L’Armenia non ha usato lanciamissili russi Iskander nel conflitto del Nagorno-Karabakh (Sputniknews 25.01.21)

Il ministero della Difesa è intervenuto per rispondere alla polemica innescata dal premier armeno Nikol Pashinyan, che aveva sostenuto che nel conflitto del Nagorno-Karabakh non era esplosa la gran parte dei razzi russi Iskander.

L’Armenia non ha utilizzato i suoi Iskander durante il conflitto nel Nagorno-Karabakh, tutti i missili erano stoccati nei depositi militari delle forze armate del Paese, ha riferito oggi ai giornalisti il ​​ministero della Difesa russo, commentando le dichiarazioni del primo ministro armeno Nikol Pashinyan.

Il ministero della Difesa ha detto che “con sconcerto e sorpresa” ha appreso la dichiarazione del premier Pashinyan, secondo cui i missili Iskander utilizzati nel Nagorno-Karabakh dalle forze filo-armene “non sono esplosi o sono esplosi solo al 10%”.

“Secondo le informazioni oggettive e attendibili di cui disponiamo, confermate dal sistema di controllo oggettivo, nessuno dei sistemi missilistici di questo tipo è stato utilizzato durante il conflitto nel Nagorno-Karabakh. Tutte le munizioni missilistiche si trovano nei depositi delle forze armate della Repubblica di Armenia”, il commento del dicastero militare russo.

Gli “Iskander” sono stati usati con successo molte volte in condizioni di combattimento in Siria contro i terroristi, ha evidenziato il ministero della Difesa russo.

“Il sistema missilistico tattico-operativo 9K720-E (Iskander-E) è stato testato e ripetutamente utilizzato con successo in condizioni di combattimento in Siria contro i gruppi terroristici internazionali. Questo ci dà piena ragione per affermare che il sistema missilistico 9K720-E ha prodotto in Russia Iskander-E è il migliore del suo genere al mondo”.

Le dichiarazioni del primo ministro armeno Nikol Pashinyan sugli Iskander potrebbero essere frutto di informazioni fuorvianti, ha proseguito il ministero della Difesa russo.

“A quanto pare il primo ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan è stato indotto in errore ed ha utilizzato informazioni inesatte”.

Proteste a Yerevan

Un’altra crisi politica è scoppiata a Yerevan dopo le parole imprudenti di Pashinyan sull’Iskander russo, secondo cui i missili Iskander utilizzati nel Nagorno-Karabakh dalle forze filo-armene “non sono esplosi o sono esplosi solo al 10%”. Secondo quanto riportato dai media, il vicecapo di Stato Maggiore dell’Armenia, Tiran Khachatrian, ha ridicolizzato il primo ministro per i suoi commenti, cosa per cui è stato congedato, così come ha cercato di fare il capo del governo con il capo dello Stato Maggiore, Onik Gasparyan.

Le forze armate armene hanno rilasciato una dichiarazione chiedendo le dimissioni dello stesso Pashinyan. Il primo ministro ha considerato questo un tentativo di colpo di stato e ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza. Intanto l’opposizione ha eretto barricate e allestito tende vicino al Parlamento: non è disposta al dialogo e chiede le dimissioni del premier.

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Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni di Claude Mutafian (Sololibri 25.02.21)

Il genocidio armeno è ricordato col nome Metz Yeghérn, che significa “grande crimine”; negli ultimi anni diverse associazioni si sono impegnate alacremente per far conoscere il più possibile agli italiani questa tragedia del Novecento. Durante il primo conflitto mondiale il governo turco, già da lungo tempo ostile agli armeni, accusò questa minoranza cristiana di parteggiare per i russi e decise di annientarla. In seguito all’avanzata dell’esercito zarista, il governo di Istanbul affidò a un’organizzazione speciale l’incarico di deportare le popolazioni armene e di pianificarne l’eliminazione fisica: tra la primavera del 1915 e l’autunno del 1916, nei territori dell’Impero Ottomano, furono sterminati mezzo milione di armeni.

I prodromi del grande crimine vanno individuati nel mutamento degli equilibri geopolitici internazionali durante il XIX secolo, fino a quel momento gli armeni erano stati considerati millet-i sadika, ossia la “comunità fedele”. All’inizio dell’Ottocento la Turchia si presentò al nuovo secolo come “il grande malato d’Europa”; il paese si dimostrò fortemente arretrato sotto tutti i punti di vista, iniziò a perdere molti territori e le tensioni interne crebbero. In questo contesto si collocano le prime campagne denigratorie contro gli armeni, accusati di tradimento. Le autorità istigarono i musulmani alla violenza e nella regione di Sassun, a ovest del lago di Van, in meno di due anni, tra il 1894 e il 1896, furono trucidati 300.000 armeni. Una seconda ondata di persecuzioni si ebbe nell’aprile del 1909, quando il partito “Unione e Progresso” organizzò l’uccisione di 30.000 persone.

Esistono numerosi libri dedicati allo sterminio degli armeni, ma per avvicinarsi a un argomento così complesso è forse consigliabile partire da un testo basilare, che possa rappresentare una valida introduzione alla conoscenza di questi tristi fatti storici. Un opuscolo adatto a tale scopo è sicuramente Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni di Claude Mutafian, matematico e storico armeno, figlio di un sopravvissuto al massacro. La nuova edizione italiana di questo breve saggio è stata pubblicata da Guerini e associati nel 2017, a cura della scrittrice Antonia Arslan. Siobhan Nash-Marshall, nella sua introduzione, definisce l’opera un utilissimo piccolo libro e informa i lettori che nel 2005 è stato varato l’articolo 301 del codice penale turco, che ha dichiarato reato qualsiasi insulto alla “turchicità”, e, dal 2008, alla “nazione turca” in generale, “dove per tale offesa si deve intendere non solo il riconoscimento del genocidio ma anche qualsiasi menzione delle atrocità subite dagli armeni”.

Dopo aver riassunto le prime persecuzioni, Mutafian spiega la nascita della terribile organizzazione speciale incaricata di spazzare via gli armeni dai territori dell’impero, essa era diretta dai due medici Nazim e Behaeddin Chakir (1874-1922). Nel gennaio del 1915 l’esercito ottomano disarmò tutti i suoi soldati armeni e in quello stesso anno, all’alba di sabato 24 aprile, vennero arrestati i maggiori esponenti dell’élite armena di Costantinopoli. Gli aguzzini agirono rapidamente e in maniera spietata: alla fine di luglio del 1915 non restava praticamente più nessun armeno nell’Anatolia orientale. Il 30 ottobre 1918, la resa turca fece nascere molte speranze fra i sopravvissuti alle deportazioni e alle persecuzioni:

“La Conferenza di Pace sfociava, il 10 agosto 1920, nel trattato di Sèvres, che sanciva l’esistenza, nella parte orientale dell’ex territorio ottomano, di uno stato armeno indipendente e di un Kurdistan autonomo, mentre il mondo arabo veniva posto sotto mandato franco-britannico”.

Paradossalmente fu questo apparente mutamento a creare la situazione favorevole al completamento del genocidio, Mustafa Kemal (1881-1938) prese le redini del nazionalismo turco:

“Di fronte al pericolo bolscevico, egli si assicurò l’appoggio degli Alleati. Di fronte all’imperialismo franco-britannico, si assicurò invece l’appoggio bolscevico”.

Il trionfo dei progetti di Atatürk includeva anche la liquidazione della residua presenza armena con nuovi eccidi e carneficine che però non suscitarono particolari reazioni da parte dell’opinione pubblica internazionale.

“In seguito ai successi militari turchi contro i greci e all’incendio di Smirne, che può essere considerato l’ultima tappa di questo processo di liquidazione (settembre 1922), la Conferenza di Losanna annullò nel 1923 gli accordi firmati a Sèvres […] Così fu avallata la pulizia etnica magistralmente operata dai turchi in Asia minore”.

Oggi vi è ancora chi sostiene che i prigionieri che sotto minaccia di morte abbracciavano la fede islamica venissero lasciati in vita, ma ciò è falso:

“È invece vero che un certo numero di bambini in tenera età vennero presi da famiglie turche o curde, islamizzati e utilizzati come mano d’opera. Analogamente, molte donne, soprattutto le ragazze più belle, vennero rapite e finirono negli harem”.

Attualmente restano solo poche decine di migliaia di greci e armeni tra Costantinopoli e la costa occidentale anatolica, nell’Iran integralista, invece, gli armeni non sono praticamente mai stati molestati in quanto tali, ciononostante va osservato che in quella terra il regime islamico rende le loro condizioni di vita difficili.
Tuttavia non si deve dimenticare che le mire espansionistiche del nazionalismo turco esistono ancora, sono cresciute nuovamente dopo la fine dell’URSS.
Certo, la Turchia non attaccherà oggi militarmente la Repubblica d’Armenia, piccola frazione del territorio armeno storico, indipendente dal 1991” scrive l’autore del libretto, “ma sostiene l’Azerbaigian nella guerra del Karabakh”. Una previsione, questa, che si è tristemente concretizzata con la recente aggressione compiuta dalle forze turco-azere ai danni della repubblica armena della Artsakh. Va sottolineato che in quel conflitto, da poco concluso, l’Unione Europea – vergognosamente – non ha mosso un dito in difesa delle popolazioni cristiane e dei monumenti storici della regione, che ora rischiano di sparire per sempre.

Metz Yeghérn è uno scritto importante, che andrebbe divulgato il più possibile, e distribuito nelle scuole durante la giornata del 24 aprile, la data scelta a livello internazionale per commemorare il grande crimine.

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“L’ORRORE DI KHOJALI. AZERI COLPITI DA AZERI” (Politicamentecorretto 24.02.21)

La guerra, si sa, porta distruzione e morte. Lo abbiamo sperimentato nei mesi scorsi, durante 44 giorni di conflitto nel Nagorno Karabakh (Artsakh). 

Suonerà forse strano per qualcuno ma oggi noi armeni vogliamo ricordare le vittime azere di Khojaly.

Quei civili usati dal loro stesso governo prima come scudi umani e poi ammazzati per lotte politiche interne dell’Azerbaigian.

Quelle anime innocenti alle quali  era stata data la possibilità di salvare la vita  durante le operazioni militari, ma che i leader politici e militari azeri hanno preferito sacrificare per biechi interessi strategici. 

La narrazione sulle vicende  di Khojaly che il governo dell’Azerbaigian ha cominciato a proporre dagli anni 2000 in poi, investendo anche ingenti somme, corrompendo giornalisti e politici, fa acqua da tutte le parti e viene smentita, così come avvenuto anche in quest’ultima guerra,  dalle stesse fonti azere.

La verità è stata prima nascosta e poi ribaltata a uso e consumo della propaganda di un Paese che da trenta anni è retto dalla dittatura della dinastia Aliyev. Tutto nell’intento di alimentare l’ odio antiarmeno.

Menzogne, bugie sulla pelle di poveri innocenti. Non sapremo mai quanti sono quelli che persero la vita tra il 25 e il 26 febbraio 1992, visto che non è mai stata presentata una documentazione probatoria e il numero dei caduti è andato crescendo di anno in anno. Ma sappiamo solo che le vittime di Khojaly (e qualche soldato disertore infilatosi nel corridoio umanitario garantito dagli armeni) sono stati ammazzati in territorio azero, oltre le prime linee azere di combattimento dove mai e poi mai i soldati armeni si sarebbero spinti per colpire dei civili ai quali avevano tra l’altro concesso da giorni una via di fuga per non coinvolgerli  nell’operazione militare mirata solo ad annientare le batterie lanciamissili azere che colpivano Stepanakert, la capitale dell’Artsakh.

Da anni la propaganda azera parla di ” genocidio”, da anni mente su cos’è effettivamente accaduto laggiù.

Ecco una breve cronistoria:

– Il 30 gennaio 1992 L’AZERBAIGIAN ATTACCA la repubblica del Nagorno Karabakh (Artsakh). E’ la loro risposta, anche quella volta di natura bellica, alla richiesta di esercitare il diritto all’autodeterminazione basata sulla Carta delle Nazioni Unite e legislazione sovietica dell’epoca.

– dalla cittadina di Khojaly (prevalentemente abitata da azeri) piovono quotidianamente (anche prima della guerra vera e propria) razzi Grad sulla popolazione di Stepanakert.

– il Comando armeno decide un’operazione militare per eliminare le batterie lanciamissili e la annuncia una settimana prima invitando le autorità ad allontanare la popolazione civile; da Baku la risposta è negativa. Solo all’ultimo accettano che venga istituito un corridoio umanitario che porti i civili fino in territorio azero.

– i civili scappano utilizzando quel corridoio ma quando sono arrivati in Azerbaigian (fuori dal territorio del Nagorno Karabakh) vengono falcidiati dagli stessi militari azeri.

– tre giorni dopo viene organizzata una messa in scena dei corpi (non si conoscerà mai l’effettivo numero che andrà aumentando di anno in anno…) a beneficio di giornalisti; quasi tutti sono turchi e azeri ma ci sono anche stranieri fra i quali una reporter cecoslovacca che per errore viene invitata due volte sul sito e si accorge che alcuni cadaveri tra una visita e l’altra sono stati “manipolati” per far apparire mutilazioni e torture.

– Il presidente dell’Azerbaigian, Mutalibov, accusato di una gestione fallimentare della guerra appena iniziata, accusa apertamente il Fronte Popolare dell’Azerbaigian per il massacro di Khojaly affermando che lo stesso è stato organizzato per provocare un colpo di stato. Pochi giorni dopo, proprio in conseguenza di quanto accaduto, Mutalibov sarà costretto a dimettersi.

– con gli anni la propaganda azera ha ribaltato i fatti e ha addebitato il massacro agli armeni;

CONTRO LE BUGIE AZERE, SOLIDARIETA’ ALLE VITTIME.  DIFFIDATE DELLE MENZOGNE DI STATO AZERE!

Comabbio racconta l’Armenia: viaggio online con incontri nel Paese (Travelquotidiano 24.02.21)

Si comincia venerdì 5 marzo con “Armenia l’altopiano delle sorprese”, un’introduzione all’Armenia, venerdì 19 marzo sarà la volta di  “Ballata Caucasica”, mentre il 26 marzo lo chef Sedrak Mamulyan e Shushan Martirosyan ci parleranno di cucina tradizionale armena in collegamento dall’Armenia. Sabato 27 marzo Siobhan Nash-Marshall, professore di filosofia, affronterà i temi del genocidio armeno e del negazionismo turco. Venerdì 9 aprile l’architetto Paolo Arà Zarian racconterà il suo intervento per il restauro dei dipinti murali del monastero di Dadivank in Karabakh. Sarà dedicato a oltre due millenni di storia armena l’intervento del 16 aprile di Aldo Ferrari, professore di storia, lingua e letteratura armena all’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore di numerosi saggi sul tema. Parlerà dell’attuale situazione politica e sociale in Armenia, anche alla luce delle conseguenze del recente conflitto per il controllo del Karabakh, il giornalista Simone Zoppellaro venerdì 23 aprile. Sabato 24 aprile – anniversario del genocidio armeno – il pianista e musicologo Alberto Nones ci condurrà in un piccolo viaggio musicale in Armenia con esecuzione di alcuni brani armeni interpretati dagli allievi del Conservatorio di Gallarate. Sarà invece un viaggio virtuale attraverso la Repubblica d’Armenia l’incontro del 30 aprile con Nadia Pasqual, autrice della prima guida di viaggio italiana interamente dedicata al Paese, e Shushan Martirosyan, che faranno conoscere i luoghi più interessanti da visitare sotto il profilo storico, culturale e naturalistico. Venerdì 7 maggio appuntamento con due insigni rappresentanti della diaspora armena in Italia, Pietro Kuciukian, Console onorario della Repubblica d’Armenia in Italia, e il prof. Baykar Sivasliyan, armenista e presidente dell’Unione Armeni d’Italia, che parleranno degli armeni, popolo di cerniera tra l’Occidente e l’Oriente.

La rassegna proseguirà poi con incontri dal vivo, alcuni dei quali già programmati, tra i quali segnaliamo quello di sabato 15 maggio con Mons. Levon Arciv. Zekiyan, che celebrerà la Messa Vespertina e terrà una conferenza. Sempre il 15 maggio si svolgerà un laboratorio sull’alfabeto armeno e verranno inaugurate le mostre dei fotografi Emanuele Cosmo e Marco Ansaloni. Previsti per domenica 16 maggio i concerti all’alba e al tramonto del trio Piovan-Fanton e un laboratorio sui khatchkar. Saranno, invece, programmati a breve gli interventi di Alberto Elli, studioso di lingue e religioni, autore di un volume dedicato ad arte, storia e itinerari dell’Armenia, lo scultore Mikayel Ohanjanyan, e l’architetto Gayanè Casnati. Già confermato invece per sabato 22 maggio lo spettacolo “Canta, gru, canta” reading-mise en espace della Compagnia CamparIPadoaN con la regia di Giulio Campari, interpretato dagli attori Natascha Padoan e Marco Balbi.

L’iniziativa “Comabbio racconta l’Armenia” nasce dal desiderio di Giusy Tunici, abitante del borgo sull’omonimo lago, di condividere le esperienze di due viaggi in Armenia. La rassegna si inserisce nell’ambito del progetto “Il paese racconta un Paese” del Comune di Comabbioe intende promuovere la conoscenza di un luogo attraverso la sua storia, la cultura, le tradizioni, le caratteristiche del territorio e della popolazione. Un progetto che nasce dalla consapevolezza che il livello di maturità di una società si misura anche dalla sua capacità di rapportarsi a ciò che è diverso per origini, cultura e religione. Ente capofila è il Comune di Comabbio, Assessorato alla Cultura, con la collaborazione della Biblioteca di Comabbio, la Parrocchia di Comabbio, il Borgo di Lucio Fontana, gli Amici della Santa Collina e la Compagnia CamparIPadoaN. La rassegna ha ottenuto il patrocinio dell’Unione Armeni d’Italia e Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena.

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L’Armenia vuole più militari russi nel suo territorio (Insideover.com 23.02.21)

La rivoluzione di velluto di Nikol Pashinyan è terminata ufficialmente la sera dello scorso 9 novembre, data in cui è stato firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha suggellato la vittoria dell’Azerbaigian nella seconda guerra del Nagorno Karabakh.

Il primo ministro armeno è stato coartato ad accettare il nuovo status quo e a premunirsi per evitare una fine prematura del mandato, in quanto circondato da una piazza in subbuglioosteggiato da un’opposizione anelante alla sua sostituzione e testimone della volubilità di alleati come la Francia, vedendo nel rinsaldamento dei rapporti con il Cremlino l’unica soluzione in grado di tutelare simultaneamente la sua persona e la sicurezza nazionale dell’Armenia.

La base di Gyumri

La città di Gyumri, localizzata in prossimità della frontiera con la Turchia, è sede di una base militare russa che opera ininterrottamente sin dal 1941. La struttura, che ospita circa tremila soldati, fu costruita per volere di Stalin con l’obiettivo di contrastare un’eventuale invasione della Russia dal Caucaso meridionale e ha continuato le attività anche nel dopo-guerra fredda.

Pashinyan, pur avendo lottato contro l’ingresso di Erevan nell’Unione Economica Eurasiatica e lavorato per rafforzare i rapporti con Unione EuropeaStati Uniti e Alleanza Atlantica, non ha mai messo in discussione l’esistenza e l’utilità della base, che, nonostante i dissapori con il Cremlino ed alcuni incidenti che hanno coinvolto i soldati ivi stanziati, rafforza in maniera significativa l’ossatura della sicurezza nazionale armena.

L’obiettivo di Pashinyan: potenziarla

La seconda guerra del Nagorno Karabakh ha riaperto il dibattito sull’attualità della struttura, il cui nome ufficiale è 102sima base militare russa (102-я российская военная база), e sul suo potenziamento a scopo di deterrenza. Secondo quanto comunicato nella giornata del 22 febbraio da Vagharshak Harutiunyan, titolare del Ministero della Difesa armeno, “la questione dell’ampliamento e del rafforzamento della base militare russa sul territorio della repubblica armena è all’ordine del giorno”.

Harutiunyan, che ha parlato dell’argomento nel corso di un’intervista per l’agenzia di stampa russa Sputnik, ha dicharato che “le autorità di Erevan sono sempre state interessate a questo [ndr. l’ampliamento] per il semplice motivo che la base è inclusa a pieno titolo nel Gruppo delle forze unite delle forze armate armene e russe”. Inoltre, ha spiegato ancora il ministro, “espandere le capacità della base comporterebbe automaticamente l’aumento del potenziale del gruppo congiunto operante su base bilaterale nel Caucaso”.

In sintesi, l’esecutivo armeno è dell’idea che il potenziamento della struttura potrebbe beneficiare sia Erevan che Mosca, garantendo a quest’ultima una maggiore proiezione di forze nella regione. Il Cremlino, che per ora non si è espresso in merito, è stato informato della volontà del governo Pashinyan e, secondo Harutiunyan, avrebbe avuto una reazione positiva.

Non solo Gyumri

Nel corso dell’intervista, Harutiunyan ha parlato dei rapporti con la Russia e delle trattative in corso per espandere la collaborazione bilaterale nella sfera militare, dalla costituzione di associazioni temporanee per la produzione di armi alla “creazione e all’ampliamento della rete di centri certificati regionali per la manutenzione e l’ammodernamento di armamenti e attrezzature militari”.

I piani per la base di Gyumri e le offerte allettanti circa l’allargamento della cooperazione bilaterale, di cui si auspica un ritorno agli storici livelli di alta qualità, presentano un comune denominatore: il riposizionamento di Erevan in direzione di Mosca; un’inversione di tendenza che si è resa necessaria e d’obbligo a causa della sconfitta nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, della conseguente consacrazione di Baku quale prima potenza del Caucaso meridionale e dell’acquisita consapevolezza sulla volubilità dell’Occidente.

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Il Rotary Canosa per l’Armenia nel mese della pace (Canosanews24 22.02.21)

Il Rotary Club di Canosa ha inteso onorare il mese di febbraio, dedicato alla Pace e alla risoluzione dei conflitti, con una videoconferenza sulla “Questione Armena” che avrà luogo il prossimo mercoledì 24, a partire dalle ore 18:30.

Il popolo armeno, infatti, è stato oggetto di un genocidio all’inizio del secolo scorso e, a tutt’oggi, la Repubblica caucasica, già appartenente all’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione all’inizio degli anni ’90, è in conflitto con il vicino Azerbaigian anche in virtù dell’annosa vicenda relativa al territorio del Nagorno-Karabakh.

Di questo ed altri temi parleranno più approfonditamente Sua Eccellenza Tsovinar HambardzumyanAmbasciatrice dell’Armenia in Italia, il dott. Carlo Coppola, presidente del Centro Studi “Hrand Nazariantz” di Bari, il dott. Simone Zoppellaro, giornalista freelance che ha trascorso diversi anni nella suddetta area, e il dott. Baykar Sivazliyan, Presidente dell’Unione Armeni in Italia.

Ad affiancare nell’organizzazione di questo evento il Club presieduto da Marco Tullio Milanese, che quest’anno festeggia il 45° anniversario dalla sua fondazione, è l’Inner Wheel di Canosa rappresentato da Sabrina Tesoro, a dimostrazione della fondamentale e costante sinergia tra i “capofamiglia” rotariani e gli altri partner comprendenti, oltre alla forza femminile delle “innerine”, i giovani del Rotaract e dell’Interact.

Proprio per questo, le importanti presenze saranno ulteriormente arricchite, per l’appunto, dagli interventi della Governatrice Inner Wheel del Distretto 210, Mariangela Galante Pace, e del Governatore del Distretto Rotary 2120, Giuseppe Seracca Guerrieri, a conclusione dell’incontro.

Si chiude così, ossia con un’iniziativa che si rivolge inevitabilmente ad una platea multiculturale, un mese in cui il Club si è reso protagonista nella Comunità con la “Settimana del donatore” (tramite la raccolta straordinaria di sangue e correlata webinar informativa, tra il 15 e il 22) e con il Rotary Day (il 23, giorno in cui ricorre il 116° “compleanno” dell’associazione a livello internazionale onorato con un palazzo Iliceto illuminato di blu).

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Artsakh – Ancora riconoscimenti della Repubblica Indipendente e condanne all’aggressione azera (Assadakah 23.02.21)

Letizia Leonardi – Il 20 febbraio di trentatré anni fa il Soviet del Nagorno Karabakh aveva sancito l’unificazione dell’Artsakh con la Repubblica d’Armenia; oggi il popolo della piccola enclave deve fare i conti con la forzata convivenza con il nemico azero che ha conquistato parte dei territori storici. In occasione di questa ricorrenza il ministero degli Affari esteri della Repubblica dell’Artsakh ha dichiarato: “La lotta per la liberazione nazionale dell’Artsakh è una delle pagine più importanti della storia del popolo armeno. Il Movimento Karabakh è stato una lotta per la giustizia storica, per la conservazione dell’identità e della dignità nazionale, per i diritti civili e i valori universali, per vivere liberamente nella patria storica. L’Azerbaijan ha cercato di intimidire il nostro popolo con la violenza e costringerlo a rinunciare all’esercizio dei suoi diritti. Le autorità azere hanno organizzato e condotto genocidi, massacri e deportazioni di massa contro la popolazione armena a Sumgait, Baku e in altre città dell’Azerbaijan popolate da armeni, nonché negli insediamenti del nord dell’Artsakh. Migliaia di persone sono state uccise e ferite e oltre mezzo milione di armeni sono diventati rifugiati.

La popolazione pacifica dell’Artsakh è diventata anche obiettivo di aggressione militare su larga scala da parte dell’Azerbaijan”. Pur facendo i conti con mille difficoltà, gli armeni dell’Artsakh, sono più che mai uniti e sostenuti dagli aiuti della diaspora armena di tutto il mondo. Ma non solo: sempre più Parlamenti ed enti locali stanno approvando la mozione sul riconoscimento della Repubblica d’Artsakh. Il riconoscimento da parte delle Istituzioni internazionali è fondamentale per evitare che l’Azerbaijan, nel prossimo futuro, possa nuovamente aggredire la pacifica popolazione armena dell’Artsakh con l’intento di annettersi l’intero territorio dell’enclave. È di questi giorni l’approvazione all’unanimità della delibera di riconoscimento dell’indipendenza dell’Artsakh e di solidarietà alla popolazione da parte del Consiglio Comunale della città di Verona alla quale è seguita quella del Comune di Trento. Parlamenti ed enti locali stanno anche condannando la terribile aggressione azera del 27 settembre dello scorso anno che ha scatenato 44 giorni di guerra e moltissime vittime. Intanto, in Artsakh, c’è voglia di ricostruire e ricominciare. Il presidente Arayik Harutyunyan ha nominato Vahe Keushguerian consigliere per i Programmi di Sviluppo. Una persona molto legata all’Italia visto che ha fondato aziende vinicole in Toscana e in Puglia. La Commissione europea ha annunciato la fornitura di assistenza umanitaria per 3 milioni di euro da destinare ai civili colpiti dalle recenti ostilità e per gli sfollati. A Mosca il ministro degli Esteri armeno Ara Aivazian si è incontrato con il suo omologo russo Sergei Lavrov per parlare degli accordi sul Nagorno Karabakh riguardo lo scambio di prigionieri di guerra, l’assistenza umanitaria e lo sblocco dei collegamenti di trasporto nella regione.

Migliaia di persone sono scese nelle strade di Erevan, capitale dell’Armenia, per chiedere le dimissioni del primo ministro, Nikol Pashinyan, ritenuto colpevole di aver mal gestito la guerra dello scorso anno con l’Azerbaijan. Pashinyan resiste alle pressioni dal novembre 2020, quando ha firmato un accordo di pace mediato dalla Russia che ha fatto cessare il breve conflitto (durato 6 settimane) con il vicino Azerbaijan. L’accordo e’ stato mal digerito in Armenia in quanto il Paese ha ceduto parti del territorio all’interno e intorno alla regione del Nagorno-Karabakh. I manifestanti si sono riuniti nel centro di Erevan, in Piazza della Libertà, ripetendo alcuni slogan come “Armenia senza Nikol” o “Nikol traditore”. Alla protesta ha preso parte anche Ishkhan Saghatelyan, leader del partito di opposizione Dashnaktsutyun.

Il Nagorno-Karabakh era già stato conteso dai due Paesi: negli anni Novanta del secolo scorso dei separatisti di questa regione, sostenuti dall’Armenia, dichiararono l’indipendenza dall’Azerbaijan accendendo una guerra in cui decine di migliaia di persone persero la vita

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Perché si parla di Nagorno Karabakh (Insideover 20.02.21)

Il Nagorno-Karabakh è lo specchio perfetto del Caucaso: una regione remota e dal nome difficilmente pronunciabile, che risulterebbe impossibile da localizzare per la stragrande maggioranza del pubblico mondiale se non fosse per la sua storia conflittuale, e nella quale si incrociano e scontrano i destini di diverse civiltà e di una miriade di potenze.

Nel Nagorno Karabakh sono presenti tutti gli ingredienti capaci di innescare quel fenomeno di trasformazione chimica noto come esplosione – appetiti energetici, rivendicazioni territoriali e identità -, perciò tra gli effetti indotti nel pubblico testimone degli eventi vi sono la polarizzazione e la tendenza ad interpretare la questione secondo una visione dualistica in cui tutto è nero o bianco, o giusto o sbagliato, e dove non può esserci spazio per sfumature di grigio, compromessi e legittimazioni parziali.

Tra geopolitica e geografia sacra

Il Nagorno Karabakh è la vena scoperta del Caucaso meridionale, un punto unico in termini di sensibilità e carica propellente nel quale si incontrano e scontrano direttamente Armenia e Azerbaigian e che esercita un potere d’attrazione magnetica su tutte le potenze distese o proiettate nella regione, in primis RussiaTurchia Iran, e in secundis Stati UnitiIsraeleItalia e Francia.

Avere una voce in capitolo nel Nagorno Karabakh equivale ad avere una leva su Yerevan e Baku, due realtà che, a loro volta, rappresentano dei trampolini di lancio verso tre mondi civilizzazionali storicamente in contrasto e i cui destini si incrociano in questo lembo di terra conteso: la Terza Roma, la Sublime Porta e la Persia. Scritto in altri termini, il Nagorno Karabakh è la chiave di volta per l’egemonizzazione del Caucaso meridionale, è il passepartout che separa e unisce al tempo stesso Europa e Asia; è la fermata imprescindibile con la quale tutti – prima o poi, volenti o nolenti – devono fare i conti.

In sintesi, nessun sogno caucasico è realisticamente concretabile e sostenibile se privo del fattore Karabakh; una verità incontrovertibile e incontestabile che, ad esempio, sta spronando la Francia, storico alleato dell’Armenia, a corteggiare l’Azerbaigian per ottenere la partecipazione alla ricostruzione, e che ha incoraggiato Israele ad entrare nella regione per controbilanciare l’influenza iraniana nel Caucaso meridionale.

Geopolitica e realismo sono utili nella maniera in cui esplicano e chiariscono il coinvolgimento e l’interesse di piccole, medie e grandi potenze per il fato di questa terra martoriata, ma sono la storia e la geografia sacra che completano e dettagliano il quadro. Quel che per il resto del mondo è Nagorno Karabakh, per gli azeri è Dağlıq Qarabağ ed è considerato il gioiello della loro nazione, sede di meraviglie come la moschea di Juma, la reggia di Natavan e le fortezze del leggendario Khan (duca) del Karabakh Panah Ali Khan, mentre gli armeni lo chiamano Artsakh e lo venerano come uno dei nuclei originari dell’antico regno d’Armenia.

Le grandi potenze dedicano attenzione al Nagorno Karabakh per semplice realpolitik, ovverosia per risorse naturali, appalti e corridoi di trasporto, ma per Armenia e Azerbaigian è una questione in cui si mescolano tangibile e metafisico, politica e identità, passato e futuro, sacro e profano; elementi che spiegano perché il conflitto risulti così divisivo e sanguinolento e perché sembri così arduo raggiungere una pace duratura.

Oggi, una conseguenza di ieri

Il futuro è il risultato delle azioni intraprese nel presente, che, a sua volta, è lo specchio di quanto accaduto nel passato; è soltanto a partire da, e per mezzo di, questo ragionamento che è possibile comprendere l’attualità sempreverde della questione Nagorno Karabakh.

La seconda guerra del Nagorno Karabakh è il prodotto inevitabile del fragile status quo emerso nel primo dopoguerra, mentre la vittoria schiacciante è il riflesso dei cambiamenti occorsi nell’ultimo trentennio, in primis la trasformazione dell’Azerbaigian nella prima potenza militare del Caucaso meridionale e in secundis l’aumento straordinario dell’influenza della Turchia (e di Israele) nei giochi di bilanciamento che ivi hanno luogo.

La prima guerra del Nagorno Karabakh, a sua volta, ha due origini: una più immediata ed una più remota. La prima è il processo di disintegrazione dell’Unione Sovietica, che l’instabilità nella regione ha contribuito indirettamente ad accelerare, e la seconda ha a che fare, come soprascritto, con la storia e con la geografia sacra.

La prima radice reca due date precise – 1988, quando gli armeni del Nagorno Karabakh hanno chiesto separazione di questa regione dall’Azerbaigian unificazione all’Armenia. Contemporaneamente circa 250mila azerbaigiani furono deportati dall’Armenia che ciò che ha portato agli scontri tra armeni e azerbaigiani nell’Azerbaigian e successivamente all’occupazione militare dei territori dell’Azerbaigian da parte dell’Armenia –; mentre la seconda traversa il tempo coinvolgendo autorità sovietiche – che nel 1921 il Bureau caucasico del comitato centrale del Partito bolscevico decise di mantenere il Nagorno Karabakh all’interno della Rss dell’Azerbaigian – e toccando l’intero primo quarto di Novecento, bagnato dal sangue delle violenze interetniche durante la rivoluzione russa del 1905, della guerra armeno-azera del 1918–1920 e della deportazione massiva di azeri da parte della repubblica socialista armena.

Stabilire chi ha ragione e chi ha torto non è semplice. Gli armeni rivendicano la sacralità delle loro aspirazioni sul Nagorno Karabakh in quanto regione costitutiva dell’antico regno d’Armenia e storicamente hanno fatto ricorso al controllo della popolazione, sia durante l’era Stalin che all’indomani del primo conflitto del Nagorno Karabakh, riducendo virtualmente a zero il peso demografico della componente azera – questo spiega perché Yerevan sia lo stato più etnicamente omogeneo dell’intero spazio postsovietico e perché la comunità azero-karabakha, dopo secoli di primato etnico in diversi villaggi e distretti, sia, oggi, quasi del tutto scomparsa.

Gli azeri, d’altro canto, considerano il Nagorno Karabakh come proprio in forza della realtà fattuale – la loro sovranità de iure è riconosciuta a livello universale, mentre l’esistenza della repubblica dell’Artsakh non è mai stata sanzionata neanche dall’Armenia – e del fattore storico – la regione è stata inglobata nella realtà turco-azera fra il 15esimo e il 16esimo secolo e da allora ne ha fatto parte (quasi) ininterrottamente –; inoltre, grazie alla vittoria dello scorso autunno, possono vantare di aver rimescolato le carte sul tavolo a proprio favore, riaprendo una partita che, fino a quel momento, era in una situazione di stallo.

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Armenia, folla in piazza contro il premier (Ilmessaggero 20.01.21)

Migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale dell’Armenia, Yerevan, chiedendo le dimissioni del premier Nikol Pashinyan. Dopo sei settimane di sanguinosi combattimenti nel Nagorno-Karabakh, durante i quali si stima che abbiano perso la vita circa 6.000 persone, a novembre Armenia e Azerbaigian hanno siglato un accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia. In base all’intesa, l’Azerbaigian ha mantenuto i territori conquistati e l’Armenia gli ha ceduto anche altre zone del Nagorno-Karabakh e dei territori limitrofi e ciò ha provocato
massicce proteste contro Pashinyan, di cui l’opposizione chiede le dimissioni. Secondo l’Afp, i dimostranti si sono radunati in Piazza della Libertà e urlano slogan come «l’Armenia senza Nikol!» e «Nikol traditore». Nella zona sono presenti numerosi poliziotti.

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75 anni fa la porpora al cardinale armeno Agagianian. Pio XII voleva rendere la Chiesa davvero universale (Faridiroma 19.02.21)

Una platea di trentadue principi al Concistoro voluto da Pio XII il 18 febbraio del 1946; un’azione che il Pontefice ha compiuto con magnanima audacia per una più visibile e più solenne affermazione della sopranazionalità e universale unità della Chiesa.

Il Santo Padre Pio XII volle che in quel Sacro Collegio: “Vi siano rappresentati il maggior numero possibile di stirpi e di popoli, e sia quindi un’immagine viva dell’universalità della Chiesa. La Chiesa è madre, la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che di tutti i singoli uomini, e precisamente perché madre, non appartiene, né può appartenere esclusivamente a questo o a quel popolo. Né può essere straniera in alcun luogo; essa vive in tutti i popoli.”

I nuovi cardinali per la maggior parte stranieri, se ne contavano ventinove su trentadue, rappresentavano ognuno un continente, la rappresentazione soprannazionale di una Chiesa militante dopo la seconda guerra mondiale, in questo eccezionale avvenimento vennero scelti porporati per le loro insigni virtù e i loro segnalati meriti.
Tra questi principi Pio XII scelse Gregorio Pietro XV Agagianian, Patriarca di Cilicia degli Armeni cattolici, nominandolo Cardinale di Santa Romana Chiesa con il titolo San Bartolomeo all’Isola, inter duos pontes, chiesa tra due ponti.

Agagianian incarnerà il messaggio di Pio XII e la sua vita sarà un ponte tra l’oriente e l’occidente, la voce della Santa Sede di Roma, la voce di un oriente insanguinato dalle continue guerre. Incarnerà quel messaggio agendo con uno spirito aperto a tutte le esigenze della Chiesa e del popolo di Dio consapevole delle difficoltà e dei problemi che il mondo stava affrontando: la ricostruzione morale del dopoguerra, il regime comunista, gli ostacoli posti all’espansione della fede, le difficoltà delle missioni che s’intrecciavano al colonialismo, l’espulsione dei missionari perché testimoni della realtà del terzo mondo.

Oggi guardando il passato, la grande famiglia umana ha subito tanto orrore, una sofferenza inenarrabile e ci verrebbe da chiedere perché volgere lo sguardo verso figure come il Cardinale Agagianian, come possono oggi indicarci una possibile chiave di lettura di un presente martoriato dall’incertezza e da una fede che è in cerca di un rifugio sicuro, baluardo di una salvezza che desideriamo sia prossima.
Agagianian sapeva leggere i momenti critici della storia, problemi troppo importanti per ignorarli, sapeva essere mediatore tra i concetti passati e quelli nuovi, invocando una lotta eroicamente cristiana contro l’oppressione affermando che – non poteva esserci mediocrità tra i cristiani che tutte le cose sono di Cristo…e bisogna ringraziare Dio per averci permesso di vivere in un’epoca in cui essere pienamente cristiani significa essere eroicamente cristiani. L’apostolo convinto del Signore nei confronti dei responsabili religiosi, sociali e civili -.

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 1965 affermerà il Cardinale Agagianian che “la Chiesa ha sempre creduto al valore umano di tutte le genti, dove il concetto di dignità della persona diventa un’idea ispiratrice e la pietra di paragone per verificare l’autenticità del nuovo cristianesimo” definendo così il concetto di Unità e anticipando le grandi sfide etiche che si pone oggi il fedele: *Unità non significa uniformità, ma pluralità di forme nell’Unità di fede”.

Alessandra Scotto, Ufficio Storico Pontificio Collegio Armeno

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