Serj Tankian: «Gli armeni lottano con un’autocrazia sostenuta da Putin: li difendiamo?» (Rolling Stone 24.11.22)

Nella settimana di settembre in cui è stata scoperta una fossa comune a Izium, in Ucraina, l’Azerbaigian ha sferrato una serie di attacchi brutali allo Stato sovrano dell’Armenia, facendo centinaia di vittime. Il primo dei due eventi è stato in prima pagina su New York TimesWashington Post e CNN, con denunce da parte dei leader mondiali e delle organizzazioni internazionali. Del secondo s’è parlato per un giorno ed è stato presto dimenticato.

La cosa non mi sorprende. Stanchi di sentire dei massacri che si svolgono in giro per il mondo, scegliamo le tragedie che c’indignano di più. La Russia di Putin è percepita come uno Stato canaglia, mentre la dittatura cleptocratica di Ilham Aliyev in Azerbaigian resta fuori dai radar. In un certo senso è comprensibile, visto che chiaramente c’è un giro di corruzione sotto, ma la situazione è complicata. Cercherò perciò di semplificare.

Nel racconto di una storia, la presenza di un cattivo da cartoon aiuta e sono perciò lieto di annunciare che tutto è iniziato con Joseph Stalin.

Il 4 luglio 1921, la rappresentanza nel Caucaso del Comitato Centrale del Partito comunista sovietico ha votato per annettere all’Armenia le regioni montuose della regione del Karabagh, che costituisce la parte più grande dell’attuale Azerbaigian, con il 95% della popolazione di etnia armena. L’idea era creare repubbliche coese dal punto di vista etnico all’interno dell’Unione Sovietica.

Il leader sovietico aveva altri piani, ben più ingegnosi: desiderava che le repubbliche non avessero un senso, per ridurre le possibilità che si costituissero in Stati indipendenti. E perciò all’indomani è intervenuto per integrare il Karabakh nell’Azerbaigian sovietico, come parte di una provincia autonoma. È stato un brutto colpo per gli armeni, che giungeva a pochi anni di distanza dalle grandi macchinazioni dall’alto che avevano causato la cessione delle città armene di Krs e Ardahan alla Turchia e di Naxçıvan all’Azerbaigian. Nel 1915, un milione e mezzo di armeni sono stati trucidati dai turchi, dando così origine al termine genocidio.

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1990, la stragrande maggioranza degli armeni della provincia di Nagorno-Karabakh ha votato a favore dell’annessione della regione da parte dell’Armenia. L’Azerbaigian ha reagito con massacri degli armeni in Azerbaigian e attacchi militari contro il Nagorno-Karabakh. Gli armeni hanno avuto la meglio a livello militare instaurando un modello di autonomia e democrazia libero dalla dittatura dell’Azerbaigian.

Poi è arrivato il 2020, anno in cui l’Azerbaigian, con l’aiuto della Turchia, è tornato all’attacco. Durante una guerra brutale durata 44 giorni, che ha provocato migliaia di vittime, l’Azerbaigian ha occupato il territorio conteso e ha deportato decine di migliaia di armeni. Non soddisfatto, Aliyev ora sta cercando di accaparrarsi anche una parte di territorio dello Stato sovrano dell’Armenia.

La Russia è storicamente garante della sicurezza dell’Armenia. Ma ora, distratta dalla follia delle ambizioni imperialiste sull’Ucraina, ha abbandonato l’Armenia per avvicinarsi a Turchia e Azerbaigian. Visto il disinteresse del mondo occidentale, gli armeni si sentono abbandonati al loro destino.

Si trovano di fronte un Azerbaigian deprecabile: è un Paese in cui vige pochissima libertà e i diritti umani sono ancora meno rispettati, ed è gestito come un’impresa privata dagli Aliev. Ilham, un autocrate della stessa pasta del Dottor Male in Austin Powers, ha ereditato il suo attuale feudo dal padre funzionario del KGB, ha eletto la moglie vicepresidente e amministra il Paese, ricco di risorse energetiche, come un bancomat per comprare il silenzio del mondo. Il suo alleato, il presidente turco Erdogan, è un autocrate islamico che comanda in una finta democrazia che opprime la minoranza curda, invade la Siria e minaccia Cipro, la Grecia e l’Armenia.

E poi c’è Putin, ma di lui sapete tutto.

Non vi sorprenderà apprendere che questo triumvirato di tiranni sta giocando una partita per i combustibili fossili incentrata… sull’Azerbaigian. In sostanza, hanno bisogno di far passare petrolio e gas naturali provenienti dall’Azerbaigian e dall’Iran verso la Turchia e i Paesi europei che li vorranno acquistare. Per farlo, devono creare un corridoio che attraversi l’Armenia. E vorrebbero avere il controllo su questo corridoio, il che spiega molto bene l’ultima invasione. In più, la Lukoil russa è padrona di circa il 25% delle riserve petrolifere dell’Azerbaigian nel Mar Caspio, per cui Putin resterà ugualmente un attore nel gioco, anche nel caso l’Europa rifiuti di comprare direttamente da Mosca.

Il malcontento degli Stati Uniti nei confronti di questo condotto è il motivo per cui alcuni politici americani stanno cercando di fare in modo che venga proclamato un cessate il fuoco che duri nel tempo. E spiega anche perché a settembre la speaker della Cameram Nancy Pelosi, è volata a Yerevan, la capitale dell’Armenia, e ha denunciato pubblicamente l’aggressione dell’Azerbaigian.

Ma l’Europa, ossessionata dalla propria sicurezza energetica, è stata incline a essere conciliante con Aliyev. Difatti Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha firmato di recente un accordo sul gas definendo Aliyev “affidabile” (cosa che, si dice, l’ha reso sufficientemente sicuro da attaccare l’Armenia poche settimane dopo).

Ma agli europei va bene stare a guardare mentre l’Azerbaigian fa pulizia etnica in Nagorno-Karabagh e in Armenia, in cambio di un incremento appena dell’1% nella fornitura energetica da parte di  Aliyev? Non credo proprio. Probabilmente la maggior parte degli europei non ne sa nulla.

Dovrebbero informarsi presso il Lemkin Institute, Human Rights Watch e le altre organizzazioni che hanno lanciato l’allarme per gli atti genocidi compiuti dall’Azerbaigian nei confronti degli armeni. Siamo parlando di un Paese, l’Azerbaigian, in cui i bambini vengono educati a odiare gli armeni, il che spiega i molti video in circolazione che ritraggono esecuzioni sommarie dei prigionieri di guerra da parte dei soldati azeri e orribili mutilazioni inflitte ai militari armeni e ai civili.

L’Azerbaigian è diventato un luogo da evitare per molti viaggiatori che sono stati nel Nagorno-Karabagh. È il caso di Anthony Bourdain, che ho avuto il privilegio di portare in Armenia nel 2017 per il programma della CNN Parts Unknown. Tony disprezzava Aliyev, Erdogan e Putin. L’ho avvertito che sarebbe finito nella lista nera e la sua reazione è stata del tipo «non me ne frega un cazzo».

Mi sembra che sia così per tutto quanti, ma in senso opposto.

Mi è stato detto che per via della copertura a tappeto della guerra in Ucraina e delle proteste in Iran le media company non hanno spazio per altre tragedie umanitarie internazionali. Riservare solo a certe vittime mietute dai nostri nemici internazionali è una forma ipocrita di empatia.

Mentre accade tutto questo, a Baku, capitale dell’Azerbaigian, si giocano partite di calcio internazionali, ci sono competizioni di Formula 1 programmate per la prossima primavera e artisti internazionali hanno annunciato date in teatri e sale da concerto.

Dovremmo prendere esempio da alcuni ucraini coraggiosi come Max Barskih che ha annullato un suo spettacolo dichiarando che «non mi esibisco nei Paesi che ne aggrediscono altri». O come la cantante ucraina Tina Karol, che ha cancellato il suo show a Baku e ha postato “Armenian Lives Matter” su Instagram. Sono grato per questi gesti di solidarietà.

È il momento di boicottare e sanzionare l’Azerbaigian, aggiungendolo all’elenco dei Paesi che commettono gravi violazioni dei diritti umani e si macchiano di crimini di guerra. Mai più… d’accordo?

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X Factor 2022, Rosa Linn ospite del 5° Live Show (Xfactor.sky.it 23.11.22)

Rosa Linn, la talentuosa e giovanissima artista armena in gara all’Eurovision Song Contest 2022 si esibirà sul palco di X Factor al quinto Live Show in onda giovedì 24 novembre!

Rosa Linn è l’artista e producer armena più famosa del momento!

La ventiduenne, che vive nel suo Paese natale con la madre, spiega “[In Armenia] devi far tutto da solo, dall’organizzare concerti a trovare il pubblico… tutto senza agevolazioni e sponsor, perché non ci sono né infrastrutture né un’industria musicale. Avevo paura di non riuscirci, ma non ho voluto rinunciare al mio sogno“.

Nel 2021 ha pubblicato il suo primo singolo “KING” insieme alla cantautrice multiplatino Kiiara. Grazie a questo primo slancio, l’artista è stata poi selezionata per l’Eurovision Song Contest 2022 dove si è esibita con il suo nuovo singolo “SNAP”, che è il brano con il maggior numero di stream dell’intera manifestazione.

SNAP” è certificato Disco di Platino in Italia, con mezzo miliardo di stream25 milioni di visualizzazioni su YouTube, oltre 1 MILIONE di video su TikTok e sta scalando tutte le classifiche mondiali. Infatti, è al momento il brano più trasmesso in radio in Europa, si trova nella Top 10 (#7) della classifica FIMI/GFK dei singoli più venduti in Italia e dei brani più trasmessi in radio (#9), ha raggiunto la Top 3 della classifica italiana di Shazam (#2); Top 5 della classifica Viral italiana e globale di Spotify;Top 10 della classifica globale di Shazam (#8); Top 20 della classifica globale di Spotify (#16); Top 40 della classifica italiana di Spotify (#39).

Siamo carichissimi per ascoltare Rosa Linn sul palco del Quinto Live Show, giovedì 24 novembre!

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Voi europei non avete occhi per vedere il piano diabolico in atto contro gli armeni (Tempi.it 22.11.22)

Perché gli invasori turchi e azeri si sono fermati nel novembre del 2020, e non hanno affondato il colpo? Non è stato per obbedire a Putin o per generosità, volendo evitare una strage di civili inermi. Ma per tenere aperta la strada a ben altra conquista. Una sorta di pit-stop per riaccreditarsi come ragionevoli pretendenti. Indi mandare a monte le trattative. Cercare un nuovo casus belli, e partire stavolta alla conquista dell’intera Repubblica d’Armenia.
Se non siete disposti a credermi, se la stima che mi avete fin qui dimostrato avesse anche solo una scalfittura, allora strappate la pagina molokanesca, appallottolatela, e procedete a letture più amene.
Ho da dirvi un fatto, quasi una folgorazione. Sulle amate sponde ahimè incerte sul loro destino del lago di Sevan – scriverebbe Omero «di argentee trote guizzanti» – una luce ha illuminato la scena con nitore indicibile. Non sono pazzo, né un mitomane che pretende di spacciarsi per san Gregorio l’Illuminatore redivivo dopo …

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Nagorno Karabakh, il treno dei negoziati (Osservatorio Balcani e Caucaso 22.11.22)

“Distratta dallo sforzo bellico in Ucraina la Russia ha paradossalmente spianato la strada alla pace, anche se per adesso solo a parole, fra Armenia e Azerbaijan mostrando di non essere la soluzione del problema ma, al contrario, il problema”. Un commento

22/11/2022 –  Paolo Bergamaschi

Non mi stancherò mai di ripetere che per comprendere appieno la crisi ucraina occorre avere una visione di insieme di quello che è successo nello spazio post-sovietico a partire dagli anni Novanta.

Isolare il conflitto odierno dal contesto geopolitico da cui origina causa evidenti errori di valutazione. La guerra di oggi è stata preceduta da altri conflitti che presentano molti tratti sovrapponibili per quanto riguarda la genesi, la dinamica, gli sviluppi e la gestione. Conoscere quello che è accaduto prima ci aiuta a capire meglio quello che sta avvenendo adesso. Delle sei ex repubbliche dell’Unione sovietica che si trovano in Europa l’unica a non essere mai stata interessata da una guerra è la Bielorussia. Armenia, Azerbaijan, Georgia, Moldavia e, oggi, l’Ucraina sono alle prese con conflitti che, con l’eccezione di quest’ultima, si trascinano dal giorno della frantumazione dell’Urss.

Tutti questi conflitti sono pilotati direttamente o indirettamente da Mosca che non ha mai fatto mistero di considerare le ex repubbliche sovietiche come paesi satelliti a sovranità limitata da trattenere in tutti i modi nell’orbita russa. Per Vladimir Putin la fine dell’Unione sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo. Da allora la politica estera russa ha avuto come obiettivo la divisione, la destabilizzazione, la dominazione e, come ultima ratio, la distruzione dei paesi vicini che non accettano i diktat del Cremlino.

Transnistria, Ossezia meridionale, Abkhazia e Nagorno Karabakh erano regioni quasi sconosciute in Europa occidentale divenute, in seguito, tristemente famose per le guerre di cui sono vittime. In Nagorno Karabakh, peraltro, l’ultimo atto del conflitto si è consumato nell’ottobre del 2020 con più di 7000 morti. Le relazioni fra Armenia e Azerbaijan erano turbolente già prima della fine dell’Urss proprio a causa di questa regione in territorio azero popolata in prevalenza da armeni.

Con l’accordo mediato da Mosca due anni fa 2000 soldati russi presidiano il cessate-il-fuoco faticosamente raggiunto dalle parti. Non si tratta, però, di una vera pace. Da trent’anni Armenia e Azerbaijan sono in guerra e per trent’anni hanno negoziato inutilmente una soluzione che mettesse fine alle ostilità. La Russia ha sempre giocato un ruolo chiave nel conflitto rifornendo di armi entrambi i paesi, siglando un’alleanza militare con l’Armenia ma allo stesso tempo alimentando le rivendicazioni degli azeri.

Nessuna pace è possibile senza il volere di Mosca, era il segreto di Pulcinella che circolava nei corridoi della diplomazia internazionale. Grazie a questo conflitto la Russia poteva controllare entrambi i paesi obbligandoli, di fatto, ad allinearsi alle sue ambizioni di stampo imperiale. La pace, per dirla senza mezze parole, non era, e non è, nell’interesse di Putin.

Da quando è scoppiata la crisi ucraina, però, si sono improvvisamente aperti nuovi scenari nel Caucaso meridionale. La diplomazia di Bruxelles è entrata in gioco facilitando incontri bilaterali ai massimi livelli. Sono già quattro i colloqui che si sono tenuti negli ultimi tempi fra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev con la mediazione europea.

L’ultimo si è svolto a Praga il sei ottobre scorso ai margini della prima riunione della Comunità Politica Europea, l’organismo voluto da Emmanuel Macron per rilanciare la cooperazione fra tutti i paesi del vecchio continente.

L’ambizione dichiarata dai due leader è quella di concludere un accordo di pace entro la fine dell’anno. Mai in precedenza le parti si erano spinte così avanti fino al punto di impegnarsi al riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale e, quindi, implicitamente dell’appartenenza del Nagorno Karabakh all’Azerbaijan salvo definirne, in seguito, lo status. Una commissione bilaterale è già al lavoro per arrivare a un’intesa sulla demarcazione dei confini. Per prevenire nuovi incidenti l’Ue, su sollecitazione dei due contendenti, ha inviato quaranta osservatori sulla linea di frontiera.

Allarmato dai nuovi sviluppi Putin ha provato a rientrare in gioco convocando lo scorso 31 ottobre, a sua volta, Pashinyan e Aliyev sul mar Nero per ristabilire la sua leadership sul processo in corso ma l’incontro si è concluso con un nulla di fatto.

Il treno dei negoziati è in marcia e per la prima volta l’autocrate del Cremlino non si trova alla guida della locomotiva. Distratta dallo sforzo bellico in Ucraina la Russia ha paradossalmente spianato la strada alla pace, anche se per adesso solo a parole, fra Armenia e Azerbaijan mostrando di non essere la soluzione del problema ma, al contrario, il problema. Sono, purtroppo, tanti quelli che in Italia giustificano, più o meno consapevolmente, l’aggressione russa all’Ucraina. Da quello che succede nel Caucaso, però, si può trarre un’utile lezione.

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La Russia prova a mediare (ancora) tra Armenia e Azerbaijan (Il Caffe Geopolitico 21.11.22)

In breve

  • Il 13 settembre hanno avuto luogo scontri al confine tra Armenia e Azerbaijan. I Governi si accusano a vicenda dell’accaduto.
  • La questione riguarda sia il Nagorno-Karabakh, occupato dagli azeri in gran parte, che le aree di confine tra i due Paesi.
  • Sia Baku che Erevan sono alleate di Mosca ma questa non può “sbilanciarsi”. Putin tenta quindi una mediazione tra le parti.

Caffè lungo – Le ostilità tra Armenia e Azerbaijan costringono la Russia a guardare anche nel Caucaso. Mentre il fronte ucraino resta caldo, Putin tenta di mediare, ancora una volta, tra le parti, entrambe sue alleate.

L’ENNESIMO SCONTRO TRA ARMENIA E AZERBAIJAN

Il 13 settembre scontri di confine hanno riacceso l’annoso conflitto tra Armenia e Azerbaijan. I rispettivi Governi si accusano reciprocamente per la ripresa delle ostilità. I due Paesi avevano firmato un cessate il fuoco, con la mediazione russa, nel novembre 2020, a seguito di un conflitto durato 44 giorni e costato la vita a circa 6.500 persone. Nell’interesse di una pacificazione il Presidente russo, Vladimir Putin, riuscì in quell’occasione a convincere le parti a stipulare un accordo, visto come “incredibilmente doloroso” dal Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan. Il Presidente azero Ilham Aliyev, al contrario, dichiarò che la soluzione tracciata quel giorno sarebbe stata vantaggiosa per entrambi i popoli.

L’esito di quegli eventi, ad ogni modo, è stata l’occupazione delle truppe azere di parte del Nagorno-Karabakh e dei territori adiacenti. La Russia, garante della fragile tregua, inviò un contingente di quasi 2000 uomini a vigilare sul confine conteso. Gli scontri dello scorso settembre, ad ogni modo, rappresentano la più grave violazione finora avvenuta di quell’accordo avendo provocato 286 vittime in totale. Il Cremlino, intervenendo al fine di ripristinare una cessazione delle ostilità, ha tentato una nuova mediazione mirante ad una possibile parziale autonomia dell’area. Il 31 ottobre a Sochi, su territorio russo, Putin ha convocato Pashinyan e Alyev per un vertice conclusosi con l’impegno dei Paesi in conflitto a gettare le basi per una normalizzazione dei rapporti, rinunciando all’uso della forza.

Fig. 1 – Vladimir Putin insieme ai leader di Azerbaijan e Armenia all’incontro di Sochi, 31 ottobre 2022

LE REAZIONI DI EREVAN E BAKU

In risposta agli eventi dello scorso 13 settembre, Pashinyan ha inviato un appello sia all’ONU che all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO). Quest’ultima è un’alleanza militare guidata da Mosca di cui l’Armenia fa parte. Inoltre il premier armeno si è rivolto direttamente a Mosca in virtù del Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra Armenia e Russia. Pashinyan ha avuto colloqui telefonici, oltre che con Putin, anche col Presidente francese Emmanuel Macron e col Segretario di Stato statunitense Antony Blinken. Successivamente, il 6 ottobre, il leader armeno ha preso parte al vertice quadrilaterale della Comunità politica europea svoltosi a Praga. Invitati da Macron e dal Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il Primo Ministro di Erevan e il Presidente azero hanno avuto modo di incontrarsi e proprio in quell’occasione hanno espresso le rispettive posizioni riguardo la proposta di una missione civile dell’UE sul fronte. L’iniziativa European Monitoring Capacity (EUMCAP) ha avuto avvio il 20 ottobre con l’invio di osservatori sul lato armeno del confine con l’Azerbaijan. Le autorità di Baku non hanno acconsentito alla presenza degli osservatori sul proprio territorio, riservandosi tuttavia di collaborare con la missione nell’ambito delle proprie competenze.

Fig. 2 – Michel, Pashinyan, Macron e Aliyev durante il vertice della Comunità politica europea a Praga, 6 ottobre 2022

Da parte sua il Presidente azero Ilham Aliyeva margine di un incontro avuto con Putin il 16 settembre, ha auspicato che la situazione possa stabilizzarsi nel Nagorno-Karabakh, questione che il leader ritiene ormai interna all’Azerbaijan. Nel frattempo, il Governo di Baku ha stretto accordi strategici con Bruxelles in campo energetico. La riduzione delle forniture di gas dovuta alla crisi dei rapporti con Mosca ha costretto l’UE a guardare altrove per diversificare l’approvvigionamento. L’accordo con l’Azerbaijan per l’aumento delle importazioni, tuttavia, non è stato accolto unanimemente con favore in sede europea. Il rischio paventato è che l’Europa, laddove troppo dipendente dal gas azero, non sia poi in grado di fare pressioni sul Governo di Baku su alcuni temi caldi come il rispetto dei diritti umani, la corruzione e la democrazia.

LA (TENTATA) MEDIAZIONE RUSSA

Con i recenti sviluppi nella vicenda ucraina, ulteriori crisi nella regione potrebbero ripercuotersi sugli interessi di Mosca. Per questo Putin vuole porsi ancora come mediatore tra Armenia e Azerbaijan. Ma il Cremlino deve agire con la massima cautela e evitare di schierarsi apertamente da una parte o dall’altra. Il rischio è di perdere influenza a favore di USA o UE. Nel 2020 Washington e Parigi non riuscirono a mediare una tregua, impresa poi riuscita a Mosca, ma ciò non ha impedito successivamente nuovi tentativi diplomatici da parte occidentale. Tra il dicembre 2021 e lo scorso agosto Pashinyan e Aliyev si sono incontrati in quattro vertici organizzati dall’UE e presieduti da Michel. Inoltre, la citata missione civile dell’UE, della durata prevista di due mesi, non è vista di buon occhio dal Cremlino, che ha definito l’operazione nulla più che “un ulteriore tentativo dell’Ue di intervenire nelle relazioni tra Azerbaijan e Armenia, e di lavorare contro gli sforzi di mediazione russa”.

Fig. 3 – Soldati azeri festeggiano il secondo anniversario della vittoria in Nagorno-Karabakh per le strade di Baku8 novembre 2022

Nonostante i menzionati contatti tra Pashinyan e gli attori occidentali deve tenersi presente, in ogni caso, che il Governo armeno, alleato di Putin, è tra quelli che non hanno condannato l’intervento russo in Ucraina, dipendendo il Paese economicamente e politicamente dalla Russia. Allo stesso tempo, l’Armenia si sta facendo carico di una parte dei cittadini russi in fuga dalla madrepatria (a causa della recente mobilitazione lanciata dal Cremlino) così come altri Stati dell’Asia centrale. Infine, la Russia deve guardarsi anche dalla crescente influenza della Turchia nel Caucaso. Militarmente il Governo di Ankara sta appoggiando la causa azera, con le truppe di Baku addestrate e armate proprio dai turchi.

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LAURA EPHRIKIAN, AUTRICE DEL ROMANZO “UNA FAMIGLIA ARMENA” (Il punto quotidiano 19.11.22)

MARINA GALLUCCI – Laura Ephrikian (in arte Efrikian), annunciatrice televisiva, attrice e scrittrice italiana, nata a Treviso il 14 giugno 1940, è figlia di un famoso musicista di origine armena, Angelo Ephrikian, violinista, compositore e direttore d’orchestra. Sin da giovane ha amato il mondo dello spettacolo e per questo motivo decise di studiare recitazione al “Piccolo Teatro” di Milano. La sua carriera inizia in Rai, come annunciatrice; all’epoca era giovanissima e in poco tempo vide aprirsi per lei le porte della televisione. Nel 1961 Laura condusse “Canzonissima”, mentre l’anno seguente affiancò Renato Tagliani e Vicky Ludovisi al “Festival di Sanremo”; inoltre si affermò come attrice teatrale e cinematografica. Dopo la fine degli anni ’60, Laura si allontanò dalle scene e vi fece ritorno sporadicamente negli anni ’90 e 2000; solo di recente è apparsa in televisione in alcune occasioni, rilasciando qualche intervista e confidandosi a cuore aperto, ma prima, data la sua riservatezza, avevamo su di lei davvero poche informazioni. Per la maggior parte delle persone il personaggio di Laura Efrikian è inevitabilmente legato a quello di un’altra star italiana: Gianni Morandi. I due si conobbero da ragazzi e nel 1966 convolarono a nozze. Sin da subito, purtroppo, la loro storia fu segnata da un dramma: nel 1967 Laura partorì la primogenita Serena, che morì poche ore dopo aver visto la luce; un evento tragico, che scosse dalle fondamenta la sua relazione con Gianni, soprattutto considerando che erano ancora molto giovani. In seguito ebbero altri due figli: Marianna (1969) e Marco (1974), che avranno poi famiglie numerose e renderanno Laura una nonna felicissima. Nel 1979 Laura e Gianni divorziarono. Da quel momento, dunque, di Laura Efrikian abbiamo saputo molto poco. Scomparsa anche dalle scene, ella si è ritirata a vita privata dedicandosi ai figli e ai nipoti, oltre che alle sue più grandi passioni. Ha cercato di reinventarsi come rappresentante di abiti e poi come doppiatrice, per poi scoprire la sua vera strada: l’arredatrice d’interni. Tanti anni fa, facendo beneficenza in Africa, si è innamorata del Kenya e ha comprato una casa al confine con la Somalia; e proprio in queste splendide terre ha conosciuto il suo nuovo compagno, con il quale si frequenta dagli inizi del 2000. Oggi Laura si divide tra l’Italia e il Continente Nero, dove si occupa di un orfanotrofio ed è sempre in prima linea per combattere la povertà. È una grande amante della pittura, passione che porta avanti nel suo tempo libero e ha scritto anche un altro romanzo: “Come l’olmo e l’edera”. La storia narrata in “Una famiglia armena” è autobiografica; l’autrice conduce il lettore nella storia in punta di piedi, sommessamente raccontando il fluire degli eventi nella vita di una bambina nata a Treviso nel giugno del ’40, mentre nei cieli d’Europa si incrociavano le scie di aerei militari impegnati in disastrose operazioni belliche. E lei, di essere nata in una famiglia “sui generis” si era accorta già quando le avevano cominciato a chiedere conto dello strano cognome che portava. Il padre Angelo, che lei descrive «affascinante, intenso, sofferto»,  aveva un trisavolo console nel 1828, e Akop, il nonno paterno, figura emblematica per la famiglia Ephrikian, con baffi e occhi nerissimi era rimasto solo sin da giovane, in seguito ad uno dei tanti eccidi episodici perpetrati dai Turchi anche prima del noto genocidio del 1915. «Ben prima del 1915 gli Armeni – spiega Laura Ephrikian – avevano posti di grandissimo impegno in quasi tutti i settori economici della Turchia, basti pensare che 16 delle 18 banche più importanti dell’Impero ottomano erano armene». L’unico legame con gli Armeni da bambina era questo strano nonno che non parlava bene l’italiano e che la chiamava col nome armeno Gaianè: «Con quel nome gentile mi faceva entrare nel suo mondo segreto, che più tardi avrei tanto amato e che mi avrebbe fatto sentire, in buona parte, armena».

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UNA FAMIGLIA ARMENA- AL NIFO LA STORIA DEL POPOLO INVISIBILE

I venti di guerra e le conseguenze sul Nagorno-Karabakh (Corriere Romagna 18.11.22)

Non mi stancherò mai di ripetere che per comprendere appieno la crisi ucraina occorre avere una visione di insieme di quello che è successo nello spazio post-sovietico a partire dagli anni novanta. Isolare il conflitto odierno dal contesto geopolitico da cui origina causa evidenti errori di valutazione. La guerra di oggi è stata preceduta da altri conflitti che presentano molti tratti sovrapponibili per quanto riguarda la genesi, la dinamica, gli sviluppi e la gestione. Conoscere quello che è accaduto prima ci aiuta a capire meglio quello che sta avvenendo adesso.

Delle sei ex repubbliche dell’Unione sovietica che si trovano in Europa l’unica a non essere mai stata interessata da una guerra è la Bielorussia. Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia e, oggi, l’Ucraina sono alle prese con conflitti che, con l’eccezione di quest’ultima, si trascinano dal giorno della frantumazione dell’Urss. Tutti questi conflitti sono pilotati direttamente o indirettamente da Mosca che non ha mai fatto mistero di considerare le ex repubbliche sovietiche come paesi satelliti a sovranità limitata da trattenere in tutti i modi nell’orbita russa.

Per Vladimir Putin la fine dell’Unione sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo. Da allora la politica estera russa ha avuto come obiettivo la divisione, la destabilizzazione, la dominazione e, come ultima ratio, la distruzione dei paesi vicini che non accettano i diktat del Cremlino. Transnistria, Ossezia meridionale, Abchazia e Nagorno-Karabakh erano regioni quasi sconosciute in Europa occidentale divenute, in seguito, tristemente famose per le guerre di cui sono vittime.

In Nagorno-Karabakh, peraltro, l’ultimo atto del conflitto si è consumato nell’ottobre del 2020 con più di 7000 morti. Le relazioni fra Armenia e Azerbaigian erano turbolente già prima della fine dell’Urss proprio a causa di questa regione in territorio azero popolata in prevalenza da armeni. Con l’accordo mediato da Mosca due anni fa 2000 soldati russi presidiano il cessate-il-fuoco faticosamente raggiunto dalle parti. Non si tratta, però, di una vera pace. Da trent’anni Armenia e Azerbaigian sono in guerra e per trent’anni hanno negoziato inutilmente una soluzione che mettesse fine alle ostilità. La Russia ha sempre giocato un ruolo chiave nel conflitto rifornendo di armi entrambi i paesi, siglando un’alleanza militare con l’Armenia ma allo stesso tempo alimentando le rivendicazioni degli azeri.

Nessuna pace è possibile senza il volere di Mosca, era il segreto di Pulcinella che circolava nei corridoi della diplomazia internazionale. Grazie a questo conflitto la Russia poteva controllare entrambi i paesi obbligandoli, di fatto, ad allinearsi alle sue ambizioni di stampo imperiale. La pace, per dirla senza mezze parole, non era, e non è, nell’interesse di Putin. Da quando è scoppiata la crisi ucraina, però, si sono improvvisamente aperti nuovi scenari nel Caucaso meridionale.

La diplomazia di Bruxelles è entrata in gioco facilitando incontri bilaterali ai massimi livelli. Sono già quattro i colloqui che si sono tenuti negli ultimi tempi fra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev con la mediazione europea. L’ultimo si è svolto a Praga il sei ottobre scorso ai margini della prima riunione della Comunità Politica Europea, l’organismo voluto da Emmanuel Macron per rilanciare la cooperazione fra tutti i paesi del vecchio continente. L’ambizione dichiarata dai due leader è quella di concludere un accordo di pace entro la fine dell’anno. Mai in precedenza le parti si erano spinte così avanti fino al punto di impegnarsi al riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale e, quindi, implicitamente dell’appartenenza del Nagorno Karabakh all’Azerbaigian salvo definirne, in seguito, lo status.

Una commissione bilaterale è già al lavoro per arrivare a un’intesa sulla demarcazione dei confini. Per prevenire nuovi incidenti l’Ue, su sollecitazione dei due contendenti, ha inviato quaranta osservatori sulla linea di frontiera. Allarmato dai nuovi sviluppi Putin ha provato a rientrare in gioco convocando lo scorso 31 ottobre, a sua volta, Pashinyan e Alyiev sul mar Nero per ristabilire la sua leadership sul processo in corso ma l’incontro si è concluso con un nulla di fatto. Il treno dei negoziati è in marcia e per la prima volta l’autocrate del Cremlino non si trova alla guida della locomotiva. Distratta dallo sforzo bellico in Ucraina la Russia ha involontariamente spianato la strada alla pace, anche se per adesso solo a parole, fra Armenia e Azerbaigian mostrando di non essere la soluzione del problema ma, al contrario, il problema. Sono, purtroppo, tanti quelli che in Italia giustificano, più o meno consapevolmente, l’aggressione russa all’Ucraina. Da quello che succede nel Caucaso, però, si può trarre un’utile lezione.

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L’Artsakh accoglie con favore il desiderio dell’Azerbajgian di avviare un dialogo diretto (Korazym 18.11.22)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 18.11.2022 – Vik van Brantegem] – Il Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Ruben Vardanyan (foto di copertina), ha accolto con favore il “desiderio del Presidente azero Ilham Aliyev di avviare un dialogo diretto con l’Artsakh”. Vardanyan ha osservato che “l’Artsakh dovrebbe essere soggetto in questo processo”. Vardanyan ha suggerito la parte azera di “passare a un tono più costruttivo” e ha detto che vorrebbe ottenere chiarimenti sulla “chiara agenda” che Aliyev apparentemente persegue.

«La perdita di Artsakh non è solo la perdita di un territorio: è la perdita della nostra identità, dell’immagine nazionale e delle radici armene» (Ruben Vardanyan).

“Accolgo inoltre con favore l’istituzione di un nuovo formato per i negoziati diretti attraverso la mediazione internazionale. La Francia, il cui Senato ha recentemente adottato una risoluzione contenente una clausola sul riconoscimento del Nagorno-Karabakh [QUI], deve essere tra i mediatori internazionali, insieme a Russia e Stati Uniti”, ha detto Vardanyan in un post su Facebook, ricordando che la Francia è anche un co- Presidente del gruppo di Minsk dell’OSCE. “Ho ripetutamente sottolineato di aver rinunciato alla cittadinanza russa per evitare accuse di perseguire gli interessi di qualcun altro nell’Artsakh, ad eccezione degli interessi del popolo dell’Artsakh. Credo di rispettare pienamente il criterio di un negoziatore proposto dal Signor Aliyev”, ha detto Vardanyan.

I commenti arrivano dopo che il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, ha dichiarato: “Se [l’Armenia] vuole parlare dei diritti e della sicurezza degli Armeni in Karabakh, allora non funzionerà. Siamo pronti a parlarne con gli Armeni che vivono in Karabakh. Siamo pronti a parlare con persone che vivono in Karabakh e vogliono vivere lì. Siamo pronti per questo. A proposito, questo processo è iniziato”. Aliyev ha sottolineato che senza interferenze dall’esterno e tentativi di fermare questo processo, “si potrebbe andare in modo più dinamico”.

“La guerra porta sempre la guerra. A volte questo accade anche dopo un cambio di diverse generazioni. L’aggressione oggi è una bomba a orologeria piazzata sotto le future generazioni dei nostri popoli. Ciò significa che i leader delle due parti devono assumersi la piena responsabilità e, per quanto difficile possa essere, sedersi al tavolo dei negoziati e fermare lo spargimento di sangue”, ha detto in risposta il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan.

Il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan, il 16 novembre 2022 ha presieduto la riunione del Governo della Repubblica dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh: «Dobbiamo superare insieme molte sfide difficili». Durante la riunione, è stato approvato il progetto di legge sul bilancio statale dell’Artsakh, presentato dal Ministro delle Finanze e dell’Economia, Vahram Baghdasaryan. Vardanyan ha osservato che, secondo la procedura stabilita, il progetto di bilancio deve essere presentato all’Assemblea nazionale. “La mia posizione è che dovremmo rivedere gli approcci di bilancio. Ma il processo di elaborazione del bilancio è iniziato prima che assumessi l’incarico. Quindi, tenendo conto dell’importanza di mantenere la stabilità finanziaria, in questa fase è necessario presentare il progetto di bilancio già formulato e lavorare nei prossimi mesi per stabilire un nuovo budget basato sui principi di budget programming”. Parlando della situazione finanziaria ed economica, il Ministro di Stato ha osservato che le difficili condizioni create non consentono più di lavorare secondo il sistema precedente. La situazione di crisi richiede una corretta valutazione delle opportunità e delle risorse disponibili e il loro utilizzo modo efficace massimo, tenendo conto delle sfide odierne. “Abbiamo seri problemi, compreso un grande deficit di bilancio, e per risolvere questi problemi devono essere prese decisioni difficili e talvolta anche impopolari. Altrimenti non riusciremo a superare la crisi. Lo dico per far capire chiaramente la realtà e far capire che insieme dobbiamo superare molte sfide difficili”, ha sottolineato Vardanyan. Il Ministro di Stato ha dato mandato agli organi dell’amministrazione statale, nonché alle istituzioni e agli organismi che operano sotto la loro autorità, di astenersi da ulteriori acquisti e dall’assunzione di nuovi obblighi finanziari fino alla fine dell’anno.

Ruben Vardanyan è un noto imprenditore, banchiere d’affari e filantropo russo-armeno, il cui patrimonio netto è stimato secondo Forbes in 1,3 miliardi di dollari. Nel 2021 ha ottenuto la cittadinanza armena e successivamente ha rinunciato alla cittadinanza russa. Si è trasferito in Armenia e poi in Artsakh, dove ha accettato la proposta di guidare il Governo della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Il 4 novembre 2022 è stato nominato alla carica di Ministro di Stato dal Presidente Arayik Harutyunyan.

Ruben Vardanyan in una chiesa nell’Artsakh poco dopo aver annunciato il suo trasferimento lì.

Il Ministro di Stato dell’Artsakh coordina le attività di tutti i Ministeri eccetto la Difesa, gli Interni e il Servizio di Sicurezza Nazionale. Al Ministro di Stato sono assegnate inoltre le funzioni di coordinamento delle attività dei Capi delle agenzie Servizio di vigilanza dello Stato, Comitato di gestione del Catasto e del Demanio, Comitato per i danni materiali, Comitato delle entrate dello Stato, Comitato di gestione degli Ispettorati dello Stato, Comitato delle Acque. Nella sostanza, Ruben Vardanyan è una sorta di Primo Ministro della Repubblica.

Conosciuto come il padre del mercato azionario russo, Vardanyan ha co-fondato la società di investimento Troika Dialog all’inizio degli anni ’90. Nel 2013, Vardanyan e i suoi manager hanno venduto Troika Dialog alla Sberbank russa di proprietà statale per 1,4 miliardi di dollari. Nel 2014 Vardanyan ha fondato la società di investimenti Vardanyan, Broitman e Partner, che serve persone con un patrimonio netto ultra elevato. È ben noto in Armenia per i suoi sforzi filantropici lì. Ha fondato la Fondazione Iniziativa per lo Sviluppo di Armenia (IDeA), che realizza progetti di sviluppo e detiene il Premio Aurora di alto profilo per gli umanitari di tutto il mondo. È anche uno dei fondatori dello United World College di Dilijan, una scuola d’élite.

Come abbiamo riferito alcuni giorni fa [QUI], sostenendo l’iniziativa del Governo dell’Artsakh, la Fondazione Iniziativa per lo Sviluppo di Armenia (IDeA) ha avviato nel 2014 il restauro della moschea iraniana Yukhari Govhar Agha di Sushi, con il sostegno di donazioni private, con notevoli contributi della Fondazione Ripristino del Patrimonio Storico Orientale di Vardanyan e dell’uomo d’affari kazako Kairat Boranbayev. Vardanyan ha partecipato il 14 ottobre 2019 all’apertura della moschea Yukhari Govhar Agha, la vicina madrasa e il parco, per essere utilizzati come Centro Culturale Armeno-Iraniano, alla presenza del Presidente della Repubblica di Artsakh, Bako Sahakyan; del Presidente del Parlamento di Artsakh, Ashot Ghulyan; e di altri funzionari governativi.

«Se diventiamo tutti un’unica catena montuosa, abbandonando le nostre ambizioni, unendoci attorno a un’idea, allora non saremo sconfitti, salveremo la nostra Artsakh» (Ruben Vardanyan).

Quando ieri il Presidente dell’Azerbajgian ha affermato, che Baku è pronta a parlare direttamente con gli Armeni del Nagorno Karabakh, ma non con alcun funzionario governativo, ha anche descritto Vardanyan come “l’uomo di Mosca”, inviato in Artsakh con un programma speciale da portare avanti. Invece, Vardanyan ha replicato di essere qualificato per negoziare a nome degli Armeni di Artsakh una soluzione della questione del Nagorno-Karabakh con l’Azerbajgian.

“Voglio mostrare quanto sia importante l’Artsakh per me e per tutti noi”, ha detto in un video pubblicato il 1° settembre 2022 sulla sua pagina Facebook: “Dopo la guerra del 2020, noi Armeni di tutto il mondo hanno l’obbligo di stare insieme alla gente dell’Artsakh. Dobbiamo offrire non solo supporto morale, ma aiuto concreto”. Ha detto di aver rinunciato alla sua cittadinanza russa dopo aver ottenuto la cittadinanza armena nel 2021 e di essere venuto in Artsakh come cittadino armeno. Mentre ha presentato la sua decisione come un gesto patriottico, volto a rafforzare il precario controllo armeno sul Nagorno-Karabakh, alcuni hanno ventilato il sospetto che le sue motivazioni possano avere a che fare più con le pesanti sanzioni finanziarie imposte dagli Stati Uniti e dell’Europa per la guerra della Russia in Ucraina. “Vardanyan ha guadagnato miliardi in Russia. Ora potrebbe perdere questo denaro e le proprietà immobiliari a causa delle sanzioni contro la Russia”, ha scritto l’analista filogovernativo russo Sergey Markov sul suo canale Telegram. “E ora Vardanyan fa la mossa più elegante. Finge di sacrificarsi per il popolo del Karabakh. Si trasferisce in Karabakh, rinuncia alla cittadinanza russa e quindi elude le sanzioni anti-russe”.

In un’intervista del 1° settembre 2022 al quotidiano russo RBC, gli è stato chiesto dei beni che detiene in Russia. “Darò tutto ai miei soci e lo trasferirò alla fondazione di famiglia”, ha detto, senza fornire ulteriori dettagli. Vardanyan non è soggetto a sanzioni americane o europee, ma è stato nominato in un disegno di legge della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, il “Putin Accountability Act”, che invitava il Governo a sottoporre lui e altri “cleptocrati russi” a sanzioni personali. E anche per le imprese russe non soggette a sanzioni specifiche, le radicali restrizioni finanziarie contro la Federazione Russa hanno spinto molti uomini d’affari russi a cercare di andarsene. Vardanyan ha negato che la sua decisione avesse motivazioni finanziarie. In una conferenza stampa il 2 settembre 2022 a Stepanakert, la capitale della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Nagorno-Karabakh ha dichiarato: «Ruben Vardanyan non è soggetto a sanzioni. Se volessi sfuggire alle sanzioni, potrei scappare in qualsiasi altro Paese. Per me è facile parlare delle mie intenzioni, perché ho già fatto tanto e sto facendo tanto per il mio Paese».

Vardanyan è vicino al Presidente russo, Vladimir Putin, così come all’ex leadership in Armenia. Ha avuto un rapporto più difficile con l’attuale leader del Paese, il Primo Ministro Nikol Pashinyan, dopo che quest’ultimo ha chiuso un progetto di investimento pubblico-privato che il precedente governo aveva lanciato e su cui Vardanyan aveva lavorato. Dalla guerra dei 44 giorni dell’Azerbajgian di fine 2020 nel Nagorno-Karabakh, Vardanyan ha parlato regolarmente degli affari armeni, rimanendo sempre attento a non attaccare direttamente l’attuale governo.

Il Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Ruben Vardanyan.

In Armenia Vardanyan è stato a lungo visto come un potenziale attore politico, dove molti cittadini sono delusi sia dal partito al governo che dall’opposizione. Alla conferenza stampa di Stepanakert del 2 settembre 2020 non aveva escluso di cercare cariche politiche in Armenia o in Artsakh. “Stiamo parlando di servizio, non come una posizione in cui esercito il potere come sovrano su di te, ma una posizione in cui ti servo”, ha detto. “Sono pronto a tutto, ma non è per questo che sono venuto qui”.

Correva voce che Vardanyan fosse collegato a un partito politico in Armenia fondato nel 2021, Paese per la Vita. Nella conferenza stampa ha detto che stava “collaborando e scambiando idee” con i fondatori del partito, ma non ha ammesso alcun rapporto più profondo. Dopo il suo annuncio sul trasferimento in Artsakh, il partito ha applaudito la decisione: “Il partito sostiene pienamente l’iniziativa di Ruben Vardanyan di creare un fronte pan-armeno per il rafforzamento della sicurezza e dello sviluppo dell’Artsakh in tutte le direzioni”, si legge in una nota.

Postscriptum

«È ufficiale: è ripreso il tiro al trattore da parte degli Azeri che forse sono annoiati nelle loro postazioni oppure probabilmente stanno alzando la tensione verso l’Artsakh. Anche oggi segnaliamo colpi di arma verso un trattore nei campi del villaggio di Hach, Martuni» (Iniziativa italiana per l’Artsakh, 18 novembre 2022).

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Il Molokano su Tempi – Il formichiere turco nel formicaio. Voi Europei non avete occhi per vedere il piano diabolico in atto contro gli Armeni (Korazym 18.11.22)

Korazym.org/Blog dell’Editore, 18.11.2022 – Renato Farina] – Perché gli invasori turchi e azeri si sono fermati nel novembre dei 2020, e non hanno affondato il colpo? Non è stato per obbedire a Putin o per generosità, volendo evitare una strage di civili inermi. Ma per tenere aperta la strada a ben altra conquista. Una sorta di pit-stop per riaccreditarsi come ragionevoli pretendenti. Indi mandare a monte le trattative. Cercare un nuovo casus belli, e partire stavolta alla conquista dell’intera Repubblica d’Armenia.

Se non siete disposti a credermi, se la stima che mi avete fin qui dimostrato avesse anche solo una scalfittura, allora strappate la pagina molokanesca, appallottolatela, e procedete a letture più amene.
Ho da dirvi un fatto, quasi una folgorazione. Sulle amate sponde ahimè incerte sul loro destino del lago di Sevan — scriverebbe Omero «di argentee trote guizzanti» — una luce ha illuminato la scena con nitore indicibile. Non sono pazzo, né un mitomane che pretende di spacciarsi per San Gregorio l’Illuminatore redivivo dopo 18 secoli. Ho letteralmente visto, non immaginato, ma contemplato, il piano diabolico in corso d’opera. Ilham Aliyev, dittatore degli Azerbajgiani, e Recep Tayyip Erdoğan, sultano turco, quando nel settembre del 2020 sono partiti con l’offensiva dei 44 giorni per occupare l’Artsakh (la Repubblica indipendente del Nagorno-Karabakh), l’8 novembre, dopo aver conquistato la fortezza di Shushi, la Gerusalemme armena, erano a 15 chilometri dalla capitale Stepanakert, con uno schiocco di dita (e di droni ottomani e israeliani) in un battibaleno avrebbero stretto in pugno tutto il territorio primigenio dell’Armenia, di cui ripeto la storia in due righe: l’Artsakh fu incluso da Stalin nella Repubblica azera, sottraendolo alla madre patria. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica a chi apparteneva questa regione? A chi la abitava da millenni, o a chi vi aveva piantato le bandiere per gentile omaggio del tiranno? Ci fu una guerra tremenda per morti e crudeltà (’92-’93). Vinsero gli Armeni, inferiori in uomini e mezzi. Ma l’Artsakh restò isolato. Dopo di allora nessun Paese, tranne l’Armenia con capitale Erevan e tre milioni di abitanti (più i dieci milioni di Armeni della diaspora), riconobbe la sovranità di quel nuovo piccolo Stato (150 mila abitanti). Trattative a Minsk, insofferenza di Aliyev padre, cui succedette Aliyev figlio, strabordante di gas e petrolio. Ed ecco il colpo di mano del 2020. Lasciato a metà. Perché? Intervenne Putin e interpose duemila caschi blu russi per difendere gli Armeni che restavano in Artsakh.

Dopo di che, a trattative in corso, non più gestite dai Russi ma dall’Unione Europea, dopo che Ursula von der Leyen e i ministri del Governo Draghi andarono a pietire il gas azero a Baku, Aliyev ruppe gli indugi. Non attaccò in Nagorno-Karabakh, non gli importava più. Ha sfondato i confini dell’Armenia, con i soldati russi rimasti a guardare.

Intanto sono usciti libri dove si afferma che l’intera Armenia è affare ottomano.

Sintesi.

Noi Armeni siamo formiche ed è entrato in casa nostra il formichiere turco. A suo tempo, nel 1915, inghiotti un milione e mezzo di nostri fratelli e sorelle, fu il primo genocidio del Novecento. La Chiesa Apostolica Armena ha dichiarato le vittime – squartate, impiccate, stuprate, bruciate, lasciate morire di fame e di sete lungo sentieri che approdavano al nulla – tutte, nessuna esclusa, sante e martiri. Sono cose che voi Italiani, cui scrivo la mia lettera mensile, sapete di sicuro. Quello che riesce difficile far comprendere è che quello è stato il primo atto dell’annientamento del nostro popolo. Andranno avanti. Lo so che pensate che io esageri, il solito piagnone molokano, si vuol mettere sotto la gonna dell’Europa, della Russia, dell’America, vanno bene tutte le sottane pur di sfangarsela. Provo a documentare le ragioni per cui busso e ribusso al vostro uscio, ma non avete orecchi per intendere né occhi per vedere. Sottopongo questi punti, li appendo sul muro della vostra indifferenza, doppio standard, ipocrisia, svendita di fratelli, baratto di anime in cambio di gas, eccetera.

1. Noi Armeni – e io lo sono di nazionalità, di spirito, identità assoluta (non di sangue e neppure riconosco come mia la loro Chiesa: appartengo alla setta eretica degli ortodossi che bevono il latte in Quaresima) -, noi Armeni non siamo migliori degli Azerbaigiani e dei Turchi che li affiancano e li dirigono. Ci è però capitato di essere Cristiani, e che la fede antica abbia dato forma a pensieri, musica, sguardi, preghiera, persino i nostri peccati hanno qualcosa di Cristiano, anche quando spariamo invochiamo la Vergine piena di grazia. E preghiamo la Madre di Dio che intervenga oggi come il 7 ottobre del 1571 a Lepanto, non per far strage di infedeli, e neppure per ottenere vendetta. La vera vittoria sarebbe far cadere dalle mani le armi, dalle rampe i missili e dal cuore l’odio. Intanto…

2. La guerra dei 44 giorni, come detto, si concluse il 9 novembre 2020 con la nostra disfatta. Tutti fermi. Per cinque anni i Russi avrebbero garantito pace e sicurezza. Il trattato è stato sottoscritto dall’Azero Ilham Aliyev e dal nostro premier Nikol Pashinyan.

3. Il 13 e 14 settembre scorsi le truppe azere hanno attraversato il confine. Pashinyan si è dovuto rendere conto della solitudine degli Armeni. Il 30 settembre ha detto in tv: «Dopo la sconfitta del 2020, dobbiamo essere realistici. Nessuno è pronto a riconoscere l’indipendenza del Nagorno-Karabakh, cosi come nessuno è pronto a riconoscere il Nagorno-Karabakh come parte dell’Armenia. E dobbiamo riconoscere questo fatto». Oggi chiede ai Karabatsi di trattare direttamente con Baku sul loro futuro. Chiede solo che si fissino i confini internazionali invalicabili. Dicono molti Armeni che questo sia un tradimento da parte di Pashinyan. Io credo che a tradire siano stati l’Europa, la NATO, i Francesi ricchi di chiacchiere ma anche voi Italiani. Avete lasciato e lasciate, con tanto di salamelecchi, che agli Armeni e ai loro capi sia puntata una pistola alla tempia. Invece di disarmare l’aggressore gli fornite proiettili di piombo e sorrisi angelici.

Il Molekano

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Antonia Arslan torna a raccontare la tragedia degli Armeni in un nuovo romanzo, “Il destino di Aghavnì” (Secolo D’Italia 17.11.22)

Nella primavera del 1915, pochi giorni prima dell’inizio del genocidio degli armeni, in una Piccola Città del centro dell’Anatolia, una ragazza di 23 anni che si chiama Aghavnì, esce di casa con il marito e i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di due.

Nessuno li vedrà mai più. Scompaiono, semplicemente, senza lasciar traccia. Sono stati uccisi? O rapiti? Ma da chi? Nonostante le intense ricerche delle due famiglie, nessuno sembra saperne qualcosa. E’ il segno del tragico destino che incombe sugli Armeni. Poi, anche il loro ricordo sbiadisce fino a scomparire, nell’imperversare dei terribili eventi che iniziano proprio in quei giorni.

Da una vecchia fotografia di famiglia, ritrovata a casa di un cugino in America, Antonia Arslan scopre la vicenda perduta e ora ritrovata di Aghavnì e da qui trae un racconto avventuroso di dolore e di coraggio, di morte e di rinascita, che culmina in uno strano Natale, in un misterioso presepio che diventa un riscatto dei cuori.

Antonia Arslan, scrittrice, traduttrice e saggista di origine armena, ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli studi di Padova. È autrice de La Masseria delle allodole (2004) – tradotto in ventitré lingue e diventato un film dei fratelli Taviani – e del seguito La strada di Smirne (2009): dell’incendio di Smirne ricorre proprio nel 2022 il centesimo anniversario. Per Ares ha pubblicato Dino Buzzati. Bricoleur e cronista visionario (2019). Suo l’invito alla lettura all’antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio Benedici questa croce di spighe… (2017).

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