L’Armenia non sarà in gara all’Eurovision Song Contest 2021 (Eurofestivalnews 05.03.21)

La notizia arriva a lacerare la mattina: l’Eurovision 2021 ha un concorrente in meno. L’Armenia, infatti, ha comunicato la propria rinuncia a partecipare al concorso a poco più di una settimana dalla deadline per presentare la propria canzone.

Srbuk | Credits: EBU / Andres Putting

Si legge nel comunicato apparso sul sito ufficiale dell’Eurovision Song Contest che l’AMPTV, l’emittente armena deputata alla trasmissione e alla partecipazione, ha rilasciato questo comunicato:

Dopo attente e dettagliate discussioni, la Public Television Company of Armenia (nota anche come 1TV o ARMTV, N.d.R.) ha deciso di abbandonare l’Eurovision Song Contest 2021, considerando i recenti eventi, il poco tempo di produzione a disposizione e altre ragioni oggettive che rendono la partecipazione dell’Armenia all’edizione 2021 impossibile.

Queste invece le parole di Martin Österdahl, supervisore esecutivo dell’Eurovision:

L’EBU è molto dispiaciuta che l’AMPTV abbia deciso di non partecipare all’Eurovision Song Contest di quest’anno. L’Armenia ha un ottimo ruolino di marcia nel concorso e porta sempre entusiasmo e performance di qualità sul palco. Capiamo le ragioni della loro rinuncia e ci mancherà molto la loro delegazione, professionale e che lavora duramente, a Rotterdam. Speriamo davvero tanto di poter ridare il benvenuto all’Armenia nel 2022.

Non si tratta del primo forfait vicino alla deadline dell’Armenia in tempi recenti: già nel 2012, quando fu ravvisata la mancanza di adeguate misure di sicurezza per l’edizione a Baku, in Azerbaigian, arrivò l’uscita di scena anticipata, che fu in questo caso seguita da una multa.

Le ragioni vanno cercate nelle conseguenze del riesplodere del conflitto riguardante il Nagorno-Karabakh, che nella parte finale dello scorso anno ha insanguinato nuovamente la zona, con l’Azerbaigian che, tramite l’accordo di tregua o per occupazione militare, ha messo le mani su una consistente porzione di territorio.

L’Eurovision Song Contest 2021 si svolgerà dunque con 40 Paesi in gara, invece dei 41 originariamente previsti. Ad essere toccata è in particolare la seconda semifinale, quella del 20 maggio, in cui il Paese si sarebbe dovuto esibire nella seconda metà. Restano così 17 le canzoni che saranno ascoltate dall’Europa nella serata in questione.

L’Armenia, dunque, non avrà un’erede per Srbuk, che è l’ultima artista ad aver rappresentato il Paese con “Walking out” nel 2019 (uscendo in semifinale), e nemmeno per Athena Manoukian, la cui partecipazione del 2020 con “Chains on you” non è stata più tale a causa della cancellazione del concorso per l’espandersi della pandemia di Covid-19. Il miglior risultato finora ottenuto è il quarto posto, arrivato due volte con “Not alone” di Aram MP3 nel 2014 e prima ancora con “Qele, qele” di Sirusho nel 2008.

Cinque cose da sapere sui cristiani d’Iraq (Aleteia 04.03.21)

Durante il suo 33º viaggio apostolico fuori Italia, papa Francesco si recherà al capezzale della popolazione cristiana irachena, provata da una lunga successione di guerre. Facciamo il punto sulle caratteristiche di questa comunità, che rappresenta meno del 2% della popolazione.

1C’ERANO GIÀ PRIMA DELL’ARRIVO DEI MUSULMANI

Bisogna ricordare le radici bibliche di questa terra. Abramo, padre dei credenti monoteisti, è originario di Ur dei Caldei. In seguito, l’evangelizzazione della Mesopotamia, attuale terra irachena, risale al I secolo dopo Cristo. Una delle comunità cristiane più importanti – oggi nota come Chiesa calda – è stata fondata da san Tommaso.

Verso il 90 d.C., questa comunità cattolica (che è una delle Chiese d’Oriente), crebbe progressivamente fino a toccare il proprio apogeo nel VI secolo, epoca durante la quale inviò missionari fino in India e in Cina.

Se la presenza delle piccole chiese cristiane si spiega con alcune più recenti migrazioni, la larga maggioranza dei fedeli iracheni discende direttamente dalle popolazioni che vivevano in Mesopotamia prima dell’era cristiana.

2ESISTE UN MOSAICO DI CRISTIANI IN IRAQ

La realtà dei cristiani d’Oriente è molteplice. Più importante per numero, la Chiesa caldea, oggi diretta da sua beatitudine il cardinale Louis Raphaël Sako, tornò nelle orbite di Roma nel 1553, quando il monaco Jean Simon Soulaka venne riconosciuto come patriarca dei Caldei.

L’attuale Chiesa assira d’Oriente è, da parte sua, costituita di cristiani che non hanno riconosciuto Roma. Esiste pure una Chiesa assira che molto presto ruppe con Roma e con Costantinopoli per via della propria adesione al nestorianesimo, e questa è oggi nota con il nome di Chiesa siriaca ortodossa, detta “giacobita”. Con Ignace André Akhidan, eletto patriarca nel 1662, una parte di questa chiesa si sarebbe raccordata a Roma, prendendo il nome di Chiesa siriaca cattolica. Oltre a queste quattro comunità principali, notiamo la presenza di una comunità armena divisa tra ortodossi e cattolici, di una piccola Chiesa latina d’Iraq, di alcuni fedeli copti, protestanti, e in ultimo di cristiani appartenenti alle Chiese greca-ortodossa o ancora melkita.

3I CRISTIANI SONO DIECI VOLTE MENO DI QUANTI ERANO VENT’ANNI FA

Le violenze, le discriminazioni e la congiuntura economica hanno spinto centinaia di migliaia di iracheni a lasciare il loro Paese. Mentre nel 2000 esso contava quasi un milione e mezzo di cristiani, oggi se ne annoverano meno di 300mila – alcuni affermano anzi che non ne resterebbero più di 150mila.

Sussiste tuttavia qualche ragione di speranza: mentre la Piana di Ninive, tra il 2014 e il 2017, era stata interamente vuotata dai cristiani che vi abitavano, molti rifugiati hanno cominciato a farvi ritorno – il 40%, stando a certe stime. Qaraqosh, città che prima dell’invasione dell’Isis contava 50mila cristiani, ha ritrovato più della metà dei suoi abitanti.

Nondimeno, se anche alcune famiglie rifugiate all’estero sono tornate nella Piana di Ninive, è poco probabile che il movimento si generalizzi.

4I CATTOLICI HANNO UNA NOTEVOLE INFLUENZA CULTURALE NEL PAESE

L’Iraq conterebbe ancora 250mila fedeli cattolici uniti a Roma, e poco più di 150mila fedeli non cattolici. Su 100 abitanti, la percentuale dei cattolici salirebbe dunque a 1,5 – ha precisato la Santa Sede in un comunicato pubblicato il 2 marzo 2021.

Le Chiese cattoliche irachene non contano che 19 vescovi, 113 preti diocesani, 40 preti religiosi e 20 diaconi – nonché 32 seminaristi in attesa di ordinazione. Benché i numeri dei cattolici siano relativamente deboli, mons. Pascal Gollnisch sottolinea comunque quanto sia grande la loro influenza culturale nel Paese. Numerose strutture dipendono infatti dalla Chiesa cattolica, che gestisce non meno di 55 scuole primarie e materne, 4 scuole secondarie e 9 università.

5LE SOFFERENZE DEI CRISTIANI NEGLI ULTIMI DUE DECENNI

Gli appelli alla riconciliazione e alla fraternità degli attuali responsabili delle Chiese in Iraq sono edificanti, se si tiene presente la sofferenza che quelle comunità hanno dovuto sopportare, specialmente negli ultimi due decenni.

Dopo la caduta di Saddam Hussein, nel 2003, una grande ondata di insicurezza ha sbrindellato il Paese. Nel 2006, 36 chiese sono state attaccate – stando a un recente rapporto di ACS. Due anni più tardi, l’arcivescovo caldeo di Mosul è stato assassinato. Nel 2010, un attentato nella cattedrale siriaca cattolica di Baghdad ha provocato la morte di 58 persone. Nel 2014, lo Stato Islamico ha invaso la Piana di Ninive, in cui vivevano quasi 150mila cristiani – i quali fuggirono tutti a rifugiarsi anzitutto nel Kurdistan iracheno.

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Moda sostenibile: Fashion and Design Chamber Armenia, l’iniziativa a sostegno della nuova generazione di talenti (Vogue 04.03.21)

Durante l’ultima edizione della London Fashion Week, l’ente britannico Fashion Scout e Fashion and Designer Chamber Armenia (FDCA) – l’associazione no-profit fondata nel novembre 2017 da un gruppo di designer armeni per rafforzare il settore della moda e del design armeno consentendogli di essere pienamente inserito nel contesto locale e internazionale – hanno collaborato ad un progetto prettamente digitale per presentare sei designer emergenti in occasione delle sfilate avvenute in piattaforma. A questo proposito, i designer emergenti hanno avuto la possibilità di esporre le loro collezioni in un formato see-now-buy-now, per incrementare il proprio network a livello globale con buyer,  membri della stampa e con il resto della comunità del mondo della moda. Inoltre, assieme ai fashion film presentati dai vari designer c’è stato il lancio di un nuovo portale e-commerce, miashop.am, che vende opere curate dai designer armeni più promettenti, molti dei quali hanno già catturato l’attenzione degli addetti ai lavori sul fronte internazionale. A partire dal 2019, Fashion Scout ha lavorato a fianco del Fashion and Designer Chamber Armenia col fine di sviluppare un accelerator programme e un business di showcasing per i designer armeni. Il progetto, chiamato “Supporting SME’s and Creating Sustainable Ecosystem for Armenian Textile Industry” «sostenere e creare un ecosistema sostenibile per l’industria tessile armena» è stato avviato dal FDCA con il prezioso supporto del Good Governance Fund (GFF) del Regno Unito.

Vogue Talents vi presenta tre designer armeni di moda sostenibile molto promettenti qui:

RUZANĒ

Una femminilità decisa, che sta nel voler creare un approccio alla moda ad ampio respiro creativo per coinvolgere tutte le dimensioni del lifestyle: è questo il banner siglato RUZANĒ, il brand fondato da Ruzanna Vardanyan nel 2016 come dichiarazione di massima femminilità e stile.

 “Tendiamo ad essere forti e senza paura, ma non si tratta di forza fisica, il nostro potere è la nostra femminilità,” ha spiegato la designer. L’ultima collezione si rifà al modo in cui la società usa questo potere in risposta alle principali sfide dell’umanità. Il label crea pezzi senza tempo realizzati con tessuti ricercati, valorizzando la qualità.

Si mixano i codici dell’heritage con ispirazioni rubate al minimalismo, dove vengono scelte silhouette morbide in versione casual, più versatili che mai, assumendo un aspetto quasi sportivo. “A causa della pandemia l’industria della moda ha subito un’enorme trasformazione, e anche noi,” riflette la designer. “Il consumo è diminuito inevitabilmente e i designer emergenti come noi hanno sofferto molto. Eravamo in fase di crescita quando Covid 19 è entrato nelle nostre vite e ha iniziato a dettare le priorità della vita. Stavamo facendo i primi passi per costruire la consapevolezza del nostro marchio a livello internazionale per presentare RUZANĒ al mondo e questa è diventata una grande sfida per noi, soprattutto perché lo stile e la moda non erano una priorità nella mente delle persone. La buona notizia è che i clienti hanno iniziato a desiderare più comfort e qualità, ma purtroppo il tasso di spesa è diminuito e così anche il desiderio e l’opportunità di indossare abiti o uscire.”

Nelly Serobyan

Un manifesto di fiducia, indipendenza e tradizione, è quello di Nelly Serobyan, al timone dell’omonimo brand che incarna un design forte e sicuro di sé. Il guardaroba minimalista ma è dotato da una forte personalità, sintonizzato con abiti che esaltano il concetto di essenzialità e femminilità.

L’arsenale dell’abbigliamento si articola in abiti larghi dal taglio sartoriale, cromie neutre e volumi composti. In più, un tocco di funzionalità smorza l’effetto high-low della collezione. “A causa della crisi economica attuale, il nostro marchio ha iniziato a risparmiare il più possibile,” spiega Serobyan.

 “Rimanendo fedeli all’identità del label, oggi stiamo producendo capi che sono sia comodi che eleganti, utilizzando materiali upcycled che dagli archivi. Molti marchi locali hanno interrotto le loro attività, ma noi siamo determinati a continuare il nostro lavoro. Ci siamo resi conto che dobbiamo adattarci alle esigenze dei consumatori, così abbiamo deciso di esaminare i nostri archivi e riproporre alcuni dei nostri pezzi principali. Anche se l’anno passato è stato impegnativo, siamo fiduciosi che il 2021 sarà un buon anno per Nelly Serobyan e per tutto il mondo. La mia ultima collezione, a cui sto attualmente lavorando, è fatta con la speranza di tempi migliori e di un mondo migliore a venire.”

LOOM Weaving

Fondato da Inga Manukyan nel 2014, LOOM Weaving propone un’evoluzione del guardaroba contemporaneo unendo il concetto di practical wear alla cura per i dettagli tipica del mondo della maglieria. Abiti e cardigan prediligono silhouette oversize con scolli rivoluzionari e maxi intrecci. I maglioni, invece, appaiono in lunghezze diverse con una robusta leggerezza.

© aghayan

LOOM Weaving è stato fondato con l’obiettivo di far rivivere le tecniche nazionali fatte a mano e costruire un nuovo percorso per la produzione armena di maglieria per progettare, sviluppare, tessere e soprattutto creare. Il label ha sviluppato un proprio stile, che è moderno e allo stesso tempo tradizionale, poiché i prodotti richiedono stile e individualità. Le proposte sono facilmente identificabili per il loro aspetto, il design, l’idea, il fatto a mano e per le materie prime naturali utilizzate. Il marchio si rifà allo sviluppo di un design esclusivo di maglieria, utilizzando una miscela originale di intarsio e i migliori filati naturali (lana, viscosa, cotone, lurex e seta) in infinite combinazioni di colori.

© aghayan

Per creare un guardaroba senza tempo, per ridurre lo spreco di acqua, energia e materie prime, tenendo presente l’importanza di proteggere il nostro pianeta così come di sostenere la comunità Made in Armenia e la direzione artigianale, LOOM Weaving si impegna a favore della sostenibilità, fulcro dell’etica del marchio per essere un’azienda responsabile, onesta e contemporanea. “Siamo stati molto entusiasti di essere stati selezionati da Fashion Scout e di aver sfilato per due stagioni durante la LFW,” ha spiegato il brand. “È stata una grande opportunità per LOOM Weaving e allo stesso tempo una grande sfida e responsabilità rappresentare l’Armenia in una piattaforma internazionale così importante.  La situazione Coronavirus ha reso tutto ciò che è stato necessario per presentare una collezione in formato online, che era difficile e meno efficace rispetto a quello fisico.  Allo stesso tempo, per qualsiasi nuovo marchio, questo tipo di piattaforma con la sua grande copertura ha aumentato la diffusione attraverso i social media, e di conseguenza ha portato le basi per raggiungere gli acquirenti internazionali. Come risultato, il fatturato è aumentato del 10-15%.”

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L’influenza della Russia nel vicinato: tra minacce di erosione e adattamento alle nuove sfide (ISPI 04.03.21)

L’approfondimento si inserisce nel dibattito internazionale che si è sviluppato attorno alla presunta perdita d’influenza russa nel proprio immediato vicinato, dibattito riaccesosi di recente a seguito delle crisi politiche scoppiate nella seconda metà del 2020 in Bielorussia, Kirghizistan e Armenia. Vengono esaminate dunque le politiche di Mosca nel proprio vicinato muovendo dai suoi due obiettivi di lungo periodo: mantenere un ruolo egemonico nello spazio post-sovietico e promuovere la costituzione di un nuovo equilibrio multipolare dello scenario politico internazionale.

Dopo un’introduzione curata da Aldo Ferrari, l’approfondimento declina le politiche di vicinato di Mosca nella fase successiva alla crisi ucraina attraverso tre capitoli, dedicati al Caucaso meridionale (di Carlo Frappi), alla Bielorussia (di Carolina de Stefano) e all’Asia centrale (di Filippo Costa Buranelli).

Il capitolo dedicato al Caucaso meridionale mette in evidenza come, a fronte di un mutevole contesto regionale, la Russia abbia efficacemente rilanciato e approfondito la propria primazia, dimostrando elevata capacità di adattamento alle sfide provenienti dall’area. Fondata sull’assertiva conservazione dello status quo regionale, la presa di Mosca sulla politica regionale si evince dall’analisi della cooperazione tanto in materia di sicurezza quanto in campo economico, in un contesto segnato dal ridimensionamento dell’influenza e della credibilità degli attori euro-atlantici.

Il secondo capitolo si concentra sulle altalenanti relazioni tra Bielorussia e Russia alla luce della recente crisi politica bielorussa. Si evidenzia come qualora il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko dovesse ristabilire il controllo sul paese, sarebbe possibile prevedere un riavvicinamento alla Russia e un congelamento delle relazioni con l’Unione europea. Al contrario, la vittoria di forze politiche rappresentative delle manifestazioni di piazza determinerebbero una drastica perdita d’influenza nel paese di Mosca, cui sembra mancare una strategia credibile di lungo termine per tenere in vita i legami storici, culturali e linguistici con la Bielorussia.

Il terzo capitolo illustra, infine, le relazioni politiche, economiche e culturali tra Russia e le cinque repubbliche dell’Asia Centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan). In ciascuna delle tre aree esaminate, l’analisi dimostra come sia inappropriato parlare di una Russia in declino, così come al tempo stesso sia fuorviante e riduttivo guardare a Mosca come l’unico egemone incontrastato nella regione.

 

La politica estera russa in crisi? Mosca e le crisi di Bielorussia, Kirghizistan e Armenia

Aldo Ferrari

Nei mesi scorsi molti, soprattutto in Occidente, hanno avuto l’impressione che dopo l’assertività dimostrata in Georgia nel 2008, in Ucraina nel 2014, in Siria nel 2015 e quindi in Libia la Russia sia entrata in una fase d’incertezza, se non di crisi, sulla scena internazionale. Le crisi politiche che hanno coinvolto nella seconda metà del 2020 Bielorussia, Kirghizistan e Armenia sono state viste come un segnale dell’indebolimento sostanziale di Mosca nello spazio post-sovietico e più in generale sullo scenario internazionale. Tanto più che negli ultimi decenni questi tre paesi sono stati – insieme al Kazakhstan – i più vicini a Mosca, essendo membri tanto dell’alleanza militare a guida russa (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, CSTO) quanto dell’Unione economica eurasiatica, che costituisce il principale tentativo russo di reintegrazione delle repubbliche post-sovietiche.

Ma questa percezione di una crisi della politica estera russa è davvero corretta? Per rispondere è necessario partire dalla consapevolezza che in politica estera Mosca persegue da decenni due obiettivi principali. Il primo è costituito dalla volontà, affermata già negli anni Novanta dello scorso secolo, di mantenere un ruolo fondamentale nello spazio post-sovietico, il cosiddetto “estero vicino”, in particolare tentando di evitare l’ingresso della NATO al suo interno. Il secondo obiettivo è stato dapprima indicato da Evgenij Maksimovič Primakov e poi almeno in parte realizzato da Vladimir Putin: si tratta della costituzione di un nuovo equilibrio multipolare dello scenario politico internazionale, che rifiuta quindi l’unipolarismo statunitense e più in generale la pretesa occidentale a un primato non solo politico, economico e militare, ma anche nella sfera dei valori[1].

Per quanto ambizioso, probabilmente il secondo di tali obbiettivi appare più raggiungibile del primo, ma questo soprattutto perché – assai più dell’assertività geopolitica della Russia putiniana – è stata la crescita impressionante della Cina ad imporre di fatto il multipolarismo nello scenario internazionale, che tende ormai a costituirsi come post-occidentale.

Nello spazio post-sovietico, invece, la Russia non è più riuscita a recuperare il terreno perduto negli anni Novanta dello scorso secolo. I paesi baltici sono usciti rapidamente e con sostanziale successo dall’orbita russa, entrando non solo in Europa ma anche nella NATO. La Georgia si è posta su questa stessa via, anche se con minori risultati e pagando anzi un prezzo elevato, in primo luogo in termini territoriali. Ucraina e Moldavia hanno seguito un percorso complesso e altalenante, tanto nella sfera della politica interna quanto in quella estera, in particolare per quel che riguarda il rapporto con la Russia, ma negli ultimi anni se ne sono sostanzialmente allontanate, per ora soprattutto la prima; Azerbaigian e Turkmenistan si sono consolidati su regimi fondati sulle ricchezze energetiche, senza avvicinarsi all’Occidente, ma senza neppure divenire dipendenti da Mosca. Anche i paesi che hanno invece seguito la Russia in tutte le sue iniziative politiche, economiche e di sicurezza – Kazakhstan, Bielorussia, Kirghizistan e Armenia – hanno in realtà condotto in molti ambiti delle politiche ampiamente autonome da Mosca nella cosiddetta ottica multivettoriale. E, come si è detto, tre di questi paesi stanno attraversando crisi che potrebbero determinare un cambiamento dei loro rapporti con Mosca.

La crisi più grave è quella che riguarda la Bielorussia, sinora un partner fondamentale nella sfera politica quanto in quella economica, anche se in realtà – come sanno bene gli specialisti – molto meno allineato con Mosca di quanto si creda comunemente. Se l’esito ultimo dell’evoluzione politica della Bielorussia fosse non tanto l’allontanamento dal potere di Lukashenko quanto l’affermazione a Minsk di una dirigenza orientata in senso filo-occidentale, il colpo per la Russia sarebbe indubbiamente molto serio. Dopo le repubbliche baltiche e l’Ucraina, con la Moldavia che dopo le recenti elezioni presidenziali sembra aver anch’essa ripreso la via dell’avvicinamento all’Europa dopo la parentesi rappresentata dalla presidenza Dodòn, una svolta di questo genere anche in Bielorussia completerebbe l’allontanamento dalla Russia di tutta la parte occidentale degli antichi territori dell’impero zarista e dell’URSS. Sarebbe senza dubbio uno scacco di portata notevole per Mosca, che d’altra parte non sembra strutturalmente capace di rapportarsi realmente con l’opposizione bielorussa né di approvare lo scenario di un cambiamento politico che parta dalle piazze. Sappiamo bene quanto questo “scenario armeno” sia avversato dal presidente Putin, la cui gestione della crisi politica a Minsk rischia di veder crescere tra la popolazione bielorussa, in particolare tra i giovani, un’ostilità nei confronti di Mosca sinora quasi inesistente. Il Cremlino scommette sul fatto che Lukashenko, indebolito, sarà costretto a riavvicinarsi a Mosca, oppure a passare la mano a una nuova leadership che non potrà prescindere dalla Russia, visti i fortissimi legami storici, culturali ed economici. Una scommessa che ha molte probabilità di rivelarsi vincente, ma che al tempo stesso non può prescindere dalla valutazione dei rischi che comporterebbe l’opposizione frontale a un’eventuale evoluzione differente e meno favorevole per la Russia. È molto probabile, in effetti, che il Cremlino voglia evitare che si ripeta lo scenario dell’Ucraina, divenuta ormai stabilmente ostile alla Russia[2].

Molto più lontana da noi e quindi assai meno seguita è la crisi politica che ai primi giorni dello scorso ottobre ha scosso il Kirghizistan in seguito alle manifestazioni di protesta indette dalle forze di opposizione che contestavano il risultato delle elezioni parlamentari. Le proteste hanno provocato le dimissioni del primo ministro e del presidente Sooronbay Jeenbekov: in questo vuoto politico è emersa la controversa figura di Sadyr Japarov (liberato dal carcere a seguito dei tumulti di piazza), abile nello sfruttare il corso degli eventi e arrivare al potere attraverso un’evidente forzatura delle leggi e del sistema degli equilibri tra i poteri dello stato. La destituzione del presidente in carica a seguito di manifestazioni di protesta popolare non rappresenta certo una novità nella storia del Kirghizistan indipendente. Già nel 2005 la cosiddetta “rivoluzione dei tulipani” estromise l’allora presidente Askar Akayev, mentre nel 2010 le proteste di piazza portarono alla destituzione del suo successore, Kurmanbek Bakiev. In effetti l’assenza di un regime autoritario incarnato per decenni da un presidente inamovibile rende il Kirgizistan un caso unico nell’Asia Centrale post-sovietica. In questo paese esiste un sistema multipartitico, sia pure su base clanico-clientelare, e la società civile appare più vivace di quanto sia in altri paesi centroasiatici. Tali tendenze, che solo in maniera molto generica possono essere definite democratiche, determinano peraltro una persistente instabilità politica che non va certo a vantaggio del paese, al cui interno la situazione economica è molto negativa, mentre l’emigrazione verso la Russia continua a essere di fondamentale importanza.

Sebbene il nuovo corso abbia espresso la ferma volontà di preservare il legame privilegiato con la Russia, Putin non ha nascosto il suo malcontento di fronte all’accaduto, che sembrava aggiungere un ulteriore fattore d’instabilità nello spazio post-sovietico dopo la crisi politica della Bielorussia e lo scoppio del conflitto tra Armenia e Azerbaigian per l’Alto Karabakh. In ogni caso, come già nel corso delle precedenti crisi interne kirghize, la Russia non è intervenuta direttamente, limitandosi ad invocare il ritorno all’unità politica del paese. Una scelta dettata evidentemente da ragioni di opportunità, sia per non invischiarsi in scontri locali di carattere clanico-clientelare sia per la convinzione che, nonostante il crescente ruolo della Cina, qualsiasi dirigenza kirghiza non possa prescindere dalla Russia. Sono molti, infatti, gli elementi strutturali (precarietà dello stato, instabilità economica, emigrati) che portano Bishkek a situarsi necessariamente nell’orbita di Mosca. La politica prudente di Mosca nei confronti della crisi kirghiza si è rivelata lungimirante. In effetti Japarov ha mantenuto la tradizionale collaborazione con la Russia, che è stata secondo le aspettative il primo paese in cui si è recato dopo essere stato eletto presidente[3]. Certo, in Kirghizistan come nel resto dell’Asia Centrale Mosca deve confrontarsi con la crescente proiezione politica e soprattutto economica cinese, ma appare inopportuno parlare di un sostanziale declino delle sue posizioni in questa regione. Benché non più egemonica, la presenza della Russia è ancora fondamentale per i suoi numerosi legami culturali, economici e di sicurezza con le repubbliche dell’area.

Lo stesso può dirsi per il Caucaso meridionale, dove la Russia si è dovuta confrontare con la sfida particolarmente difficile del conflitto nell’Alto Karabakh, che nelle sue prime fasi sembrava confermare le difficoltà di Mosca nel mantenere le posizioni acquisite nello spazio post-sovietico. Questo conflitto, scatenato il 27 settembre 2020 dall’Azerbaigian con il sostegno politico e militare della Turchia, ha visto per più di un mese Mosca mantenere una posizione prudente. E questo nonostante il fatto che, a differenza dell’Azerbaigian, l’Armenia faccia parte della CSTO, vale a dire dell’alleanza militare a guida russa. In realtà, però, questa alleanza vincola Mosca solo nei confronti dell’Armenia, non dell’Alto Karabakh, che secondo il diritto internazionale si trova infatti sul territorio dell’Azerbaigian. Tuttavia, l’incapacità della Russia d’interrompere le ostilità produceva in molti osservatori un’impressione d’incertezza, se non d’impotenza, che rischiava di compromettere l’immagine di forza e dinamismo costruita nei due decenni del potere di Putin.

Il ruolo decisivo giocato da Mosca nella improvvisa conclusione del conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian il 10 novembre ha notevolmente modificato la percezione della capacità politica del Cremlino nella regione. La maggior parte delle analisi post factum sottolinea infatti l’efficacia della politica di Mosca, capace di non farsi coinvolgere nel conflitto tra un paese “teoricamente” alleato come l’Armenia e uno, l’Azerbaigian, con il quale i rapporti di collaborazione politica ed economica sono ottimi. La Russia, infatti, è riuscita non solo a porre fine alla guerra, ma anche ad imporre la sua presenza militare in forma di una missione di peace-keeping tra armeni e azeri. In questo modo Mosca è adesso presente militarmente in tutte e tre le repubbliche del Caucaso meridionale: Georgia (nelle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia meridionale), Armenia (soprattutto nella base di Giumri al confine con la Turchia e in quella di Meghri al confine con l’Iran) e Azerbaigian (nell’Alto Karabakh) rafforzando quindi notevolmente il suo ruolo nell’intera regione.

Inoltre, l’azione russa sembra aver messo l’Armenia in una condizione di totale dipendenza da Mosca, rendendo illusorie le speranze in un maggiore avvicinamento all’Occidente coltivate dalla leadership armena dopo la “rivoluzione di velluto” del 2018. Naturalmente ci sono anche aspetti problematici nell’esito della guerra nell’Alto Karabakh, in particolare per quel che riguarda l’accresciuto ruolo di Ankara nel Caucaso meridionale, ma nel complesso la Russia ne è uscita sicuramente rafforzata.

Nei confronti delle tre crisi regionali la risposta di Mosca ha avuto pertanto esiti diversificati: se in Bielorussia la posizione russa appare in reale difficoltà e in Kirghizistan si mantiene sostanzialmente stabile, nel Caucaso meridionale ha potuto in effetti consolidarsi.

Occorre però sottrarsi all’ottica ristretta delle situazioni contingenti e cercare invece di leggerle all’interno della dinamica complessiva della politica estera di Mosca, soprattutto negli ultimi anni. La visione di una Russia aggressiva e tesa a riconquistare i territori imperiali e sovietici – così diffusa in alcuni paesi europei (Polonia e repubbliche baltiche in primis) oltre che negli Stati Uniti – appare poco corrispondente alla realtà. La dirigenza russa ha preso atto ormai da tempo della nuova e più limitata dimensione territoriale e politica del paese, abbandonando – con comprensibile fatica, certo – ogni velleità imperale[4]. Come ha osservato in un recente articolo Dmitri Trenin, direttore dell’Istituto Carnegie di Mosca, “Russia, I would argue, has turned post-post-imperial: one step farther removed from the historical pattern. It is getting used to being just Russia. Moreover, Russia is embracing its loneliness as a chance to start looking after its own interests and needs, something it neglected in the past in the name of an ideological mission, geopolitical concerns, or one-sided commitments built on kinship or religious links. This is a new model of behavior”[5] (La Russia è diventata post-imperiale allontanandosi passo dopo passo dal suo modello storico. E si sta abituando a essere soltanto Russia. Inoltre, la Russia sta accogliendo questa solitudine come un’opportunità per dedicarsi maggiormente alle sue necessità e ai suoi interessi, cosa che ha spesso trascurato in passato in nome di una missione ideologica, di preoccupazioni geopolitiche, d’impegni unilateralmente costruiti su legami di affinità etnica o religiosa”).

Mosca in effetti non ha sviluppato in questi anni nessuna costruzione ideologica volta a sostenere una politica espansiva nei confronti delle altre repubbliche post-sovietiche. Non può esserlo il nazionalismo, evidentemente percepito in maniera negativa al suo esterno e molto problematico anche in un paese ampiamente multietnico come la Russia; ma neppure l’eurasismo, così spesso evocato in Occidente come spauracchio ideologico neo-imperiale, in realtà limitato nel discorso ufficiale russo a un uso parziale e quasi difensivo, soprattutto per quel che riguarda il progetto della cosiddetta Grande Eurasia, che in sostanza implica il riconoscimento del primato cinese in questa immensa area[6].

La Russia si concentra ormai essenzialmente sul perseguimento d’interessi nazionali proporzionati alle sue risorse, che sappiamo essere limitate a causa della stagnazione permanente, e direi sistemica, dell’economia. Negli ultimi anni una strategia quanto mai pragmatica ha permesso a Mosca di adeguarsi alle diverse sfide riuscendo a recitare un ruolo di rilevo nella scena politica internazionale e mantenendo sostanzialmente le proprie posizioni nello spazio post-sovietico. La politica estera russa si pone in effetti obiettivi sempre concreti, che a volte vengono raggiunti a volte no, a seconda – ovviamente – dei rapporti di forza reali esistenti sul campo: la Russia ha preso atto che il contrasto con l’Occidente è sostanziale, destinato a durare, e si muove di conseguenza; ha accettato la penetrazione della Cina in Asia Centrale nel quadro di una collaborazione più vasta e inevitabile, anche se diseguale; nel Caucaso meridionale, come già in Siria e Libia, ha trovato un accordo con la Turchia nonostante i contrastanti interessi.

In conclusione, l’idea che attualmente ci si trovi di fronte a un momento di sostanziale debolezza della politica estera della Russia appare poco fondata. Anche se il suo peso all’interno dello scenario internazionale è destinato a ridursi ulteriormente – soprattutto in conseguenza del costante rafforzamento della Cina, divenuta ormai l’unica antagonista degli Stati Uniti su scala globale – la Russia sembra in grado di mantenere sostanzialmente le sue posizioni nello spazio post-sovietico, nonché di agire con efficacia in contesti differenti quali la Siria e la Libia.

 

La Russia nel Caucaso meridionale. Vettori e strategie d’influenza in un mutevole contesto regionale

Carlo Frappi

Il Caucaso meridionale rappresenta uno scacchiere prioritario per la politica estera della Federazione russa, in ragione di due considerazioni prioritarie. Da una parte, in un contesto sistemico caratterizzato dall’evidente frammentazione in cluster regionali, la riaffermazione della primazia nell’area rappresenta una logica e indispensabile premessa per la rivendicazione di uno status di grande potenza. Dall’altra, e nella prospettiva russa, il versante meridionale del Caucaso risulta inseparabile – anzitutto in termini di sicurezza – dalla sua componente settentrionale, che costituisce tradizionalmente il “ventre molle meridionale” della Federazione, conferendo al primo una caratteristica connotazione “ibrida”, a cavallo tra strategie di politica estera e necessità di politica interna.

L’analisi dei principali vettori della proiezione di potenza russa verso lo scacchiere subcaucasico – dalla cooperazione alla sicurezza fino a quella economica – sembra testimoniare come, nella fase successiva all’erompere della crisi ucraina, l’influenza esercitata da Mosca su Armenia, Azerbaigian e Georgia, lungi dall’essersi ridimensionata, sia andata piuttosto rafforzandosi, in ciò favorita da due più ampie dinamiche regionali. Ad ampliare i margini di manovra e d’interventismo russo ha contribuito, anzitutto, il progressivo ridimensionamento dell’influenza regionale degli attori euro-atlantici e, con essa, della stessa credibilità dei meccanismi di cooperazione regionali da essi promossi. Tale dinamica è derivata, in prima battuta, dal disimpegno statunitense avviato dall’Amministrazione Obama e confermato nei fatti da quella Trump e, parallelamente, dall’incapacità dell’UE di predisporre e attuare una strategia onnicomprensiva in grado di affrontare efficacemente i nodi della convivenza regionale, anzitutto in termini di sicurezza. La presa di Mosca sulla politica subcaucasica si è secondariamente nutrita della sostanziale acquiescenza di Iran e Turchia. Le due potenze regionali, anziché sfruttare i multiformi legami con l’area per contrastare la primazia di Mosca, hanno piuttosto cooperato con essa nella prospettiva di arginare influenza e penetrazione euro-atlantica. Ciò risulta particolarmente significativo per la Turchia che, avendo individuato una crescente convergenza d’interessi con la Russia attorno alla promozione di un principio di regional ownership[7], ha di fatto abdicato al ruolo di testa di ponte per la penetrazione regionale euro-atlantica, con ciò esacerbandone la crisi. Una sfida alla primazia russa non sembra, almeno per il momento, provenire d’altra parte neanche dalla crescente penetrazione cinese nell’area subcaucasica, che non intacca le leve d’influenza regionale di Mosca.

 

La Russia e i nodi della sicurezza regionale

Il piano della sicurezza resta vettore prioritario della proiezione d’influenza di Mosca verso il Caucaso meridionale e, di conseguenza, angolatura privilegiata di analisi per valutarne tanto la perdurante presa sulla politica regionale quanto la capacità di adattamento a uno scenario mutevole. In linea con una tendenza nata con la stessa dissoluzione dell’URSS, a determinare e procrastinare nel tempo la primazia sull’area è il peculiare ruolo che la Russia svolge nei conflitti “protratti” in Georgia (Abkhazia e Ossezia meridionale) e tra Armenia e Azerbaigian (Nagorno-Karabakh). Parte integrante dei meccanismi di mediazione internazionali per la soluzione dei conflitti e, al contempo, garante della sopravvivenza delle entità secessioniste titolari della sovranità de facto sui territori contesi, Mosca ha nei conflitti protratti uno vettore essenziale d’influenza nella politica delle tre repubbliche e, al contempo, uno strumento prioritario per ostacolare l’allargamento alla regione delle principali istituzioni euro-atlantiche, dalla NATO all’UE, tradizionalmente percepito come indebita ingerenza nella propria “naturale” sfera d’influenza.

Il posizionamento e il ruolo della Russia nel Caucaso meridionale si fondano dunque sulla difesa dello status quo, che Mosca ha dimostrato di essere disposta a garantire anche attraverso il ricorso a politiche revisionistiche, in aperto contrasto con i principi del diritto internazionale. Questa tendenza si è manifestata principalmente in Georgia. Qui, a seguito dell’intervento militare in Ossezia meridionale dell’agosto 2008 e più risolutamente dopo la crisi ucraina, Mosca ha perseguito politiche di cristallizzazione della secessione de facto di Abkhazia e Ossezia meridionale, sullo sfondo della perdurante inconcludenza dei colloqui internazionali di Ginevra – meccanismo di mediazione co-presieduto da OSCE, Nazioni Unite e UE lanciato nel 2008 e giunto nel dicembre 2020 al 51° round[8].

La strategia russa di cristallizzazione dello status quo si è fondata su due strategie parallele. In primo luogo Mosca, dopo aver riconosciuto l’indipendenza e stabilito relazioni diplomatiche con le due entità nel 2008, ha offerto a esse significative garanzie di sicurezza, siglando trattati di alleanza e mutuo soccorso e incrementando la presenza militare nei due territori[9]. Il livello di cooperazione alla sicurezza è stato ulteriormente approfondito dopo la crisi ucraina, attraverso la stipula di un accordo di “Alleanza e Integrazione” con l’Ossezia meridionale (marzo 2015), che incorpora formalmente l’apparato militare ossetino in quello russo, e di un accordo di “Alleanza e Partenariato Strategico” con l’Abkhazia (settembre 2014), che ha offerto ampio quadro giuridico per lo sviluppo di forze congiunte e per la modernizzazione dell’apparato militare abkhazo. In secondo luogo, la cristallizzazione dello status quo si è andata fondando su un processo di “frontierizzazione”. Un processo che – condannato dalle istituzioni internazionali e denunciato dalle ONG internazionali come apertamente lesivo dei diritti della popolazione residente[10] – ha visto, da una parte, la progressiva demarcazione e chiusura dei confini tra le autoproclamate repubbliche e la Georgia e, dall’altra, un fenomeno di land grabbing, definitosi attorno al lento ma progressivo avanzamento del confine a detrimento del territorio georgiano esterno e contiguo ai due territori.[11] Sia pur evitando, come nel caso della Crimea, l’aperta annessione delle due entità alla Federazione russa, il processo di frontierizzazione e la profondità della cooperazione militare bilaterale svelano – tanto più se considerati unitamente agli accordi istituzionali e economico-commerciali tra Mosca e le autorità secessioniste[12] – una “annessione strisciante” di Abkhazia e Ossezia meridionale, che Tbilisi, tanto più in assenza di credibile sostegno politico e militare da parte euro-atlantica, ha dimostrato di non aver possibilità d’invertire.

La debolezza delle garanzie di sicurezza offerte ai propri partner dagli attori euro-atlantici rappresenta una delle principali concause che contribuisce a spiegare anche la centralità rivestita dalla Russia nelle politiche di sicurezza di Armenia e Azerbaigian, approfonditasi nella fase successiva a quella crisi ucraina che ha messo a nudo l’incapacità dei primi di assicurare sicurezza, integrità territoriale e rispetto della sovranità delle repubbliche del vicinato orientale europeo. Anche rispetto al nodo dell’Alto Karabakh e delle relazioni con Baku ed Erevan, Mosca ha dimostrato così una spiccata capacità di adattamento al mutevole contesto subcaucasico, nel perdurante obiettivo di conservare uno status quo confacente ai propri interessi regionali. Mosca è riuscita cioè nel complesso tentativo di rilanciare il proprio ruolo di principale mediatore e arbitro del conflitto nell’Alto Karabakh, salvaguardando la relazione privilegiata in termini strategici e militari con l’Armenia[13] e intercettando, al contempo, le istanze di risoluzione del conflitto azerbaigiane, fattesi progressivamente più ambiziose e assertive con l’incremento delle risorse di potere materiale e immateriale assicurate dalla rendita energetica.

Il ruolo centrale svolto dalla Russia nella fornitura di armi a entrambi i belligeranti in Karabakh[14] – nonostante il non vincolante impegno in senso contrario sancito dall’OSCE nel 1992 – offre la più evidente dimostrazione di tale assunto e, più in generale, dell’apparentemente contraddittoria tendenza di Baku ed Erevan a ritenere che Mosca fosse l’unico attore regionale in grado di garantire i propri interessi in relazione al conflitto. Per l’Armenia tale percezione è radicata in un profondo senso d’insicurezza, che si nutre della minaccia esistenziale proveniente da Baku e Ankara e che si è approfondito nel corso dell’ultimo decennio a partire dal fallimento del tentativo di normalizzazione delle relazioni con la Turchia, da una parte, e dalla disillusione delle aspettative che l’UE potesse giocare un ruolo attivo nella soluzione del conflitto in Alto Karabakh, dall’altra. Per questa via, Erevan ha reagito ai progressivi avvicinamenti russo-azerbaigiano – elevato nel 2016 a livello di “partenariato strategico”[15] – e russo-turco, e al conseguente rischio di “riallineamento” della politica regionale del Cremlino, approfondendo la misura della cooperazione alla sicurezza con Mosca e, con essa, l’asimmetria di potere nella relazione bilaterale. Erevan è così finita prigioniera di un circolo vizioso che ha visto la misura della cooperazione alla sicurezza con la Russia crescere proporzionalmente alla dipendenza da essa, in uno scenario nel quale Mosca ha finito per rappresentare, al contempo, principale garante e minaccia della sicurezza nazionale armena[16].

La possibilità di propugnare un parziale disallineamento russo dall’alleanza con l’Armenia ha rappresentato, d’altra parte, obiettivo fondamentale dell’approfondimento della cooperazione alla sicurezza ed economica (Cfr. Infra) con Mosca da parte dell’Azerbaigian – le cui attese di “ritorno” ruotavano attorno al conseguimento di sostegno sulla questione del Karabakh, direttamente sul piano della mediazione diplomatica o indirettamente attraverso una sostanziale neutralità in caso di conflitto. È propriamente in quest’ultima forma che, di fatto, si è sostanziato il sostegno russo all’Azerbaigian, tanto nel breve ma significativo conflitto dell’aprile 2016 – che per la prima volta ha messo in discussione la presunta superiorità militare armena e determinato un seppur limitato avanzamento territoriale a vantaggio azerbaigiano – quanto e soprattutto nella “Guerra dei 44 giorni” dell’autunno 2020, che, pur non risolvendo tout court la sorte della regione, ha tuttavia decretato la riconquista azerbaigiana di parte del Karabakh e dei distretti a esso limitrofi.

Su questo sfondo, l’esito del conflitto ha confermato tre prioritarie dinamiche già emerse a caratterizzare il contesto di sicurezza sub-caucasico nella fase successiva alla crisi ucraina. In primo luogo, i termini dell’accordo per il cessate-il-fuoco sottoscritto dai belligeranti a Mosca il 10 novembre segnalano l’ulteriore rafforzamento della cooperazione alla sicurezza russo-azerbaigiana. L’indiretto sostegno assicurato alla vittoria militare è stato infatti pagato da Baku con la concessione del dispiegamento di un contingente di truppe russe di peace-keeping, che – seppur sulla carta temporaneo (5 anni rinnovabili) e parzialmente bilanciato dalla presenza di militari turchi – rappresentava uno dei più tradizionali obiettivi della politica regionale del Cremlino. Secondariamente, all’indomani del conflitto sembra riattivarsi la richiesta di garanzie di sicurezza rivolte alla Russia dall’Armenia[17], che rafforza una volta di più l’asimmetria dell’alleanza e, con essa, il grado di dipendenza e vulnerabilità da Mosca. In terzo luogo, e conseguenzialmente, quest’ultima riafferma e approfondisce una primazia sul Caucaso meridionale fondata principalmente sulla conservazione dello status quo. Uno status quo che la Russia può oggi più agevolmente controllare non soltanto sul piano militare – in ragione del dispiegamento di truppe sul territorio – ma potenzialmente anche sul piano amministrativo e diplomatico. Tale dinamica si manifesta, da una parte, in ragione della preferenza apparentemente accordata da Baku all’assunzione di responsabilità diretta russa nell’amministrazione della porzione di territorio ancora fuori dal controllo governativo[18] e, dall’altra, in ragione della perdurante assenza e della diminuita credibilità d’iniziative di mediazione occidentali.

 

La Russia come partner economico delle repubbliche subcaucasiche

L’analisi dell’interscambio economico-commerciale e dei flussi d’investimenti esteri delle repubbliche caucasiche mostra una generale tendenza alla diversificazione del portafoglio d’interlocutori esteri, definito dal lento ma costante incremento del ruolo dei paesi UE e, più di recente, dall’ingresso nei mercati regionali d’imprese e investitori cinesi. Pur tuttavia, la Russia resta – seppur a diversi gradi di profondità – interlocutore di primo piano per le tre repubbliche, in ciò beneficiando anzitutto della prossimità geografica e dell’ampiezza del proprio mercato, naturale punto di attrazione per le più piccole economie sub-caucasiche e tradizionale meta per la migrazione economica dalla regione.

Tale rilevanza si manifesta anche nelle relazioni con la Georgia che, in uno stretto intreccio tra strategie economico-commerciali e più ampie direttrici di politica estera, ha tradizionalmente fatto dell’adesione alle regole del libero scambio e dell’incremento degli scambi con i partner euro-atlantici uno strumento per attestare la piena appartenenza allo spazio democratico-liberale occidentale e, più pragmaticamente, per ridimensionare l’influenza esercitata da Mosca sul paese. Il miglioramento dei rapporti economico-commerciali è stato, d’altra parte, uno dei pilastri sui quali Tbilisi ha fondato – sin dal 2012 e dall’ascesa politica della coalizione Sogno Georgiano – il processo di “normalizzazione” dei rapporti con Mosca, volto a chiudere le ferite del conflitto del 2008 investendo nei vettori della relazione bilaterale meno politicamente sensibili e nei quali si registrava una più chiara convergenza d’interessi[19]. Per questa via, l’interscambio con la Russia è passato dai 425 milioni di dollari del 2011 ai 1.329 del 2020[20], in un quadro d’insieme che registra la netta prevalenza della quota di commercio estero assorbita dai mercati regionali – Russia, Turchia e Azerbaigian in primis – rispetto a quelli europei, nonostante l’entrata in vigore dell’Accordo di Associazione con l’UE nel 2016. Nonostante, dunque, nel corso dell’ultimo decennio la Georgia si sia liberata dalla dipendenza dagli approvvigionamenti energetici russi grazie alle forniture dal vicino Azerbaigian, l’economia del paese resta strettamente legata al proprio vicino settentrionale in particolar modo nei comparti dell’agro-alimentare e turistico, mentre si registra un progressivo ridimensionamento del peso delle rimesse provenienti dalla Russia che, pur significative, vengono via via soppiantate da flussi di provenienza europea (da Italia e Grecia in prima battuta). Ciò offre alla Russia perduranti margini d’influenza e potenziali strumenti di coercizione nei confronti della Georgia, cui Mosca ha dimostrato la disponibilità a ricorrere in caso di tensioni nei rapporti bilaterali – come fatto nel 2019 introducendo sanzioni economiche rivolte ai comparti agro-alimentare e turistico a seguito delle tensioni generate dalla visita a Tbilisi del parlamentare russo Sergey Gavrilov[21].

Nel corso dell’ultimo quinquennio crescenti margini di cooperazione si sono registrati anche con l’Azerbaigian che, fondando la propria economia sul settore energetico e sulle esportazioni verso i mercati turco ed europeo, è delle repubbliche sub-caucasiche la meno esposta alla dipendenza dalla Russia. Tale considerazione nulla toglie, tuttavia, alla crescente rilevanza delle relazioni commerciali russo-azerbaigiane, che si manifesta propriamente in relazione alle necessità di diversificazione dell’apparato produttivo dell’Azerbaigian al di fuori dell’oil & gas – come peraltro riconosciuto e sancito dalle parti, nel settembre 2018, attraverso la dichiarazione congiunta sulle “Priorità della Cooperazione Economica”. Così, pur coprendo una quota solo secondaria sul totale del commercio estero azerbaigiano (2,6 miliardi di dollari su un totale di 24 nel 2020[22]), l’interscambio con la Russia risulta particolarmente significativo tanto per le importazioni quanto nei comparti non energetici, rispetto ai quali Mosca risulta tradizionalmente primo partner di Baku, assieme alla Turchia.

Nel corso dell’ultimo quinquennio, le necessità di diversificazione economica e le più ampie strategie di politica estera azerbaigiana si sono peraltro sommate nel determinare un ulteriore ambito di convergenza d’interessi e di cooperazione con la Russia. L’ambizione di Baku di fare del paese uno snodo dei trasporti di merci e persone nel cuore della massa eurasiatica si è infatti tradotta nella promozione di un asse infrastrutturale Nord-Sud, tra Baltico e Golfo Persico, promosso congiuntamente da Russia, Iran e Azerbaigian a partire dal summit di Baku dell’agosto 2016[23]. L’asse di trasporto Nord-Sud rappresenta per Baku un elemento centrale per l’approfondimento delle relazioni con i due influenti vicini e naturale compendio alla più tradizionale direttrice infrastrutturale Est-Ovest, promossa tra Asia centrale ed Europa. A legare assieme le due direttrici trans-regionali – ampliando significativamente la portata della cooperazione infrastrutturale russo-azerbaigiana – contribuisce oggi, d’altra parte, l’esito del recente conflitto in Karabakh. Coerentemente con le previsioni del cessate-il-fuoco siglato a Mosca il 9 novembre e con l’impegno di riaprire le vie di comunicazione regionale[24], va oggi prendendo forma nei colloqui tripartiti tra Baku, Erevan e Mosca un progetto infrastrutturale tra il territorio azerbaigiano e l’exclave del Nakhchivan attraverso il cosiddetto “corridoio di Megri”, in Armenia meridionale, che potrebbe collegare la direttrice infrastrutturale tra Iran e Russia con la rete turca ed europea[25].

Le relazioni e i legami economici tra Russia e Armenia delineano una relazione bilaterale tanto stretta quanto asimmetrica, un rapporto di sostanziale dipendenza da Mosca che si somma e si intreccia con il vettore strategico e militare della relazione. D’altra parte, è stata proprio la dichiarata inscindibilità della cooperazione economica e militare ad aver portato l’Armenia a interrompere i negoziati per la firma di un Accordo di associazione con l’UE[26] per abbracciare la proposta d’integrazione russo-centrica in ambito UEE – di cui Erevan è membro dal 2015. A ulteriore conferma dello stretto legame tra la dimensione economica e quella militare della dipendenza dalla Russia, l’influenza esercitata da quest’ultima sull’apparato economico e produttivo armeno si è tradizionalmente nutrita del “doppio isolamento”, geografico e diplomatico, della Repubblica sub-caucasica – la cui mancanza di sbocco al mare è aggravata dalla quasi trentennale chiusura delle frontiere con Azerbaigian e Turchia, conseguenza del conflitto nell’Alto Karabakh.

L’influenza della Russia sull’economia armena va d’altra parte ben oltre il peso preponderante rivestito sul commercio estero dal paese – che assorbendo una quota del 25% delle esportazioni e garantendo il 32% delle importazioni, si è confermato nel 2020 primo partner commerciale con un interscambio totale superiore ai 2 miliardi di dollari[27]. Sin dall’inizio del secolo e dalla sottoscrizione dei primi accordi loan-for-asset, compagnie statali e private russe hanno infatti acquisito il sostanziale controllo dei principali comparti strategici dell’economia armena, in linea con una dinamica particolarmente pronunciata nei settori delle telecomunicazioni, dei trasporti, finanziario ed energetico[28]. Il ruolo di primo piano ricoperto da compagnie russe nei principali comparti dell’economia armena ha un duplice e deleterio effetto sul paese: genera un’evidente asimmetria di potere tra Erevan e Mosca a beneficio di quest’ultima e, al contempo, tende a limitare l’attrazione e la diversificazione degli investimenti esteri, scoraggiati dal sostanziale controllo di ampi segmenti di mercato da parte delle compagnie russe. Per questa via, il complesso intreccio tra subordinazione militare ed economica dell’Armenia nei confronti della Russia ha generato una tipica dinamica della “dipendenza dal percorso” – in base alla quale le scelte correnti sono naturale e ineludibile conseguenza di quelle prese in passato – che la stessa leadership emersa dalla Rivoluzione di Velluto del 2018 non ha potuto invertire, nonostante le aspettative suscitate in tal senso all’interno e all’esterno del paese.

 

L’influenza russa in Bielorussia: continuità e nuove incognite dalla Crimea alla crisi del regime di Lukashenko

Carolina de Stefano

In Bielorussia decine, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza fin dall’estate 2020 per protestare contro il risultato delle elezioni presidenziali, che ha attribuito la vittoria al presidente uscente Aleksandr Lukashenko, al potere ininterrottamente dal 1994. Testimoni e osservatori elettorali locali hanno riscontrato frodi elettorali sistematiche in tutto il paese[29]. La candidata d’opposizione Svetlana Tichanovskaja è stata costretta a lasciare la Bielorussia e dall’estero presiede il consiglio di coordinamento, un organo che riunisce membri della società civile e chiede nuove elezioni. L’evoluzione della crisi politica in Bielorussia negli ultimi mesi ha mostrato ancora una volta che i legami economici e politici tra Mosca e Minsk sono stretti e incomparabilmente più profondi di quelli tra la Bielorussia e l’Unione europea. Lukashenko, nel pieno delle manifestazioni a settembre, si è immediatamente rivolto verso Putin, chiedendo un sostegno politico, economico e militare.

Allo stesso tempo, però, le relazioni tra la Bielorussia e la Russia – e tra i presidenti Aleksandr Lukashenko e Vladimir Putin – sono più tiepide di alcuni anni fa: da un lato Mosca ha progressivamente, e sostanzialmente, ridotto il suo sostegno finanziario a Minsk; dall’altro Lukashenko ha cercato – soprattutto a seguito dell’annessione russa della Crimea nel 2014 e di un’accresciuta diffidenza nei confronti del Cremlino – di ridurre la dipendenza dalla Russia puntando a un’apertura (seppur timida) all’Unione europea. A loro volta le titubanze e i tentativi di smarcarsi di Lukashenko lo hanno reso agli occhi della leadership russa un partner inaffidabile e sostituibile.

Nell’eventualità in cui Lukashenko reprimesse le proteste in maniera duratura e riuscisse a restare al potere nei prossimi mesi, il governo bielorusso si riavvicinerà – volente o nolente – a Mosca. Il raffreddamento (o meglio, il congelamento) delle relazioni con l’Unione europea e l’attuale debolezza del leader bielorusso potrebbero in particolare portarlo a fare concessioni alla controparte russa in cambio del suo sostegno. Anche nel caso di un’accresciuta interdipendenza politico-istituzionale tra i due paesi, la maniera in cui Mosca sta gestendo e gestirà l’attuale crisi di legittimità del regime bielorusso potrebbe ridurre però l’influenza russa sulla società bielorussa. Sondaggi recenti mostrano in effetti che la strategia del Cremlino di difendere a oltranza lo status quo contro le proteste sta alienando una parte della popolazione, soprattutto i giovani. Mosca rischia in altri termini che la popolazione bielorussa associ in maniera crescente la Russia al regime di Lukashenko a discapito dei legami storici, culturali e linguistici tra i due paesi. I successivi paragrafi si soffermano in maniera più dettagliata sull’evoluzione e prospettive delle relazioni istituzionali, economico-energetiche e culturali tra la Russia e la Bielorussia.

 

Le relazioni istituzionali

La Bielorussia è il partner più stretto della Russia. È uno dei membri fondatori della Comunità degli Stati indipendenti, della CSTO e dell’Unione economica eurasiatica. Nel 1999 Russia e Bielorussia hanno dato a vita a un’Unione statale, che puntava sulla carta all’unificazione politica, giuridica ed economica dei due paesi sotto l’egida di organi sovranazionali comuni. Ad oggi, però, il trattato non è mai stato implementato. Se in effetti Mosca ha a più riprese fatto pressione sulla Bielorussia per dar vita a istituzioni comuni, Minsk ha regolarmente rifiutato di approfondire il livello d’integrazione bilaterale con il timore che l’Unione si traducesse, nei fatti, in una cessione della sovranità bielorussa alla Russia[30].

Più in generale, negli ultimi vent’anni le relazioni tra i due paesi sono state altalenanti. Da un lato eventi come la guerra russo-georgiana nel 2008 e, ancora di più, l’annessione russa della Crimea nel 2014 hanno spinto Lukashenko a privilegiare una politica estera multivettoriale e a frenare progetti di ulteriore integrazione con la Russia. La Bielorussia, al contrario della Russia, non ha riconosciuto né l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud nel 2008 né l’annessione della Crimea. Momenti di maggiore freddezza con la Russia hanno in generale corrisposto a una parallela e parziale apertura verso l’UE. Nel 2016 l’Unione europea ha revocato le sanzioni contro la Bielorussia in vigore dal 2011, riconoscendo “i passi intrapresi” dalla Bielorussia a partire dal 2014 per “migliorare le relazioni con l’UE”, tra cui “la partecipazione proattiva nella Eastern Partnership”. Il 1° luglio 2020, pochi giorni prima delle elezioni presidenziali, è entrato in vigore l’accordo di facilitazione del rilascio dei visti tra la Bielorussia e i paesi membri dell’UE.[31] Da parte sua la Russia ha ridotto progressivamente il sostegno economico a Minsk[32] e la sua dipendenza dall’industria della difesa bielorussa[33].

Dall’altro lato, però, la volontà di Lukashenko di affermare un’autonomia strategica dalla Russia non si è mai tradotto in un affronto diretto a Mosca, soprattutto a causa della sua fortissima dipendenza energetica (vedi paragrafo successivo). Tra il 2014 e il 2018 la Bielorussia ha votato in sede ONU contro tutte le risoluzioni che ribadivano l’integrità territoriale ucraina e denunciavano la presenza e le iniziative russe in Crimea[34].

Soprattutto, nel pieno delle proteste Lukashenko è stato costretto a chiedere aiuto al presidente russo. Ad agosto Putin, a seguito di una richiesta esplicita del presidente bielorusso, ha parlato della disponibilità a inviare ‘rinforzi’ militari se la situazione dovesse degenerare[35], e nel caso di ‘necessità’ anche nel quadro della CSTO. Per ‘necessità’ deve intendersi l’aggressione esterna di uno dei paesi membri dell’organizzazione, unica fattispecie prevista dalla CSTO per la mutua assistenza militare.

A settembre e ottobre la Russia e la Bielorussia hanno organizzato esercitazioni militari congiunte. Il 14 settembre, a Sochi, Putin ha promesso un prestito di 1,5 miliardi di dollari alla Bielorussia e sostenuto l’annuncio di Lukashenko di avviare un processo di riforma costituzionale[36]. Sostegno politico, prestiti finanziari, esercitazioni militari congiunte non devono distogliere dal fatto che il Cremlino, più che a Lukashenko, è interessato alla stabilità del regime bielorusso. Sarebbe cioè pronto, senza esitazioni, a sostenere una figura alternativa – e non ostile alla Russia – nel caso in cui il presidente bielorusso non avesse più il controllo della situazione.

È possibile che la Russia cercherà nei prossimi mesi di sfruttare tanto il contesto d’instabilità del regime bielorusso quanto le tensioni tra Lukashenko e l’UE per accrescere la sua influenza sul paese. L’UE non riconosce il risultato del voto e sostiene l’attività e la domanda di nuove elezioni di Svetlana Tichanovskaja e del Consiglio di coordinamento. A ottobre e novembre l’UE ha approvato due pacchetti consecutivi di sanzioni contro gli oligarchi e rappresentanti del regime bielorusso (Lukashenko incluso) per la repressione violenta delle proteste.

 

Le relazioni economiche ed energetiche

Fin dal crollo dell’URSS le relazioni economiche tra Russia e Bielorussia si sono basate su un tacito accordo e un’asimmetria di fondo: Mosca ha concesso a Minsk tariffe di favore sul gas e petrolio e un accesso preferenziale al mercato russo in cambio della sua lealtà geopolitica. Questo trade-off ha portato, in più momenti, a dispute e continue rinegoziazioni delle tariffe delle materie prime, da ultimo nel gennaio 2020.

Non solo Minsk dipende quasi interamente dalla Russia per le forniture di energia, ma l’importazione di materie prime al di sotto del valore di mercato costituisce una delle sue maggiori entrate economiche. La Bielorussia raffina il petrolio importato acquistato da Mosca nelle due raffinerie del paese (Mazyr e Naftan) per poi rivenderlo sul mercato europeo, business che corrisponde da solo a circa il 20% del valore totale dell’export nazionale[37]. La Bielorussia è anche un importante corridoio per il passaggio di petrolio e gas dalla Russia all’Europa: circa il 10% del petrolio europeo è fornito dalla pipeline russa Druzhba, che attraversa la Bielorussia prima di rifornire Germania, Polonia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica ceca; il 6% del gas europeo passa invece tramite la pipeline Yamal Europe e approvvigiona la Germania.

A gennaio 2021, come risposta alle sanzioni introdotte dai paesi baltici e dal resto dell’UE contro il governo bielorusso, Lukashenko ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione di Mosca a esportare materie prime e altri beni dai porti russi sul Baltico e interrompere così le attività nei porti delle repubbliche baltiche[38]. A livello d’interscambio commerciale, la Russia è la principale destinazione dell’export bielorusso, pari al 50% dei beni esportati (fino al 90% per alcuni prodotti, come i latticini) contro il 18,5% nell’area UE al 2019[39]. Secondo i dati ufficiali, gli investimenti russi in Bielorussia ammontavano nel 2019 a 4,5 miliardi di dollari, corrispondenti al 45% degli investimenti esteri totali in Bielorussia. Ci sono inoltre più di 2500 aziende a partecipazione russa e decine di grandi progetti che si avvalgono di tecnologie russe[40].

L’esempio più recente e significativo è la costruzione della prima e unica centrale nucleare bielorussa, Astravets, a nord-ovest della Bielorussia, al confine con la Lituania. La centrale è stata costruita dalla società Atomstrojexport – una filiale della società di stato russa Rosatom – con un prestito russo di 10 miliardi di dollari, che la Bielorussia deve estinguere entro il 2036. Il progetto, avviato nel 2011, è stato osteggiato dalla Lituania, che lo ritiene una minaccia diretta – anche a causa del grave precedente di Chernobyl nel 1986 – per la sua capitale Vilnius, situata a 50 km di distanza. La centrale, che ha iniziato a produrre energia nel novembre 2020, dovrebbe entrare pienamente in funzione nel 2022[41].

Nel contesto attuale, il governo russo potrebbe riuscire a ottenere l’apertura di aziende sia private sia statali bielorusse a capitali russi, tra cui l’azienda chimica Grodno Azot, l’industria di veicoli militari e trattori MZKT, la raffineria Nazyr[42].

 

Le relazioni culturali e linguistiche

Uno dei fattori chiave per comprendere l’origine delle proteste dell’estate 2020 è l’esistenza di una frattura generazionale sempre più netta all’interno della società bielorussa. Un sondaggio recente ha mostrato ad esempio che la generazione over 60 considera la Russia la più grande potenza mondiale e guarda al crollo dell’URSS come un evento negativo. Al contrario, la posizione della maggior parte degli intervistati tra i 18 e i 30 anni ritiene gli Stati Uniti la più grande potenza al mondo e guardano al crollo dell’URSS come un evento positivo[43].

Queste tendenze, già esistenti, si sono accentuate con l’evolversi della crisi politica negli ultimi mesi. In effetti la crisi, nata per ragioni interne politiche e sociali, ha assunto rapidamente – anche a causa del posizionamento opposto di UE e Russia – una dimensione geopolitica in cui scegliere tra sostenere le proteste o il regime di Lukashenko corrisponde a scegliere tra Bruxelles e Mosca.

La ‘geopolitizzazione’ delle proteste in corso sta già avendo, a sua volta, un impatto su un elemento centrale dei legami culturali tra la Russia e la Bielorussia: l’uso della lingua russa. La lingua russa è un veicolo fondamentale dell’influenza russa in Bielorussa. Non solo i media russi sono tra i più seguiti in Bielorussia (televisione, radio, social media e motori di ricerca), ma la maggior parte della popolazione tendeva, quantomeno fino a pochi mesi fa, a considerarli più affidabili dei media nazionali. Con le proteste la tendenza è in parte cambiata, e la maggior parte delle persone che ha partecipato alle manifestazioni si è rivolta a fonti straniere – principalmente digitali – per seguire l’evoluzione della crisi.

È importante considerare che la lingua russa è parte integrante della società e cultura bielorusse. Il censimento nazionale del 2019 mostrava che a oggi la maggior parte dei bielorussi indica come prima lingua il bielorusso, ma nel quotidiano, nel contesto familiare, più del 70% parla in russo[44]. Lo stesso Lukashenko si è espresso pubblicamente in bielorusso solo in rarissimi casi (la prima volta dopo l’annessione della Crimea nel 2014)[45] e la scrittrice e premio Nobel della letteratura Svetlana Aleksievich scrive in russo[46]. L’evoluzione della crisi attuale porterà probabilmente a un utilizzo crescente del bielorusso a scapito del russo da parte di chi si oppone al regime di Lukashenko, in nome di un’identità bielorussa da opporre a quella russa, considerata ora più ostile, come accaduto in Ucraina dal 2014 in poi.

 

Russia e Asia Centrale: primazia, perdita d’influenza, o egemonia negoziata?

Filippo Costa Buranelli

Le relazioni tra la Russia e le cinque repubbliche centrasiatiche del Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Turkmenistan, e Uzbekistan, vengono qui analizzate utilizzando tre prismi analitici interrelati tra loro: quello riguardante l’aspetto politico e di sicurezza; quello pertinente ai vettori economici; e quello relativo alle relazioni culturali e umanitarie. L’analisi è inoltre contestualizzata e inserita in un processo globale di re-allineamento delle grandi potenze, di mutamento di equilibri, di cambiamenti tanto materiali quanto immateriali nella politica internazionale, e di ascesa e affermazione di nuovi attori regionali. Pertanto, verrà esaminato anche l’importante ruolo di attori extra-regionali, come gli Stati Uniti e la Cina, nella caratterizzazione delle relazioni intra-regionali.

 

Le relazioni russo-centrasiatiche nella sfera politica e sicurezza

La cooperazione alla sicurezza e la necessità di mantenere ordine e stabilità nel panorama politico eurasiatico sono il pilastro principale su cui posano le relazioni internazionali tra Russia e Asia Centrale. E anche dopo l’annessione della Crimea del 2104, da un punto di vista politico, militare, e di sicurezza i rapporti tra Russia e Asia Centrale sono stati caratterizzati da una generale continuità. Da un lato Mosca continua a considerare i territori delle repubbliche centrasiatiche come una zona di privilegio e di esclusività, mentre le repubbliche centrasiatiche continuano a identificare Mosca come il legittimo garante di sicurezza, stabilità e prevedibilità politica. La principale organizzazione che cristallizza la predominanza militare della Russia nello spazio eurasiatico è la CSTO che comprende, oltre alla Russia, il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan, la Bielorussia e l’Armenia. È proprio grazie alla CSTO che la Russia gestisce e cementa la sua posizione di potenza nella regione, attraverso il coordinamento di esercitazioni militari, di convergenza normativa in campo militare, e attraverso una capillare provvigione e fornitura di armi e materiale bellico ai proprio alleati[47].

Negli ultimi tre anni la novità più importante è, forse, il progressivo re-allineamento dell’Uzbekistan con le linee guida di Mosca in ambito politico-militare. L’attuale presidente uzbeko, Shavkhat Mirziyoyev, sembra essere più in sintonia e più accomodante per quel che riguarda la richiesta di Mosca di collaborazione in campo politico-militare, a differenza del suo predecessore Islam Karimov il quale, seppur senza mai ostracizzare e allontanare la Russia platealmente, aveva sposato una politica più indipendentista e autonoma nel campo della politica estera e di difesa, improntata su una retorica che enfatizzava il ruolo dell’Uzbekistan come baluardo dell’indipendenza postcoloniale centrasiatica. Questo progressivo riavvicinamento è visibile a livello retorico tanto quanto a livello istituzionale, anche se è importante sottolineare come l’Uzbekistan non abbia, di fatto, modificato la sua politica estera in termini di alleanze e cooperazione multilaterale nella sfera militare, continuando quindi la sua non-partecipazione alle attività della CSTO, che il paese abbandonò proprio nel 2012. Questo, tuttavia, non esclude la cooperazione militare a livello bilaterale: nel 2019, per esempio, l’Uzbekistan ha ripreso l’acquisizione di armi da Mosca per un totale di 48 milioni di dollari[48].

Per quel che riguarda invece gli altri stati centrasiatici, ‘stabilità’ sembrerebbe essere la tendenza che accompagna i rapporti tra Mosca e Nur-Sultan, Biškek, Dušanbe, e Ashgabat. Le relazioni russo-kazake, per esempio, non hanno subito mutamenti di nota anche dopo le dimissioni rassegnate da Nursultan Nazarbayev dopo quasi vent’anni al potere e l’avvento alla presidenza di Kassym-Jomart Tokayev. Lo stesso si può dire per quel che riguarda il Kirghizistan, anche se in questo caso i cambi al vertice sono stati due: Almazbek Atambayev lasciò il posto a Sooronbai Jeenbekov nel 2017, il quale è poi stato deposto in seguito alle proteste e alle violenze dell’ottobre 2020, dopo le quali Sadyr Japaorv è stato eletto presidente nel gennaio del 2021. In tutti e tre i casi il Kirghizistan ha sempre mantenuto un approccio alla politica estera fortemente orientato alla collaborazione con Mosca, consapevole anche di numerosi elementi strutturali (come la precarietà statale, l’instabilità economica, e il significativo flusso di migranti economici in territorio russo) che portano Bishkek a situarsi necessariamente nell’orbita russa[49].

Per quel che riguarda le relazioni con Turkmenistan e Tajikistan, anche qui il trend principale sembra essere quello della continuità. Il Turkmenistan, paese che nel 1995 è riconosciuto come neutrale dall’Assemblea delle Nazioni Unite, continua a esercitare un ruolo molto marginale all’interno delle relazioni politico-militari tra Russia e Asia Centrale. Ashgabat è membro associato della Comunità degli Stati indipendenti, non fa parte della CSTO, ed è solamente osservatore all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS), l’altra piattaforma multilaterale di carattere politico-economico che la Russia co-gestisce con la Cina e altri paesi eurasiatici. Nel 2017 Putin e il presidente turkmeno Berdimukhammedov hanno siglato un accordo di partenariato strategico focalizzato a migliorare le relazioni russo-turkmene nel campo economico, di sicurezza e umanitario. A ciò è seguito un accordo di cooperazione interparlamentare, sempre nel 2017, che però oltre a formalizzare il dialogo tra i due organi legislativi dei rispettivi paesi, poco ha contribuito a rafforzare la generale collaborazione tra Russia e Turkmenistan. Per quel che riguarda le relazioni russo-tagike, invece, la cooperazione politico-militare con la Russia è supportata dalla marcata continuità del regime di Emomali Rahmon, presidente in carica dal 1994. Consapevole della fragilità del paese, della potenziale instabilità che può arrecare il vicino Afghanistan, dell’espansione cinese e della crescente disoccupazione interna, Rahmon ha mantenuto ottimi rapporti con Mosca proprio per ricevere supporto e aiuto rispetto alle suddette questioni.

Il fatto che le repubbliche centrasiatiche nutrano buoni rapporti con Mosca non deve però far pensare che vi sia concordia su ogni questione politico-strategica e che le relazioni siano prive di frizioni e sempre condotte all’insegna dell’eguaglianza e del mutuo rispetto. È infatti opportuno sottolineare come in seguito all’annessione della Crimea e all’apertura delle ostilità nel Donbass e nell’Ucraina orientale, gli stati centrasiatici siano diventati molto più suscettibili a questioni legate all’integrità territoriale e alle prerogative di sovranità[50]. La Russia gode dunque di quella che si può definire un’egemonia negoziata[51], vale a dire una primazia a livello politico militare ma che non può sfociare in aperto controllo dei vicini proprio a causa della fiducia che è venuta meno nei suoi confronti.

Per quello che riguarda le principali piattaforme multilaterali di sicurezza e difesa, l’aspetto forse più importante è l’impegno, rinnovato sia dalla Russia sia dai paesi centrasiatici membri, di potenziare e migliorare la struttura della CSTO anche attraverso maggiori finanziamenti. Anche e soprattutto alla luce della crescente presenza cinese nell’area, Mosca ha di recente fornito al Tagikistan materiale militare moderno; ci sono inoltre state consultazioni sulla possibile apertura di una seconda base militare in Kirghizistan[52]; e in più Mosca ha iniziato a condividere materiale ed esperienza delle sue Forze di operazioni speciali con gli altri stati membri[53]. La CSTO, oltre a coordinare esercitazioni e scambio d’informazioni militari, continua pur tuttavia a rimanere fedele ai principii di sovranità e non-interferenza, anche e soprattutto alla luce di quanto detto poco sopra sulla sensitività di queste norme nel periodo post-Crimea. Tanto nel conflitto del Nagorno-Karabakh (si veda il capitolo di Carlo Frappi) quanto durante le violentissime proteste in Kyrgyzstan dell’ottobre 2020 che hanno portato alla caduta di Jeenbekov e all’ascesa di Sadyr Japarov alla presidenza, la CSTO si è definita incompetente all’intervento offrendo come giustificazione la natura interna e sovrana di questi conflitti.

 

Le relazioni economiche

Per quanto riguarda l’aspetto economico delle relazioni russo-centrasiatiche, è opportuno fare un distinguo preliminare. Vale a dire, le economie delle nazioni centrasiatiche sono diverse tra loro, tanto in termini di risorse e produzione, quanto in termini di volumi. Il Kazakistan, per esempio, ha un Pil che è più grande della somma dei Pil degli altri quattro stati centrasiatici. Tuttavia, si potrebbe dire che le relazioni economiche russo-centrasiatiche siano marcate nel complesso da uno squilibrio e una diseguaglianza a vantaggio di Mosca, che funziona un po’ da centro gravitazionale della neonata Unione economica eurasiatica (EEU), entrata in vigore nel 2015 e comprendente Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Armenia, e Bielorussia (quindi, di fatto, gli stessi membri della CSTO eccezion fatta per il Tagikistan). Il fatto che Mosca eserciti una forza gravitazionale da un punto di vista economico è visibile nella recente decisione del governo uzbeko di entrare, seppur almeno inizialmente come osservatore, all’interno dell’EEU. Le negoziazioni, durate poco più di un anno, hanno di fatto certificato come l’Uzbekistan abbia radicalmente cambiato il suo approccio all’economia e al commercio internazionale, che durante il regime di Islam Karimov erano all’insegna dell’autarchia e della chiusura.

Sempre a proposito dell’EEU e di come tale organizzazione sia considerata dalla Russia come un’effettiva piattaforma per legare a essa le economie centrasiatiche va detto che il commercio e gli scambi economici all’interno del blocco sono inferiori rispetto al commercio e gli scambi con economie estere. Nel 2018, per esempio, il turnover estero degli stati membri dell’EEU superava il turnover interno di ben tredici volte, in quello che è un trend che si è andato consolidando negli ultimi due anni[54]. Se a questo si aggiunge il fatto che paesi esterni all’EEU hanno un indice di complementarità commerciale più alto dei paesi membri stessi (Italia 54%; India 42%; Grecia 41%) allora l’idea che l’EEU sia un blocco commerciale a carattere marcatamente politico e strategico assume contorni più veritieri. Anche uno sguardo ai volumi totali del commercio intra-EEU dimostra come la Russia giochi un ruolo pregnante negli equilibri dell’EEU. Una volta che sanzioni internazionali sono state imposte su Mosca a seguito dell’annessione della Crimea (2015), il commercio totale intra-blocco non ha mai più raggiunto i livelli iniziali (2011)[55]. Da ultimo, va considerato che nel 2018 gli scambi con la Russia ammontavano al 96,9% degli scambi totali dell’organizzazione, a ulteriore dimostrazione del carattere unidirezionale e marcatamente politico dell’EEU.

 

Volumi commerciali intra-EEU (in miliardi di dollari USA)

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Come detto poco sopra, è anche importante ricordare come le economie all’interno dell’area eurasiatica (e quindi non necessariamente facenti parte dell’EEU) siano diverse tra loro. Paesi come il Kirghizistan (membro dell’EEU) e il Tagikistan (non-membro dell’EEU) hanno economie basate primariamente su rimesse e non su produzione industriale e/o servizi, il che contribuisce ancor di più a rendere questi stati dipendenti da Mosca. Famose sono le parole dell’allora presidente kirghiso Almazbek Atambayev quando, poco prima di formalizzare l’ingresso del Kirghizistan nell’EEU, affermò che il paese, semplicemente, ‘non aveva scelta’, e che il rifiutare l’invito a entrare nell’EEU avrebbe significato ‘supplicare in ginocchio’ per aiuti economici in futuro[56].

Lo stesso Tagikistan si trova in una posizione di dipendenza dalle rimesse che provengono dalla Russia (nel 2018, le rimesse costituivano il 29% del Pil del paese, e dati della Banca centrale russa dimostrano come nell’ultimo anno tali rimesse siano diminuite del 37%, e dunque con un tremendo impatto sul Pil tagiko),[57] e negoziazioni (quando non proprio pressioni, sotto forma d’introduzione di barriere invisibili al commercio e alla circolazione di merci e persone per paesi non-EEU) continuano tra Mosca e Dušanbe per convincere il presidente tagiko Emomali Rahmon a entrare nell’organizzazione. Al di fuori di queste negoziazioni, un importante accordo tra Russia e Tagikistan sulla regolamentazione dei migranti economici è stato siglato e ratificato appena due anni fa[58], in quello che sembra essere stato l’ultimo tentativo di coordinare e incanalare il flusso migratorio dal Tagikistan alla Russia prima di costringere Dušanbe ad accedere all’EEU, e quindi a sottostare alle regole e provvisioni in campo migratorio dell’organizzazione stessa.

È forse nella sfera economica, però, che la presenza russa in Asia Centrale è maggiormente fronteggiata da una crescente attività cinese, specie nei settori infrastrutturali, energetici e commerciali. La Cina è, al momento, il secondo mercato per le esportazioni kazake (dopo l’Italia) con la Russia che figura al quarto posto (dopo l’Olanda), ed è il secondo esportatore verso il Kazakistan dopo la Russia. La presenza di Beijing è visibile anche nella pletora di progetti infrastrutturali e finanziari nella regione, che al momento sembrano avere un passo e una presenza difficili da emulare per la Russia, soprattutto alla luce delle sanzioni economiche e del recente impatto del Covid-19 sulla regione.

Anche nel campo energetico si può notare una crescente presenza cinese in Asia Centrale, presenza che al momento non ha portato a eccessivo allarmismo in Russia ma che al tempo stesso presenta Mosca con uno scenario di crescente multilateralismo e bilanciamento. La Cina è a oggi il primo importatore di gas dal Turkmenistan (il 90% delle esportazioni di gas turkmene va in direzione di Pechino), una posizione che si è venuta a concretizzare proprio in seguito a disaccordi politico-economici tra Ashgabat e la russa Gazprom. Per quanto riguarda il petrolio, la presenza del gasdotto Asia Centrale-Cina (transitante attraverso Turkmenistan, Uzbekistan, e Kazakistan) è di grande importanza per Pechino, e una nuova linea (Linea D) è attualmente in corso di costruzione, dal 2014 e non senza difficoltà, attraverso il Kirghizistan e il Tagikistan.

Sebbene non sia possibile approfondire qui in modo esaustivo le posizioni commerciali di UE e Stati Uniti, è opportuno notare come Washington abbia di recente siglato un vantaggioso accordo economico con il Kazakistan e l’Uzbekistan (le due maggiori economie della regione) chiamato ‘Partnership per gli investimenti in Asia Centrale’ con l’obiettivo d’investire almeno 1 miliardo di dollari nella regione attraverso progetti diretti a sviluppare il settore privato e infrastrutturale delle economie locali[59]. Alla luce di questi dati e fattori, è evidente dunque come il quadro economico delle relazioni russo-centrasiatiche non sia configurabile come un’assoluta primazia e dominanza. Se all’interno dell’EEU le relazioni economico-internazionali sono a carattere marcatamente russo, il quadro più ampio dell’economia e del mercato energetico dell’Eurasia presenta uno scenario più multipolare e diversificato, con la Russia che rimane un attore di primo piano ma al tempo stesso Cina, UE e Stati Uniti che giocano un ruolo importantissimo nella diversificazione dei vettori economici ed energetici delle repubbliche centrasiatiche. Quest’ultime, inoltre, hanno sviluppato nel corso degli ultimi due decenni una strategia che alcuni analisti hanno chiamato ‘regionalismo bilanciato’[60], e mira proprio alla creazione di numerose piattaforme regionali (tanto formali quanto informali) da un lato per attrarre più capitali, dall’altro per evitare la preponderanza di una singola grande potenza nella regione.

 

Rapporti culturali e umanitari

Il sostrato umanitario e culturale che lega i paesi dell’Asia Centrale con la Russia è improntato principalmente alla valorizzazione dell’esperienza storico-politica dell’Unione Sovietica, e dei secoli di coesistenza tra le popolazioni russe e centrasiatiche, che hanno portato a una condivisione di numerosi riferimenti culturali e linguistici. Tuttavia, se da un punto di vista istituzionale, storico, diplomatico, e finanche celebrativo le repubbliche centrasiatiche e Mosca parlano ancora di fratellanza, solidarietà, vicinanza, e memorie condivise (come per esempio le celebrazioni per la vittoria della Seconda guerra mondiale), è anche vero che i processi di sviluppo nazionale e statale in Asia Centrale stanno portando a un lento ma concreto affermarsi di sentimenti nazionalisti. Questi sono visibili tanto in riforme d’importanza simbolica e anche politica, come la transizione dell’alfabeto kazako e uzbeko dal cirillico al latino, quanto nell’elezione di leader nazional-populisti alla presidenza, come ha dimostrato il caso di Sadyr Japarov in Kirghizistan all’inizio di quest’anno[61]. Altri esempi includono la proposta di legge in Uzbekistan che vieta ai dipendenti statali l’uso della lingua russa (cui Mosca ha reagito con preoccupazione se non proprio con sdegno, citando ‘lo spirito della storia’ come motivazione per bloccare questa proposta) e il fatto che in Turkmenistan vi sia un’unica scuola russa.[62]

La tensione tra un’unione basata sulla storia, ma la cui eco è ancora avvertibile, e il desiderio delle repubbliche centrasiatiche di essere viste come attori indipendenti, eguali e sovrani è sfociata in più di un’occasione in veri e propri casi diplomatici. Ampia risonanza, per esempio, ha avuto il gelo che intercorse per qualche settimana tra Putin e Nazarbayev nel 2015, e quindi proprio nel periodo più intenso dell’annessione russa della Crimea, che seguì alle dichiarazioni del presidente russo sulla ‘artificialità’ dello stato kazako, che deve la sua esistenza e la sua attuale statualità all’impero russo prima e all’Unione Sovietica poi. Semmai qualcuno avesse pensato che questa fosse una boutade o una battuta mal riuscita, si è poi dovuto ricredere. Nel dicembre 2020, Vyacheslav Nikonov, il presidente della commissione Educazione e Cultura della Duma russa, ha di nuovo reiterato la ‘non-esistenza’ del Kazakistan, paese che a suo dire altro non è che ‘un grande regalo della Russia e dell’Unione Sovietica ai kazaki’[63]. È dunque lecito pensare che queste narrative, soprattutto se unite ai noti e periodici exploit di Vladimir Zhirinovski in favore di una ‘ricolonizzazione’ dell’Asia Centrale, abbiano il preciso scopo di ricordare alle repubbliche centrasiatiche la posizione egemonica di Mosca nella regione.

Tuttavia, al netto dei sopracitati episodi, tra Russia e Asia Centrale in un’ottica complessiva si può parlare di relazioni generalmente positive nella sfera socio-culturale, specie se comparate a quelle con altre potenze come Stati Uniti o Cina[64]. La Russia, secondo recenti sondaggi in Asia Centrale, era e rimane un alleato in cui riporre fiducia, un fondamentale partner economico, un paese da visitare, un modello politico da seguire, e un buon vicino. L’esempio più recente di questo trend è il successo della ‘diplomazia vaccinale’ di Mosca in Asia Centrale, grazie alla quale Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan hanno ordinato dosi ingenti di Sputnik-V (con Kirghizistan e Tagikistan che stanno valutando l’approvazione del vaccino in queste settimane).

Anche a livello sociale e culturale, dunque, così come in campo economico e politico-militare, è forse inappropriato parlare di una Russia in declino, così come è fuorviante parlare di Mosca come l’unico egemone incontrastato nella regione. Alla luce di quanto scritto, il prisma più accurato per analizzare la posizione russa in Asia Centrale è quella che ho chiamato ‘egemonia negoziata’, specie dopo l’annessione della Crimea. Se da un lato Mosca è, ancora oggi, la potenza indispensabile nell’area, non è certo l’unica. E i paesi dell’Asia Centrale sono ben consapevoli della presenza di altri attori, del margine di manovra a loro disposizione, e di come un nuovo multilateralismo possa, pur lentamente e progressivamente, trovare forma non solo a livello mondiale, ma anche a livello regionale.

 

Note

[1] Si vedano al riguardo F. Bettanin, Putin e il mondo che verrà. Storia e politica della Russia nel nuovo contesto internazionale, Roma, Viella, 2018; e A. Ferrari, La Russia e il mondo post-occidentale, in A. Colombo e P. Magri (a cura di), Rapporto ISPI 2019 – La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale, Milano, ISPI, 2019, pp. 95-101.

[2] Si veda D. Trenin, Game Over for Lukashenko: The Kremlin’s Next Move, Carnegie Moscow Center, 17 agosto 2020.

[3] “Kyrgyz President Meets With Putin In First Trip Abroad”, Radio Free Europe Radio Liberty, 24 febbraio 2021.

[4] Ne sono persuasi, per esempio, due studiosi ideologicamente molto lontani tra loro come Timofej Bordačëv, figura di rilievo del Valdaj Club e dell’establishment intellettuale vicino al Cremlino, che parla di Imperskaja sderžannost’ Rossii, 10 novembre 2020, e Dmitrij Trenin, direttore dell’Istituto Carnegie di Mosca (Tri krizisa na granice Rossii. Čto oni označajut dlja otnošenij s Rossiej, 28 ottobre 2020.

[5] D. Trenin, Moscow’s new Rules, Carnegie Moscow Center, 12 novembre 2020.

[6] A. Ferrari, Greater Eurasia. Opportunity or Downsizing for Russia?, in A. Ferrari e E. Tafuro Ambrosetti (a cura di), Forward to the Past? New/Old Theatres of Russia’s International Projection, Milano, ISPI-Ledizioni, 2020, pp. 33-47.

[7] Il principio fa riferimento all’attribuzione agli attori locali della responsabilità prioritaria di garantire la stabilità e la sicurezza regionali, a sostanziale detrimento della proiezione d’influenza di potenze esterne alla regione in considerazione. Per il peso del principio nell’evoluzione delle relazioni russo-turche: C. Frappi, “The Russo-Turkish Entente: A Tactical Embrace Along Strategic and Geopolitical Convergences”, in V. Talbot (a cura di), Turkey: Towards a Eurasian Shift?, Milano, ISPI-Ledizioni, 2018, pp. 45-69.

[8] Per una panoramica sul meccanismo negoziale e i suoi limiti si veda: E. Panchulidze, Limits of Co-mediation: The EU’s Effectiveness in the Geneva International Discussions, College of Europe, EU Diplomacy Papers, 3/2020.

[9] Sulla base di accordi formalizzati nel febbraio 2009 con Abkhazia e Ossezia meridionale ospitano due basi militari russe, con sede a Gudauta e Tskhinval. Secondo l’International Institute for Security Studies (IISS), le due entità de facto ospiterebbero un totale di 7.000 militari russi. IISS, The Military Balance 2021, vol.121, Routledge, 2020, p. 186.

[10] Sul punto, Amnesty International, Behind barbed wire: Human rights toll of “borderization” in Georgia, Londra, 2018.

[11] Si veda, ad esempio, D. Brown, “Russia appears to be taking Georgia’s land inch by inch”, Business Insider, 18 luglio 2017.

[12] Per un’approfondita disamina della portata degli accordi siglati tra Russia, Abkhazia e Ossezia meridionale si rimanda a: T. Ambrosio e W.A. Lange, The architecture of annexation? Russia’s bilateral agreements with South Ossetia and Abkhazia, Nationalities Papers, vol. 44, n. 5, 2016, pp. 673-693,

[13] L’Armenia resta pilastro delle strategie di sicurezza russe nel Caucaso meridionale, unico attore regionale ad aver formalizzato un’alleanza militare con Mosca tanto sul piano bilaterale, a partire dal Trattato di Amicizia, Cooperazione e Mutua Assistenza dell’agosto 1997, quanto su quello multilaterale del CSTO, di cui l’Armenia è membro fondatore. L’Armenia ospita inoltre una base russa Gyumri e 3.500 militari, tradizionalmente impegnati anche in attività congiunte di pattugliamento dei confini del Paese.

[14] Nella fase compresa tra il 2011 e il 2019 la Russia ha garantito una quota del 94% del totale delle importazioni di armi armene e una quota del 64% di quelle azerbaigiane – pari queste ultime a un valore nominale di circa 2 miliardi di dollari. Calcoli dell’autore su dati tratti dal SIPRI Arms Transfers Database (https://armstrade.sipri.org/).

[15] “Putin: Russia-Azerbaijan cooperation grows to strategic partnership”, TASS, 8 agosto 2016.

[16] In questo senso, A. Shirinyan, “Armenia’s Foreign Policy Balancing in an Age of Uncertainty”, Royal Institute of International Affairs, Londra, marzo 2019.

[17] Si veda, ad esempio: Armenia seeks bigger Russian military presence on its territory, Reuters, 22 febbraio 2021

[18] Prima indicazione in tal senso sembra provenire dalle nuove regolamentazioni per l’ingresso nel territorio dell’Alto Karabakh, oggi soggetto al controllo dei militari russi.

[19] Per una recente disamina del processo di normalizzazione, International Crisis Group, Georgia and Russia: Why and How to Save Normalisation, Crisis Group Europe Briefing, n. 90, 2020.

[20] Calcoli dell’autore su dati dell’Ufficio nazionale di Statistica della Georgia (https://www.geostat.ge/).

[21] “Russian sanctions against Georgia: How dangerous are they for country’s economy?”, Emerging Europe, 17 luglio 2019.

[22] “Azerbaijan-Belarus trade turnover soars in 2020”, Azernews, 26 gennaio 2021.

[23] “Azerbaijan courts Russia and Iran”, Euractiv, 22 agosto 2016.

[24] Resident of Russia, President of Russia, Statement by President of the Republic of Azerbaijan, Prime Minister of the Republic of Armenia and President of the Russian Federation, 10 novembre 2020.

[25] “The Nakhchivan corridor will boost connectivity in the Caucasus”, Euractiv, 15 gennaio 2021.

[26] Si vedano, in questo senso, le dichiarazioni dell’allora Presidente armeno Serzh Sarkisian, in “Sarkisian Opts For Russian-Led Unions”, Azatutyun, 3 settembre 2013.

[27] TrendEconomy, “Annual International Trade Statistics by Country – Armenia”.

[28] Per una più approfondita disamina, si rimanda ad A. Terzyan, The anatomy of Russia’s grip on Armenia: bound to persist?, CES Working Papers, vol. 10, n. 2, 2018, pp. 234-250.

[29] «У Тихановской было в шесть раз больше голосов, чем у Лукашенко» Члены белорусских избиркомов подробно рассказали «Медузе», как были организованы фальсификации на выборах президента (“Tikhanovskaya aveva sei volte più voti di Lukashenka”. I membri delle commissioni elettorali bielorusse hanno detto a Meduza in dettaglio come sono state organizzate le falsificazioni alle elezioni presidenziali), 18 agosto 2020.

[30] A. Marin, The Union State of Belarus And Russia. Myths and Realities of Political-Military Integration, Vilnius Institute for Policy Analysis, 2020.

[31] Consiglio europeo, UE-Bielorussia: conclusi accordi di facilitazione del rilascio dei visti e di riammissione, 27 maggio 2020.

[32] IISS, The prospect of Union between Russia and Belarus, marzo 2019.

[33] S. Bohdan, Belarus Arms Industry Struggles to survive under Kremlin pressure, Belarus Digest, 6 maggio 2016.

[34] A. Moshes e R. Nizhnikau, A Partnership Not in the Making: Ukrainian-Belarusian Relations After the Euromaidan, Policy Memo 557, dicembre 2018.

[35] “Belarus protests: Putin ready to send Lukashenko military support”, The Guardian, 27 agosto 2020.

[36] DW, Putin pledges a $1.5 billion loan while meeting Lukashenko in Sochi, 14 settembre 2020. L’idea di una riforma costituzionale deve essere vista più come una maniera per Lukashenko di ritardare il momento di nuove elezioni che non un genuino tentativo di riformare il paese in senso più democratico.

[37] OEC, Belarushttps://oec.world/en/profile/country/blr/

[38]Eksport belorusskich nefteproduktov cherez RF mozhet nachat’sja v 2021Interfaks, 4 gennaio 2021.

[39]https://www.mfa.gov.by/export/foreign_trade/

[40]Торгово-экономическое сотрудничество (Cooperazione commerciale ed economica), Ambasciata della Federazione Russa nella Repubblica di Bielorussia.

[41] C. Bayou, “Au Belarus, la centrale nucléaire de la discorde”, The Conversation, 20 gennaio 2020.

[42] S. Asfiri, “Quelle stratégie russe pour le Bélarus? Entretien avec Anais Marin”, Regards sur l’Est, 30 novembre 2020.

[43] J. O’ Loughlin, G. Toal, e K. Bakke, “Is Belarus in the Midst of a Generational Upheaval?”, Global Voice, 17 settembre 2020.

[44] “Подведены итоги переписи населения Республики Беларусь 2019 года” (“Vengono riassunti i risultati del censimento della popolazione del 2019 della Repubblica di Bielorussia”), Novosti.Pravo, 11 settembre 2020.

[45]https://www.rferl.org/a/shocking-belarusian-president-speaks-belarusian-lukashenka/25443432.html A. Dynko e C. Bigg “Shocking! Belarusian President Speaks Belarusian”, RadioFreeEurope RadioLiberty, 2 luglio 2014.

[46] “Светлана Алексиевич: Мой русский язык — это язык, на котором говорит империя” (“Svetlana Aleksievich: La mia lingua russa è la lingua parlata dall’impero”), Ru.Delfi, 26 giugno 2018.

[47] B. Jardine e E. Lemon, Kennan Cable No. 52: In Russia’s Shadow: China’s Rising Security Presence in Central Asia, Wilson Center, n. 52, maggio 2020.

[48] Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), http://armstrade.sipri.org/armstrade/page/values.php

[49] “What does Japarov intend to discuss with Putin? Interview with Foreign Minister”, 24.kg news agency, 19 febbraio 2021.

[50] Interviste condotte dall’autore nella regione nel periodo 2015-2019.

[51] F. Costa Buranelli, “Spheres of Influence as Negotiated Hegemony – The Case of Central Asia”, Geopolitics, vol. 23, n. 2, 2018, pp. 378-403.

[52] Allo stato attuale, la Russia conta una base militare in Kirghizistan situata nell’area di Kant, vicino a Biškek, la capitale. Questa base militare va ad aggiungersi alla presenza di guardie di confine permanentemente stazionate al confine tagiko-afgano.

[53] N. Kuhrt e F. Costa Buranelli, “Russia, Central Asia and China: regionalism or transregionalism?”, Asian Survey, vol. 59, n. 1, 2019, pp. 44-53.

[54] Eurasian Development Bank, Eurasian Economic Integration – 2019, 12 agosto 2019.

[55] Trade volume of Eurasian Economic Union (EAEU) countries from 2011 to 2019,

https://www.statista.com/statistics/1087234/eaeu-trade-volume/.

[56] “Kyrgyz president sees no alternative to EEU”, Interfax, 1 dicembre 2014.

[57] The World Bank, Personal remittances, received (% of GDP) – Tajikistan; “Статистика внешнего сектора” (External Sector Statistic), Bank of Russia.

[58] “Россия и Таджикистан готовят шесть соглашений в области миграции” (“Russia and Tajikistan are preparing six agreements in the field of migration”), Ria.Ru, 3 marzo 2020.

[59] U.S. Embassy & Consulate in Kazakhstan, “Joint Statement on the Announcement of the Central Asia Investment Partnership”, 7 gennaio 2020.

[60] A. Tskhay e F. Costa Buranelli, “Accommodating revisionism through balancing regionalism: the case of Central Asia” Europe-Asia Studies, vol. 72, n. 6, 2020, pp. 1033-1052.

[61] È però opportuno ricordare che in Kirghizistan la presenza di media russi nel paese è molto forte, e che il paese è l’unico nella regione a concedere al russo lo stato di lingua ufficiale.

[62] “Russia Criticizes Uzbek Language Policy”, Language Magazine, 13 ottobre 2020.

[63] P. Trotsenko, “Controversial ‘Russian Gift’ Comments Spark Mixed Feelings in Northern Kazakhstan”, RadioFreeEurope Radio Liberty, 5 gennaio 2021.

[64] M. Laruelle e Dy. Royce, Kennan Cable No. 56: No Great Game: Central Asia’s Public Opinions on Russia, China, and the U.S., Wilson Center, Agosto 2020.

 

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L’Armenia a un bivio (Inside Over 04.03.21)

L’Armenia nelle ultime ore sta vivendo una crisi politica e sociale interna che nessuno, soltanto un’anno fa, avrebbe mai potuto lontanamente immaginare. Il piccolo Paese caucasico, dopo la rivoluzione di velluto del 2018, stava rafforzando le proprie impalcature democratiche. Attraverso un’aspra lotta contro le lobby oligarchiche, un avvicinamento all’Unione europea e un potenziamento degli apparati statali, l’ex repubblica sovietica stava consolidandosi sempre più sia da un punto di vista economico che politico.

La guerra del Nagorno Karabakh di ottobre ha però sparigliato le carte, tutte le conquiste che la piazza aveva ottenuto con la rivoluzione di velluto del 2018 si sono sgretolate. Nikol Pashinyan, il primo ministro armeno, ha perso una importante e consistente fetta di sostenitori dopo aver firmato le condizioni della resa del 9 novembre e buona parte della popolazione dell’Armenia e del Nagorno Karabakh vede ora in lui il colpevole della sconfitta, il traditore dell’Artsakh e il primo responsabile della morte di oltre 5mila giovani soldati.

Il fatto che il premier abbia mentito alla popolazione sull’andamento del conflitto e abbia commesso gravi errori diplomatici è un’evidenza, le condizioni della tregua sono state estremamente dolorose per l’Armenia e il desiderio revanscista e la sofferenza per le vite umane perse durante i 44 giorni di scontri stanno portando ora quasi la metà della popolazione armena a rifiutare il premier, a rinnegare la rivoluzione democratica del 2018 e a pretendere le immediate dimissioni dell’esecutivo di Pashinyan.

Sin dalla notte del 9 novembre il malcontento popolare si era manifestato per le strade di Yerevan, la capitale dell’Armenia. Migliaia di dimostranti, pochi minuti dopo aver appreso della tregua, avevano assaltato il Parlamento e la casa del premier e l’ira popolare aveva preso il sopravvento. Da quel giorno l’Armenia ha vissuto una spaccatura interna senza precedenti. Le forze di opposizione si sono unite in una larga coalizione che ha chiesto le dimissioni immediate del premier, Pashinyan invece ha invitato i suoi uomini a essere uniti per difendere la democrazia armena. Comizi e proteste si sono succeduti per tutto il periodo trascorso dalla fine della guerra sino ad oggi.

Venerdì però la situazione è degenerata. Sin dalle prime ore del mattino una notizia ha iniziato a trapelare su tutte le testate nazionali: ”L’esercito armeno si sta rivoltando contro il premier Pashinyan”. Parole terrificanti, come golpe militare e guerra civile hanno iniziato a circolare su tutti i social network e mentre sulla rete toni allarmati riempivano le homepage dei siti di informazione, intanto, a Yerevan due cortei composti rispettivamente da sostenitori dell’opposizione e della maggioranza si fronteggiavano nelle strade. ”Quando Pashinyan attraversava le vie del centro con i suoi sostenitori, la gente dai balconi gli urlava che era un traditore, lo minacciava che l’avrebbero fucilato. Yerevan si è svegliata con i blindati dei militari nelle strade e gli aerei da guerra che volavano radenti sopra il centro città”. E’ con queste parole che una fonte locale contattata da InsideOver, che ha preferito rimanere anonima per il clima di grande insicurezza che sta vivendo il Paese, ha raccontato le drammatiche ore di venerdì mattina.

Il casus belli che ha fatto precipitare la situazione è stata una dichiarazione rilasciata alla stampa dal primo ministro armeno mercoledì quando ha esternato che i missili Iskander a corta e media gittata, utilizzati durante la guerra, non hanno funzionato o, se l’hanno fatto, è avvenuto solo nel 10% dei casi. Parole a cui è seguita la replica del numero due dell’esercito armeno Tiran Kachatrian che ha definito le parole del leader armeno ”ridicole”. All’indomani Kachatrian è stato licenziato dal premier ma ad ogni azione corrisponde una reazione e così giovedì, una dichiarazione dello stato maggiore dell’esercito armeno, in risposta al licenziamento voluto da Pashinyan, ha fatto sprofondare il Paese nel caos. ”La decisione, presa in circostanze difficili per l’Armenia, è antistatale e irresponsabile. Le forze armate armene hanno tollerato a lungo gli attacchi delle autorità mirati a screditare le forze armate ma ogni cosa ha il suo limite”, recita il comunicato dello stato maggiore, che prosegue: ”Date le circostanze, le forze armate armene chiedono le dimissioni immediate del primo ministro e del governo e li avvertono di non utilizzare la forza contro la gente i cui figli sono morti difendendo la madrepatria”. Parole durissime e che spaventano e alle quali sono seguiti scontri in piazza e un consistente dispiegamento di forze armate per le vie della capitale.

”Il clima che si respira oggi in Armenia è simile a quello di certi stati del Sud America durante gli anni ’70”, ha chiosato l’intervistato per InsideOver e mentre nelle strade, subito dopo il comunicato delle forze armate, sono comparsi blindati e soldati e non sono mancati feriti tra i dimostranti, intanto il premier ha invocato il licenziamento del comandante dello stato maggiore Onik Gasparian e ha chiesto al Presidente Sarkissian di appoggiarlo nella rimozione del capo dell’esercito.

”La crisi in Armenia sta prendendo una piega molto pericolosa. I militari nel Paese caucasico sono sempre rimasti fuori dalla politica”, ha spiegato Thomas de Waal, uno dei massimi esperti di Caucaso e autori del libro Black Garden che poi ha aggiunto: ” Per rimanere ancorato al potere Pashinyan cerca ora di affrontare tutte le elité del Paese compresi la Chiesa e il Presidente Sarkissian. E per ottenere consensi, come sua abitudine, Pashinyan, si rivolge alla piazza”.

Da giorni le strade dell’Armenia sono infuocate, barricate e blocchi stradali punteggiano le vie della capitale, nella giornata di lunedì primo marzo alcuni dimostranti hanno occupato i palazzi governativi e Pashinyan ha invece organizzato una manifestazione in Piazza della Repubblica e ai suoi sostenitori ha dichiarato di essere favorevole alle elezioni anticipate. Un guanto di sfida lanciato all’opposizione e dettato dalla convinzione di uscire vincitore dalle urne. Ma il futuro dell’Armenia non è così lineare e scontato come se lo prefigge l’attuale primo ministro. La tensione è altissima, la violenza e l’esasperazione dovute anche a una grave crisi economica e umanitaria, oltre che alla frustrazione per la sconfitta militare, stanno maturando giorno dopo giorno, la presa di posizione delle forze armate è estremamente preoccupante e la paura è che questa volta il futuro dell’Armenia non venga scritto dai voti dei suoi cittadini ma dalla rabbia che nelle piazze e nelle strade trova il terreno in cui maturare, riprodursi e sfogarsi.

Sabato, durante le proteste, alcuni sostenitori dell’opposizione hanno recitato in piazza un macabro spettacolo durante il quale è stata riproposta l’esecuzione del dittatore romeno Nicolae Ceausescu e di sua moglie Elena, fucilati dai militari romeni il 25 dicembre 1989. Una minaccia non tanto velata a Nikol Pashinyan e a sua moglie Anna Hakobyan. Un’istantanea capace di decifrare e tradurre il clima che sta attraversando l’Armenia meglio di qualsiasi analisi politica.

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Nagorno Karabakh, una mostra mette in luce le sue radici armene (Aci 04.03.21)

Si dice che la fede dell’Armenia, la prima nazione cristiana del mondo, sia stata salvata da 36 soldati, che sono poi le lettere dell’alfabeto. È questo, prima di tutto, a fare degli armeni un popolo che pone il libro al centro di ogni casa, come fosse una reliquia da conservare. Questi libri, miniati, decorati, compilati artisticamente e sempre sacri, sono un tratto caratteristico della cultura armena. Ed è a partire dai libri che l’Armenia ha cominciato a rileggere la storia del Nagorno Karabakh, Artsakh in lingua armena, dopo che un doloroso accordo al termine di un conflitto con l’Azerbaijan ha messo in pericolo alcuni luoghi della memoria armeni.

Così, dalla regione di Gandzasar, dove tra l’altro si trova un monastero che conserva una reliquia della testa di San Giovanni Battista, sono stati evacuati manoscritti armeni di ogni tipo, in buona parte Vangeli ed evangeliari, per preservare la memoria della cultura armena e cristiana in Artsakh. Anche così si evita un genocidio culturale che, nel corso degli anni, da quando la regione è stata assegnata all’Azerbaijan dall’Unione Sovietica, si è sviluppato in molti modi, anche con la distruzione dei khatchkar, le famose croci di pietra armene, progressivamente scomparse. Sono manoscritti che testimoniano la storia e la memoria degli scriptoria armeni di Amaras, Gandzasar, monastero dell’Apostolo Elise, Gtchavank, monastero di Metsaranats Surb Hakob, Khadavank, Dadivankmonastero di Eritsmankants e di Shushi.

Si tratta di circa ottanta pezzi, che includono anche manoscritti realizzati, decorati e conservati in Artsakh e anche dei documenti d’archivio e libri antichi stampati a Shushila cui storica cattedrale è stata fatto bersaglio di missili durante l’ultimo conflitto.

La mostra è stata inaugurata il 2 marzo al Matenadaran, il Museo del Libro di Erevan, la capitale di Armenia. Vahan Ter-Ghevondyan, direttore del Matenadaram, ha spiegato: “Nel momento più acceso della guerra è stata evacuata l’intera collezione dalla nostra filiale del Matenadaran a Gandzasar”

Per l’organizzazione dell’evacuazione dei manoscritti e dei libri sono stati consegnati dei certificati di riconoscimento alla tenente colonello Anahit Martirosyan, Gaghik Baiadyan ed Elen Babalyan.

Insieme alla mostra, è stato presentato il libro The Scriptoria of Utik di Tamara Minasyan, che mostra – ha spiegato Karen Matevosyan, curatore del libro e vicedirettore scientifico del Matenadaran – “tutte le materie utili per testimoniare il valore culturale inestimabile del patrimonio armeno di quella terra antica. Dobbiamo custodire gelosamente e promuovere questo patrimonio”.

Il libro è la continuazione della ricerca The Scriptoria of Artsakh pubblicato nel 2015.

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Speciale difesa: Armenia, presidente Sarkissian respinge nuovamente richiesta dimissioni capo di Stato maggiore (Agenzia nova 03.03.21)

Erevan, 03 mar 13:00 – (Agenzia Nova) – Una nuova ondata di proteste in Armenia è stata provocata dallo scontro fra i vertici militari e il governo in seguito alle dichiarazioni di Pashinyan sul mancato funzionamento dei sistemi missilistici Iskander durante il conflitto contro l’Azerbaigian dello scorso anno. Lo Stato maggiore della Difesa ha chiesto le dimissioni di Pashinyan che ha giudicato tale mossa come un tentato golpe, ha disposto l’estromissione di Gasparyan e ha indetto una manifestazione nel centro di Erevan. Durante un discorso alla nazione pronunciato da Piazza della Repubblica, il premier armeno ha ribadito che non intende lasciare la guida del Paese e ha ordinato ai militari di rispettare le loro prerogative, senza farsi coinvolgere in attività politiche che non sono di loro competenza. In una nuova manifestazione, Pashinyan ha ribadito l’invito al dialogo all’opposizione per invitarla a discutere sulla possibilità di indire elezioni anticipate. Il premier ha annunciato anche l’intenzione di tenere un referendum a ottobre sul passaggio a un sistema semipresidenziale. (Rum)

Il mistero del Boeing 737 partito dall’Europa e sparito in Iran (Corriere della Sera 03.03.21)

Il 20 febbraio scorso un Boeing 737 armeno è sparito nel nulla nei cieli dell’Iran dopo aver attraversato il giorno prima mezza Europa. A bordo c’erano soltanto due piloti, ma nemmeno questa è una certezza. Undici giorni dopo si sa soltanto che l’ultimo segnale è stato captato vicino al lago di Urmia. Il velivolo non si è schiantato e, ufficialmente, non ci sono vittime. Ma su di esso grava un sospetto: sarebbe atterrato con la scusa di un’emergenza tecnica nella Repubblica islamica per aggirare l’embargo imposto al Paese. E finire così nelle mani di un’aviolinea locale che, causa sanzioni, non può comprare velivoli.

Il primo volo

Il giallo del Boeing 737-300 inizia il 19 febbraio. Il jet è operato dal vettore Fly Armenia Airways creato nell’autunno 2019 e con un logo che somiglia molto — per non dire di più — a quello di Air Italy, l’ex Meridiana (finita in liquidazione). L’aeromobile lascia l’aeroporto di Tallinn, Estonia, Unione europea. Non è un dettaglio da poco. Le compagnie aeree armene sono nella black list europea: non possono quindi volare sopra l’Ue. In ogni caso quel bimotore — matricola EK-FAA — decolla verso le 10 locali (le 9 in Italia) con destinazione Hostomel, Ucraina, per una sosta tecnica prima di ripartire per gli Emirati Arabi Uniti dov’è atteso per interventi di manutenzione (ma nemmeno questa è per ora confermata).

Il primo volo del Boeing 737 il 19 febbraio scorso (foto Planefinder/Corriere)Il primo volo del Boeing 737 il 19 febbraio scorso (foto Planefinder/Corriere)
La deviazione

Ma una volta sopra l’Ucraina il Boeing vira verso la Bulgaria, altro Paese dell’Unione europea, dove atterra a Varna dopo aver attraversato anche lo spazio aereo della Romania. Da quanto si apprende fino a quel momento non scatta nessun allarme nei cieli continentali. E nemmeno la mattina dopo. Quando il velivolo riprende quota alle 9:24 locali (le 8:24 in Italia), come mostrano i tracciati recuperati dalle piattaforme specializzate. Alle 14:03 ora iraniana (le 12:43 in Italia) il Boeing entra nello spazio aereo gestito da Teheran. E da lì si perdono le tracce. Il Corriere della Sera ha chiesto chiarimenti a Eurocontrol, il consorzio che vigila sui cieli europei, ma senza ottenere una risposta al momento della pubblicazione di questo articolo.

La sparizione

Nelle ore successive si susseguono le ricostruzioni. Il sito armeno Armenpress scrive che dagli Emirati avrebbero contattato la capitale Erevan — in questi giorni al centro di tensioni politiche locali — sostenendo che il velivolo non s’è visto nei loro aeroporti e che forse è stato dirottato. In seguito altre fonti hanno spiegato che in realtà un problema tecnico aveva costretto il Boeing ad atterrare all’aeroporto di Teheran. Da dodici giorni però quell’aereo — con quel codice identificativo — non è mai più decollato.

Il secondo volo, il 20 febbraio (foto Planefinder/Corriere)Il secondo volo, il 20 febbraio (foto Planefinder/Corriere)
Le autorità e i silenzi

L’autorità armena per l’aviazione civile ai giornali locali il 23 febbraio ha confermato l’esistenza di quel volo «tecnico» e ha sostenuto che le indagini erano in corso. A bordo, secondo loro, non c’erano passeggeri, ma soltanto piloti di nazionalità straniera. Non si conoscono ulteriori dettagli. L’ente locale non ha risposto alle domande del Corriere. Silenzio anche dal ministero armeno dell’Amministrazione territoriale e delle infrastrutture. Da Fly Armenia Airways una persona che si qualifica come marketing manager spiega via e-mail che «in questo momento è in corso un procedimento legale» e quindi «non possiamo fornire i dettagli dell’indagine». «Il management del vettore — prosegue la replica — è in Iran e sta negoziando per spedire l’aereo in Armenia».

Il sospetto

Più passano le ore più il caso diventa pieno di sospetti. Secondo il sito specializzato olandese Scramble — che per primo se ne occupa con attenzione — la stampa locale iraniana sostiene che proprio quel velivolo andrà ad aggiungersi alla flotta di Caspian Airlines, compagnia della Repubblica islamica. L’atterraggio d’emergenza, insomma, sarebbe un escamotage per vendere aerei di Paesi occidentali (o parti di essi) all’Iran aggirando così l’embargo imposto. Una pratica che si servirebbe proprio di Stati come l’Armenia, l’Iraq, l’Uzbekistan e il Kirghizistan. Fly Armenia Airways però smentisce nella e-mail al Corriere e parla di disinformazione. Nel 2015 — ricordano diversi esperti — l’iraniana Mahan Air aveva potuto prendersi alcuni Airbus A340 grazie allo stesso escamotage: i quadrimotori erano stati comprati dall’irachena Al-Naser Airlines, ma quando vennero mandati tutti insieme verso il Kazakistan per la manutenzione ecco che dichiararono tutti problemi tecnici e atterrarono insieme a Teheran e non ritornarono mai più nel Paese d’origine.

L’altro Boeing 737 del vettore armeno (foto Fly Armenia Airways)L’altro Boeing 737 del vettore armeno (foto Fly Armenia Airways)
La compagnia armena

C’è un ulteriore particolare bizzarro: la stessa stampa iraniana spiega che un altro Boeing, stavolta 737-400, volerà con la livrea di Caspian Airlines: la matricola coinciderebbe con il Boeing sempre di proprietà di Fly Armenia Airways. E anche la compagnia armena mostra più di qualche curiosità. Tra le sue destinazioni, per esempio, compaiono Marsiglia e Praga. Peccato che non ci possa volare perché i vettori dell’Armenia sono, come scritto, tutti nella black list Ue. Ma Fly Armenia Airways spiega via e-mail che l’idea è (o meglio: era) di volare lo stesso noleggiando un aereo di un Paese accettato dall’Ue. Non solo. Come il Corriere ha potuto verificare direttamente sul sito il numero di telefono del call center (+374-12-737-000) non funziona (ma la compagnia sostiene che invece sia attivo), così come l’interfaccia per le prenotazioni dei voli (che non fa comparire davvero voli). Mentre nella sezione della flotta si vede soltanto il 737-400.

Una delle destinazioni pubblicizzate sul sito del vettore: ma le aviolinee armene non possono volare dentro l’Ue (foto Corriere)Una delle destinazioni pubblicizzate sul sito del vettore: ma le aviolinee armene non possono volare dentro l’Ue (foto Corriere)
I dati sul velivolo

Secondo i siti specializzati il Boeing 737-300 dei misteri è uscito dagli stabilimenti di Renton, nello Stato di Washington, oltre 23 anni fa. Ha volato in Nuova Zelanda, in Estonia, Ucraina, Georgia, Emirati Arabi Uniti, Slovenia, Romania e Lituania. Nel dicembre 2020 è finito nelle mani di Fly Armenia Airways. I pubblici registri consultati dal Corriere e aggiornati al 22 febbraio mostrano che il velivolo è stato immatricolato con il codice armeno EK-FAA il 30 dicembre 2020, due giorni dopo il 737-400 (EK-FAB) e con validità di registrazione fino al 20 agosto 2025, ma senza ancora una certificazione di aeronavigabilità. Ammesso che ora ne serva uno in territorio iraniano.

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>>Il mistero del Boeing 737 armeno scomparso dai cieli (InsideOver)

Roma – Indignazione per la richiesta azera (Assadakah 03.02.21)

Redazione Assadakah (a cura di Letizia Leonardi) – La comunità azera chiede il riconoscimento del genocidio per la controversa strage di Khojaly, e la richiesta è rivolta anche all’Italia per fatti ancora avvolti da una cortina di mistero. Il riconoscimento di genocidio per una strage controversa. Il 26 febbraio scorso, piazza del Popolo a Roma, è stata scenario di un sit-in da parte di rappresentanti della comunità azera in Italia che ha portato in piazza le foto di quella notte fra le colline innevate del Nagorno-Karabakh, e garofani rossi in ricordo delle vittime. È stato proiettato anche un video con le testimonianze dei sopravvissuti. I dati forniti dall’associazione azera sono di un bilancio di 613 vittime, di cui 63 bambini, 487 feriti, 1.275 ostaggi e 150 dispersi. La portavoce Aynur Muradova ha spiegato che l’Associazione Italia-Azerbaijan chiede al nostro Paese il riconoscimento del genocidio di Khojaly, giustizia per le vittime e una raccolta di firme indirizzate ai parlamentari e al primo ministro per far riconoscere e dare informazione più approfondita su questa “strage”.

Evidentemente il vergognoso viaggio della delegazione di parlamentari italiani a Baku poco dopo la fine della sanguinosa guerra in Artsakh, vinta dall’Azerbaijan con l’uso, di armi vietate e terroristi reclutati da Ankara, ha generato delle forti aspettative. E’ giusto e doveroso, prima di tutto, fare luce sui fatti. E’ necessario ricordare che prima della strage del 26 febbraio 1992, il 27 febbraio del 1988 nella città azera di Sumqayıt ci fu un massacro di armeni, e nel 1991 la città di Khojaly, tra Ağdam e Step’anakert, era stata interessata da diversi scontri: erano state infatti posizionate numerose batterie lanciamissili azere per assediare la capitale del Nagorno Karabakh, Stepanakert. Secondo gli azeri sarebbero stati deliberatamente massacrati numerosi cittadini di Khojaly. L’azione armena, sarebbe arrivata nel quarto anniversario della strage che gli azeri avrebbero compiuto appunto il 27 febbraio 1988 nella città di Sumqayıt, fatto che avrebbe provocato una rappresaglia da parte degli stessi armeni. Sempre secondo gli azeri la popolazione civile in fuga sarebbe stata aggredita da milizie armene e alcuni corpi sarebbero stati mutilati. La diplomazia dell’Azerbaijan è sempre stata molto attiva a diffondere solo parziali e distorte notizie, chiedendo per questo massacro una condanna internazionale. l’Armenia ha sempre rigettato ogni accusa. In particolare gli armeni sostengono che si trattò di un’operazione militare, che la popolazione era stata invitata da una settimana a lasciare la cittadina e che la maggior parte dei civili cadde sotto fuoco azero perché nel corridoio umanitario aperto per farli defluire in Azerbaijan si erano radunati molti gruppi di disertori. Tale circostanza sarebbe stata confermata dal presidente azero Mütəllibov in una intervista e dal giornalista azero Eynulla Fatullayev. Esiste anche un’altra versione, non confermata, di militari armeni che parteciparono all’operazione. Secondo quest’ultimi la presidenza della Repubblica azera ignorò volutamente la richiesta degli armeni di far passare i civili lungo il corridoio umanitario che gli armeni avevano creato, nascondendo volutamente alla popolazione la possibilità di salvezza se avesse utilizzato il passaggio entro un determinato orario.

La ragione di questa mancanza di informazione era quella di creare un movimento di opinione pubblica internazionale contro gli armeni e a consolidare il consenso interno verso l’allora Governo. Ecco, i fatti occorre raccontarli tutti, con i precedenti. Un popolo attaccato, come lo è stato il popolo armeno per anni, poi potrebbe accadere che reagisca, anche per un istinto di difesa e di sopravvivenza. Oggi solo una ventina di Paesi nel mondo hanno riconosciuto quell’evento come genocidio. In Europa lo ha fatto solo la Bosnia ed Erzegovina. Nella dichiarazione che accompagna la raccolta firme, l’Associazione Italia-Azerbaijan chiede, oltre al riconoscimento del genocidio, anche una punizione adeguata agli armeni in modo che tali incidenti non si verifichino mai più e un appello ai parlamentari affinché il 26 febbraio venga commemorato “come un giorno vergognoso e sanguinoso per l’umanità”. Richieste ambiziose, queste dell’Associazione azera, se pensiamo ai recenti crimini compiuti dall’Azerbaijan nei confronti degli armeni, se si pensa alle torture messe in atto nei confronti dei prigionieri armeni provati da video che gli azeri diffondevano orgogliosamente nel web. Richieste ambiziose se si pensa che il Parlamento Italiano non ha ancora riconosciuto il genocidio armeno del 1915, riconosciuto praticamente da tutto il mondo, tranne che da chi lo ha commesso, la Turchia, e dall’America e Israele.

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Armenia: sconfitta in guerra, instabile in pace (Osservatorio Balcani e Caucaso 02.03.21)

Lo scorso giovedì 25 febbraio due manifestazioni hanno avuto luogo contemporaneamente nella capitale armena di Yerevan. Mentre il primo ministro Nikol Pashinyan, davanti alla folla dei suoi sostenitori riunitisi in Piazza della Repubblica, accusava le forze armate di colpo di stato, un’antitetica manifestazione di più di 10.000 persone avveniva a pochi passi da lì, in Piazza della Libertà.

Da mesi l’opposizione chiede le dimissioni del leader della Rivoluzione di Velluto, ritenuto principale responsabile della tragica sconfitta nella guerra contro l’Azerbaijan e della restituzione a quest’ultimo dei sette distretti circostanti il Nagorno Karabakh.

A scatenare l’ultima protesta sono stati i rapidi eventi degli ultimi giorni, a partire dall’intervista  rilasciata da Pashinyan su un canale locale, in cui ha rovesciato le colpe della rovinosa sconfitta al mal funzionamento del sistema russo di missili Iskander, utilizzati durante i combattimenti, che secondo le parole del premier sarebbero malfunzionanti.

Oltre a far infuriare i vertici militari russi, che dell’esportazione di sistemi di armi all’avanguardia fanno una questione di prestigio su scala internazionale, le dichiarazioni del primo ministro hanno attirato le critiche del vice capo delle forze armene, che ha sostenuto che i missili Iskander non sarebbero mai stati utilizzati.

La risposta del premier non si è fatta attendere: ha immediatamente licenziato quest’ultimo. È in quest’occasione che il capo di stato maggiore, Onik Gasparyan, ha invocato le dimissioni di Pashinyan. Il primo ministro ha poi chiesto di rimuovere anche Gasparyan dall’incarico – presupposto del Presidente della Repubblica. Quest’ultimo, Armen Sargsyan, si è rifiutato  di dar seguito alla richiesta.

Alla presa di posizione di Gasparyan ha fatto eco una lunga lista di sostenitori tra le forze armate spazientiti dallo scaricabarile di responsabilità da parte del premier nei loro confronti.

Intanto alcuni manifestanti  , oltre ad aver bloccato la strada centrale di Yerevan vicino al Parlamento e eretto delle barricate improvvisate, hanno montato delle tende  davanti al palazzo del parlamento, decisi a rimanere lì finché il premier non annuncerà le dimissioni.

Le cause della crisi

Sono diversi i fattori  che hanno contribuito ad esacerbare il sentimento di amarezza e umiliazione della società armena in seguito alla rapida capitolazione nella guerra contro il vicino azero. Da quel tragico giorno, molte questioni sono rimaste irrisolte, a partire dall’emergere di sempre nuove testimonianze di crimini commessi durante la guerra che hanno turbato profondamente la popolazione.

Secondo un recente rapporto  di Human Rights Watch, ci sarebbero una serie di prove di attacchi commessi dall’esercito azero verso strutture ospedaliere durante la guerra, colpite da armi esplosive con effetti su larga scala, come i missili Grad e le bombe a grappolo. Alle incertezze in merito alla questione  dei prigionieri di guerra armeni detenuti in Azerbaijan, su cui Baku continua a tacere, si aggiunge la quotidiana paura degli abitanti lungo le zone di confine, dove si sono verificati scontri a fuoco  di lieve entità tra gli eserciti contrapposti anche dopo la firma del cessate il fuoco.

La riconfigurazione dei confini e dei collegamenti lungo la regione procede intanto in incontri  a porte chiuse tra i leader politici, processo dal quale la popolazione rimane esclusa e di cui si danno poche notizie, alimentando un clima di già forte incertezza. Infine il ritorno dell’influenza turca nella regione non fa che aumentare il senso di minaccia e accerchiamento del piccolo stato caucasico.

Paure e preoccupazioni

La tensione  è alta a tal punto che la polizia è dovuta intervenire nella giornata di giovedì per impedire scontri tra le due masse contrapposte di dimostranti, quando alcuni manifestanti anti-Pashinyan sono venuti in contatto in Piazza della Repubblica, con i sostenitori del premier.

Vi è chi teme che, come conseguenza della crisi politica e sociali, si possa arrivare anche alla guerra civile. Tra le fila governative la paura è quella di un colpo di stato. Per il momento è la stessa divisione interna ai gruppi dell’opposizione a minare le spinte anti-Pashinyan.

L’opposizione infatti non ha una strategia univoca per quanto riguarda un’alternativa politica. Secondo un recente sondaggio di Gallup  , sebbene quasi il 44 percento degli armeni intervistati voglia le dimissioni del premier, Pashinyan rimane comunque la figura politica in testa rispetto alle alternative. Pashinyan ha totalizzato 2.8 punti su 5 possibili. Gli ex presidenti Levon Ter-Petrosyan, Robert Kocharian e Serzh Sargsyan non superano i 2 punti, mentre Vazgen Manukyan, leader dell’opposizione e principale candidato a successore al governo, si attesta intorno all’1.6. Ciò è indice di come gran parte della popolazione, più che un governo incapace di una politica estera assertiva nei confronti dell’Azerbaijan, tema un ritorno all’immobilismo prerivoluzionario e alla corruzione, che hanno caratterizzato la vecchia classe dirigente, elitaria e lontana dalle esigenze della popolazione.

Libertà

Al di là delle ipotesi di guerra civile o colpo di stato, c’è la minaccia di un ulteriore inasprimento delle misure coercitive contro la società civile in nome del mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale.

Durante il comizio  di giovedì in Piazza della Repubblica, Pashinyan ha dichiarato che, nel caso le proteste dovessero continuare, le stesse figure governative salite al governo dopo Rivoluzione di Velluto, abbandoneranno la retorica “soft” e arresteranno chiunque infranga la legge.

In seguito alla firma del cessate il fuoco, il governo armeno aveva introdotto la legge marziale per contenere i disordini delle prime proteste antigovernative. Le misure avevano espressamente introdotto il divieto di criticare le azioni delle figure ufficiali governative, per ragioni legate alla “sicurezza nazionale”. Immediatamente dopo l’introduzione delle nuove restrizioni, 13 agenzie di stampa e 62 account privati sono stati multati.

Nel 2021, due proposte  di legge sulla libertà di stampa e di parola sono state già presentate in parlamento, di cui una prevede sanzioni per chiunque faccia circolare informazioni attinte da portali la cui proprietà non sia nota. C’è anche il timore che possano ripetersi arresti arbitrari, come quello dell’attivista pacifista Georgi Vanyan  dello scorso novembre. Quest’ultimo durante i giorni del conflitto aveva sollecitato la ricerca di un dialogo con l’Azerbaijan con un post su Facebook.

Nei prossimi giorni verrà scritta una nuova pagina della politica interna armena e il rischio concreto di una retrocessione degli standard democratici.

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