ARMENIA, L’ALLARME DEGLI STUDIOSI: “C’È UN RISCHIO SIGNIFICATIVO DI GENOCIDIO” (GARIWO 28.10.22)

Riprendiamo la dichiarazione del Comitato Esecutivo dell’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio (IAGS) pubblicata il 24 ottobre 2022 che condanna gli attacchi perpetrati dall’Azerbaigian nei confronti del popolo e della cultura armena

Il Comitato Esecutivo dell’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio (IAGS), in una dichiarazione rilasciata lunedì 24 ottobre 2022, ha condannato l’Azerbaigian per l’attacco al territorio sovrano dell’Armenia avvenuto il mese scorso. Ha anche messo in guardia rispetto al “rischio significativo di genocidio” contro la popolazione di Artsakh.

L’Associazione ha invitato altri gruppi di accademici internazionali e attivisti per i diritti umani ad unirsi al coro di condanna alla continua aggressione da parte di Baku. Inoltre, viene chiesto all’Azerbaigian di ritirare le sue truppe dall’Armenia.
L’Associazione IAGS ha anche esortato la comunità internazionale a “ritenere il regime autoritario del presidente azero Ilham Aliyev responsabile per il crimine di aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità perpetrati contro l’Armenia e il popolo armeno da settembre 2020.”

Di seguito il testo completo della dichiarazione.

Il Comitato esecutivo dell’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio condanna fermamente l’invasione della Repubblica di Armenia da parte dell’Azerbaigian e l’aggressione in corso contro il popolo armeno nella Repubblica di Armenia e nell’Artsakh (nella regione del Nagorno Karabakh) ed esprime preoccupazione per il rischio di genocidio contro la popolazione armena. Il 13 settembre 2022 l’Azerbaigian ha lanciato un attacco al territorio sovrano della Repubblica di Armenia, usando artiglieria pesante, lanciarazzi multipli e droni da attacco; le forze azere hanno bombardato le città di Vardenis, Goris, Ishkanasar, Kapan, Sotk, Artanish e Jermuk e i villaggi circostanti nella Repubblica di Armenia. Questo attacco ha provocato oltre 210 morti confermate di soldati armeni e numerosi morti e feriti tra i civili. Nonostante un debole cessate il fuoco, la violenza dell’Azerbaigian continua, come dimostrano le accuse di esecuzioni di prigionieri di guerra armeni. Oltre 7.000 civili sono stati sfollati e le case dei civili e le infrastrutture locali sono state distrutte nel tentativo di eliminare completamente il popolo armeno da gran parte della Repubblica di Armenia.

Nella regione del Nagorno-Karabakh si possono riscontrare importanti fattori di rischio di genocidio che riguardano la popolazione armena: il precedente genocidio etnico contro il popolo armeno avvenuto tra il 1915 e il 1923 da parte dell’Impero ottomano (che divenne poi Turchia), e le relazioni tra la Turchia e l’Azerbaigian. Nel 1920, la Turchia cercò di disarmare gli armeni e armare gli azeri, con conseguente conflitto, esodo armeno e atrocità perpetrate contro gli armeni durante un’offensiva azera. La Turchia oggi continua a sostenere l’Azerbaigian nel conflitto del Nagorno-Karabakh (anche attraverso la fornitura di droni e mercenari). Il presidente turco Erdoğan ha definito gli armeni “occupanti”, nonostante secoli di storia degli urartiani e dei loro discendenti, gli armeni, nella regione.

I recenti atti di violenza fanno parte di un lungo processo di violenza da parte del regime azero contro la popolazione armena autoctona del Caucaso meridionale. Diversi i conflitti armati tra l’Armenia e l’Azerbaigian nel territorio del Nagorno-Karabakh, a partire dagli anni 1980-1990, recentemente, nel settembre 2020, che proseguono fino ad oggi, nonostante il presunto cessate il fuoco. Il conflitto attuale vede l’uso indiscriminato di armi, morti civili e sfollamenti.

Le autorità azere hanno apertamente pronunciato discorsi di odio contro gli armeni. Atti di incitamento all’odio e propaganda hanno preso di mira gli armeni. Il Comitato delle Nazioni Unite sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD) ha specificamente osservato che i seguenti atti sono considerabili fattori di rischio di genocidio:

  • uso sistematico e diffuso e accettazione della propaganda che promuove l’odio e/o incita alla violenza contro i gruppi minoritari, in particolare nei media;
  • gravi dichiarazioni di leader politici/persone di spicco che esprimono sostegno per l’affermazione della superiorità di una razza o di un gruppo etnico, disumanizzazione e demonizzazione delle minoranze, o la giustificazione della violenza contro una minoranza.

La propaganda dell’Azerbaigian prevede il discorso e la propaganda anti-armena, anche attraverso discorsi del governo e i media. Ad esempio, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha rilasciato dichiarazioni come: “L’Armenia come paese non ha alcun valore. In realtà è una colonia, un avamposto gestito dall’estero, un territorio creato artificialmente sulle antiche terre azere.” Aliyev non riconosce l’integrità territoriale della Repubblica di Armenia che è invece internazionalmente riconosciuta: “Abbiamo forse cento volte più motivi per non riconoscere l’integrità territoriale dell’Armenia di quanto non abbiano per non riconoscere la nostra integrità territoriale. Perché tutti già lo sanno, e lo sa anche la comunità mondiale, che nel novembre 1920 le nostre terre storiche di Zangazur [Syunik], così come Goycha [Sevan], furono separate da noi e annesse all’Armenia. La città di Erevan fu ceduta all’Armenia il 29 maggio 1918. Quindi, ci sono molti fattori per noi, come si dice, per non riconoscere l’integrità territoriale dell’Armenia.” Aliyev usa anche un linguaggio disumanizzante, come: “Li abbiamo cacciati dalle nostre terre come cani. Ho detto che li avremmo inseguiti, che li avremmo inseguiti come cani, e li abbiamo inseguiti, li abbiamo inseguiti come cani.” Tali dichiarazioni indicano una campagna sistematica per porre fine alla presenza degli armeni in quella che è la loro patria storica e attuale. Queste e altre dichiarazioni dimostrano l’esistenza del rischio di genocidio, e costituiscono un incitamento al genocidio ed eventualmente anche altri crimini internazionali.

Vi è anche un discorso di distruzione culturale nel conflitto, che porta ad un significativo timore da parte degli armeni che dopo l’accordo di pace, che ha visto il ritorno della terra armena in Azerbaigian, i siti armeni vengano trascurati, profanati o distrutti. Alcuni monumenti e chiese armene hanno centinaia di anni, come la chiesa di San Nishan, il complesso del monastero di Dadivank e i khatchkar nei cimiteri, risalenti al IX secolo. È comune per l’Azerbaigian presentare storie ‘alternative’ per le chiese armene, sostenendo che si tratta di monumenti ‘caucasici albanesi’ ed erano ‘armenizzati’ solo nel XIX secolo. Tali affermazioni sono state tutte smentite al di fuori dell’Azerbaigian. La riscrittura della storia e la distruzione culturale sono caratteristiche chiave del genocidio. L’obiettivo dei génocidaires è quello di distruggere, in tutto o in parte, il gruppo preso di mira, e uno dei modi in cui i perpetratori lo fanno è attraverso la distruzione culturale: eliminando l’essenza stessa dell’identità del gruppo, viene eliminata qualsiasi traccia dell’esistenza del gruppo in quel luogo.

Il Comitato Esecutivo fa notare che la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha riconosciuto la gravità del discorso di odio e della distruzione culturale da parte dell’Azerbaigian nei confronti del popolo armeno e della cultura armena. Il 7 dicembre 2021 la ICJ si è espressa e ha accolto la richiesta dell’Armenia di valutare una possibile violazione della Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale (CERD) da parte dell’Azerbaigian e ha espresso preoccupazione per il fatto che tali violazioni ‘possano avere gravi e dannose ripercussioni’ nei confronti del gruppo protetto. Prima di esprimersi nel merito del caso, la ICJ ha ordinato all’Azerbaigian, inoltre, di: “adottare tutte le misure necessarie per prevenire l’istigazione e la promozione dell’odio e della discriminazione razziale, anche ad opera dei funzionari e delle istituzioni pubbliche, nei confronti di persone di origine nazionale o etnica armena; di prendere tutte le misure necessarie per prevenire e punire atti di vandalismo e discrezionalità che interessano il patrimonio culturale armeno, tra cui, a titolo esemplificativo, chiese e altri luoghi di culto, monumenti, cimiteri e manufatti.” Anche gli attacchi al territorio sovrano della Repubblica di Armenia possono costituire una violazione della Carta delle Nazioni Unite e violare l’Atto finale di Helsinki e l’accordo di cessate il fuoco firmato da Armenia, Azerbaigian e Russia il 9 novembre 2020, che pone fine alla seconda guerra del Karabakh di 44 giorni (27 settembre 2020 – 10 novembre 2020).

Per eliminare il rischio di genocidio, il Comitato esecutivo dell’Associazione Internazionale degli Studiosi di Genocidio chiede:
• alla comunità internazionale e le organizzazioni accademiche e culturali di condannare la violenza e i discorsi di odio sa parte del governo dell’Azerbaigian contro l’Armenia e adottare tutte le misure necessarie per costringere l’Azerbaigian a cessare le ostilità e i discorsi di odio contro la Repubblica di Armenia e gli armeni di Artsakh.
• all’Azerbaigian di conformarsi all’ordinanza della Corte internazionale di giustizia sulle misure provvisorie del 7 dicembre 2021.

• all’ Azerbaigian di rimuovere i suoi soldati dal territorio della Repubblica armena e di rispettare il diritto di autodeterminazione degli armeni di Artsakh come garantito ai sensi della Carta delle Nazioni Unite (Capitolo I, Articolo 2).

• alla comunità internazionale di ritenere il regime autoritario del presidente azero Ilham Aliyev responsabile per il crimine di aggressione (crimini contro la pace), crimini di guerra e crimini contro l’umanità perpetrati contro l’Armenia e gli armeni da settembre 2020.

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Armenia tra l’incudine e il martello (Lanuova Europa 28.10.22)

Messo in ombra dalla vicenda ucraina, lo scontro armato tra Azerbaijan e Armenia è gravido di inquietanti conseguenze e sembra imporre ancora una volta la «ragione» dei regimi totalitari come norma nei rapporti internazionali. Il contributo di uno specialista di «Balcani e Caucaso». Intervista di M. Dell’Asta.

Può ripercorrere in breve i motivi di fondo del contendere tra Armenia e Azerbaijan?
I motivi del conflitto sono legati a questioni di lungo ma non lunghissimo periodo, nel senso che dobbiamo risalire al ‘900, secolo che ha visto scontri, pogrom, episodi di pulizia etnica negli anni subito dopo la prima guerra mondiale, ossia gli anni della guerra civile in Russia, che hanno poi portato alla creazione dell’Unione Sovietica.

Venendo a tempi più recenti, il conflitto si è rinnovato alla fine degli anni ’80, più precisamente nel 1988, quando la popolazione armena del Nagorno-Karabach (ricordo che è la regione che in epoca sovietica godeva di autonomia all’interno dell’Azerbaijan sovietico), ha avanzato alcune rivendicazioni nel contesto del declino dell’Unione Sovietica. Si chiedeva innanzitutto l’unione con l’Armenia; inoltre, raccogliendo alcune parole chiave della perestrojka, le rivendicazioni avevano un connotato democratizzante, tra l’irredentismo e la richiesta di nuovi spazi decisionali per l’autogoverno.

Queste rivendicazioni non restano localizzate nel Nagorno-Karabach ma si diffondono tra la numerosa popolazione armena che vive sparsa nell’Azerbaijan, soprattutto a Baku, e tra la popolazione azera che vive in alcune parti dell’Armenia. Comincia una serie di episodi di violenza, di cui è difficile identificare ogni volta la causa scatenante; incidenti che poi vengono gonfiati e usati per estendere lo scontro e l’ostilità. Così è per i pogrom anti-armeni di Baku, e la successiva repressione sovietica. A quel punto scoppia la guerra vera e propria, che dura dal 1992 al 1994, dove si vedono da una parte il desiderio degli azeri di affermare il proprio controllo sulla regione, e dall’altra una resistenza locale che si consolida e sorprendentemente porta l’Armenia ad avere la meglio sull’Azerbaijan.

In Azerbaijan in quel momento ci sono degli scontri tra le élite militari e politiche che mettono il paese in difficoltà. L’Armenia dunque esce vincitrice e occupa non solo il Nagorno-Karabach, ma anche altre zone limitrofe abitate da azeri che non rientravano nell’autonomia sovietica. Segue la fuga della popolazione azera dalla zona e anche dal Karabach: sono circa mezzo milione di profughi che si rifugiano in Azerbaijan. Del resto sono centinaia di migliaia gli armeni che in quegli stessi anni scappano dall’Azerbaijan.

È legittimo dire che la conquista del Karabach è stata resa necessaria dalle violenze che stava subendo la popolazione armena? Se non sbaglio, in seguito sono stati fatti i passi legali per arrivare al riconoscimento internazionale dell’autonomia del Karabach come enclave armena, ma poi il processo si è interrotto…
Lei mi chiede se era evitabile il conflitto… All’epoca, i conflitti locali erano scoppiati a causa del vuoto di potere che si era venuto a creare per il crollo dell’Unione Sovietica, che non si interponeva più tra le parti. Che le forze locali armene abbiano sentito la necessità di intervenire militarmente per difendersi è evidente; difficile dire se non avevano alternative, forse no. Certamente in quegli anni si sono registrati episodi di violenza anche verso la popolazione azera, costretta a fuggire; è necessario dirlo, perché quando scoppia un conflitto neanche la vittima è legittimata a usare una violenza eccessiva sulla popolazione civile, tanto da farla scappare.

E qui si passa al quesito più generale, se cioè appena fermata la violenza, oppure prima di arrivare allo scoppio della guerra, ci fosse spazio per una mediazione, per un accordo condiviso che prevedesse una forma estesa di autogoverno del Karabach, o addirittura una forma di indipendenza.

Qui si entra nei dettagli dei negoziati dell’epoca: sono stati proposti diversi modelli di autonomia, ma c’era molta reticenza da parte degli attori internazionali ad acconsentire alle richieste di indipendenza piena da parte del Karabach, perché a quell’epoca la fine dell’Unione Sovietica era vicina, e si temeva che concedere l’indipendenza a piccoli territori potesse avere ripercussioni anche altrove.

I negoziati, all’epoca, non hanno più lasciato spazio per ottenere la formalizzazione estesa dell’autonomia, e non hanno trovato le circostanze per realizzarsi soprattutto perché non c’erano tutele sufficienti per la parte armena. Infatti, una volta che la parte armena era riuscita a vincere il conflitto, e a prendere il controllo su un’area molto ampia su cui non aveva mai avuto alcuna rivendicazione, non è riuscita a trovare una soluzione di compromesso: avrebbe potuto lasciare le zone popolate da azeri, ma non è successo perché l’Armenia riteneva che se avesse ceduto qualcosa, non avrebbe poi avuto gli strumenti per difendere quello che le era rimasto. Cosa che vediamo adesso.

Armenia tra l’incudine e il martello

(livejournal.com)

Allora perché si è rinnovato l’attacco azero?
Per passare dall’excursus storico a fatti più recenti, dobbiamo considerare la guerra di due anni fa, iniziata con l’attacco del 27 settembre 2020, e gli scontri del settembre di quest’anno. Il motivo della guerra di due anni fa è la crescente disparità di forze tra le parti, secondo una logica militare ed economica incontrovertibile.

Se negli anni ’90 l’Armenia era riuscita a vincere la guerra, non possiamo dimenticare che l’Azerbaijan ha più del triplo della popolazione dell’Armenia e che, non per particolari meriti ma grazie agli idrocarburi che ha nel sottosuolo, può permettersi spese militari molto ingenti. Quindi, nella misura in cui la disparità tra le parti si faceva sempre più evidente dal punto di vista economico e soprattutto militare, non c’era spazio per fare passi avanti nel percorso negoziale. Si tratta di una dinamica complessa, ma uno dei motivi principali per cui la parte armena non voleva accettare compromessi stava nel fatto che non c’era garanzia che la parte azera li avrebbe rispettati appieno. Quindi è comprensibile la reticenza armena a cedere, tuttavia la sua era una posizione oggettivamente insostenibile, come si è visto nel corso della guerra di questi anni.

Per arrivare al presente, la guerra del 2020 si è conclusa con una netta sconfitta della parte armena, che però ha potuto mantenere il controllo almeno su una parte significativa di quella che era la regione autonoma del Nagorno-Karabach. Nell’accordo di «cessate il fuoco» (che non era ancora un accordo di pace) si parlava tra l’altro della presenza di forze di pace russe che facilitassero la presenza armena locale, però era innanzitutto una presenza a tempo, da rinnovare dopo 5 anni, e soprattutto in quell’accordo non si faceva riferimento a nessuna forma di autogoverno della popolazione del Karabach.

Questo è stato l’oggetto del contendere in questi due anni di negoziati che, bisogna dire, sono andati avanti con una decisione da ambo le parti che non si vedeva da molto tempo. Le parti hanno incominciato a interagire direttamente, senza mediatori, perché l’Unione Europea si presentava non come mediatrice ma come ospite. La possibilità di un accordo di pace si faceva apparentemente più vicina, tanto che un mese fa il governo azero ha chiesto alle parti di stendere una bozza di documento. E qui si arriva alle due questioni che nell’accordo non trovano soluzione: la prima, che appare tecnica ma che potenzialmente ha grandi conseguenze, è la questione del collegamento diretto tra l’Azerbaigian e l’enclave azera del Nachičevan in territorio armeno.

Nell’accordo di «cessate il fuoco» c’era solo un accenno generico a un passaggio supervisionato dalla parte russa, mentre adesso gli azeri chiedono attivamente un corridoio sul quale la parte armena non avrebbe nessuna sovranità. La seconda, che è la questione principale, riguarda la popolazione armena del Karabach. Da parte armena vi è una presa di coscienza del fatto che nel contesto attuale, visti i rapporti di forza, non è più plausibile sperare in una piena indipendenza per il Karabach, e quindi gli armeni hanno adeguato la propria richiesta al fatto che vi siano delle tutele effettive per i diritti della popolazione armena, che è il minimo che si può richiedere, anche perché è obbligo di qualsiasi Stato fornirle, secondo tutti gli accordi internazionali in vigore.

Ma da parte dell’Azerbaijan non c’è alcuna disponibilità: insiste che ora il Karabach è una sua questione interna, per cui non vuole includere nell’accordo di pace alcun riferimento alla popolazione armena di quell’area. Onestamente è una posizione alquanto bizzarra, perché si vuole siglare un accordo di pace che mette fine a un conflitto senza affrontare la questione centrale che ha originato il conflitto stesso.

armenia azerbaigian

(vesti.az)

E l’attacco recente come si inserisce in questa situazione?
L’attacco su più vasta scala che è avvenuto lo scorso settembre rappresenta una forma di pressione, per ricordare alla parte armena che l’Azerbaijan non è pronto a compromessi, ma ha tutte le intenzioni di imporre la pace come forza vincitrice. E quindi chiede che la parte armena accetti sostanzialmente senza precondizioni la sua versione di pace. Pertanto l’attacco che abbiamo visto vuol ricordare la superiorità militare azera e la fragilità strutturale armena, che è sempre più evidente in questa fase in cui il suo partner internazionale di riferimento, cioè la Russia, che in teoria sarebbe il garante della sicurezza dell’Armenia, è occupata altrove.

Da parte azera in questo modo si suggerisce altresì che quello che sembra lo scenario peggiore adesso, cioè la perdita del Karabach, potrebbe effettivamente non essere lo scenario peggiore. Da questo punto di vista si è riproposta una retorica che si è sentita più volte in questi ultimi anni, cioè la ripresa della narrazione azera per cui la regione del Syunik sarebbe storicamente azera, che la stessa Erevan faceva parte del khanato di Erevan e che tutta l’Armenia sarebbe parte storica dell’Azerbaijan. Una retorica pretestuosa.

E dietro a questo ci sarebbe anche la Turchia?
La Turchia è sicuramente parte determinante nel rapporto di forze regionale, per cui il sostegno esplicito di questo paese è stato determinante nel permettere l’inizio della guerra nel 2020, e nel rendere la minaccia militare più realistica oggi. Davanti alle posizioni dell’Azerbaijan, i turchi non hanno assunto posizioni moderate, ma si sono schierati dalla parte degli azeri.

Se da un lato, in questo momento, si sta concretizzando la ripresa dei rapporti diretti tra Armenia e Turchia, con l’opzione di riaprire i confini tra i due paesi, dall’altro il sostegno militare e politico all’Azerbaijan da parte della Turchia rimane netto. Per cui, nel caso di un attacco su più ampia scala dell’Azerbaijan, anche senza immaginare un coinvolgimento diretto della Turchia, è prevedibile un esplicito sostegno agli azeri.

Riassumendo, l’Armenia è un partner della Russia, che è potente ma assente; mentre l’Azerbaijan ha un partner forte e presente.

Quindi, da quanto lei dice, sembra che sia un rischio reale quello che vanno ripetendo gli armeni, e cioè che la loro è una difesa radicale perché ne va della loro sopravvivenza come paese…
C’è sempre da sperare che la minaccia non sia totale per l’esistenza dell’Armenia in quanto tale, ma per la popolazione armena del Karabach la minaccia è assolutamente concreta, e la probabilità che tra qualche anno rischi di dover abbandonare in toto le proprie case è del tutto realistica; né si può escludere la minaccia almeno per alcune regioni dell’Armenia. Quindi l’Armenia si trova in una situazione molto fragile, è uno Stato piccolo che ha strutturalmente bisogno di alleati; l’alleato su cui storicamente ha sempre fatto affidamento adesso è poco presente. Di qui nasce un dibattito:

è meglio avere amici inaffidabili ma che al momento buono hanno un certo peso, o amici distanti che realisticamente non potrebbero essere più presenti?

Quando è scoppiata la guerra nel 2020 la Russia, pur con tutti i limiti, è stata l’unico paese effettivamente disponibile a facilitare l’interruzione del conflitto e a mettere le sue truppe sul terreno. Anche se si tratta di numeri piccoli, la Russia ha avuto un misto di influenza politica e militare che ha permesso di arrivare al «cessate il fuoco». Da parte occidentale purtroppo non si vedeva traccia di intervento.

Perciò il rimprovero che gli armeni fanno all’Occidente, all’Europa di essere assenti è reale?
C’è stato un dibattito su cosa era giusto rimproverare all’Unione Europea durante la guerra del 2020. Io stesso avevo criticato la parte europea perché sembrava si limitasse troppo a una critica generica senza esplicitare in modo più secco la propria posizione. E qui, penso, si paghi in parte un’incongruenza storica dell’Europa e di tanti partner in questi anni, che riassumo così: l’insistenza sull’illegalità delle autorità del Nagorno-Karabach tra il 1994 e il 2020.

Penso che in tutti quegli anni da parte dell’Europa e dei governi occidentali non si sia fatto abbastanza per distinguere due questioni separate: da una parte l’effettiva necessità di un’autonomia forte, di un autogoverno da definire per difendere la popolazione armena ragionevolmente entro i confini di quella che era stata l’autonomia sovietica; dall’altra la situazione nei territori adiacenti, su cui il governo armeno non aveva diritti visto che lì gli armeni non abitavano. Se la comunità internazionale avesse sempre fatto un distinguo chiaro tra le due cose; se avesse sostenuto appieno l’autonomia armena nei territori storici, e se avesse parallelamente insistito perché gli sfollati azeri potessero tornare nelle aree in cui abitavano, avremmo oggi una situazione più coerente: si potrebbe insistere sull’autonomia del Karabach, e al tempo stesso, pur nel disastro della guerra, rallegrarsi perché centinaia di migliaia di persone hanno potuto fare ritorno alle loro case.

Limitarsi invece a un generico richiamo alla pace senza distinguere le due cose è tra gli elementi che hanno reso insostenibile la posizione dell’Europa occidentale in questi anni, e che rende difficile «ammodernare» la propria posizione oggi. Bisogna capire che è insostenibile che l’Armenia continui a detenere la zona attorno al Karabach (che è più vasta del Karabach stesso), sia per la comunità internazionale che per la parte armena.
La soluzione di compromesso doveva essere spinta in modo più esplicito in passato, adesso ci si trova bloccati di fronte all’Azerbaijan che parla del Karabach come di una propria questione interna. Su questo ci vorrebbe un richiamo molto più esplicito da parte della comunità internazionale, perché sappiamo che l’Azerbaijan è un regime autoritario con tanti problemi, e nei due anni che sono passati dalla guerra del 2020 non ha mostrato la minima intenzione di voler rispettare la comunità armena, né dal punto di vista politico né da quello culturale. Finora l’Azerbaijan si è mostrato più interessato al territorio che alle esigenze della popolazione.

Uno storico russo, pur simpatizzando con la causa armena, muove dei rimproveri all’Armenia che, secondo lui, mancherebbe di realismo quando insiste sull’autonomia piena del Karabach, e soprattutto quando non vuole scendere dal carro della Russia, perché non può aspettarsi di veder difesi i propri diritti da un paese che non rispetta nessun diritto. Cosa ne pensa?
Riguardo alle responsabilità dell’Armenia in tutto questo, penso che ci sia una considerazione di fondo da tenere presente, e cioè che in teoria a grande potere dovrebbe corrispondere grande responsabilità. Nella situazione che si è venuta a creare in questi ultimi anni, l’Azerbaijan è l’attore più forte, che dovrebbe saper gestire con responsabilità la propria superiorità politica ed economica nella regione. Invece di riaprire una fase militare del conflitto dagli esiti incerti, nel contesto attuale l’Azerbaijan potrebbe ottenere quasi tutto quello che vuole in modo assolutamente pacifico, promuovendo una serie di dinamiche positive per sé stesso e per la regione.

Gli azeri potrebbero tranquillamente cedere qualcosa, perché sanno che se volessero tornare sui propri passi, o se l’altra parte abusasse di queste concessioni, avrebbero la forza materiale per riaffermare la loro supremazia. Da questo punto di vista l’Azerbaijan dovrebbe proporre delle soluzioni responsabili, accettabili, e fare quello che l’Armenia storicamente non ha potuto fare.

L’Armenia avrebbe potuto cedere a un paese che desse qualche minima garanzia alla popolazione armena locale. Ma questa minima garanzia purtroppo non si è vista, se non in qualche congresso internazionale, o in qualche parola gettata lì da Baku e promossa all’estero. Quindi è legittimo dire che le aspettative dell’Armenia erano implausibili, e che era anche eticamente indifendibile l’allargamento che il governo di Stepanakert ha fatto.

Tra l’altro, questo errore da parte armena ha effettivamente ridotto ulteriormente gli spazi negoziali; negare che quelle aree fossero oggetto di negoziato è stato un errore imperdonabile in un contesto dove in nessun modo quello stato di cose poteva essere mantenuto e difeso. Le responsabilità che ci sono da parte armena secondo me riguardano prevalentemente il fatto di aver messo sullo stesso piano i territori adiacenti e quelle che sono le parti storicamente armene.

Rispetto al ruolo della Russia, io credo che quello che è successo in queste ultime settimane mostri l’inutilità vuota di questa alleanza militare tra Armenia e Russia, che include anche il Kazachstan, la Bielorussia, con cui ci sono accordi che non hanno alcun impatto. Allo stesso tempo l’influenza della Russia è davvero enorme sull’Armenia, non solo per la presenza militare (sotto forma di basi militari o di aiuti da parte delle forze russe nel controllo dei confini esterni dell’Armenia verso l’Iran e verso la Turchia), ma anche per la presenza russa nell’economia locale armena. Attori privati o semi-privati russi hanno il controllo su tutte le principali infrastrutture locali dell’Armenia, dalla distribuzione del gas e dell’elettricità, alle ferrovie, alle compagnie telefoniche principali che sono tutte di proprietà russa, così come tanti altri settori dell’economia. Quindi immaginare oggi un allontanamento dalla Russia per affidarsi all’Europa o agli Stati Uniti è davvero difficile. Anche se in queste settimane è emerso in modo più spiccato il ruolo dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti con Blinken, che hanno fatto pressione sull’Azerbaijan e facilitato incontri per arrivare a soluzioni di compromesso, è impensabile che il partner principale dell’Armenia non sia la Russia.

Quindi, non si può rimproverare all’Armenia di affidarsi alla Russia, finché realisticamente non c’è un’alternativa, e oggi realisticamente questa alternativa non c’è, perché anche eventuali accordi che facilitassero il commercio con l’Unione Europea non sarebbero economicamente risolutivi, dato che la Russia continua a essere il partner commerciale principale dell’Armenia per esportazioni e importazioni.
Si parla di stravolgere un sistema politico-economico, cosa impensabile nel breve periodo, e per di più in una situazione di fragilità come quella attuale. Anzi, da parte dell’Occidente dovrebbe esserci la disponibilità, per quanto difficile nel contesto di questo conflitto che nel grande schema dei rapporti globali è secondario rispetto ad altri conflitti internazionali, a dialogare e a coinvolgere la Russia nei negoziati, nelle circostanze e nei modi in cui questo può essere utile.

È bene che Armenia e Azerbaijan si possano parlare, ospitati a Bruxelles, però quando si pensa a soluzioni per un accordo di pace definitivo, un sostegno anche esplicito da parte dell’Unione Europea e di altri attori al ruolo locale della Russia, per quanto problematico, dovrebbe esserci; ad esempio il contingente di forze di pace russe dovrebbe poter collaborare in modo più attivo con le altre organizzazioni internazionali di pace.
Qui la colpa non è solo di una parte: anche la Russia si è mostrata poco collaborativa con la presenza internazionale in loco, però parliamo di uno dei contesti internazionali dove uno spazio di dialogo maggiore potrebbe esserci, e dove semplicemente bisognerebbe evitare di trasportare le tensioni dovute a conflitti in altre regioni anche in questo specifico conflitto, dove, se ridefiniti correttamente, gli obiettivi della Russia e dell’Occidente possono in parte coincidere. Infatti, più che avere influenza in termini geopolitici in quella regione, per l’Unione Europea la cosa più importante, dovrebbe essere promuovere un contesto di pace in cui i diritti delle popolazioni locali incluse le minoranze, come la popolazione armena del Karabach, siano effettivamente tutelati. Quindi qualsiasi misura che anche col coinvolgimento della Russia faciliti questo risultato finale dovrebbe essere incoraggiata da parte dell’Unione Europea e dei partner occidentali.

Armenia tra l’incudine e il martello

Gli armeni dicono che l’Europa non è interessata perché sta comprando il petrolio dall’Azerbaijan, secondo lei è vero?

Sì, c’è del vero in questo, ed è chiaro che tra i vari elementi che hanno facilitato la posizione sempre più aggressiva dell’Azerbaijan, in questi mesi, c’è la convinzione che l’Occidente non andrà a scontrarsi con Baku perché ha bisogno del gas. E soprattutto c’è del vero nel brevissimo periodo perché l’Europa ha un problema innegabile con le forniture energetiche.

In un senso più ampio, però, è importante non sopravvalutare l’importanza del gas azero per l’Europa. Si tratta di volumi tutto sommato ristretti, e quei volumi promessi non sono realizzabili nel breve periodo, quindi il fatto che l’Azerbaijan sia in grado di fornire qualche piccolo punto percentuale delle forniture europee non può essere sufficiente per soprassedere ai valori che l’Unione Europea esprime, e che dovrebbe cercare di esprimere in modo forse più coerente almeno in una regione vicina come il Caucaso, con ambizioni di integrazione europea. Quindi il bisogno europeo di gas non dovrebbe essere sufficiente, tanto più che l’Unione Europea non dovrebbe porsi attivamente contro l’Azerbaigian, ma insistere su quelli che sono i suoi valori fondanti.

Noi abbiamo siglato tanti documenti che stabiliscono l’importanza di tutelare le minoranze nazionali, perciò, se il riconoscimento pieno della sovranità non si mette in dubbio, la necessità e la responsabilità degli Stati sovrani di garantire la piena tutela delle popolazioni che vivono al loro interno rimane.

Quindi il risultato auspicabile dovrebbe essere una qualche forma, ad interim in questo periodo, di pieno autogoverno per la popolazione armena della regione, finché, si spera, negli anni cambierà la retorica delle parti. Se fra qualche anno l’Azerbaijan mostrerà interesse a rispettare certi principi, a tutelare la popolazione, allora si può immaginare un cambiamento di status. Parliamo di scenari che si possono avverare, plausibili, immaginabili.

Per rispondere in breve alla sua domanda:

sì, quello degli interessi energetici è sicuramente un elemento che entra nel calcolo politico delle parti, ma da parte dell’Unione Europea non c’è modo politicamente condivisibile di abbandonare uno dei propri principi fondanti per una piccola parte delle forniture energetiche nel breve periodo, che tra l’altro nel medio periodo non saranno più necessarie.

E oggi, il cessate il fuoco regge ancora? Si vedono segni positivi nelle trattative di pace?
Il cessate il fuoco regge e nelle ultime settimane ci sono stati significativi sforzi diplomatici con l’obiettivo di raggiungere un accordo quantomeno sulla delimitazione dei confini entro la fine dell’anno. Si è raggiunto un accordo per mandare una missione civile dell’Unione Europea che per due mesi contribuisca al processo di demarcazione dei confini.

Un accordo tra Armenia e Azerbaijan sulla demarcazione dei confini nei prossimi mesi è difficile ma realistico, in particolare grazie all’impegno più esplicito di Unione Europea e USA. Si tratta di uno sviluppo positivo, anche se il contesto rimane molto delicato e può bastar poco per far deragliare il processo.
Tuttavia, per ora non ci sono passi avanti sostanziali per quanto riguarda la popolazione armena del Karabakh, la cui posizione rimane estremamente fragile. Un eventuale accordo sul reciproco riconoscimento dei confini tra Armenia e Azerbaijan che non includa misure di tutela nei confronti di questo gruppo non potrà in ogni caso essere considerato un accordo di pace.

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Agagianian, verso gli altari il patriarca che risollevò gli armeni dal genocidio (Rassegna Stampa 28.10.22)

Oggi si apre a Roma la causa di beatificazione e canonizzazione del patriarca (e cardinale) Gregorio Pietro XV Agagianian. La messa celebrata in Laterano dal card. De Donatis, alla presenza dell’attuale primate armeno Minassian. Una testimonianza di fede attraverso le opere, il ruolo nel Concilio.

Roma (AsiaNews) – Una spiritualità “semplice”, una persona “umile e religiosa”, che si è distinta “per la forza della sua fede” di cui “siamo testimoni oggi in questo cammino” che lo porta agli onori degli altari. Così l’attuale patriarca armeno Raphael Bedros XXI Minassian ricorda il predecessore e cardinale Gregorio Pietro XV Agagianian, del quale si apre oggi a Roma la causa di beatificazione e canonizzazione. Unico cardinale della Chiesa armena, in due occasioni (nel 1958 e nel 1963) candidato al papato, il porporato scomparso nel 1971 è stato fra le figure di primo piano del Concilio Vaticano II, di cui era membro della commissione direttiva. Il rito, presieduto dal cardinale vicario della capitale Angelo De Donatis, celebrato presso la basilica di San Giovanni in Laterano, alla presenza anche dell’attuale primate.

“Ricordiamo con gratitudine – racconta il patriarca Minassian in una intervista ad abouna.org – come ha avviato la costruzione di scuole, luoghi di culto, aprendo centri per la cura e la protezione degli orfani e molte istituzioni ecclesiastiche, spirituali e monastiche”. Di queste, aggiunge, “forse la più importante è l’istituzione dell’Ordine di Santa Madre Teresa”, che rappresenta il suo modo di vere la fede e di testimoniare Cristo “attraverso le opere” come dice san Paolo.

Il patriarca, nato Ghazaros Agagianian il 18 settembre 1895 ad Akhaltsikhe, nell’allora Impero russo e oggi in Georgia, ha completato gli studi all’Urbaniana a Roma ed è ordinato sacerdote il 23 dicembre 1917. In seguito consegue il dottorato e trascorre qualche tempo come parroco a Tblisi; poi rientra a Roma, dove viene nominato vice e poi rettore del Collegio Armeno. All’Urbaniana, dove è stato anche rettore, ha insegnato Cosmologia e Teologia sacramentaria; oltre all’armeno, parlava correttamente italiano, francese, inglese, georgiano, russo, latino e greco.

Nel 1935 la nomina a vescovo di Comana, in Armenia, e due anni più tardi l’elezione a Catholicos Patriarca di Cilicia dal Sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica armena, e confermato dal papa il 13 dicembre 1937, prendendo il nome di Gregorio Pietro XV. Sotto la sua guida la Chiesa armena ha saputo ritrovare prestigio e valore nella diaspora, dopo le atroci sofferenze del genocidio ad opera dell’Impero ottomano nel 1915 durante la Prima guerra mondiale. Creato cardinale nel 1946 da Pio XII nel 1955 è presidente della Commissione pontificia per la redazione del Codice orientale di Diritto canonico, da qui la scelta di dimettersi dalla guida del patriarcato.

Nel 1960 diventa prefetto di Propaganda Fide, seguendo da vicino la formazione dei missionari nel mondo e liberalizzando le politiche della Chiesa nelle nazioni in via di sviluppo. Durante il Concilio si è ritagliato un ruolo di primo piano nella preparazione del Decreto missionario “Ad gentes” e della Costituzione sulla Chiesa nel mondo moderno “Gaudium et spes”. Il 19 ottobre 1970 le dimissioni da prefetto del dicastero vaticano e la nomina a cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Albano, prendendo dimora presso il Collegio armeno. Qualche mese più tardi, il 16 maggio 1971, muore a Roma dopo una breve malattia e viene sepolto nella chiesa armena di San Nicola da Tolentino.

L’attuale patriarca Minassian ha vissuto in prima persona alcune opere “innaturali”, come le definisce. Fra queste “il suo corpo che ha continuato a sudare per più di tre giorni dopo la morte”, un segno di “un qualcosa di anormale”. E, prosegue, “mentre pregavamo sul suo letto negli ultimi istanti di vita, lo abbiamo sentito dire all’improvviso di aver sete, ma non di acqua, bensì della ‘santità delle vostre anime’. Così ha detto”. Egli, conclude l’attuale primate, “non è il primo santo della Chiesa armena” che è “piena di martiri e santi” a partire dalle vittime del genocidio, ma con la sua testimonianza “ci insegna a stare in questo tempo e a dare il migliore esempio di santità” immersi nelle vicende “che oggi viviamo”.

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EUROPA/ITALIA – Avviato il processo di canonizzazione del Cardinale armeno Agagianian, Prefetto di Propaganda Fide dal 1960 al 1970 (Agenzia Fides)


Aperta la fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione di Gregorio Pietro XV Agagianian (AgenSir)


Il cardinale Agagianian verso la beatificazione/ Guidò la chiesa cattolica armena (IlSussidiario)


Il cardinale Agagianian verso la beatificazione, aperta la fase diocesana della causa (Vaticannews.va)


Roma. Agagianian, amico e collaboratore di Roncalli nel 1958 gli «contese» l’elezione (Avvenire.it)


Il profilo. Verso gli altari Agagianian, il cardinale armeno (Avvenire)


Gregorio Pietro XV Agagianian, «”ponte” tra Asia ed Europa» (RomaSette)


Il mancato Papa armeno (Lanuovabq.it)

Putin, ‘faremo tutto per favorire pace Armenia-Azerbaigian’ (Ansa 28.10.22)

(ANSA) – MOSCA, 28 OTT – La Russia sta facendo tutto il possibile per favorire una normalizzazione completa delle relazioni tra l’Armenia e l’Azerbaigian.

Lo ha detto il presidente Vladimir Putin intervenendo ad un vertice in videoconferenza tra i leader dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), di cui fanno parte la Russia e altre cinque altre ex repubbliche sovietiche.    “E’ chiaro a tutti – ha detto Putin, citato dall’agenzia Ria Novosti -: l’Azerbaigian e l’Armenia nel recente passato, proprio come la Russia, facevano tutti parte di un singolo Paese. Abbiamo un’enorme quantità di legami con Yerevan e Baku, ed è semplicemente impossibile non tenerne conto”.
La situazione in Armenia e Azerbaigian “è difficile” e la Russia è interessata al mantenimento della calma e della stabilità della Transcaucasia, ha aggiunto Putin.
La Russia ha fatto da mediatore per un cessate il fuoco che ha posto fine all’ultimo conflitto tra i due Paesi, nell’autunno del 2020, e ha schierato 2.000 suoi soldati in un’operazione di peacekeeping, ma rimangono frequenti gli incidenti di frontiera.
(ANSA).

“L’olocausto dimenticato” degli armeni nei racconti e nelle opere di Antonia Arslan (Newsquota 28.10.22)

C’è una drammatica pagina di storia ancora oggi poco conosciuta: il genocidio armeno per mano dell’allora Impero Ottomano, nei primi anni della Prima Guerra Mondiale, fece oltre 1,5 milioni di vittime; praticamente tre quarti della popolazione armena residente nell’odierna Turchia venne spazzata via per motivi etnici e religiosi.

A tenere viva la memoria di questa tragedia è da tempo Antonia Arslan, scrittrice padovana di origini armene con forti legami con la nostra provincia (da bambina passò diverse estati nella casa dei nonni a Susin di Sospirolo), ospite martedì sera dell’incontro a Palazzo dei Rettori sul tema “Coraggio e destino delle donne armene”, organizzato dal Comune di Belluno e dalla Prefettura di Belluno.

Una serata che ha approfondito la storia del genocidio armeno, attraverso i ricordi, le opere e gli incontri di Antonia Arslan in tutti i continenti, dall’Europa al Sud America, per ricostruire la storia di questo popolo e del dramma vissuto; un’occasione per ribadire l’importanza della memoria.

 

Una pagina di storia che solo negli ultimi anni ha trovato spazio anche nelle aule scolastiche.

 

L’autrice de “La masseria delle allodole”, romanzo che racconta la storia della sua famiglia all’epoca del genocidio, ha affrontato il tema delle donne armene anche nel suo “Il libro di Mush”, storia di due donne – sfuggite per caso ad uno dei massacri più sanguinosi di quegli anni, culminata con l’uccisione di tutti gli abitanti del villaggio di Mush, donne e bambini compresi – che riuscirono nell’impresa di salvare un antico e prezioso volume; un racconto che ribadisce l’importanza del ricordo.

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Gerusalemme, riapre dopo oltre 25 anni il Museo di arte e cultura armena, tutto restaurato (Finestre sull’ Arte 26.10.22)

Dopo oltre venticinque anni riapre a Gerusalemme il Museo di arte e cultura armena: chiuso a metà degli anni Novanta per il degrado delle strutture, dal 2018 è stato avviato il restauro e ora da metà novembre sarà nuovamente aperto al pubblico. L’inaugurazione del nuovo Museo Edward e Helen Mardigian è avvenuta il 23 ottobre, con una cerimonia presieduta dal Patriarca armeno di Gerusalemme Nourhan Manougian.

Il museo ripercorre tremila anni di arte e cultura armena. Dopo il taglio solenne del nastro, con cui il museo è stato dichiarato ufficialmente aperto, i visitatori hanno potuto ammirare le preziose collezioni, tra cui un grande mosaico esposto al centro dell’edificio, una mostra sul genocidio armeno e vari oggetti preziosi, dai manoscritti alle ceramiche e alle pagaie ricamate.

Tra i pezzi più preziosi, il mosaico pavimentale di Musrara, risalente al VI secolo, lungo sette metri e largo più di quattro. Scoperto tra il 1892 e 1893, questo pavimento musivo testimonia l’utilizzo liturgico dell’ambiente per cui è stato realizzato. Da un vaso finemente decorato partono tralci di vite al cui interno trovano spazio diversi uccelli.

“Per un popolo la cui esistenza è stata contestata e minacciata, un museo non è solo una collezione di manufatti e oggetti preziosi. È anche un mezzo per preservare e insegnare la nostra storia“, ha affermato padre Arakel Aljalian, parroco della Chiesa armena di San Giacomo a Watertown/Massachusetts, alla cerimonia di apertura del Museo del Patriarcato armeno, recentemente rinnovato. “Oggi assistiamo all’inizio di un nuovo capitolo della presenza armena nella Città Santa”.

Credit Patriarcato Latino di Gerusalemme

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Pace per tutto il Caucaso l’Ucraina e il mondo intero (Osservatore Romano 26.10.22)

«Preghiamo in particolare per la pace in Armenia, così come chiediamo la pace per l’Ucraina e per tutto il mondo. Siamo tutti chiamati a rinnovare il nostro impegno quotidiano per essere strumenti di pace». Così il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, durante la messa celebrata martedì pomeriggio, 25 ottobre, nella basilica papale di Santa Maria Maggiore, in occasione del 30° anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica di Armenia.

Il porporato ha affidato la preghiera per la pace all’intercessione della Regina Pacis, venerata nella basilica liberiana come Salus Populi Romani e ha ricordato che si sta svolgendo in questi giorni un pellegrinaggio nel Caucaso con l’immagine della Madonna di Fátima. Si tratta, ha evidenziato, di un viaggio senza precedenti che sostiene la speranza di favorire venti di pace nella regione. Oltre alla Georgia e all’Armenia, ha spiegato, la statua visiterà anche l’Azerbaigian, percorrendo tutto il Caucaso, facendo sosta nelle parrocchie e nelle comunità cattoliche, con il preciso intento di favorire «la riconciliazione e la pace» nel cuore di queste grandi nazioni.

Le relazioni con gli altri, ha aggiunto il segretario di Stato, anche quelle difficili e dolorose, «devono essere coltivate in modo da favorire la pace e, di conseguenza, il perdono basato sulla sapienza di Dio». Facendo riferimento alle parole di Papa Francesco durante la veglia ecumenica di preghiera per la pace a Yerevan in occasione del viaggio in Armenia nel 2016, il cardinale Parolin ha ricordato la figura di un «grande testimone e costruttore della pace di Cristo», san Gregorio di Narek, proclamato nel 2015 dottore della Chiesa. L’Armenia, con la sua identità, ha detto il cardinale celebrante, «si fonda su una solida base di pietra, sul khatchkar». Questa è una croce di pietra, definita come una vera e propria “icona” della spiritualità armena. San Giovanni Paolo II si riferiva al Paese caucasico come al «popolo della croce», perché è in essa che il popolo si è identificato. Questo grande Paese si «è sempre distinto come la prima nazione ad abbracciare la fede cristiana». Nel corso dei secoli, infatti, la fede «ha sostenuto questo grande popolo, soprattutto nei momenti difficili della sua storia».

Il cardinale Parolin ha ricordato il 30° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Armenia e Santa Sede, assicurando apprezzamento per «le positive relazioni bilaterali», caratterizzate «da cordialità e rispetto», che «trovano la loro eloquente espressione sia nello scambio di visite ad alto livello che in varie altre iniziative». Come aveva già sottolineato in molte occasioni, le «relazioni amichevoli hanno una lunga storia e precedono la loro formalizzazione nel maggio 1992». Il segretario di Stato ha anche ricordato che l’anno scorso è stata inaugurata la nunziatura apostolica a Yerevan, «un segno importante di come la Santa Sede e l’Armenia stiano continuamente sviluppando le loro relazioni in modo amichevole e serio in vari campi». Inoltre, ha fatto notare che un altro aspetto significativo delle relazioni è «legato al dialogo rispettoso tra la Chiesa cattolica e la Chiesa apostolica armena». Questo, ha aggiunto il porporato, è stato un aspetto molto importante degli incontri tra Papa Francesco e Sua Santità Karekin II , Catholicos e Patriarca supremo degli armeni.

Il legame speciale tra la Santa Sede e il popolo armeno è «testimoniato anche dalla Communio ecclesiastica» che il Pontefice ha consegnato a Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, dopo la sua elezione, lo scorso anno, a patriarca di Cilicia degli armeni.

Il cardinale ha concluso invocando sull’Armenia la pace, affinché il Signore per intercessione di san Gregorio di Narek, faccia del Paese «una casa fondata sulla roccia della Sapienza divina».

Alla celebrazione erano presenti, tra gli altri, il patriarca di Cilicia degli armeni, l’arcivescovo Khajag Barsamian, rappresentante della Chiesa apostolica armena presso la Santa Sede, e il ministro degli affari esteri della Repubblica d’Armenia.

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L’ECONOMIA DELL’ARMENIA E LE POSSIBILITÀ DI INVESTIMENTO: INTERVISTA AL MINISTRO VAHAN KEROBYAN (Notizie Geopolitiche 26.10.22)

di Silvia Boltuc e Giuliano Bifolchi * –

EREVAN (Armenia). Dopo la pandemia e il conflitto del Nagorno-Karabakh del 2020 l’economia armena ha iniziato a riprendersi nel 2021 registrando una crescita significativa nel 2022 con una previsione ottimistica per il prossimo anno.
Nel 2020 l’Armenia ha affrontato, come l’intero sistema internazionale, la pandemia che ha generato diversi problemi nel sistema economico nazionale. Nello stesso anno il Caucaso meridionale ha assistito al conflitto del Nagorno-Karabakh del 2020, che ha cambiato l’assetto geopolitico regionale e influenzato il sistema sociopolitico e finanziario armeno.
Se l’anno 2020 ha condizionato enormemente la performance economica armena, dal 2021 il paese ha iniziato a riprendersi registrando un trend positivo. Infatti, nel suo report sull’aggiornamento economico dell’Europa e dell’Asia centrale (ECA) del 2022 di ottobre, la Banca Mondiale aveva previsto una crescita dell’economia armena del 7% nel 2022, del 4,3% nel 2023 e del 5,2% nel 2024.
Durante la missione ufficiale a Yerevan per il progetto “Discovering & Analysing Armenia”, SpecialEurasia , in media partnership con Notizie Geopolitiche, ha incontrato Vahan Kerobyan, ministro dell’Economia della Repubblica di Armenia, per comprendere quale sia l’attuale performance economica armena, i principali settori trainanti dell’economia, le opportunità di investimento e le politiche economico-fiscali volte ad attrarre investitori.

– Signor ministro, potrebbe dirci qual è la situazione attuale dell’economia armena?
“Quest’anno l’economia dell’Armenia ha avuto una crescita significativa che ha avuto riflessi anche sul PIL che è aumentato del 14%, stima che potrebbe raggiungere quota 15% di crescita a fine anno.
Questa tendenza positiva deriva da diversi fattori, anche se tra i primi vorrei citare il trasferimento dei cittadini russi sul territorio armeno dovuto al conflitto in Ucraina. Attualmente abbiamo 116 mila cittadini russi che si sono trasferiti in Armenia, di cui metà di origini armene e l’altra metà propriamente russi, i quali sono giunti nel nostro paese grazie alle nostre condizioni favorevoli come, ad esempio, un elevato standard democratico, la sicurezza delle città, un basso tasso di criminalità e la presenza di diverse strutture sanitarie. Altro fattore che ha spinto i russi a trasferirsi in Armenia è quello linguistico considerando che la lingua russa è ampliamente parlata e conosciuta nel nostro paese.
Il problema più grande derivante da questo flusso migratorio dei cittadini russi è rappresentato dagli alti prezzi degli affitti, perché la domanda interna è aumentata. Anche se il nostro governo sta cercando di contrastare questo problema, dopo la parziale mobilitazione in Russia, l’Armenia ha sperimentato altri flussi migratori russi che stanno rendendo complicato il nostro lavoro.
I russi presenti in Armenia lavorano in diversi settori, tra cui spicca quello dell’IT: dall’inizio del 2022, infatti, abbiamo registrato un aumento del 50% dei posti di lavoro in questo ambito. Ne consegue, quindi, che la presenza russa in Armenia potrebbe essere considerata come il primo contributo alla crescita della nostra economia e della domanda interna. Sempre analizzando questo fenomeno e a partire dall’inizio del conflitto in Ucraina, l’Armenia ha visto aumentare anche la propria esportazione in direzione di Mosca in modo che Yerevan abbia attualmente una partecipazione significativa nel mercato russo”
.

– Quali sono i principali settori che trainano l’economia in Armenia?
“I tre principali motori dell’economia armena sono il settore IT, la produzione manifatturiera a industriale e la domanda interna. In effetti, il nostro programma di governo mira sia a migliorare i settori manifatturieri (metallurgia, industria chimica, mineraria e gioielleria, tessile, pannelli solari e sistemi) che ad attrarre investimenti diretti esteri (IDE) così come a implementare il settore delle costruzioni. Naturalmente, ci concentriamo molto anche sull’agricoltura, poiché vorremmo garantire la sicurezza alimentare del nostro paese in un periodo storico molto difficile.
Abbiamo un grande potenziale nel settore dell’energia solare grazie alla nostra esperienza e ai prezzi bassi dei nostri prodotti e servizi. Pertanto, l’Armenia sta valutando l’opportunità di cooperare con altri paesi come il Kazakistan, l’Uzbekistan, gli Stati Uniti e il Canada, dove possiamo vendere non solo ciò che produciamo, ma anche il nostro know how.
Abbiamo un legame con l’Italia nel settore della moda e del tessile. Infatti, recentemente abbiamo visitato la Milano Fashion Week e una delegazione di imprese italiane è venuta in Armenia per comprendere le modalità migliori di collaborazione. Bisogna anche considerare che diverse compagnie armene lavorano per marchi italiani importanti nel settore della moda come Max Mara e Moncler, fattore che ha indotto il nostro governo a cercare di sviluppare brand locali che possano entrare in un mercato così promettente ma anche competitivo”
.

– Potrebbe darci maggiori informazioni sulle relazioni economiche e sulle partnership esistenti tra l’Armenia e i membri dell’Unione economica eurasiatica (EAEU)?
“Facciamo parte dell’EAEU, questo è un dato di fatto. In effetti, il commercio tra l’Armenia e altri Stati membri è aumentato di oltre il 50% a seguito delle sanzioni che hanno attivato maggiormente gli scambi commerciali interni.
Devo dire, però, che non cooperiamo solo all’interno dell’EAEU visto che negli ultimi anni abbiamo aumentato gli scambi commerciali con i paesi europei e con attori regionali importanti come la Repubblica Islamica dell’Iran.
Se guardiamo agli investimenti diretti esteri, ovviamente questo anno il paese leader è stato la Federazione Russa visto che numerosi cittadini russi sono emigrati in Armenia oppure hanno deciso di delocalizzare le loro attività sul nostro territorio, fattori che hanno trainato il mercato e la nostra economia. Oltre ai russi, abbiamo investimenti anche europei grazie al fatto che l’Armenia ha sviluppato relazioni bilaterali con paesi come la Germania oppure l’Italia. Nel 2022, ad esempio, abbiamo avuto diversi investitori italiani nel settore tessile oppure in quello dell’agricoltura.
Se focalizziamo l’attenzione sui paesi dell’Asia centrale (alcuni di loro sono membri EAEU), valutiamo questo mercato importante anche se abbiamo problemi di connettività logistica. Inoltre, sia la pandemia che le recenti sanzioni contro la Russia hanno influenzato la cooperazione tra l’Armenia e le repubbliche centro asiatiche. Per far fronte a queste problematiche, il nostro governo ha sviluppato progetti per aumentare la nostra connettività con l’Asia centrale, in particolare con il Kazakistan e l’Uzbekistan dove vendiamo prodotti agricoli e pannelli solari
“.

– Per quanto riguarda le relazioni economiche Italia-Armenia, qual è lo stato attuale e i possibili sviluppi futuri?
“Il principale settore dove Italia e Armenia collaborano è quello dell’agricoltura. In effetti, quasi tutti i prodotti nel settore agricolo provengono dall’Italia come i macchinari, ad esempio, e ora abbiamo anche iniziato a vendere i nostri prodotti nei paesi dell’Asia centrale, promuovendo così i marchi italiani.
L’Italia esporta in Armenia il suo know-how, fattore che non può essere sottovalutato. Guardando ai programmi di governo è possibile dire che nel settore del giardinaggio l’Italia detiene un posto speciale, quasi un primato direi, mentre in quello green house sono la Germania e la Francia ad essere i nostri maggiori partner
“.

– Esistono in Armenia delle zone economiche speciali che possono favorire gli investitori stranieri e quelli locali?
“Sfortunatamente devo ammettere che per quanto riguarda le zone economiche speciali queste devono essere sviluppate da zero. A tal proposito, abbiamo pianificato di sviluppare una zona economica libera a Shirak, ma il progetto è nella sua fase iniziale e richiederà 2-3 anni per essere ultimato”.

– In questi giorni i media internazionali si sono focalizzati sull’apertura del consolato iraniano a Syunik e hanno sottolineato quanto siano importanti le relazioni che Yerevan ha con Teheran. Potrebbe fornirci maggiori informazioni sulla cooperazione economica Iran-Armenia?
“L’Armenia e l’Iran hanno millenni di cooperazione dal punto di vista storico. Inoltre la comunità armena in territorio iraniano può considerarsi la più importante.
Gli iraniani descrivono la loro economia come una ‘economia di resistenza’ e Teheran è riluttante ad esportare i prodotti nazionali. Pertanto, l’Armenia vende energia all’Iran grazie a un sistema di scambio comune che consiste nel fatto che Teheran esporta gas naturale a Yerevan e noi diamo loro elettricità.
A parte questo, l’esportazione armena in Iran è minima. Sebbene il commercio sia in crescita, possiamo capire la posizione iraniana e al contempo non possiamo costringere Teheran ad acquistare i nostri prodotti. Tuttavia, il nostro commercio è in crescita.
Ad esempio, quando ho iniziato il mio incarico di ministro nel 2020, il commercio armeno-iraniano si attestava intorno ai 400 miliardi di dollari, ma già l’anno successivo aveva registrato un incremento arrivando a giungere quota 500 miliardi di dollari. Nel 2022, secondo le stime, credo che finiremo con il raggiungere gli 800 miliardi di dollari ed esiste anche la possibilità che possiamo superare questo valore”.

– Se guardiamo al settore della logistica e dei trasporti, il corridoio internazionale di trasporto nord-sud (INSTC) rappresenterà un beneficio per l’Armenia anche in questo periodo di sanzioni oppure esistono altri progetti logistici promossi da Yerevan?
“L’Armenia fa parte dell’INSTC, ma il progetto non è ratificato e per far fronte a questo, al contempo, stiamo sviluppando un progetto per creare una connettività logistica veloce dall’India all’Europa passando per l’Iran e la Georgia. Questo progetto, secondo quanto previsto dal nostro governo, non interesserà soltanto l’India, ma anche i paesi del Golfo.
Ciò significa che attraverso l’Armenia i corridoi logistici potrebbero andare in Europa, attraversando il Mar Nero, o verso il mercato russo seguendo il percorso dell’INSTC.
Abbiamo banche europee che sostengono il nostro progetto logistico per collegare l’India con l’Unione Europea. Ora siamo nella fase dei bandi di gara e abbiamo la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) come partner finanziario
“.

* Intervista in mediapartnership con SpecialEurasia.

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Parolin celebra una Messa per la Pace in Armenia a Santa Maria Maggiore (Vatican News 24.10.22)

Occasione è il 30° Anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra l’Armenia e la Santa Sede. Alla celebrazione del Segretario di Stato sarà presente il ministro degli Affari Esteri armeno, Ararat Mirzoyan

Vatican News

Il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, presiederà una Messa dedicata alla Pace in Armenia domani, martedì 25 ottobre, alle 15.30, nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore. Occasione è il 30° Anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra l’Armenia e la Santa Sede. Alla celebrazione sarà presente il ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Armenia, Ararat Mirzoyan che porterà un saluto.

Sono stati invitati a partecipare membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, rappresentanti del mondo ecclesiastico e politico, giornalisti, e membri della comunità armena. In un’intervista rilasciata alla Sezione Armena della Radio Vaticana – Vatican News, l’Ambasciatore d’Armenia presso la Santa Sede Garen Nazarian ha affermato che “questo trentesimo anniversario è per noi la migliore opportunità, basata sugli stessi valori cristiani, sui risultati del passato e su una visione comune per il futuro, per approfondire ed estendere ulteriormente le relazioni bilaterali con la Santa Sede”.

Per l’occasione l’auspicio dell’Ambasciatore è che “la Santa Messa e le preghiere possano contribuire al raggiungimento della vera pace, quella pace di cui l’Armenia e tutto il mondo hanno bisogno oggi più che mai”.


Parolin: preghiamo per la pace in Armenia, in Ucraina e nel mondo

Il cardinale segretario di Stato ha presieduto la celebrazione nel trentennale dell’avvio delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e la Repubblica armena

Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

“Preghiamo per la pace in Armenia, chiediamo la pace in Ucraina e in tutto il mondo. Siamo tutti chiamati a rinnovare il nostro impegno quotidiano per essere strumenti di pace”. È questa la supplica che si è elevata durante la “Santa Messa per la pace in Armenia”, presieduta nella Basilica di Santa Maria Maggiore dal segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, in occasione del 30.mo anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica di Armenia e la Santa Sede.

Il legame tra Santa Sede e popolo armeno

Nell’omelia il porporato ha ricordato che l’anno scorso è stata inaugurata a Yerevan la Nunziatura Apostolica, “un segno importante di come la Santa Sede e l’Armenia stiano continuamente sviluppando le loro relazioni in modo amichevole e serio in vari campi”. Un altro aspetto significativo delle relazioni tra Armenia e Santa Sede è legato al “dialogo rispettoso tra la Chiesa cattolica e la Chiesa apostolica armena”. Questo, ha affermato il cardinale Parolin, è stato un aspetto molto importante degli incontri di Papa Francesco con Karekin II, Catholicos e Patriarca supremo di tutti gli armeni. Il legame speciale tra la Santa Sede e il popolo armeno, ha sottolineato il segretario di Stato, è testimoniato anche dalla Comunione Ecclesiastica concessa da Papa Francesco a Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, dopo la sua elezione, lo scorso anno a Patriarca di Cilicia degli Armeni.

Favorire venti di pace nel Caucaso

È la pace il dono più desiderato. “Nella preghiera di oggi – ha affermato il cardinale Parolin – siamo guidati dal grande Santo della Chiesa armena, San Gregorio di Narek, la cui memoria è stata inserita da Papa Francesco nel Calendario Romano Generale”. Il porporato ha ricordato in particolare le parole pronunciate da Papa Francesco durante l’incontro ecumenico e la preghiera per la pace a Yerevan nell’ambito del viaggio apostolico in Armenia nel 2016: “In quest’ottica vorrei evocare un altro grande testimone e artefice della pace di Cristo, san Gregorio di Narek, che ho proclamato Dottore della Chiesa. Egli potrebbe essere definito anche ‘Dottore della pace’. Così ha scritto in quello straordinario Libro che mi piace pensare come la ‘costituzione spirituale del popolo armeno’: Ricordati, [Signore,…] di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia. […] Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (Libro delle Lamentazioni, 83,1-2)”. “Oggi – ha aggiunto il cardinale Parolin – affidiamo la nostra preghiera all’intercessione della Beata Vergine Maria, Regina Pacis, qui venerata come Salus Populi Romani”. Il porporato ha poi sottolineato che in questi giorni si sta svolgendo un pellegrinaggio con la venerabile immagine di Nostra Signora di Fatima nel Caucaso. Un pellegrinaggio per favorire la riconciliazione e “venti di pace nella regione”.

Il popolo armeno e la croce

Nell’omelia il cardinale Parolin ha anche sottolineato che “l’Armenia, con la sua identità, è fondata su una solida base di pietra, sul khatchkar”, la croce di pietra degli armeni “definita come una vera e propria icona della spiritualità armena”. San Giovanni Paolo II, ha affermato il segretario di Stato, si riferiva alla nazione armena come al “popolo della croce”, perché è nella croce che questo popolo si è identificato. “Il popolo armeno – ha detto nel Duemila Papa Wojtyła, durante un’udienza ai partecipanti al pellegrinaggio giubilare del Patriarcato armeno cattolico – conosce bene la Croce: la porta incisa nel suo cuore. È il simbolo della sua identità, delle tragedie della sua storia e della gloria della sua rinascita dopo ogni evento avverso”.

Armenia terra di fede

“Non sorprende che gli armeni siano un popolo di profonda fede”. “Questo grande Paese – ha detto il cardinale Parolin – si è sempre distinto come la prima nazione ad abbracciare la fede cristiana. Nel corso dei secoli, la fede cristiana ha sostenuto questo grande popolo, soprattutto nei momenti difficili della sua storia”. L’Armenia, dove “è nata la prima civiltà dopo il Diluvio e dove la tradizione ci dice che si trovava il Giardino dell’Eden”, è una “bellissima terra di montagna”. “Che il Signore faccia dell’Armenia – ha affermato infine nell’omelia il porporato – una casa fondata sulla roccia della Sapienza divina. Possa la vostra nobile nazione godere della pace che desiderate e possa continuare a beneficiare delle vostre ricchezze umane, culturali e spirituali, in modo che la famiglia delle nazioni possa condividere ciascuna di esse”.

Relazioni tra Santa Sede e Armenia

Alla cerimonia nella Basilica di Santa Maria Maggiore era presente anche il ministro degli Affari Esteri armeno, Ararat Mirzoyan. Lo scorso 23 maggio, in occasione del 30.mo anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica d’Armenia e la Santa Sede, c’è stato uno scambio di lettere tra il ministro Mirzoyan e il segretario per i Rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher. Il ministro armeno, riferendosi alle relazioni basate su stessi valori cristiani, ha manifestato la disponibilità a proseguire gli sforzi comuni per l’attuazione dell’agenda internazionale e regionale per una pace duratura e uno sviluppo sostenibile. Il ministro armeno ha inoltre espresso gratitudine per l’elevazione di San Gregorio di Narek alla dignità di Dottore della Chiesa e per le parole, pronunciate da Papa Francesco durante il Pontificato, sul genocidio armeno. A sua volta, il segretario per i Rapporti con gli Stati ha sottolineato che la recente apertura della Nunziatura Apostolica a Yerevan è una testimonianza importante del modo in cui la Santa Sede e l’Armenia stiano sviluppando relazioni amichevoli e sincere in ambiti diversi. Ricordando le visite bilaterali ad alto livello, l’arcivescovo Gallagher ha ricordato infine che è intenzione della Santa Sede rafforzare ulteriormente la cooperazione con l’Armenia in particolare per promuovere la giustizia e la pace.

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Agagianian verso la beatificazione, chi era il cardinale armeno che rischiò di diventare Papa nel conclave del 1958 (Il Messaggero 25.10.22)

Città del Vaticano – Primo passo per la beatificazione del cardinale armeno che stava per diventare il primo Papa, rischiando di essere eletto nel conclave del 1958. La sessione di apertura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù eroiche e la fama di santità di Gregorio Pietro XV Agagianian, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici, è prevista per venerdi alla Basilica del Laterano.

Gregorio Pietro XV Agagianian (al secolo Ghazaros Agagianian) è nato il 18 settembre 1895 ad Akhaltsikhe, nell’Impero Russo, attuale Georgia. Dopo gli studi alla Urbaniana è stato parroco a Tbilisi e di nuovo a Roma, dove fu nominato vicerettore e poi rettore del Pontificio Collegio Armeno. Fu anche rettore della Pontificia Università Urbaniana, dove insegnava Cosmologia e Teologia sacramentaria. Oltre all’armeno, parlava correttamente italiano, francese, inglese, georgiano, russo, latino e greco. «Sotto la sua guida – spiegano i curatori – la Chiesa cattolica armena riacquistò prestigio e importanza nella diaspora armena dopo le vicende travagliate e sanguinose del Genocidio armeno del 1915». Nel 1946 fu creato cardinale dal Papa Pio XII.

Nel 1960 fu prefetto di Propaganda Fide e fu moderatore del Concilio Vaticano II (1962-1965). Ebbe un ruolo speciale nella preparazione del Decreto missionarioAd gentes e della Costituzione sulla Chiesa nel mondo moderno Gaudium et spes. E’ morto dopo una breve malattia, il 16 maggio 1971. È sepolto nella chiesa armena di San Nicola da Tolentino a Roma.

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Agagianian, pastore vicino alla gente (Roma Sette)


L’apertura della fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Gregorio Pietro XV Agagianian (Diocesidiroma)