territorio sovrano armeno, causando nuove morti e distruzione. È questa la continuazione della costante politica dell’Azerbaijan di occupazione dei territori armeni, cominciata lo scorso maggio a Syunik e Gegharkunik”.

Secondo L’Ambasciatore armeno, “sulla base della Carta delle Nazioni Unite, l’Armenia ha il diritto di adottare tutte le misure atte a respingere l’uso della forza contro la sovranità e l’integrità del suo territorio”. Mentre, secondo il diplomatico, “per quel che riguarda i prigionieri di guerra,  l’Azerbaigian continua a nascondere il numero reale dei prigionieri di guerra armeni. Inoltre, i processi simulati e l’emissione di lunghe condanne per false accuse contro i prigionieri di guerra illustrano la politica di odio anti-armena e la campagna diffamatoria adottata e promossa in Azerbaigian ai massimi livelli’.

“Questo atteggiamento o, meglio, la politica di discriminazione razziale che persiste in Azerbaigian da decenni si è manifestata più chiaramente – conclude l’ambasciatore armeno –  durante la guerra dello scorso anno, che nel corso di 44 giorni ha portato a violazioni diffuse e sistematiche del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani”.

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L’Azerbaigian chiede aiuto al Vaticano per avviare un dialogo di pace con l’Armenia. Ambasciatore Mustafayev: soluzione per Nagorno Karabakh nell’ambito del diritto internazionale

“L’Azerbaigian vuole approfondire la cooperazione con il Vaticano: lo riteniamo un ponte essenziale”, ha assicurato l’ambasciatore azerbaigiano in Vaticano, Rahman Mustafayev, che ha incontrato alcuni giornalisti in vista dell’apertura a Roma della nuova ambasciata presso la Santa Sede. “Siamo in contatto con i leader religiosi di varie confessioni e posso dire con certezza non ci sono mai state incomprensioni dal punto di vista religioso in Azerbaigian. Lo dimostra il fatto che una nostra delegazione che è stata in visita in Vaticano lo scorso febbraio è composta da cattolici, ortodossi, musulmani e rappresentanti di altre confessioni”, ha detto l’ambasciatore. “I nostri leader religiosi sono in contatto con le loro controparti in altri Paesi. Questo è un ponte essenziale per noi”, ha insistito.

“L’Azerbaigian ha agito sulla base del diritto internazionale, seguendo i dettami dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Tutto ciò che è stato fatto è liberare secondo i nostri diritti il territorio occupato dal 1991”, ha spiegato Mustafayev. “In Francia ci sono alcuni esponenti politici che sostengono che quella fra Armenia e Azerbaigian è stata una guerra religiosa. Io in più di un’occasione ho chiesto ai parlamentari che si sono espressi in questo senso di fornirmi delle spiegazioni in merito. Prima della guerra degli anni Novanta nella regione c’era una comunità multireligiosa e multietnica, c’erano moschee e chiese, un gruppo di persone che copriva 48 minoranze etniche”, ha sottolineato l’ambasciatore. “In Armenia il 99,9 per cento delle persone è armena e non c’è multiculturalismo. A Baku, in uno dei quartieri più importanti, abbiamo una moschea e una chiesa che sono vicine fra loro, e questo è un esempio del nostro approccio multireligioso. Noi vogliamo rafforzare questo aspetto che è già tipico nel nostro Paese”, ha chiarito l’ambasciatore.

Un trattato di pace fra Azerbaigian e Armenia sarebbe la risposta a tutti i problemi della regione del Caucaso, ha aggiunto Mustafayev, nel corso della conferenza stampa. “Dobbiamo innanzitutto delimitare i nostri confini e siglare un accordo di pace. Ci sono stati degli incontri a livello di ministri degli Esteri, mediati dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, e dal ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian. Molto è stato fatto e noi abbiamo consegnato una bozza del piano di pace per cui stiamo aspettando una risposta”, ha aggiunto l’ambasciatore. “Abbiamo bisogno di una soluzione. L’Armenia è un nostro vicino e sotto certi aspetti dipende anche da noi per quanto riguarda i collegamenti internazionali e i trasporti. Ci sono delle problematiche nella regione ma dobbiamo affrontarle trovando un accordo di pace”, ha proseguito Mustafayev.

“L’Armenia ha fornito dei segnali positivi, e di segnali di questo tipo ne abbiamo bisogno anche a livello internazionale. Dobbiamo assolutamente mandare un messaggio positivo e ho chiesto anche al Vaticano di esprimersi in tal senso perché è importante raggiungere questa pace”, ha continuato il diplomatico osservando che “l’Azerbaigian e l’Armenia non possono essere separati l’uno dall’altro perché sono confinanti, non possono trovare delle strade diverse. Dobbiamo trovare il modo per comunicare. Io penso che prima o poi si troverà un accordo e che riusciremo a portare stabilità nella regione. Dobbiamo farlo attraverso la diplomazia e la politica e il Gruppo di Minsk dell’Osce (l’organismo preposto a mediare fra i due Paesi) si sta già adattando a questa nuova situazione nella regione”, ha concluso Mustafayev.

L’Azerbaigian – ha sostenuto il diplomatico – ha restituito all’Armenia tutti i prigionieri di guerra catturati durante il conflitto dello scorso anno. Lo ha detto l’ambasciatore azerbaigiano presso la Santa Sede, Rahman Mustafayev, nel corso di una conferenza stampa a Roma. “Quando parliamo di prigionieri di guerra ci si riferisce a coloro che sono stati catturati durante il conflitto. Le persone arrestate dopo la firma dell’accordo trilaterale del 9 novembre, invece, sono criminali. Il Gruppo di Minsk dell’Osce (l’organismo preposto a mediare fra i due Paesi) non ha mai fatto menzione di queste persone”, ha detto Mustafayev. “Dopo la firma degli accordi ci sono state delle indagini e posso garantire che tutti i prigionieri di guerra sono stati mandati a casa. Durante le nostre attività di ricerca post belliche, inoltre, abbiamo trovato circa 1.500 corpi di cittadini armeni e due cittadini azerbaigiani sono morti in queste attività”, ha spiegato l’ambasciatore, affermando che qualsiasi insinuazione sui prigionieri di guerra è “mera propaganda”.

 

Armenia-Azerbaigian: ambasciatore Nazarian, questione prigionieri di guerra resta irrisolta (Agenzia Nova 15.11.21)

Roma, 15 nov 19:42 – (Agenzia Nova) – L’Armenia e la co-presidenza del Gruppo di Minsk dell’Osce hanno ripetutamente sollevato la situazione dei prigionieri di guerra armeni e degli ostaggi civili detenuti dall’Azerbaigian contrariamente e in violazione dei requisiti del diritto umanitario internazionale e della dichiarazione trilaterale di cessate il fuoco del 9 novembre 2020: questa è la questione più urgente relativa alla citata dichiarazione trilaterale che rimane tuttora irrisolta. È il commento dell’ambasciatore armeno presso la Santa Sede, Garen Nazarian, in risposta alle dichiarazioni dell’omologo azerbaigiano, Rahman Mustafayev, rilasciate oggi nel corso di una conferenza stampa a Roma. “Riconosciamo e ringraziamo quelli dei nostri partner internazionali che continuano a sollevare questo problema a livello bilaterale e in sedi multilaterali, inclusa la Santa Sede che invita l’Azerbaigian a rispettare i suoi obblighi ai sensi del diritto umanitario internazionale e della dichiarazione trilaterale e a rilasciare tutti i prigionieri di guerra e ostaggi civili in sua custodia”, ha detto Nazarian. (segue) (Res)

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Azerbaigian-Armenia: ambasciatore Mustafayev, abbiamo restituito tutti i prigionieri di guerra
Roma, 15 nov 12:20 – (Agenzia Nova) – L’Azerbaigian ha restituito all’Armenia tutti i prigionieri di guerra catturati durante il conflitto dello scorso anno. Lo ha detto l’ambasciatore azerbaigiano presso la Santa Sede, Rahman Mustafayev, nel corso di una conferenza stampa a Roma. “Quando parliamo di prigionieri di guerra ci si riferisce a coloro che sono stati catturati durante il conflitto. Le persone arrestate dopo la firma dell’accordo trilaterale del 9 novembre, invece, sono criminali. Il Gruppo di Minsk dell’Osce (l’organismo preposto a mediare fra i due Paesi) non ha mai fatto menzione di queste persone”, ha detto Mustafayev. “Dopo la firma degli accordi ci sono stati delle indagini e posso garantire che tutti i prigionieri di guerra sono stati mandati a casa. Durante le nostre attività di ricerca post belliche, inoltre, abbiamo trovato circa 1.500 corpi di cittadini armeni e due cittadini azerbaigiani sono morti in queste attività”, ha spiegato l’ambasciatore, affermando che qualsiasi insinuazione sui prigionieri di guerra è “mera propaganda”. (Res)

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Azerbaigian-Armenia: ambasciatore Mustafayev, durante conflitto applicato diritto internazionale

Roma, 15 nov 12:13 – (Agenzia Nova) – L’Azerbaigian nel conflitto con l’Armenia dello scorso anno non ha fatto altro che applicare il diritto internazionale. Lo ha detto l’ambasciatore azerbaigiano presso la Santa Sede, Rahman Mustafayev, nel corso di una conferenza stampa a Roma. “L’Azerbaigian ha agito sulla base del diritto internazionale, seguendo i dettami dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Tutto ciò che è stato fatto è liberare secondo i nostri diritti il territorio occupato dal 1991”, ha detto Mustafayev. “In Francia ci sono alcuni esponenti politici che sostengono che quella fra Armenia e Azerbaigian è stata una guerra religiosa. Io in più di un’occasione ho chiesto ai parlamentari che si sono espressi in questo senso di fornirmi delle spiegazioni in merito. Prima della guerra degli anni Novanta nella regione c’era una comunità multireligiosa e multietnica, c’erano moschee e chiese, un gruppo di persone che copriva 48 minoranze etniche”, ha detto l’ambasciatore. “In Armenia il 99,9 per cento delle persone è armena e non c’è multiculturalismo. A Baku, in uno dei quartieri più importanti, abbiamo una moschea e una chiesa che sono vicine fra loro, e questo è un esempio del nostro approccio multireligioso. Noi vogliamo rafforzare questo aspetto che è già tipico nel nostro Paese”, ha aggiunto l’ambasciatore. (Res)

Azerbaijan: libertà religiosa, solo quando serve (Osservatorio Balcani e Caucaso 15.11.21)

Le comunità religiose dell’Azerbaijan hanno sostenuto la guerra, e non erano sole: il conflitto ha trovato ampio supporto tra tutti gli strati sociali del paese. La guerra ha unito cittadini, governo e militari di fronte al “nemico esterno”.

Si stima che la popolazione dell’Azerbaijan sia per il 95% musulmana (maggioranza sciita con una larga minoranza sunnita), i praticanti attivi però  rappresentano solo una piccola parte. Per molti di quei credenti la guerra non ha riguardato solo il patriottismo e la difesa della patria ma ha goduto di una vera e propria “approvazione divina”.

Questo è il motivo per cui il clero si è recato spesso presso le unità militari a predicare il “martirio” e la “santità della madrepatria”.

Molti giovani credenti si sono offerti volontari per combattere ed adempiere ai loro “doveri divini”.  A dimostrarlo ci sono i filmati delle unità militari e dei campi di battaglia, con momenti di preghiera comunitaria durante i combattimenti e i soldati riuniti per ascoltare la marsiya.

Ovviamente, per la maggior parte della popolazione dell’Azerbaijan, non si trattava solo di una guerra santa, ma anche di un conflitto territoriale e politico; infatti molti filmati mostravano soldati che bevevano vino e mangiavano carne di maiale. Questo però non cambia il fatto che l’Islam fosse una fonte di motivazione per i soldati che ogni giorno affrontavano la possibilità reale di morire.

Nonostante l’Azerbaijan sia un paese laico, l’identità islamica è diventata uno dei connotati principali della narrazione del governo durante le ostilità. Ad esempio, rituali islamici erano utilizzati simbolicamente per suggellare le vittorie militari e la riconquista delle città alle truppe armene.

Durante la guerra tra gli azeri vi era grande speranza che la vittoria avrebbe portato un cambiamento radicale nel paese. Speravano che la vittoria avrebbe portato con sé un aumento dei redditi, la fine della corruzione, un governo attento nei confronti dei suoi cittadini, e via dicendo.

Secondo questa logica, occupando i territori circostanti il Nagorno Karabakh, l’Armenia aveva rotto l’armonia fondamentale per il corpo politico dell’Azerbaijan, causando una disarmonia che è diventata la radice dei mali sociali dell’Azerbaijan. Riguadagnando le terre prese dall’Armenia, l’armonia e la completezza sarebbero state restaurate e tutti i problemi sarebbero stati risolti.

Mentre le speranze spesso utopiche per il futuro post-bellico dell’Azerbaijan erano molto varie, le aspettative di molti devoti musulmani erano abbastanza specifiche. Speravano che la fine del conflitto avrebbe portato a una normalizzazione dei rapporti tra stato e religione.

Oggi, quasi un anno dopo lo scoppio della guerra, è chiaro che quest’ultima non sia stata la panacea che molti speravano e pensavano potesse essere. Mentre il presidente Ilham Aliyev rimane popolare, la tensioni sociali dovute alle aspettative disattese stanno crescendo. In questo contesto, sono le aspettative disattese dei devoti azeri, sebbene relativamente modeste, che possono divenire i semi di una futura crisi.

Un inasprimento della legge

Nel mese di maggio 2021 l’Azerbaijan ha modificato la legge sulla religione imponendo nuove restrizioni alle comunità religiose. Secondo le nuove modifiche, le comunità senza un “centro religioso” non sono più autorizzate a concedere titoli o gradi religiosi al clero, a richiedere il permesso di avere come leader religiosi dei cittadini stranieri, a istituire scuole di educazione religiosa o ad organizzare visite dei propri fedeli a santuari e luoghi religiosi all’estero.

Inoltre sono state imposte restrizioni più dure sugli eventi religiosi di massa all’aperto; cerimonie come preghiere comunitarie e commemorazioni possono svolgersi solo in luoghi di culto o santuari.

In Azerbaijan vi sono stati problemi in termini di libertà di coscienza fin dall’indipendenza del paese. Ad esempio, scattare una foto per il passaporto o la carta d’identità indossando il velo è ancora un problema per le donne. Kamal Rovshan, studentessa 24enne, ha lanciato una campagna social all’inizio di quest’anno per accrescere la consapevolezza riguardo a questa problematica.

“In paesi dove non c’è una maggioranza islamica, come Russia e Germania, le donne possono utilizzare una foto con il velo; in un paese come l’Azerbaijan invece, dove la maggioranza della popolazione è islamica, è imbarazzante che questo non sia permesso” spiega in un video caricato su Facebook. “Potrà essere una problematica minore, ma ci dà fastidio.”

Sebbene il Difensore dei Diritti Umani dell’Azerbaijan abbia sollevato la tematica in parlamento nel marzo 2021, nessun progresso è ancora stato fatto.

Precedenti tentativi delle autorità di affrontare la questione dell’Islam e della sua influenza nel paese comprendevano restrizioni all’utilizzo di simboli religiosi, un controllo fermo sulle procedure di registrazione di istituti religiosi e – negli ultimi anni – la chiusura di diverse moschee.

La posizione rigorosa del governo è visibile nella regolazione del volume dell’adhan (la chiamata alla preghiera, ndr) e del controllo della diffusione di letteratura religiosa e nel divieto ad utilizzare il velo nelle scuole pubbliche.

L’Ufficio per la libertà religiosa internazionale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha condannato i recenti emendamenti alla Legge sulla religione descrivendoli come una “violazione degli standard internazionali”. L’Azerbaijan è uno dei dodici paesi nella loro “Special Watch List”.

Nel suo report più recente il Dipartimento rileva che: “Il governo continua a imprigionare personaggi legati all’attivismo religioso”. Un gran numero di prigionieri politici nel paese sono attivisti sciiti.

Il discorso islamico ufficiale

Il discorso ufficiale sottolinea la distinzione tra Islam “tradizionale” e “non tradizionale”. Il cosiddetto Islam “non tradizionale” è percepido come “distruttivo”, “politico” e “esportato da interessi esteri”.

Al contrario, l’Islam “tradizionale” è definitico come “non politico”, “nato in Azerbaijan” e “non importato”.

Sebbene la lotta al radicalismo sia portata avanti in molti paesi, qui c’è una grande differenza. Nella maggior parte dei paesi, il contro-radicalismo è perseguito incoraggiando inclusione e partecipazione sia sociale che politica, scongiurando così le rimostranze delle minoranze. Nell’approccio della autorità dell’Azerbaijan non vi è nulla di questo.

L’Azerbaijan non persegue affatto una strategia “dei cuori e delle menti”, ma si basa solo su azioni repressive per combattere l’estremismo violento e la radicalizzazione ai sensi della legge “Sulla lotta al terrorismo”.

Le autorità sostengono che misure così pesanti sono necessarie per impedire che il radicalismo straniero si diffonda nel paese. Le statistiche dimostrano che tali affermazioni sono esagerate.

Secondo una ricerca del 2016 del Pew Research Centre, gli azeri sono i meno favorevoli alla sharia tra i cittadini degli stati a maggioranza islamica, con solo l’8% della popolazione che crede che essa dovrebbe sovrastare la legge civile.

Ci sono poche prove che suggeriscono che l’idea di un governo teocratico sarebbe popolare in Azerbaijan, anche se alcuni intervistati potrebbero non essere stati completamente aperti nell’esprimere le loro opinioni.

Inoltre, in tempi recenti, c’è stata un solo caso  dovuto all’Islam violento radicale, ossia l’attacco del 2008 alla Moschea di Abu Bakr a Baku, quando una granata lanciata durante l’ora della preghiera uccise due fedeli e ferì una dozzina di persone, tra cui l’imam. Si ritiene che l’attacco sia stato compiuto dal gruppo jihadista Forest Brothers, come conseguenza di un disaccordo ideologico tra due correnti salafite.

Il malcontento di Nardaran e Ganja, d’altra parte, dovrebbe essere visto come una ricerca di giustizia sociale.

In ogni caso, le restrizioni sopra menzionate sono in contrasto con la costituzione, la quale garantisce ai cittadini il diritto alla libertà di assemblea e di coscienza, la presunzione di innocenza e l’uguaglianza indipendentemente dalla confessione religiosa a cui si appartiene. Se ci sono degli estremisti che abusano di queste libertà, essi dovrebbero essere processati in modo equo e ritenuti responsabili. Quello che è sbagliato e inefficace è utilizzare misure contro l’intera comunità solo perché alcuni dei suoi membri potrebbero essere coinvolti in attività illegali.

Solo un reale rispetto per la diversità di opinioni, credenze e stili di vita può portare l’Azerbaijan su una strada più democratica. Limitazioni sproporzionate della libertà religiosa e marginalizzazione delle voci dissenzienti può, al contrario, portare alla radicalizzazione e alla fine favorire l’auto avverarsi della profezia. Alla luce dell’esperienza di altri paesi a maggioranza islamica, l’attuale politica non è di buon auspicio per l’Azerbaijan.

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Nagorno-Karabakh: vicepremier armeno, Azerbaigian continua a boicottare gli accordi raggiunti (Agenzia Nova 12.11.21)

Erevan, 12 nov 13:33 – (Agenzia Nova) – Nonostante gli impegni assunti il 9 novembre, l’Azerbaigian continua a boicottare l’attuazione degli accordi raggiunti con Armenia e Russia sul Nagorno-Karabakh, compreso il mantenimento in stato di prigionia di molti combattenti armeni, che rappresenta una violazione anche del diritto internazionale umanitario. Lo ha dichiarato oggi il vice primo ministro armeno, Mher Grigoryan, durante la sessione in videoconferenza del Consiglio dei capi di governo della Comunità degli Stati indipendenti (Csi). (Rum)

Nel Regno Unito e in Israele nuove proposte di legge per sancire il riconoscimento del Genocidio armeno (Agenzia Fides 12.11.21)

Anche in Israele, martedì 9 novembre, alcuni rappresentanti dei Partiti d’opposizione hanno presentato al Parlamento israeliano un disegno di legge proponendo che la Knesset riconosca ufficialmente come “genocidio” i massacri sistematici di armeni perpetrati in Anatolia negli anni 1914/1916, e il 24 aprile di ogni anno diventi anche in Israele la giornata di commemorazione delle vittime di quei massacri. La proposta di legge è stata presentata da un gruppo trasversale di parlamentari appartenenti ai Partiti Shas e Likud.
Non è la prima volta che vengono presentate al Parlamento israeliano proposte di legge volte a sancire il riconoscimento ufficiale del Genocidio armeno da parte dello Stato ebraico. Nel giugno 2018, il Parlamento israeliano annullò all’ultimo minuto il voto che era stato messo in agenda per chiedere il riconoscimento del Genocidio armeno (vedi Fides 26/6/2021). Era stata la stessa Tamar Zandberg, presentatrice del disegno di legge e leader del Partito Meretz, a ritirare la proposta, dopo che la coalizione di governo e il Ministero degli Esteri avevano chiesto di togliere dal testo in discussione l’espressione “Genocidio” per sostituirla con le parole “tragedia” o “orrori”. Nel febbraio dello stesso anno, il Parlamento israeliano aveva di fatto respinto un progetto di legge presentato da Yair Lapid, rappresentante del partito centrista e laico Yesh Atid, che avrebbe ufficializzato il riconoscimento da parte di Israele del “Genocidio armeno”. (GV) (Agenzia Fides 12/11/2021)

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Armenia: proteste contro valico doganale azerbaigiano, arresti nel centro di Erevan (Agenzia Nova 11.11.21)

Erevan, 11 nov 09:27 – (Agenzia Nova) – La polizia armena ha arrestato un centinaio di persone durante una manifestazione in corso di fronte a un edificio governativo a Erevan. I dimostranti stanno manifestando il loro dissenso contro l’istituzione di un valico doganale dell’Azerbaigian lungo un’autostrada che collega l’Armenia all’Iran. L’Azerbaigian da mesi ha di fatto acquisito il controllo dell’autostrada Goris-Kapan, una direttrice di vitale importanza per la consegna delle merci iraniane in Armenia. (Rum)

Un anno dopo la guerra in Karabakh (Osservatorio Balcani e Caucaso 11.11.21)

Sebbene il futuro rimanga imprevedibile, la guerra dello scorso anno tra Armenia e Azerbaijan per il territorio conteso del Nagorno Karabakh ha cambiato il panorama geografico e geopolitico nel Caucaso meridionale dopo tre decenni di amarezza, conflitto e divisione. Stando a quanto alcuni analisti sperano, ora c’è l’opportunità di voltare pagina nelle relazioni Armenia-Azerbaijan.

Il cessate il fuoco del 9-10 novembre 2020 che ha posto fine ai combattimenti dello scorso anno avrebbe dovuto chiarire questo futuro, ma la mancanza di trasparenza e una scarsità di analisi obiettive o informate hanno lasciato il pubblico in entrambi i paesi confuso e al buio. Certamente, alcune disposizioni dell’accordo rimangono insoddisfatte, anche se ciò potrebbe cambiare nelle prossime settimane e mesi.

L’Armenia vuole che l’Azerbaijan restituisca i rimanenti prigionieri che detiene, mentre Baku è frustrata dal fatto che un collegamento di trasporto previsto che attraversa l’Armenia fino alla sua exclave di Nakhichevan, come dettato dall’accordo di cessate il fuoco, non sia stato ancora stabilito. Chiede inoltre che Yerevan consegni tutte le mappe dei campi minati nel territorio ora sotto il controllo di Baku.

Nel frattempo, nonostante si parli più frequentemente di normalizzare le relazioni tra Armenia e Azerbaijan (e forse anche Armenia e Turchia) non ci sono ancora stati chiari segnali su quando ciò potrebbe accadere.

“Il governo armeno e gran parte della popolazione sono stati limitati ad uno stato di negazione per un periodo di 12 mesi, e c’è voluto molto tempo per accettare la nuova realtà”, afferma Richard Giragosian, direttore del Centro studi regionali (RSC) di Yerevan. Ora, dice, quei segni potrebbero essere all’orizzonte.

“Il punto di svolta”, afferma Giragosian, “è arrivato a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York [a settembre] quando i ministri degli Esteri armeno e azero, con i mediatori del Gruppo di Minsk dell’OSCE, sono stati in grado di riunirsi di nuovo in un incontro per annunciare la rivincita della diplomazia contro la forza delle armi”.

“Questo segna un ritorno alla diplomazia e un tardivo adattamento armeno a una nuova realtà dolorosa e senza precedenti”.

Infatti, due settimane prima del primo anniversario della guerra del 2020, il giornalista veterano armeno e osservatore del Karabakh, Tatul Hakobyan, ha rivelato che fonti ufficiali anonime lo hanno avvisato della possibilità che il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, e il presidente azero, Ilham Aliyev, si sarebbero incontrati a Mosca con il presidente russo Vladimir Putin.

Secondo Hakobyan, sarebbero stati firmati due nuovi documenti: uno riguardante la demarcazione dei confini e l’altro sullo sblocco delle rotte economiche e di trasporto regionali.

Tuttavia, al momento non c’è ancora stata alcuna conferma ufficiale di tale incontro, seppure non sia stato nemmeno categoricamente smentito. Stando a quanto dichiarato dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, se un tale incontro dovesse avvenire, ci sarebbe un annuncio ufficiale da parte dei servizi stampa di entrambi i governi.

Ad esempio, il 7 novembre, pochi giorni prima del primo anniversario dell’accordo di cessate il fuoco, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha confermato che una videoconferenza tra i tre leader era in corso in data da determinarsi.
Giragosian e Ahmad Alili, il direttore del Caucasus Policy Analysis Center (CPAC), con sede a Baku, ritengono che tale incontro sia possibile. “Siamo in attesa che altri documenti vengano firmati nelle prossime settimane o mesi”, afferma Alili. “Ci sono molti sviluppi positivi in questo senso, quindi speriamo che abbia luogo”.

Tuttavia, tali sviluppi potrebbero riportare risultati controversi. La delimitazione e la demarcazione dei confini potrebbero rivelarsi particolarmente delicate date le tensioni sulla Nuova linea di contatto Armenia-Azerbaijan (LoC). Inoltre, molti armeni temono che il riconoscimento dei confini dell’Azerbaijan possa effettivamente significare anche l’accettazione della sua integrità territoriale.

Tuttavia, secondo quanto riferito e stando ai recenti sviluppi, il presidente russo Vladimir Putin ha già offerto assistenza concedendo l’accesso alle mappe dell’era sovietica.

Giragosian, però, ritiene che questo intervento tardivo nella questione sia stato intenzionale, dato che fino ad ora, dice, l’Armenia e l’Azerbaijan avevano usato mappe di epoche differenti e anche scale diverse.

“Penso che l’obiettivo riguardasse lo sfruttamento dell’insicurezza, ovvero l’accumulo militare russo nell’Armenia meridionale e l’acquisizione da parte della Russia del terzo confine esterno dell’Armenia”, dice Giragosian, riferendosi al dispiegamento di forze russe al confine con l’Azerbaijan e alla presenza costante di quest’ultimo sui confini iraniani e turchi, lasciando Yerevan responsabile solo del suo confine con la Georgia.

“Sarei d’accordo con Richard sul fatto che la Russia voglia sfruttare la situazione per ottenere più influenza su Armenia e Azerbaijan”, dice Alili. “Qualsiasi attore razionale di politica estera farebbe lo stesso”.

Nel frattempo le tensioni tra Teheran e Baku ribollono a causa dei piani che prevedono di collegare l’Azerbaijan, passando per l’Armenia, alla sua exclave di Nakhichevan. Secondo Alili, agendo in questo modo l’Iran ha voluto denunciare il fatto che la stabilità e la sicurezza regionali sono improbabili senza la sua considerazione e partecipazione.

Questa rotta di collegamento, che si ritiene corra vicino al confine iraniano, solleva ulteriori domande, specialmente in termini di funzionamento. In modo quasi controproducente, l’Azerbaijan ha alimentato l’incertezza in Armenia riferendosi alla rotta come al “Corridoio di Zangezur”, infiammando timori che ciò significhi cedere territorio a Baku, anche se recenti dichiarazioni ufficiali chiariscono che ogni paese manterrà la sovranità.

“La rotta che collega l’Azerbaijan a Nakhichevan”, dice Giragosian, “potrebbe banalmente rappresentare una strada e una ferrovia da un punto all’altro senza uscita in Armenia. L’altro punto critico concerneva l’importo oneroso dei dazi doganali armeni per le tonnellate di merci o passeggeri”.

Tuttavia, osserva Alili, l’ultimo punto dell’accordo di cessate il fuoco è abbastanza chiaro.

“La dichiarazione tripartita dice che ci dovrebbe essere una ‘circolazione senza ostacoli’ di merci e passeggeri”, dice Alili. “Quindi questo significa che in nessun modo l’Armenia può fermare qualsiasi auto che passa. Questo è ciò che l’Azerbaijan intende quando dice ‘corridoio’. La grande domanda è: questa regola si applicherà anche ai veicoli stranieri?”.

Tuttavia, continua Alili, le recenti dichiarazioni del presidente azero indicano che ci sono progressi in materia. La scorsa settimana Pashinyan ha ammesso che l’Armenia è pienamente favorevole a consentire la rotta in cambio di un tragitto simile che attraversi l’Azerbaijan dirigendosi verso la Russia. È stata anche menzionata la questione dei dazi doganali.

Le implicazioni e i benefici regionali sono molto più ampi di quel che riguarda  Armenia e Azerbaijan. Infatti, anche Ankara potrebbe trarre beneficio da questa situazione.

“Penso che la Turchia fosse in una posizione soccombente alla fine della guerra”, spiega Giragosian. “In altre parole, all’inizio, la Turchia ha fornito un sostegno militare diretto senza precedenti all’Azerbaijan, ma alla fine è stata la Russia ad entrare grazie al dispiegamento unilaterale di forze di pace, portandosi a casa la vittoria geopolitica”.

Per la Turchia, dice l’analista di Yerevan, la normalizzazione delle relazioni con l’Armenia è un modo per “riconquistare un posto al tavolo in termini commerciali e di trasporti regionali”.

Il confine tra Armenia e Turchia è stato chiuso nel 1993 in seguito alla presa da parte delle forze armene della regione azera di Kelbajar. Ora che il territorio è tornato sotto il controllo di Baku, insieme alle altre regioni che circondano l’ex Oblast autonomo del Nagorno Karabakh (NKAO), non c’è più una ragione giustificabile per tenere il confine chiuso. Anche Baku ora non obietta al riallacciamento delle relazioni tra Armenia e Turchia, anche se ciò potrebbe dipendere dalla normalizzazione della relazione tra Armenia e Azerbaijan.

Dopo la guerra tra Russia e Georgia dell’agosto 2008, Ankara aveva già cercato di riallacciare i rapporti attraverso la “diplomazia del calcio” e la firma di due protocolli tra Armenia e Turchia. Purtroppo, questi ultimi non sono mai stati ratificati e alla fine revocati a causa della resistenza dell’Azerbaijan. Alili crede, però, che la situazione sia diversa questa volta.
“Alcuni decisori turchi volevano separare questi processi nel 2009, ma non ci sono riusciti”, spiega. “Questi sono processi paralleli e ora direi che la politica estera turco-azera sia molto più allineata di prima. Ma è possibile per l’Armenia normalizzare le relazioni con la Turchia senza la Russia?”

Giragosian inoltre afferma che le relazioni tra Armenia e Turchia potrebbero dipendere effettivamente dalle decisioni prese da Ankara e Mosca. “L’Armenia dovrà lottare per assicurarsi che l’attuazione della normalizzazione sia alle sue condizioni piuttosto che quelle di Russia e Turchia”.

Anche il futuro di un formato regionale 3+3 sostenuto da Azerbaijan, Russia e Turchia e che coinvolga Armenia, Georgia e Iran, rimane incerto, specialmente a causa della storica resistenza di Tbilisi alla cooperazione con Mosca. Eppure, anche se il numero delle domande ha gravemente superato quello delle risposte un anno dopo la guerra del 2020, Giragosian rimane ottimista.

“Proseguendo”, dice, “penso che siamo in un periodo senza precedenti che rappresenta una sfida profondamente radicata, ma anche ricca di opportunità”.

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Armenia-Italia: premier Pashinyan riceve ambasciatore Di Riso, sviluppare relazioni (Agenzia Nova 11.11.21)

Erevan, 11 nov 14:57 – (Agenzia Nova) – Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha ricevuto l’ambasciatore d’Italia in Armenia Alfonso Di Riso. Lo riferisce l’ufficio stampa del primo ministro, secondo cui Pashinyan si è congratulato con l’ambasciatore per aver assunto l’incarico e ha augurato successo all’ulteriore sviluppo delle relazioni amichevoli armeno-italiane. Il primo ministro ha evidenziato assicurando il continuo progresso della cooperazione politica ed economica tra Armenia e Italia ed ha espresso fiducia che risultati concreti siano possibili con gli sforzi congiunti dei governi dei due Paesi. In particolare, è stato posto l’accento sullo sviluppo della cooperazione economica bilaterale, anche con lo svolgimento di forum imprenditoriale e la promozione dei rapporti d’affari. Pashinyan ha ricordato con affetto la sua visita ufficiale in Italia nel 2019 e ha evidenziato le visite reciproche bilaterali di alto livello che danno un nuovo impulso all’espansione della cooperazione in diversi settori. (segue) (Res)

Nagorno Karabakh, ad un anno dalla guerra (Osservatorio Balcani e Caucaso 10.11.21)

Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 2020 veniva firmata la dichiarazione trilaterale di Russia, Armenia e Azerbaijan che segnava la cessazione dei combattimenti fra Armenia, Azerbaijan e i secessionisti del Nagorno Karabakh. Il conflitto armato del 2020 viene chiamato la guerra dei 44 giorni, o la seconda guerra per il Nagorno Karabakh. Su come definire la nuova situazione che si è creata da allora invece non c’è accordo. Le posizioni ufficiali sono distanti e ancora incompatibili, a indicare quanto ancora sia rimasto da negoziare per trovare una soluzione politica al secessionismo del Nagorno Karabakh, exclave armena in territorio azero.

Per il governo di Baku la questione è risolta, non esiste più il secessionismo armeno, e questa è la soluzione conclusiva a cui Armenia e armeni del Karabakh si devono adattare. La questione del Karabakh è chiusa, non esiste più come entità autonoma e in via provvisoria vi stazionano i peacekeeper russi. Per Yerevan e Stepanakert invece questo è un cessate il fuoco in attesa che con l’ausilio della mediazione internazionale venga negoziata una nuova realtà politica. Per gli armeni questa realtà si dovrà conformare al principio di autodeterminazione dei popoli, e quindi lo scopo finale è ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del Nagorno Karabakh nei suoi confini attuali ma – soprattutto Stepanakert – non si nasconde di voler riottenere il controllo delle aree riconquistate dagli azeri ma che erano parte della Repubblica Autonoma del Karabakh in epoca sovietica, in primis la città storica di Shusha.

Fase post-bellica, o secondo status quo, o secondo cessate il fuoco: mentre rimane impossibile trovare una definizione unanime per questo periodo, a un anno di distanza da quando i combattimenti si sono (quasi) fermati, cosa sta succedendo nelle aree contese?

Il Karabakh dei vincitori

Nelle aree controllate dall’Azerbaijan non ci sono più armeni, ma ancora non ci possono essere gli azeri. Il recupero delle aree riconquistate si è dimostrato più ostico del previsto per l’alto numero di mine, sia nel Karabakh che nelle regioni della cintura di sicurezza, e per l’alto grado di distruzione e abbandono delle aree nell’ex cintura di sicurezza.

Nell’ex Karabakh, Shusha è diventato il nuovo centro e simbolo della vittoria. Baku celebra la vittoria l’8 novembre, il giorno in cui Shusha è capitolata decretando le sorti della guerra. Nel 1977 Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente Ilham, allora al timone della Repubblica Socialista Sovietica di Azerbaijan, aveva dichiarato Shusha riserva nazionale di ricchezza storica e architettonica. Nel maggio 2021 Ilham Aliyev, tornato in controllo della città, l’ha dichiarata Capitale Culturale dell’Azerbaijan. Si prevede  una riqualificazione della città perché torni alla sua gloria passata e che sia città esemplare della cultura e dell’architettura azera.

Questo crea frizioni con gli armeni, che osservano preoccupati ormai da lontano quella che per loro è la “turchizzazione” di territori che reclamano come storicamente armeni. I lavori di restauro della cattedrale di Ghazanchetsots a Shusha hanno sollevato l’indignazione armena  perché ne altererebbero l’integrità architettonica e culturale. Ancora l’UNESCO non ha accesso ai territori riconquistati. Durante il Consiglio Internazionale dei Ministri della Cultura dell’Organizzazione dei Paesi di Cultura Turcofona l’Azerbaijan ha proposto  di fare di Shusha la Capitale del mondo turco nel 2023.

Il governo azero ha anche chiesto a Google di cambiare i toponimi su Google map nelle zone riconquistate  , ove compare ancora quello armeno.

La ripresa del controllo di questi territori ha implicato, oltre che un rilancio culturale dell’identità azera nelle aree riconquistate, massicci investimenti per favorire il rientro degli sfollati della prima guerra del Karabakh. Circa il 65% di quanti avevano abbandonato il Karabakh divenuto armeno hanno ora espresso la volontà di tornare. Questo comporta una ricostruzione massiccia. La regione di Kalbajar da settembre è raggiunta da una nuova rete elettrica  , e vi sono confluite aziende turche interessate allo sfruttamento delle risorse minerarie  .

Il governo azero prevede di riuscire, in qualche decennio, a ripopolare le aree riconquistate, una volta che la rete infrastrutturale e il tessuto produttivo saranno riattivati. Durante una visita a Füzuli, Aliyev ha dichiarato che per il 2040 la città potrà ospitare 50.000 azerbaijani. Durante la visita il presidente ha inaugurato e ispezionato varie strutture  , come un parco, l’aeroporto, la nuova autostrada Füzuli-Ağdam, e lo smart village di Dövlətyarlı con 450 case. All’inaugurazione dell’aeroporto ha partecipato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Oltre alle infrastrutture civili è in corso una grande collocazione di risorse per nuovi siti militari. La guerra è finita, ma non troppo.

Il Karabakh dei vinti

Niente tagli di nastri e visite di capi di stato per la comunità armena arroccata in quanto rimane del Nagorno Karabakh (nella mappa sotto in arancione). Qualche scambio di fuoco lungo i confini, qualche attraversamento involontario, e la stessa insicurezza che si respira ora lungo tutto il confine armeno-azero.

Fonte: Emreculha / wikimedia CC

Fonte: Emreculha / wikimedia CC

Anche per gli armeni è partita una ricostruzione per recuperare i danni della guerra. Con il sostegno dell’Armenia è prevista la costruzione di nuovi appartamenti, fino a 3000. Yerevan e Stapanakert temono un esodo, uno spopolamento dell’area data la difficile situazione post-bellica  . Gli armeni hanno perso miniere, pascoli, campi. Nell’insieme il 60% del territorio agricolo è passato in mano azerbaijana. Per di più l’enclave vive in uno stato di tensione perenne, è isolata e l’accesso al territorio nonché l’approvvigionamento da fonti esterne sono più difficili che prima della guerra. I peacekeepers russi lavorano per il ripristino dei servizi elettrici, idraulici, idrici, ma alcuni problemi in assenza di una soluzione politica potrebbero dimostrarsi insormontabili. A settembre l’Ombudsperson armeno ha lanciato l’allarme sull’accesso all’acqua. A Stepanakert il 20% della popolazione non aveva accesso all’acqua corrente, e il problema era diffuso nell’80% del territorio fuori dalla capitale de facto. Le fonti di acqua sono ora sotto il controllo di Baku  . Senza controllo sulle risorse idriche il secessionista Nagorno Karabakh rischia di trovarsi senza elettricità, visto il largo uso di energia idroelettrica.

La situazione rimane drammatica, il rischio di spopolamento reale, soprattutto nelle aree percepite come più pericolose perché più a ridosso della presenza azera. Stepanakert ha circa 15.000 abitanti in più, sfollati delle zone riconquistate e armeni che hanno preferito trasferirsi nel centro principale della regione.

Un anno dopo l’accordo trilaterale del 2020 il peso della non-pace grava ancora assai pesantemente, sui vinti, ma anche sui vincitori. Le ambizioni di ricostruzione di Baku si devono costantemente confrontare con il rischio delle mine, e che al di là delle dichiarazioni trionfalistiche, rimangono in Karabakh gli armeni che non accetteranno mai di essere integrati nell’Azerbaijan e l’esercito russo, ufficialmente “ospite” ma senza che sia previsto un meccanismo unilaterale per garantirne fra 4 anni un eventuale ritiro.

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La donna che salvò migliaia di bambini nel genocidio armeno (Aleteia 10.11.21)

Bodil Bjørn era missionaria in Armenia. Le sue fotografie del conflitto sono diventate una testimonianza della barbarie

Il conflitto armeno ha rappresentato uno degli stermini più terribili della storia recente. Deportazioni ed esecuzioni di massa posero fine alla vita di migliaia e migliaia di persone, lasciando moltissimi sfollati, vedove e orfani.

Quella situazione colpì profondamente tutti coloro che credevano che si dovesse fare qualcosa per alleviare il dolore delle vittime, anche rischiando la propria vita.

Missionari di vari luoghi del mondo si organizzarono per recarsi nell’epicentro dell’orrore, e a questi si unirono persone di diverse origini e provenienze, con l’unico obiettivo di offrire una luce di speranza in tanta oscurità e desolazione.

Bodil Catharina Bjørn era una ragazza felice, una privilegiata che avrebbe potuto avere una vita priva di preoccupazioni.

Nata il 27 gennaio 1871 a Kragerø, in Norvegia, in una famiglia agiata in cui il padre era armatore, Bodil crebbe circondata da lusso e splendore, oltre a ricevere un’istruzione non comune per una bambina dell’epoca.

Si preparava a seguire i passi delle donne della sua famiglia, sposandosi, avendo figli e vivendo con ben poche preoccupazioni, almeno a livello materiale. Qualcosa, però, si risvegliò in lei quando, all’inizio del XX secolo, sentì parlare alcuni missionari che si erano recati in Turchia ed erano stati testimoni dell’orrore subìto dagli Armeni.

Giocarsi la vita

Bodil era una ragazza molto religiosa, e sentì il bisogno di aiutare gli altri. Studiò da infermiera, si lasciò alle spalle tutte le comodità e si unì all’Organizzazione delle Donne Missionarie, con cui viaggiò fino al cuore dell’Armenia.

Stabilitasi prima a Mezereh e in seguito a Mush, lavorò instancabilmente, occupandosi soprattutto dei bambini orfani e delle donne rimaste vedove. Fondò orfanotrofi e subì l’orrore di veder morire alcuni di quei bambini che aveva trasformato nella sua famiglia.

Si sentì anche orgogliosa vedendo come molti altri si erano salvati la vita grazie alla sua infaticabile e impagabile azione umanitaria, un’opera che in più di un’occasione avrebbe potuto costarle la vita.

Bodil non tornò a casa, trasferendosi in Siria, dove fondò un altro orfanotrofio per prendersi cura degli sfollati. Lì rimase fino al 1935, quando tornò definitivamente in Norvegia dopo essersi miracolosamente salvata la vita.

Denuncia del genocidio

Di nuovo in Norvegia, Bodil Biørn non dimenticò la dura esperienza che aveva vissuto, le migliaia di persone che non era riuscita a salvare e quelle a cui aveva potuto offrire un raggio di speranza.

Per il resto della sua vita si dedicò a denunciare tutto quello che aveva visto – i massacri, gli omicidi gratuiti e l’orrore di un conflitto che molti volevano negare.

Scrisse articoli per la stampa, pronunciò conferenze e mostrò al mondo le immagini che aveva scattato in quell’inferno con la sua macchina fotografica, immagini che divennero una delle testimonianze grafiche più importanti del Genocidio Armeno.

Bodil Bjørn è morta il 22 luglio 1960 a Oslo. I bambini sopravvissuti e che la conobbero sempre come “Madre Catharina” piansero la morte di colei che per loro era stata davvero una madre e un angelo protettore.

Vari memoriali ricordano il lavoro impagabile di questa donna coraggiosa. Le sue fotografie, custodite attualmente dall’Archivio Nazionale della Norvegia, sono una preziosa fonte di informazioni per gli storici e un promemoria vivente di quello che non dovrebbe più accadere in nessun luogo del mondo.

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