Armenia, una mostra sui dipinti murali al Museo della Seta (Ciacomo.it

La mostra “Armenia, Dipinti murali nelle chiese cristiane VII- XIII secolo” sarà inaugurata sabato 21 gennaio alle 17.30

inaugurazione mostra Armenia al Museo della Seta

Sabato 21 gennaio, alle 17.30, al Museo della Seta di via Castelnuovo 9 a Como, sarà inaugurata la mostra dal titolo Armenia, Dipinti murali nelle chiese cristiane VII- XIII secolo, aperta al pubblico dal 22 gennaio al 19 febbraio.

La mostra, ripercorrendo la via della seta che da millenni unisce l’Oriente all’Occidente, illustra un percorso di studi, ricerche e restauri conservativi di cicli di dipinti murali nelle chiese in Armenia e nell’Artsakh (Nagorno Karabagh), che gli autori hanno realizzato con passione e costanza in questi ultimi dieci anni.
In esposizione, pannelli con fotografie a colori, dove sono presentati i restauri dei dipinti murali di tre chiese armene: Lmbatavank’, Santo Segno del Monastero di Haghbat e Kat’oghikè del Monastero di Dadivank’. La mostra, curata dall’architetto Paolo Arà Zarian e dalla restauratrice di opere d’arte la dott.ssa Christine Lamoureux, promossa dal Museo della Seta di Como in stretta collaborazione con Iubilantes ODV con il patrocinio del Comune di Como, della Accademia di belle arti Aldo Galli di Como, del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena e del Consolato Onorario della Repubblica di Armenia, è arricchita da testi scritti dagli autori, libri, locandine, materiale illustrativo, articoli e pigmenti minerali naturali armeni.

É stato realizzato anche  un piccolo catalogo con testi introduttivi di Paolo Aquilini, Antonia Arslan, Ambra Garancini, Agop Manoukian, Paolo Arà Zarian e una introduzione storica con cartine geografiche dell’Armenia e dell’Artsakh e testi generici dedicati alla cultura dei dipinti murali nelle chiese armene.

L’inaugurazione è ad ingresso gratuito
Prenotazione consigliata: prenota@museosetacomo.com

Caucaso, pulizia etnica in Nagorno Karabakh: il Tribunale dell’Aia convoca l’Azerbaijan (La Stampa 18.01.23)

L’Italia ignora la grave crisi umanitaria e stringe nuovi accordi militari con Baku
Roberto Travan
Il Tribunale internazionale dell’Aia ha aperto un fascicolo sulla grave crisi in corso il Nagorno Karabakh, nel Caucaso meridionale. Da oltre un mese l’enclave armena è infatti completamente isolata: l’Azerbaijan ha chiuso il corridoio di Lachin, unica via di accesso verso l’Armenia e il mondo. La situazione è gravissima perché tutti i rifornimenti di merci essenziali, circa 400 tonnellate al giorno, dal 12 dicembre non possono più raggiungere il Paese. Di fatto i suoi 120.000 abitanti, di cui quasi la metà anziani e bambini, sono letteralmente ostaggio degli azeri. Ad aggravare la situazione il taglio delle forniture di gas e acqua potabile. Non solo: manca anche l’energia elettrica perché l’Azerbaijan impedisce la riparazione di un elettrodotto che transita nel suo territorio. E ha tranciato la rete a fibre ottiche per ostacolare le comunicazioni. A Stepanakert, la capitale del Karabakh, scuole e uffici pubblici sono chiusi da settimane, privi di riscaldamento. Drammatica la situazione negli ospedali dove le scorte di medicine sono insufficienti e il trasferimento dei malati più gravi continua ad essere ostacolato dalle autorità azere (un uomo è morto a fine dicembre per questo motivo). E nei negozi gli scaffali sono vuoti, il cibo inizia a scarseggiare: il rischio di una catastrofe umanitaria è purtroppo certo, imminente.
Via gli armeni dal Karabakh. La chiusura dei confini è solo l’ultimo atto della guerra lunga oltre trent’anni tra Azerbaijan e Armenia per il possesso del Karabakh, terra con profonde e indiscutibili radici armene e cristiane. Un conflitto dimenticato che ha causato fino ad ora quasi 40.000 morti e oltre un milione di sfollati. A dicembre decine di azeri avevano bloccato la frontiera inscenando una protesta ecologista. Per gli Ombdusmen di Armenia e Karabakh si trattava in realtà di provocatori tra cui «numerosi appartenenti ai servizi speciali di sicurezza azeri e simpatizzanti dei Lupi grigi, formazione terroristica dell’estrema destra turca». A inizio dicembre la conferma: gli “ecologisti” hanno abbandonato il blocco e al loro posto, a fronteggiare l’inerte contingente russo schierato da due anni a protezione del valico, sono arrivati i militari inviati da Baku, la capitale azera. Infine le parole dello stesso presidente Ilham Aliyev, il 10 gennaio: «Coloro che non vogliono diventare cittadini dell’Azerbaijan possono farlo: il corridoio di Lachin è aperto, nessuno gli impedirà di andarsene». In realtà il passaggio è chiuso, gli abitanti del Karabakh sono letteralmente in trappola.
Rischio pulizia etnica. «Gli azeri stanno violando tutte le leggi internazionali a tutela dei civili nelle zone di guerra». A lanciare l’allarme, un mese fa, erano stati i Difensori dei diritti umani di Armenia e Karabakh. «È in atto una vera e propria strategia per provocare la fuga della popolazione armena e lo spopolamento del Paese» avevano denunciato. Nel loro dossier «gli attacchi alle infrastrutture civili, l’interruzione sistematica di gasdotti e acquedotti, le incursioni nei villaggi pacifici per mettere in ginocchio l’agricoltura e l’economia». Anche «le campagne di propaganda e disinformazione per terrorizzare gli abitanti». Infine, l’appello: «È in corso un’autentica pulizia etnica, il mondo deve intervenire».
Le ambiguità della Russia. Neppure la forza di interposizione russa – schierata in base agli accordi tra Armenia, Azerbaijan e Russia dopo la Guerra dei 44 giorni – è riuscita a rompere l’isolamento del Karabakh. Peggio: Mosca è accusata di aver «consentito il blocco dei confini e di non aver protetto l’Armenia dai ripetuti attacchi dell’Azerbaijan» accusa Karen Ohanjanyan, attivista e fondatore a Stepanakert del Comitato Helsinki 92, organizzazione non governativa per i diritti umani. Forse per questo motivo il premier armeno Nikol Pashinyan la scorsa settimana ha annullato le esercitazioni previste dal Trattato di sicurezza collettiva, il Patto militare che lega alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica. Un legame certamente opaco quello tra Mosca e Yerevan. Perché la Russia, dal 1995 in Armenia con un folto contingente, è da sempre uno dei principali fornitori di armi dell’Azerbaijan. Anche di gas poi triangolato da Baku in Europa, in barba alle sanzioni per l’invasione dell’Ucraina.
Il Karabakh nelle mani di un oligarca russo. Protegge l’operato della forza di peacekeeping inviata da Mosca il premier del Karabakh Ruben Vardanyan. Ci prova tentando di spostare l’attenzione sulla comunità internazionale: «Perché le Nazioni Unite, la Francia e gli Stati Uniti non fanno qualcosa? Perché l’Occidente non impone sanzioni all’Azerbaijan?». Vardanyan, noto filantropo e oligarca russo (con cittadinanza armena), è sempre più contestato per i suoi altrettanto noti e stretti rapporti con il Cremlino. Amicizie che gettano più di un’ombra sul suo operato. «L’ascesa e il ruolo di Vardanyan sono in diretto contrasto con l’impegno decennale nella costruzione di istituzioni democratiche in Karabakh», ha dichiarato l’analista Richard Giragosian. Ma l’oligarca russo “prestato” – secondo i suoi sempre più numerosi detrattori – alla causa della piccola Repubblica de facto, glissa e continua a spingere su un improbabile dialogo con gli azeri. Ma soprattutto non è intenzionato a rinunciare alla poltrona di premier, notizia data per certa a Yerevan dove circola insistentemente da settimane. «Non mi dimetterò. Anche le possibili dimissioni del Presidente o lo scioglimento del Parlamento sono inaccettabili. Dobbiamo riunire tutti i nostri sforzi per superare questa orribile situazione» ha dichiarato.
L’Armenia ha le mani legate. L’Armenia, madrepatria del Karabakh (sebbene non ne abbia mai riconosciuto l’indipendenza) ha le mani legate dopo la pesante sconfitta subita due anni fa nella Guerra dei 44 giorni. E il suo premier Nikol Pashinyan sa perfettamente di essere con le spalle al muro. È immobilizzato in primis dall’ingombrante alleato russo che, impantanato militarmente in Ucraina, non può permettersi un nuovo fronte nel Caucaso dove ha già molti conti in sospeso per l’occupazione dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, territori strappati alla Georgia; è intimorito dalla Turchia armenofoba di Erdogan intenzionata a portare a termine il genocidio armeno (mai riconosciuto) iniziato un secolo fa dall’Impero Ottomano, ecatombe per un milione e mezzo di vittime innocenti; attaccato sul campo dall’Azerbaijan della famiglia Aliyev, al potere da oltre trent’anni, intoccabile per i suoi grassi affari con l’Europa affamata di gas; indebolito dalle proteste popolari agitate dalla débâcle bellica e diplomatica, certo, ma non meno dal peso della crisi sociale ed economica in cui da tempo è sprofondato il Paese.
Le reazioni della comunità internazionale. I ministri degli Esteri di Armenia e Nagorno Karabakh un mese fa avevano ammonito con chiarezza la comunità internazionale: «L’assenza di una reazione adeguata all’aggressione azera potrebbe causare nuovi tragici sviluppi». Ne ha discusso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 20 dicembre. E l’indomani – dopo il decesso di un uomo rimasto senza cure a causa dei confini bloccati – la Corte europea dei Diritti umani ha intimato agli azeri di consentire l’evacuazione dei pazienti più gravi. E l’Italia? Il 12 gennaio il ministro della Difesa Guido Crosetto ha incontrato a Baku il presidente Aliyev per «discutere – come ha sottolineato in una nota la nostra ambasciata – di stabilità regionale e nuove prospettive di collaborazione». Tradotto: nuovi affari in campo militare e gas a volontà. Ma non una parola sulla grave crisi – regionale e umanitaria – che sta soffocando, giorno dopo giorno, il Nagorno Karabakh. L’appello degli armeni è stato fortunatamente raccolto dal Tribunale internazionale dell’Aia, il principale organo di giustizia delle Nazioni Unite: la Corte ha convocato Azerbaijan il 30 gennaio per «la richiesta di provvedimenti legati all’applicazione della Convenzione internazionale contro qualsiasi forma di discriminazione razziale». Se non sarà troppo tardi.

Armenia: storia di un popolo coraggioso e tenace (periodicolaesperanza.com 17.01.23)

L’Armenia storica è un territorio molto più vasto del piccolo stato caucasico che porta il nome di Repubblica di Armenia. Come regione storica, l’Armenia è situata a est del corso superiore dell’Eufrate, a sud del Caucaso e a nord della Mesopotamia; un vasto altopiano che congiunge il Continente Europeo a quello asiatico, da sempre crocevia di traffici commerciali che hanno determinato la storia della civiltà.

Su questa «terra di mezzo» domina il monte Arat, che supera i 5000 metri, su cui secondo la tradizione si è arenata l’arca di Noè: «Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti» (Genesi, 8, 4-5). Oggi questa zona conta complessivamente circa 5 milioni di abitanti, fino agli inizi dell’Ottocento essa era popolata prevalentemente da Armeni, cristiani, sedentari e dediti all’agricoltura, da curdi, pastori nomadi e musulmani, e da minoranze di Iranici, Turchi, Tatari, Russi, Circassi e Georgiani. La Repubblica di Armenia occupa solo il territorio della vecchia Armenia sovietica, mentre la maggior parte dell’Armenia storica si trova entro i confini attuali della Repubblica di Turchia.

La storia dell’Armenia è molto antica, un continuum culturale lunghissimo che è per noi impossibile riassumere in un breve articolo: i primi reperti di arte armena risalgono al terzo millennio avanti Cristo. In origine il territorio che formò la Grande Armenia era un insieme di piccole entità statali popolate da indoeuropei, le quali si saldarono insieme nel Regno di Van-Urartu (860-585 a.C.), un nome che dovrebbe rimandare ancora all’Ararat biblico. Diverse invasioni posero fine alla prosperità dello stato, prima vennero i Cimmeri e gli Sciti, poi i Persiani (VI-IV sec. a.C.) e Alessandro Magno. In estrema sintesi, nel I secolo avanti Cristo, l’Armenia fu unificata da Tigrane II detto il Grande (140 a.C. ca.-55 a.C., Re dal 95 a.C. alla sua morte), che nel 69 a.C. fu sconfitto da Lucullo (117 a.C.-56 a.C.), e nel 66 a.C. la regione accettò la protezione romana.

L’Armenia fu il primo stato ad adottare il Cristianesimo come religione ufficiale; Re Tiridate III (250-330), si convertì con la sua corte e venne battezzato da Gregorio Illuminatore (257 ca.-332 ca.): nel 301 dichiarò il Cristianesimo Religione di Stato. Nel 387 l’Armenia fu spartita tra l’Impero Romano d’Oriente e quello Persiano, nel VII secolo fu colpita dalle invasioni arabe e dopo un periodo di indipendenza fu conquistata dai Selgiuchidi nel 1064. Seguirono invasioni mongole e infine la sottomissione ai Turchi Osmanli nel 1473, da allora l’Armenia fu terra di scontro tra la potenza turca e la Persia. Le burrasche che si abbatterono sugli armeni li spinsero già molti secoli or sono a lasciare la loro Patria per trovare fortuna altrove. Nel 1715 approdò a Venezia l’Abate Mechitar di Sebaste (1676-1749), che due anni dopo fondò la Congregazione armena dei Padri Mechitaristi, insediata nella laguna veneta presso l’isola di San Lazzaro, affidatagli dalla Repubblica di Venezia.

Niños armenios deportados y maltratados por los turcos. Imagen del genocidio armenio

L’Armenia persiana fu conquistata dai Russi nel 1828 e seguì le sorti di quel popolo. Nell’Armenia ottomana, invece, la nascita del nazionalismo turco coincise con persecuzioni sempre più violente verso gli Armeni (1894, 1895-96, 1909), sospettati di ordire tentativi insurrezionali per conseguire l’indipendenza. L’odio razziale dei nazionalisti turchi culminò nel genocidio del 1915-20, con una grande diaspora che si sommò alle precedenti. Il Medz Yeghern (il grande crimine) compiuto dai Turchi è stato raccontato dalla scrittrice padovana Antonia Arslan in un suo famoso romanzo edito nel 2004, La masseria delle allodole, che attinge da ricordi e testi storici: «[I Turchi] hanno ordini precisi. L’operazione deve essere condotta in modo molto moderno, con precisione chirurgica. Bisogna evitare di allarmare o coinvolgere, con spettacoli pietosi, i vicini di casa degli armeni, i loro amici turchi, i missionari americani, gli ebrei, i greci poi, che sono tanti. La partenza deve svolgersi con fredda regolarità, nessuno deve ricordarsi delle scomposte cacce all’uomo dei tempi del sultano, quando i cadaveri degli armeni morti venivano accatastati trionfalmente per le strade di Erzerum o di Costantinopoli e qualcuno si è fatto immortalare da reporter occidentali in piedi sul mucchio, appoggiato a un fucile». Il genocidio armeno fu programmato con freddezza e lucidità.

Vai al sito

La crisi del Nagorno-Karabakh evidenzia il declino dell’influenza globale della Russia 18.01.23)

Di Gabriel Gavin – Mariam Abrahamyan è una donna difficile da contattare. Appare sullo schermo solo per pochi istanti prima che l’immagine si blocchi e lei abbandoni la videochiamata. “Mi dispiace”, dice dopo aver richiamato un minuto dopo, “la corrente è saltata di nuovo e internet è andato giù”.

Da più di un mese la trentenne armena, madre di tre figli, è tagliata fuori dal resto del mondo a causa di un blocco quasi totale dell’unica strada per entrare o uscire dal Nagorno-Karabakh, il territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian, che lei e la sua famiglia chiamano casa. L’Azerbaigian ha bloccato i rifornimenti regolari di cibo e medicinali, e la gente del posto dice che gli scaffali dei supermercati sono vuoti e le farmacie stanno esaurendo le prescrizioni mediche essenziali, mentre i funzionari avvertono che ora potrebbe verificarsi una carestia.

“Non pensavamo che sarebbe durata così a lungo”, dice Abrahamyan. “Ma ciò che è davvero spaventoso è non sapere quando finirà. Abbiamo preso la decisione di rimanere qui, e temo il giorno in cui uno dei miei figli potrebbe voltarsi e chiedere perché abbiamo scelto di vivere in un posto come questo”.

Il Nagorno-Karabakh ha già visto due guerre nel corso della vita di Abrahamyan. Negli anni ’90, quando l’Unione Sovietica si è dissolta, gli ex membri Armenia e Azerbaigian hanno combattuto una serie di feroci battaglie per la regione montuosa, con centinaia di migliaia di sfollati di etnia azera e migliaia di morti da entrambe le parti. Il Nagorno-Karabakh si trova all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale dall’Azerbaigian, ma è chiuso dietro una linea di mine e posizioni difensive e per tre decenni è stato accessibile solo dall’Armenia. Governato come Repubblica non riconosciuta di Artsakh, i suoi funzionari indicano due referendum tenuti nel 1991 e nel 2006 come prova che gli abitanti hanno scelto l’indipendenza.

Ma nel 2020 le truppe azere lanciarono un’offensiva per riconquistare il Nagorno-Karabakh, conquistando vasti territori e lasciando agli armeni del Karabakh il controllo della sola capitale de facto, Stepanakert, e dell’area circostante. Solo un cessate il fuoco, mediato da Mosca, ha posto fine alla guerra, ponendo l’unica autostrada che collega il Nagorno-Karabakh all’Armenia – nota come Corridoio di Lachin – sotto il controllo di un contingente di pace russo di 1.500 uomini, mentre le truppe azere stazionavano dietro la recinzione metallica su entrambi i lati della strada.

Tuttavia, con la Russia impantanata in Ucraina, si teme che il Nagorno-Karabakh, segnato dalla battaglia, possa essere nuovamente teatro di un conflitto se Mosca non interviene.

La strada verso il nulla

La mattina del 12 dicembre, un gruppo di autodefinitisi eco-protestanti azeri ha superato le forze di pace russe e si è accampato sul corridoio di Lachin, bloccando il traffico. Sostengono che i karabakh-armeni abbiano usato la strada per esportare oro estratto illegalmente a spese dell’ambiente, importando mine e altro materiale militare mentre i russi stanno a guardare. Ora, i funzionari dicono che i convogli russi per il mantenimento della pace e un piccolo numero di veicoli di soccorso della Croce Rossa sono gli unici in grado di passare – neanche lontanamente sufficienti a sostituire le 400 tonnellate di merci che arrivavano quotidianamente dall’Armenia.

“Non vediamo molto i russi”, dice Adnan Huseyn, uno degli organizzatori azeri del sit-in. “Nei primi giorni abbiamo avuto un contatto visivo con le forze di pace, ma non ci sono stati problemi. Abbiamo guardato insieme la Coppa del Mondo, il che è stato davvero piacevole. Per la maggior parte del tempo sono rimasti in silenzio”.

Mentre il gruppo di Huseyn insiste sul fatto che si sta allontanando per i convogli umanitari e nega di stare organizzando un blocco, l’Armenia sostiene che sono stati inviati dall’Azerbaigian per innescare una crisi e porre le basi per una “pulizia etnica” della regione. Il presidente azero Ilham Aliyev, il cui governo ha ripetutamente represso le proteste politiche in patria, ha descritto i manifestanti come l’orgoglio della nazione, mentre gli osservatori si sono affrettati a sottolineare che pochi hanno precedenti di attivismo ambientale.

Tom de Waal, senior fellow di Carnegie Europe e autore di diversi libri sul conflitto, ha sostenuto che i manifestanti sono stati “evidentemente mandati lì dal governo di Baku” e le nazioni occidentali, compresi gli Stati Uniti, hanno chiesto all’Azerbaigian di sbloccare la strada.

Ora la rabbia cresce, mentre la situazione umanitaria si fa sempre più grave e la Russia sembra riluttante a forzare la riapertura della strada. “L’Armenia è un fermo sostenitore delle forze di pace russe”, ha dichiarato a dicembre il primo ministro Nikol Pashinyan, quando è diventato chiaro che i manifestanti erano lì per restare. “Ma per noi è inaccettabile che stiano diventando un testimone silenzioso dello spopolamento del Nagorno-Karabakh”.

Promesse non mantenute

A Stepanakert, i manifesti di propaganda delle forze di pace russe sono appesi alle vetrine dei negozi e guardano le file di scaffali vuoti. Uno recita: “Karabakh, vivi in pace”. Per molti armeni della regione separatista, il russo è una lingua madre al pari dell’armeno e Mosca è stata a lungo vista come uno stretto alleato. Ma dopo la guerra del 2020, molti locali affermano che la loro esistenza è più precaria che mai e che l’Azerbaigian è intenzionato ad affermare il controllo sul loro Stato non riconosciuto.

In un sondaggio pubblicato dal Caucasus Research Resource Center a gennaio, meno della metà dei 400 intervistati armeno-karabakh ha dichiarato che l’indipendenza aiuterebbe a risolvere il conflitto nel territorio conteso. Quasi uno su quattro ha detto che preferirebbe essere annesso da Mosca e ricevere uno status speciale come parte della Federazione Russa, un numero leggermente superiore a quello che sostiene l’unificazione con l’Armenia.

“Non sono un politico”, dice Abrahamyan. “So solo che i russi hanno il dovere di proteggerci e non lo stanno facendo”.

Il 24 dicembre, una delegazione di armeno-karabakh ha marciato verso il posto di blocco delle forze di pace sul corridoio di Lachin, dove gli azeri hanno organizzato il loro sit-in, per chiedere la riapertura della strada. “L’ufficiale russo ci ha detto di tornare a casa e di non preoccuparci”, racconta Marut Vanyan, un blogger 39enne di Stepanakert che si è unito al gruppo. “Ci ha detto che la strada sarebbe stata riaperta entro due giorni, come prima. Non è mai successo”.

Secondo Vanyan, uno degli organizzatori della protesta ha detto alle forze di pace che la gente del posto stava perdendo fiducia in loro e che, se il peggio fosse arrivato, avrebbero preso le loro famiglie e se ne sarebbero andati – con Mosca che avrebbe perso la sua posizione nella regione.

Tre giorni dopo, decine di uomini, donne e bambini si sono recati ai cancelli della sede del peacekeeping per chiedere risposte. “Putin, mantieni la tua parola”, recitava un cartello portato da un ragazzo. Le guardie hanno detto alla folla che non erano riuscite a contattare il loro comandante, il generale maggiore Andrey Volkov, e che lui era l’unico in grado di rispondere alle loro domande. Molti armeno-karabakh temono che un blocco prolungato o un’altra offensiva militare azera possa costringerli a lasciare definitivamente le loro case.

Un uomo di Mosca?

L’Azerbaigian ha a lungo accusato l’Armenia di essere uno Stato fantoccio russo, sottolineando l’appartenenza di Erevan all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva guidata da Mosca e gli stretti legami economici tra i due Paesi. Allo stesso tempo, appena due giorni prima dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca il 24 febbraio, lo stesso Aliyev si è recato a incontrare il Presidente Vladimir Putin e a firmare un accordo per migliorare le loro relazioni a livello di alleanza.

Ma la situazione di stallo tra le due parti si è aggravata nelle ultime settimane dopo che un enigmatico oligarca russo-armeno, Ruben Vardanyan, ha annunciato di volersi trasferire in Nagorno-Karabakh a settembre. Il miliardario nato a Yerevan era inizialmente schivo riguardo alla ricerca di cariche politiche ma, due mesi dopo, è stato improvvisamente nominato Ministro di Stato della Repubblica non riconosciuta dell’Artsakh, diventando di fatto l’uomo più potente di Stepanakert da un giorno all’altro.

Da allora, i colloqui con l’Azerbaigian si sono interrotti e Aliyev ha accusato Vardanyan di essere stato “inviato da Mosca con un’agenda molto chiara”. I funzionari di Baku sottolineano il fatto che sia stato sanzionato dall’Ucraina come prova dei suoi stretti legami con lo Stato russo. Secondo Kiev, i suoi interessi commerciali “minano o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina”.

Parlando in collegamento video dal suo ufficio nella regione bloccata, Vardanyan respinge queste accuse. “La gente non capisce quando uno come me decide di rinunciare alla sua famiglia e al suo stile di vita”, dice con un mezzo sorriso. “Ho deciso che è il momento giusto per stare con il mio popolo e la nazione [armena]”.

Il 54enne magnate bancario è attento a non criticare direttamente il ruolo delle forze di pace russe nel Nagorno-Karabakh, ma nega fermamente che Mosca abbia un’influenza indebita sulla regione. “Non posso prendere il telefono e chiamare Vladimir Putin”, dice ridendo, “le forze di pace sono solo 2.000 persone che si frappongono tra la popolazione armena e il considerevole esercito azero. È dura, ed è chiaro che l’attenzione della Russia non è qui: è in Occidente, vista l’Ucraina”.

Crisi al Cremlino

“Per Putin, la conquista dell’Ucraina è diventata una questione onnicomprensiva e c’è poco interesse ai vertici per qualsiasi altra cosa”, afferma Jade McGlynn, ricercatrice presso il Dipartimento di studi sulla guerra del King’s College di Londra. “La ricerca di Mosca di aumentare la propria influenza l’ha resa una potenza ridotta e meno formidabile nel Caucaso meridionale. Putin forse non se ne rende conto, ma il Ministero degli Esteri sì: viene solo messo da parte. I giovani diplomatici sono disperati”.

Mentre gli armeni del Karabakh temono che le loro richieste di aiuto cadano nel vuoto, altri si chiedono se Mosca sia mai stata un garante affidabile della sicurezza. “La Russia sta sfruttando il conflitto per favorire i propri interessi. In definitiva, la sua strategia consiste nel mantenere una presa imperiale sulla regione”, afferma Michael Cecire, consulente politico senior presso la Commissione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, un’agenzia governativa statunitense.

Da Erevan, Pashinyan chiede ora alla comunità internazionale nel suo complesso di intervenire per porre fine alla crisi umanitaria nel Nagorno-Karabakh, sostenendo che una missione di pace delle Nazioni Unite dovrebbe subentrare se i russi non possono rispettare i loro impegni. Gli Stati Uniti, insieme al Regno Unito e ad alcune nazioni europee, hanno espresso preoccupazione per la situazione, mentre la Francia è emersa come uno dei principali alleati dell’Armenia, presentando una mozione di condanna di Baku al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che non ha avuto successo.

Martedì, RFERL ha riferito che l’Unione Europea ha accettato di inviare una missione di monitoraggio in Armenia per un periodo di due anni, segno che Bruxelles è preoccupata dalla prospettiva di nuovi scontri lungo il confine internazionalmente riconosciuto tra Armenia e Azerbaigian. Anche se il team civile non entrerà nel Nagorno-Karabakh, la mossa è stata interpretata come un segno che l’Occidente si sta facendo avanti per riempire il vuoto di potere lasciato dalla Russia.

Ma Elin Suleymanov, ambasciatore dell’Azerbaigian in Gran Bretagna, afferma che nessuna potenza esterna sarà in grado di imporre una soluzione allo stallo sulla regione. “Il problema dell’Armenia è la dipendenza strutturale – e ora guardano all’Occidente sperando che la Francia sia il loro grande papà”.

Per Vardanyan, confinato nella regione bloccata in cui si è trasferito da pochi mesi, il mondo esterno sembra molto lontano e avverte che gli armeni del Karabakh non possono aspettarsi di dipendere da nessuno se non da loro stessi.

“È come una favola russa: c’è un eroe davanti a un bivio”, dice. “In un modo si perde l’indipendenza, in un altro si perde la propria casa. La terza via è quella di combattere. Non vogliamo la guerra, ma tra queste tre opzioni dobbiamo fare una scelta, anche se è pericolosa e si può perdere la vita. Dobbiamo essere pronti a questo”.

Vai al sito


Putin con problemi anche nelle Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale

Primo piano Premio Mimmo Candito, menzione speciale a Daniele Bellocchio (18.01.23)

l Premio Opera a un’inchiesta di Federica Tourn sugli abusi sessuali subiti dalle suore, pubblicata da Millenium, mensile del Fatto Quotidiano. Una menzione per il reportage di Daniele Bellocchio sul Nagorno Karabakh. Il Premio Progetto d’inchiesta a Letizia Tortello (La Stampa) sulla condizione delle donne in Marocco. Una menzione speciale a Valerio Cataldi, RaiNews 24, per un lavoro sul mistero della morte di Dario Paciolla. 

Sono le decisioni della giuria della seconda edizione del Premio Mimmo Candito – per un Giornalismo a Testa Alta, composta dal Presidente Paolo Griseri (La Stampa), Marina Forti (Internazionale), Simona Carnino (vincitrice della prima edizione) e Vincenzo Vita (Il Manifesto).

…….

CORAGGIOSO FREELANCE

La giuria ha assegnato una menzione particolare al reportage di Daniele Bellocchio sul Nagorno Karabakh, pubblicato da Inside Over: “Il lavoro di un coraggioso freelance che si distingue per l’articolata struttura del reportage e la capacità di seguire sul campo nel corso del tempo le vicende di una guerra ormai dimenticata”.

Vai al sito

La storia degli Arslan incrocia quella del paese (Il Giornale di Vicenza 17.01.23)

Gran pienone in sala Paradiso di villa Barbarigo per il ritorno, dopo due anni di stop a causa dellapandemia di Covid, della rassegna “Martedì culturali” su iniziativa dell’assessorato alla cultura.Ospite della serata inaugurale è stata la scrittrice di origine armena Antonia Arslan che hapresentato il suo ultimo libro “Il destino di Aghavnì”. Dialogando con il vicesindaco Barbara Candeo,Arlsan ha ricordato il legame con Noventa, dove suo nonno, il medico Yerwant Arslanian, alla finedell’800 assistette gli ammalati di colera dopo che nel 1836 i Padri Armeni Mechitaristi acquisironovilla Barbarigo facendone un collegio fino al 1891. La serata ha visto anche l’esposizione di alcuniquadri dell’artista vicentino Saoul Costa raffiguranti le basiliche di San Marco di Venezia e SantaSofia di Istanbul e un cielo stellato. Ospite del secondo appuntamento del ciclo che si svolgerà ogginella sala mostre con inizio alle 20.30 sarà la scrittrice pojanese Arianna Petracin che presenterà isuoi due libri “Sky the black wolf” e “L’inferno è femmina”. .

Gugerotti entrato alle Chiese orientali «Dramma guerra» (L’Arena 17.01.23)

È tornato dove ha cominciato il suo cammino. È entrato in servizio, come prefetto del Dicastero per leChiese orientali, il veronese monsignor Claudio Gugerotti, 67 anni, nominato da papa Francesco nelnuovo incarico il 21 novembre scorso. Sinora Gugerotti era stato nunzio apostolico in Gran Bretagna eprima in Stati dell’ex Unione Sovietica come Ucraina, Bielorussia e poi Georgia, Armenia eAzerbaigian.Nella sede del Dicastero, a Roma, in via della Conciliazione – in quel palazzo in cuiabitò tra gli altri il pittore Raffaello Sanzio, vissuto tra ‘400 e ‘500 – Gugerotti ha cominciato lasua nuova attività. Salutando e accogliendo i procuratori dei patriarchi delle Chiese orientalicattoliche e i rettori dei collegi orientali a Roma e quello del Pontificio Istituto Orientale.Formatosi a Verona all’istituto Don Nicola Mazza, prete da 40 anni, Gugerotti ha studiatoall’Università Ca’ Foscari di Venezia laureandosi in lingue e letterature orientali. Ha conseguito lalicenza in liturgia al Pontificio Ateneo Sant’ Anselmo e il dottorato in Scienze ecclesiasticheorientali al Pontificio Istituto Orientale. Dove ha insegnato, oltre che a Venezia, Padova e Roma,come pure alla Gregoriana. «Provo una grande commozione, perché dopo 21 anni ritorno dove cominciai da giovane, appena ordinatoprete», dice Gugerotti, «e ho la percezione che tutte queste Chiese vivono in un tempo di guerra e insituazioni drammatiche. E io opererò mostrare la carità del Papa».. E.G

Gli armeni veneziani chiedono aiuti per l’Artsakh accerchiato (La Nuova di Venezia e Mestre 17.01.23)

Parte da Venezia l’appello alle istituzioni di non dimenticare quanto sta avvenendo nella regione delNagorno – Karabakh, noto anche come Artsakh, l’enclave armena che si è proclamata indipendente nel1991, ma che di fatto fa parte della Repubblica dell’Azerbaigian. Dal 12 dicembre gli azeri hanno bloccato l’unica strada (il Corridoio di Lacin) che connette l’Armeniaalla capitale del Karabach, Stepanakert, con la conseguenza che non arrivano più cibo, medicinali ocarburante; molte persone sono bloccate; Internet è tagliato e i soccorsi sono difficili. Insomma,l’unico cordone ombelicale è interrotto così come l’arrivo di tutto quello che è necessario per i130mila abitanti per vivere. A parlare della situazione di repressione che molti armeni stanno vivendo in questo periodo è GregorioZovighian, dentista del Lido, nonché autore di uno dei testi più completi su questa regione ai piùsconosciuta: “Storia del Karabagh. Dall’antichità all’indipendenza”, edito da Nuova Phromos. «Chiediamo che le varie potenze che hanno voce in capitolo e che comprano il gas dall’Azerbagianrispettino i diritti umani», spiega Zovighian dando voce alla comunità armena veneziana che ha comecuore il monastero mechitarista dell’Isola di San Lazzaro. Zovighian è nato in Italia da una famiglia armena arrivata nel 1912 a Pavia e nel 1948 a Venezia. Quiil lidense ha frequentato il collegio armeno e non ha mai smesso di partecipare a tutte le iniziativedei mechitaristi. «Non stiamo chiedendo che si interrompano le forniture di gas, ma che sia chiaro chese si continuano a calpestare i diritti umani e siano pronte delle sanzioni, come si sta facendo conla Russia. Questo silenzio è assordante». La scintilla che ha fatto riaccendere il nuovo attacco, che interrompe la tregua del 9 novembre 2020quando gli azeri e i turchi avevano invaso la regione, è stata una protesta di ambientalisti che hannobloccato il Corridoio di Lachin. «Sono sedicenti ambientalisti, ma in realtà agenti dei servizi segreti o militari camuffati daecologisti. La regione è presa di mira da azeri e turchi perché è l’unico pezzo di terra che nonpermette continuità territoriale tra Turchia e Azerbagian», spiega Zovighian, elencando le numeroseviolazioni di diritti umani commesse ogni giorno, documentate da tante organizzazione umanitarie, comeAmnesty International. «Non vogliamo che le parole e il documento del Coordinamento delleorganizzazioni armene d’Italia rimanga nel silenzio e chiediamo dei gesti concreti per indurre leautorità azere a rimuovere il blocco». Sulla situazione armena dall’11 febbraio (vernissage alle 18.30) all’Anda Venice Hostel di viaOrtigara a Mestre aprirà la mostra “Armenian revolution”, con foto di Giovanni Ferrari e l’intervento  del professor Aldo Ferrari e della ricercatrice Sona Haroutyunian

Quello che il colonialismo ha insegnato a Hitler (L’Espresso 17.01.23)

 3 MINUTI DI LETTURA

Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche entravano ad Auschwitz. Dal 2005 quella data è stata scelta come Giorno della Memoria della Shoah: un evento marcato ogni anno da cerimonie, libri, documentari, spettacoli teatrali. Tutto questo ha portato anche a un altro risultato oltre a quello che ci si prefiggeva. Ripensare e rivedere nei dettagli lo sterminio degli ebrei ha spinto a rileggere alla luce della Shoah altre pagine tragiche della storia, in particolare per quanto riguarda il colonialismo europeo nei paesi che venivano chiamati del “Terzo Mondo”. E questo ha spinto gli storici a ricostruire la catena di orrori che, come una serie di “prove generali”, ha portato ai campi di concentramento nazisti.

Fino a pochi anni fa l’unico precedente della Shoah veniva rintracciato nel mondo islamico ai danni di una popolazione cristiana: nel genocidio armeno commesso dai turchi, che tra il 1915 e 1916 uccisero un milione e mezzo di persone. Un massacro che ancora oggi avvelena i rapporti con l’estero della Turchia, che rifiuta non solo di chiedere scusa (come fa, per riprendere il parallelo con il colonialismo, Macron nei confronti dell’Algeria) ma apre crisi diplomatiche con qualsiasi Stato parli ufficialmente di genocidio, o con qualsiasi istituzione ne riconosca la ricorrenza, che è il 24 aprile. Anche sul massacro degli armeni, come sulla Shoah, oltre ai saggi storici si fanno sempre più numerosi i racconti personali: come l’ultimo romanzo di Antonia Arslan, “Il destino di Aghavnì” (Edizioni Ares): la storia romanzata di un’antenata dell’autrice che in un giorno del 1915 uscì di casa con il marito e i due bambini per andare da una zia e semplicemente sparì, non tornò mai più.

Che il massacro degli armeni sia stato l’evento storico che ha dato ai nazisti l’idea della “soluzione finale” è cosa nota: «Chi si ricorda più dell’annientamento degli armeni?», pare abbia detto Hitler per assicurare ai suoi il successo dello sterminio degli ebrei. Ma in realtà nella storia coloniale della Germania c’era un precedente pesante, molto vicino agli anni del nazismo e fino a poco tempo fa quasi completamente rimosso: lo sterminio degli harara, popolo della Namibia, che all’inizio del Novecento era una colonia tedesca. A riportare alla luce le violenze dei tedeschi in Africa, e il legame tra questi stermini coloniali e quello che avrebbero realizzato in Europa contro persone considerate di “razze inferiori”, è servito il premio Nobel ad Abdulrazak Gurnah. L’eco delle violenze dei colonizzatori nell’Africa Orientale è in tutte le opere dello scrittore tanzaniano, ma in “Voci in fuga” (La Nave di Teseo) il protagonista Ilyas finisce lui stesso in un campo di concentramento tedesco, dove rivive le violenze già conosciute nel Paese in cui era nato.

Tornando indietro nella storia alla ricerca del primo genocidio europeo si incrocia il recente romanzo ecologista di Amitav Gosh, “La maledizione della noce moscata” (Neri Pozza). Sono gli olandesi, questa volta, a uccidere o deportare tutti gli abitanti dell’unica isola indonesiana in cui cresceva in natura l’albero che produceva la spezia, che nel Seicento era ricercata quanto le pietre preziose.

Gli inglesi, invece, hanno sulla coscienza un massacro sistematico in Tasmania: non si sa quanti aborigeni ci vivessero prima del 1802, quando arrivarono le prime navi inglesi. Quel che è certo è che 70 anni dopo non ce n’era più neanche uno. Inchieste citate da siti dedicati a questi argomenti (informazionescomodadifferentmagazine) calcolano che in Australia il 90 per cento degli aborigeni siano morti per cause legate alla colonizzazione: direttamente (massacri, battaglie, omicidi sistematici) o indirettamente (furto di terre, epidemie, distruzione dell’habitat e delle abitudini di agricoltura e di caccia).

Che i frutti avvelenati del colonialismo continuino a intossicare il mondo contemporaneo (anche perché il colonialismo non è finito: vedi la Guyana francese o Gibilterra inglese…) lo dimostra la situazione in Israele. Nel saggio “Decolonizzare la Palestina” (Meltemi), lo studioso Somdeep Sen applica le categorie del colonialismo e della lotta di liberazione alla storia di Hamas (il sottotitolo è “Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo”). Dalla vittoria nelle elezioni del 2006, questa organizzazione islamista paramilitare si trova a portare avanti la resistenza armata contro Israele mentre è al governo in Palestina: un paradosso che rende ancora più esplosiva una situazione già disperata. Che gli arabi abbiano vissuto la decisione di europei, americani e sovietici di far nascere lo Stato di Israele come la creazione di una nuova colonia europea era chiaro almeno fin da “Gerusalemme! Gerusalemme!” (Mondadori), il thriller storico di Dominique Lapierre e Larry Collins del 1971 che è stato un caso editoriale. E che a 52 anni dalla pubblicazione non ha perso la sua efficacia.

Vai al sito

Karabakh: l’oligarca russo-armeno Vardanyan difende il ruolo ‘pacificatore’ di Mosca (Asianews 17.01.23)

È ministro della enclave separatista armena in territorio azero. Critico del premier di Erevan, Nikol Pašinyan. Vuole un mandato più ampio per le truppe russe di pacificazione. Secondo Baku le sue sono “fantasie e illusioni”. Secondo l’Azerbaigian, i soldati di Putin possono restare al massimo fino al 2025.

Mosca (AsiaNews) – L’oligarca russo-armeno Ruben Vardanyan (v. foto), “ministro di Stato” della non riconosciuta repubblica del Nagorno-Karabakh, è intervenuto durante un collegamento televisivo con Erevan per difendere le forze di pace della Russia. Il contingente russo è criticato dall’Armenia per non aver evitato la chiusura del corridoio di Lachin da parte dell’Azerbaigian.

Il miliardario ha rinunciato alla cittadinanza russa per rivestire ruoli pubblici a Stepanakert, capitale dell’Artsakh, l’enclave separatista armena che gli azeri chiamano Khankendi.

A suo parere, “la strada nel corridoio di Lachin deve essere sbloccata dai dirigenti di tutte gli Stati e delle società dove prevalga il buon senso”. Il compito degli armeni deve essere quello di appoggiare i pacificatori russi, “far sentire loro che stanno svolgendo qui un ruolo importante, e noi armeni non gli siamo contro, li sentiamo al nostro fianco”. Vardanyan invita tutti a smettere di criticare la Russia in questa situazione, “perché altrimenti si fa il gioco degli azeri”.

La presenza dei russi è l’unica garanzia per gli armeni del Karabakh: “Se non ci fossero loro, qui non ci saremmo più neanche noi”, quindi bisogna fare in modo che rimangano sul posto a lungo termine, rafforzando le proprie posizioni. Vardanyan garantisce che questa è la posizione condivisa dal “governo dell’Artsakh”, secondo il quale il mandato conferito alle forze di pace russe è “troppo limitato”, e permette una presenza “in formato ridotto”. Il compito dei cittadini armeni del Karabakh è quello di “compattarsi per difendere il proprio territorio, e non di attirare solo l’attenzione del mondo intero”.

Vardanyan esprime una posizione molto critica nei confronti del governo di Erevan, e del premier Nikol Pašinyan, che ripete da giorni la richiesta ai russi di assumersi la responsabilità di spingere Baku a riaprire il collegamento tra l’Artsakh e l’Armenia. L’oligarca invece assicura di confidare nell’appoggio “di tutto il mondo civilizzato”.

Egli infatti si fa portavoce dei suoi concittadini, esprimendo la convinzione “che in tutti i Paesi normali si ritiene inaccettabile che 120mila persone rimangano in inverno senza elettricità, senza riscaldamento, senza cibo e medicine”, confidando in tutte le persone di buona volontà che “vivono e governano in Armenia e nel mondo intero”.

Le posizioni di Vardanyan vengono criticate in modo duro da parte azera, come scrive Akper Gasanov su Zerkalo. Baku le considera “fantasie e illusioni”, quando anche l’Armenia, secondo gli accordi dell’incontro di Praga, “ha riconosciuto l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, compresa la provincia economica del Karabakh, di cui fa parte anche Khankendi”, e bisogna smettere di “parlare del fantomatico Artsakh, non riconosciuto da nessuno”, sul cui territorio lo stesso politico-oligarca si troverebbe “illegalmente”.

Secondo gli azeri, “l’Armenia non è in grado di garantire da sola la sua sicurezza” e dipende in tutto dalla Russia, non potendo esprimere una propria linea di politica estera, quindi “è ridicolo mettersi a fare la lista dei Paesi normali e di quelli incivili”. Tra le affermazioni di Vardanyan, a stupire i commentatori azeri vi sono quelle sulla “strada della vita”, che permette di far passare “almeno qualche medicina e un po’ di cibo”, senza precisare di quale itinerario stia parlando.

Secondo Gasanov, “questo personaggio che ha deciso di mettersi a giocare alla grande politica, sta semplicemente annegando nelle onde delle proprie stesse menzogne”, quando si tratta soltanto di “un emissario di Mosca”. Secondo la versione azera, sono gli stessi russi a bloccare il corridoio di Lachin, “impedendo l’accesso agli ecologisti azeri alla miniera d’oro di Gyzylbulag e a quella di rame di Demirl, saccheggiate dai separatisti del Karabakh”. Gli azeri sono disponibili a prolungare l’accordo con i pacificatori russi “fino al 2025, e non per decenni come pretende Vardanyan”, il cui ruolo nella vicenda, e nell’intera politica armena, è ancora tutto da definire.

Vai al sito