Cristianofobia islamica nella Montagna del Giardino Nero. In pericolo i tesori armeni nel Nagorno-Karabakh (Korazym 16.01.21)

“Distruggiamo tutte le chiese armene” nella Montagna del Giardino Nero (Nagorno-Karabakh), chiede il capo degli architetti azeri. Ecco perché l’Armenia ha nascosto in un bunker atomico del periodo sovietico molte stele cristiane che hanno più di 1.000 anni. Ma nel mirino azero-turco non c’è solo il patrimonio culturale Cristiano armeno nelle regioni occupate della Repubblica di Artsakh.

“Premio di guerra e simbolo di vittoria”. Così ilham Aliyev, il Presidente dell’Azerbajgian ha definito ieri nel corso della sua visita con la sua moglie Mehriban Aliyeva, Vicepresidente dell’Azerbaigian, la cattedrale armena del Santo Salvatore Ghazanchetsots a Shushi. Le foto ufficiali diffuse dai media azeri non mostrano gli squarci causati dalle bombe azere dell’ottobre scorso. La pace è ancora lontana. E le chiese armene nel Nagorno-Karabakh sempre più in pericolo.

Il silenzio che ha avvolto il primo genocidio armeno nel ‘900, continua a prolungarsi fino ad oggi. Una donna armena di 58 anni è stata ritrovata morta a Karin Tak, una comunità rurale della regione di Shushi della Repubblica di Artsakh, uccisa dopo essere stata torturata dagli Azeri. Non voleva lasciare il suo villaggio.

“Premio di guerra e simbolo di vittoria”. Così ilham Aliyev, il Presidente dell’Azerbajgian ha definito ieri nel corso della sua visita con la sua moglie Mehriban Aliyeva, Vicepresidente dell’Azerbaigian e Ambasciatrice dell’UNESCO, la cattedrale armena del Santo Salvatore Ghazanchetsots a Shushi. “Speriamo non la trasformi in una moschea, come ha fatto il suo amico Erdogan a Santa Sofia” (Giulio Meotti). Le foto ufficiali diffuse dai media azeri non mostrano gli squarci causati dalle bombe azere dell’ottobre scorso. La pace è ancora lontana.

La Repubblica dell’Artsakh sotto attacco dei tiranni azero e turco. L’obiettivo: pulizia etnica contro cristiani armeni, ostacoli agli scopi imperialisti turchi. E l’Occidente sta a guardare – 7 novembre 2020

Azeri-turchi hanno profanato la cattedrale del Santo Salvatore Ghazanchetsots di Shushi. Il monastero medievale di Dadivank messo sotto protezione della Russia – 16 novembre 2020

La Chiesa apostolica armena lancia un accorato appello: “Salviamo dalla distruzione chiese e monasteri nell’Artsakh”. Chi lo ascolterà? – 17 novembre 2020

La nuova minaccia di pulizia etnica azera-turca contro gli armeni cristiani nel Caucaso meridionale e le sue implicazioni geopolitiche – 21 novembre 2020

Soldati azeri decapitano civili armeni nell’Artsakh. Dove sono il governo e i parlamentari italiani amici di Baku per il gas azero? Dove sono i professionisti della protesta? – 17 dicembre 2020

Alvard Tovmasyan, in una foto del 29 ottobre 2020.

Samvel Tovmasyan, il fratello della donna il cui corpo è stato trovato il 13 gennaio nel villaggio di Karin Tak, dice che sua sorella è stata torturata al di là del riconoscimento. Una squadra di ricerca ha trovato il corpo di Alvard Tovmasyan nel cortile della sua casa. Samvel Tovmasyan ha preso parte alla ricerca e ha riconosciuto il corpo di sua sorella dai suoi vestiti. Karin Tak, alla periferia di Shushi, è stata occupato dalle forze azere durante la recente guerra di aggressione dell’Azerbajgian con il sostegno della Turchia nel Nagorno-Karabakh. I parenti hanno detto che Alvard Tovmasyan si era rifiutato di lasciare il villaggio. Hanno iniziato la sua ricerca dopo l’accordo di cessato il fuoco del 9 novembre scorso e hanno contattato il Comitato internazionale della Croce Rossa, l’Ufficio armeno dei difensori dei diritti umani dell’Armenia e la polizia locale. Nairouhie Tovmasyan, la moglie di Samvel, dice che la mano, il piede e l’orecchio della donna scomparsa sono stati tagliati. Samvel Tovmasyan e la sua famiglia ora vivono a Stepanakert.

Centinaia di khachkar risalenti al Medioevo sono stati trasportati dall’Artsakh in Armenia per prevenire possibili furti, saccheggi o distruzioni (Foto di Antoine Agoudjian/Le Figaro).

Dalla fine dei quarantaquattro giorni di aggressione azero-turco contro la Repubblica di Artsakh di novembre Scorso, gran parte dell’eredità religiosa armena si nei territori occupati della forze armate dell’Azerbaigian e quindi è in grande pericolo. Il mondo sarà in grado di mobilitarsi per proteggere queste chiese, cimiteri, monasteri e khachkar, a volte più vecchi di 1.500 anni? La domanda è stata posta da Jean-Christophe Buisson sul quotidiano francese Le Figaro del 15 gennaio 2021.

Centinaia di khachkar risalenti al Medioevo sono stati trasportati dall’Artsakh in Armenia per prevenire possibili furti, saccheggi o distruzioni (Foto di Antoine Agoudjian/Le Figaro).

C’è un luogo della Repubblica di Armenia su cui viene mantenuto la massima riservatezza – si legge su Le Figaro. Sotto terra. Introvabile. Appena illuminato. Sorvegliato giorno e notte. Conosciuto da pochissime persone. Questo labirinto di lunghi corridoi scavati nella roccia è stato progettato durante l’era della Guerra Fredda, quando la paura del conflitto nucleare incombeva. L’Armenia allora era sovietica. Queste cantine simili a bunker non sono mai state utilizzate per ospitare uomini e donne minacciati dai missili nucleari americani. Però, hanno trovato, nelle ultime settimane, un utilizzo inedito: ospitano parte dei tesori armeni della Repubblica di Artsakh. Principalmente sono enormi stele chiamate khachkar, che sono i simboli più notevoli dell’identità cristiana armena. Pesando fino a una tonnellata, misurando da 1 a 3 metri di altezza, questi blocchi votivi di pietra scolpita, ciascuno unico, rappresentano l’albero della vita e la sua vittoria sulla morte. Si trovano principalmente nei cimiteri. Gli azeri-turchi cercano di distruggere tutto ciò che prova la presenza millenaria degli armeni su una terra che rivendicano per loro, il Nagorno-Karabakh.

Rimane una domanda, in tutto ciò, a cosa serve l’UNESCO? Attenzione, non ho chiesto cosa fa, ho chiesto a cosa serve.

Due khachkar di Julfa, datate 1602 e 1603, rimosse dal cimitero prima della sua distruzione e ora in mostra nella Santa Sede di Echmiadzin in Armenia.

Agli esperti dell’UNESCO Baku non permette di visitare le parti dell’Artsakh occupate dall’Azerbaigian

Sua Santità Karekin II, il Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni ha detto al quotidiano russo Izvestia che chiese e monumenti storici sul territorio del Nagorno-Karabakh controllato dalle forze armate dell’Azerbaigian sono minacciati e che Baku si rifiuta di lasciare che i rappresentanti dell’UNESCO valutino personalmente la situazione del patrimonio storico religioso armeno. Allo stesso tempo, il Primate della Chiesa Apostolica Armena osserva che le forze di pace russe stanno compiendo ogni sforzo per garantire la conservazione dei monumenti storici e culturali. Il 132mo Catholicos della Chiesa Apostolica Armena ha espresso gratitudine a Vladimir Putin per il suo contributo personale alla fine della guerra nella regione. Ha detto che un dipartimento speciale è stato creato nella Chiesa Apostolica Armena per verificare la conservazione dei monumenti di importanza internazionale, ha detto Karekin II. Ha aggiunto che il clero ha fatto appello a leader religiosi, organizzazioni e strutture culturali internazionali, nonché all’UNESCO. Tuttavia, ha aggiunto, la proposta di ammettere gli osservatori dell’UNESCO nei territori controllati dalle forze armate dell’Azerbajgian non ha trovato il sostegno da Baku. Il Primate della Chiesa Apostolica Armena ha espresso la speranza che attraverso gli sforzi dei copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, inclusa la Russia, sarebbe possibile intraprendere azioni immediate per preservare i patrimonio storico, culturale e religioso armeno nella Montagna del Giardino Nero.

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IL CONFLITTO DEL NAGORNO KARABAKH DEL 2020 E L’EVOLUZIONE (TECNOLOGICA) DELLE OPERAZIONI MILITARI (Difesa on line 15.01.21)

La “piccola” guerra del Nagorno Karabakh1, conclusasi con il cessate il fuoco del 9 novembre 2020 dopo quarantaquattro giorni di combattimento, presenta novità nella condotta delle operazioni degne di nota. Non è ancora la rivoluzione negli affari militari, avviata da Stati Uniti, Cina – chissà chi vincerà la partita! – e da numerosi altri Paesi che possiedono capacità di ricerca nel campo della digitalizzazione e delle tecnologie “emerging & disruptive2”, ma qualcosa da osservare con attenzione perché quella rivoluzione in parte la preannuncia.

Dal punto di vista geopolitico poi rappresenta una conferma dell’abilità di Putin nel mantenere l’egemonia russa nelle provincie dell’ex impero sovietico. Nondimeno Erdogan ha giocato e continua a giocare un ruolo importante, confermandosi player molto assertivo della revisione degli equilibri regionali.

E cosa dire delle popolazioni locali di quella terra di confine tra Europa e Asia3? Esse sono vicine a noi. La rappresentanza di armeni in Italia è storicamente consolidata, come nell’Isola di San Lazzaro degli Armeni, nella laguna di Venezia, o nel quartiere napoletano di San Gregorio Armeno, noto per la tradizione dei presepi. E sono di considerevole entità le relazioni commerciali con l’Azerbaijan, paese ricco di risorse energetiche e aperto al mercato europeo4.

Il contesto

Armenia e Azerbaijan sono due entità statali della regione transcaucasica (definizione sovietica di quell’area che comprende anche la Georgia), i cui confini nei secoli hanno subito modifiche significative, lasciando sempre aperti i problemi dell’identità nazionale. Le popolazioni lì residenti sono rispettivamente 3,3 milioni (97,9% armeni; ortodossi 72,9% più altri,) per l’Armenia e 8,9 milioni (azeri al 91,6%; musulmani sciiti 63% e sunniti al 33% più altri) per l’Azerbaijan.

Nella storia, gli armeni hanno mantenuto una forte identità, talvolta contrastata. Ricordiamo le tragiche deportazioni del 1895 (foto) e 1896 e poi dell’estate del 1915, da parte dell’Impero Ottomano (Papa Francesco il 12 aprile 2015 ha ricordato il massacro degli Armeni “generalmente considerato come primo genocidio del Novecento”. La frase, pronunciata durante una celebrazione liturgica del rito armeno in San Pietro per il centenario del martirio armeno, ha scatenato l’immediata reazione della Turchia che ha ritirato il suo ambasciatore)5. Quindi l’imposizione da parte di Stalin di confini non rispondenti alla distribuzione etnica, negli anni ’20 del secolo scorso. Infine i sanguinosi fatti di Sumgait, città dell’Azerbaijan, in cui nel 1988 furono perpetrate gravi violenze a danno sempre dei residenti armeni. Inoltre armeni e azeri risentono tuttora dell’influenza geopolitica delle potenze vicine, in particolare Russia e Turchia.

L’attuale disputa ha quindi origine remote. Ma fu la dissoluzione dell’URSS a far riaffiorare i nazionalismi come forze identitarie e talvolta disgregatrici dell’ordine internazionale. Nasceva così nel settembre del 1991 la Repubblica Indipendente dell’Artsakh6, per autodeterminazione degli armeni del Nagorno Karabakh, quella regione montuosa sita nella parte orientale dell’Azerbaijan. Una repubblica indipendente questa, peraltro mai riconosciuta. Seguiva un conflitto tra Armenia e Azerbaijan, interrotto con un cessate il fuoco nel 1993, ma periodicamente riaccesosi per incidenti nelle zone di confine.

Un conflitto identitario, si è detto e non religioso, pur trattandosi di popoli di diversa fede. Così è avvenuto anche il 27 settembre scorso, quando con un attacco azero lungo l’intera linea di confine dell’Artsakh la situazione è precipitata7.

Se il primo conflitto, quello degli anni novanta del secolo scorso, dando la vittoria all’Armenia stabiliva di fatto un nuovo assetto territoriale, l’ultimo in ordine di tempo ha consentito all’Azerbaijan di riprendersi Shusha, la seconda città per importanza della regione, il corridoio di Lachin8, che costituisce la principale via di comunicazione tra Artsakh e Armenia, (ne esisteva una seconda, passante nel distretto di Kalbjar, a nord ovest, ora ritornato all’Azerbaijan) e sette province amministrative alle falde del complesso montuoso del Nagorno Karabakh. Dunque, una sconfitta militare che ha prodotto effetti molto significativi sulla geografia.

Russia e Turchia

In questo conflitto Russia e Turchia hanno sostenuto, ma in maniera diversa, rispettivamente Armenia e Azerbaijan. Sebbene i due stati siano membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, guidato da Mosca, che prevede il sostegno militare della Russia in caso di attacco, essendo l’Artsakh non riconosciuto come stato indipendente, all’attacco azero Mosca non è intervenuta direttamente, limitandosi a schierare proprie unità militari in Armenia, lungo il confine9. Dunque, Putin, pur storico sostenitore dell’Armenia, ha tenuto un profilo basso, almeno sino a quando le forze azere non hanno minacciato direttamente Stepanakert, la capitale di fatto dell’Artsakh.

Libero di agire, Erdogan ha schierato con l’esercito azero soldati, mercenari fondamentalisti10 e armamenti pregiati, che hanno determinato il successo militare di quella parte. Si arriva così al 9 novembre scorso, quando Putin riconduce i contendenti al tavolo della trattativa, sancendo un cessate il fuoco tuttora in vigore, che congela la situazione sul campo, prevedendo però lo schieramento di una unità militare russa di peacekeeping in Artsakh, per vigilare sul rispetto dell’accordo. Sempre Erdogan, a cose fatte, nel corso della parata celebrativa della vittoria, a Baku, ha dichiarato: “Siamo qui oggi per celebrare questa gloriosa vittoria, la liberazione delle terre occupate dell’Azerbaigian, tuttavia, non significa che la lotta sia terminata11.

Putin, da parte sua, il 18 dicembre, ha dichiarato che “il Nagorno Karabakh, dal punto di vista del diritto internazionale è territorio azero, nemmeno riconosciuto dall’Armenia”. Che “le radici sono nel conflitto etnico, iniziato a Sumgait12, che si è poi diffuso in Nagorno-Karabakh”. Quindi, riferendosi ai pogrom anti-armeni del 1988, ha così proseguito: “Ogni parte ha le sue ragioni. Gli armeni del Nagorno-Karabakh hanno preso le armi nel loro tempo per proteggere le loro vite e la loro dignità. E si è creata la situazione esistente al momento dell’escalation del conflitto di quest’anno”13.

Sin dal 1992 l’OSCE ha cercato di risolvere la controversia con il Gruppo di Minsk, guidato da Francia, Stati Uniti e Russia, che vede anche la partecipazione dell’Italia. Ma i fatti dicono che tale foro diplomatico sino ad ora ha fallito la propria missione. Occorre ancora ricordare che l’Azerbaijan è un paese esportatore di idrocarburi (il gasdotto TAP che approda nel Salento origina dai giacimenti azeri), con un PNL di circa 50 miliardi di dollari USA, rispetto all’Armenia che registra un PNL di circa 10 miliardi. Tale differenza di ricchezza tra i due paesi ha sicuramente inciso sugli apparati militari, ovviamente a favore degli azeri che hanno potuto avvalersi di tecnologie evolute, anche provenienti da Israele.

Le trattative finalizzate a ricomporre i conflitti identitari e territoriali sono sempre irte di difficoltà. Tuttavia, nel caso specifico, l’Italia, presente nel Gruppo di Minsk, avrebbe potuto contribuire nel dirimere le controversie avvalendosi della propria tradizione di cultura ed esperienza. Infatti, il nostro Paese ha sempre gestito con sagacia e lungimiranza le questioni identitarie delle diverse comunità presenti sul territorio nazionale, riuscendo a comporre le divergenze e a stemperare le diffidenze; tutto ciò senza trascurare poi il capitale di esperienza maturato nel campo del peacekeeping. Ma l’Italia, in quanto a peso strategico, non è un player globale e anche l’Europa in questo conflitto ha reputato di dover tenere un profilo di lontana equidistanza dalle parti.

Ma cosa ha caratterizzato questo conflitto peraltro ignorato dai media nostrani? Le novità appaiono numerose e tutte degne di nota.

Le operazioni belliche, in sintesi

Sebbene l’entità delle forze in campo fosse a vantaggio dell’Azerbaijan, tuttavia il terreno impervio e le difese ben consolidate nel tempo avrebbero potuto favorire le forze armene, consentendo di incanalare gli attaccanti in aree di distruzione, per colpirle con le riserve mobili: ciò è possibile in terreni compartimentati. Tuttavia, le informazioni raccolte mostrano che le forze azere abbiano adottato sistemi evoluti di comando, controllo, acquisizione degli obiettivi ed erogazione del fuoco distruttivo. Inoltre i droni utilizzati da questa parte, sia i velivoli a pilotaggio remoto che quelli autonomi, che non necessitano di pilotaggio, hanno svolto un ruolo di primaria importanza. Tale superiorità tecnologica ha sortito l’effetto desiderato, consentendo il pieno successo.

Dunque, l’attacco azero sembra sia partito con la distruzione della rete di comando e controllo dell’esercito armeno e subito dopo delle unità corazzate di riserva nelle zone di attesa. È possibile che per colpire i posti comando siano state utilizzate bombe volanti autocercanti le emissioni elettromagnetiche, gli UAV (unmanned aerial veihcle) Harop15, di costruzione israeliana. Questo tipo di velivolo può restare in volo per sette ore e vagare sul campo di battaglia in attesa di individuare emissioni radio. A quel punto, autonomamente, si dirige con una traiettoria verticale oppure obliqua sul bersaglio, distruggendolo con la carica di esplosivo che trasporta. Quindi, l’attacco è proseguito colpendo le riserve corazzate schierate nelle aree di diradamento e nelle zone di attesa utilizzando, questa volta, UAV di provenienza turca: i Bayraktar TB216. Si tratta di un drone con autonomia di 27 ore, capace di volare sino a ottomila metri di altitudine, poco visibile anche ai radar e silenzioso, armato con missili aria terra. I filmati che circolano in internet, presi da questi stessi velivoli a pilotaggio remoto, mostrano i bersagli inquadrati con telecamere ad alta definizione e la loro distruzione all’impatto del missile.

Una volta neutralizzata la comandabilità delle forze e colpite le unità mobili della riserva è iniziato l’attacco alle posizioni difensive e la conquista degli abitati. Non sono mancati i bombardamenti anche sulla popolazione civile, l’uso di bombe a grappolo, vietate dalle convenzioni internazionali e forse atti di violenza indiscriminati. In questo modo, poco alla volta, le propaggini del complesso montuoso del Nagorno Karabakh, una vera e propria fascia cuscinetto dell’autoproclamata repubblica, sono cadute nelle mani dell’attaccante e quando è stato minacciato il corridoio di Lachin ed è anche caduta la città di Shusha, a venti chilometri dalla capitale, Stepanakert, la situazione per l’Artsakh è divenuta veramente critica, profilandosi una crisi umanitaria di vaste proporzioni.

A questo punto, nell’equidistanza tra le parti dell’Occidente; nell’impossibilità del gruppo di Minsk di generare una soluzione condivisa, Putin ha condotto i contendenti all’accordo di cessate il fuoco, rimettendo così ordine nel giardino di casa!

E mentre scriviamo, la forza di peacekeeping russa prende contatto col terreno e già vigila sul vitale corridoio di Lachin; mentre i profughi che avevano cercato rifugio in Armenia iniziano a rientrare alle proprie terre.

Evoluzione di armi e strategie

Sul piano militare, oltre al ruolo degli UAV già richiamato, senza dubbio decisivo, occorre constatare che la tecnologia informatica (IT) sarà sempre più presente sul campo di battaglia con la digitalizzazione dei sistemi.

Se negli ultimi due decenni sono giunte a maturazione le tecnologie di comando e controllo (C2) basate sulla citata IT: posti comando in rete, generazione di “carta della situazione”17 informatizzata, aggiornata di fatto in tempo reale (COP: common operational pictures), anche la funzione operativa ISTAR (informazione, sorveglianza, acquisizione obiettivi e ricognizione) può essere automatizzata e collegata al C2. In particolare, con l’intelligenza artificiale, in via di rapida evoluzione, sistemi informatici sempre più efficienti potranno gestire autonomamente la raccolta e fusione delle informazioni, la designazione degli obiettivi, la distribuzione degli stessi alle sorgenti di fuoco e la verifica dell’efficacia dell’azione (processo sensor to shooter).

La sfida tecnologica consiste nel gestire contemporaneamente numerosi sensori e tracce radar, il che comporta una grande mole di dati da processare in breve tempo. In questa maniera, una unità militare, schierata in un’area di operazione anche compartimentata per morfologia del terreno o perché urbanizzata, è totalmente connessa in rete. Ogni singolo elemento – dal soldato appiedato al veicolo da combattimento e quindi ai sensori da ricognizione e acquisizione obiettivi sul terreno e in volo (dispositivi campali, droni, palloni sonda, velivoli e satelliti) – raccoglie le informazioni e le invia ai nodi di rete, dove elaboratori sufficientemente potenti le interpretano, le catalogano, le fondono e attribuiscono priorità decidendo di fatto cosa fare. Ovvero, impartiscono in automatico l’ordine di fuoco alla sorgente più idonea: velivolo, artiglieria, veicolo da combattimento o singolo uomo sul campo. Quindi, l’elaboratore valuta l’effetto dell’azione e archivia il processo in una memoria di massa.

E l’uomo che ruolo detiene? Se per un verso l’IT tenderebbe ad appiattire le strutture di comando e controllo, le linee di comando, nondimeno l’azione di comando resta centrale. I comandanti ai diversi livelli supervisioneranno i processi, stabilendo la politica da adottare in base alle regole d’ingaggio (fire policies), per graduare gli effetti. Occorre anche considerare che queste soluzioni tecnologiche potrebbero monitorare l’azione lasciandone traccia registrata, utile per accertare a posteriori la conformità dell’azione al mandato conferito alla forza in campo e quindi alle leggi che regolamentano i conflitti: una funzione molto importante da un punto di vista etico.

Una critica frequente a questo sistema fortemente digitalizzato e che la tecnologia, più è complessa, più può essere soggetta a essere degradata con attacchi tecnologici, come quelli cibernetici. In effetti, parimenti allo sviluppo dei sistemi evolvono le contromisure. Già le azioni condotte con gli UAV possono essere neutralizzate con contromisure oltre che passive (mimetizzazione, protezione) anche attive, tipo jammer: emissioni elettromagnetiche capaci di oscurare il bersaglio oppure disorientare il velivolo. Ma alle contro-misure, seguono poi le contro-contro misure tese a rendere queste armi e i sistemi di comando e controllo resilienti.

Quindi, ignorare l’evoluzione tecnologica comporta rischi da valutare con la cura che richiede l’interesse nazionale. Perché il non sviluppare capacità operative fondamentali quasi sempre riduce o annulla la credibilità dello strumento militare e rende impreparati a sostenere il conflitto futuro.

Per non restare indietro

Queste brevi note descrivono situazioni differenti che in comune hanno anche la peculiarità di sollevare dubbi di natura etica: la questione geopolitica dell’Autoproclamata repubblica dell’Artsakh, irrisolta da quasi trent’anni; le ingerenze straniere in un conflitto locale e la presenza di paramilitari, che combattono non vincolati alle leggi di guerra (l’avevamo visto nei Balcani, ora lo ritroviamo anche in Siria, Libia e nel Sahel); la propaganda che rende la realtà sul campo indistinguibile, con filmati molto convincenti sui social; infine la disponibilità di armi e sistemi militari innovativi, capaci di generare un salto di qualità. Ma questa è la realtà che ci circonda, di cui occorre saper prendere atto.

La domanda quindi è se questa realtà la stiamo ignorando, forse perché concentrati su altre priorità: Covid 19, debito pubblico, instabilità politica. Dunque, la sintesi che deduciamo è un invito a considerare tutti questi aspetti e ricercare formule congruenti con gli interessi nazionali, mantenendo una visione etica e nel rispetto di quello delle parti concorrenti. Perché, e questo è un fatto incontrovertibile, la competizione continua ad animare le relazioni internazionali, la conflittualità nelle regioni di più diretto interesse è cresciuta e stanno emergendo pericolose tendenze alla revisione dei confini nazionali, il che è sempre fonte di instabilità.

In tale quadro, la politica militare, nell’indicare le linee evolutive alle forze armate, ha innanzi a sé la sfida a dover essere lungimirante, viepiù in un momento di sviluppo tecnologico come quello che stiamo vivendo. Forze armate, integrate nel contesto atlantico e europeo, solo se aggiornate alle capacità operative fondamentali, rimarranno uno strumento di deterrenza, come è necessario ai fini della stabilità e della pace. Viceversa, la disattenzione all’evoluzione tecnologica in campo militare, come la storia evidenzia, sarà foriera di emarginazione geopolitica, la qual cosa l’Occidente, assertivo nel ritenere l’uomo e la sua dignità centrale nel sistema di vita e di relazioni, non può permettersi.

Siamo in piena rivoluzione negli affari militari18, a cui, come detto in apertura, sono molti a lavorare alacremente (la Cina ha dichiarato nel suo Libro Bianco di tendere a diventare potenza militare vincente nella dimensione del Cyberspazio): una sorta di 5G militare che a breve subiremo, se non capaci di adeguarci con la necessaria tempestività. La disponibilità, ridotta, di risorse finanziarie mostra anche la centralità delle alleanze, della Nato e dell’Unione Europea, nel cui ambito far convergere la ricerca scientifica e gli investimenti, per generare forze efficienti a difesa dell’interesse comune e al servizio di una visione fondata sui valori condivisi dell’Occidente.

In termini di maggiore pragmatismo, il fattore chiave è che rimanere indietro nella sfida “sensor-to-shooter19” significa perdere capacità operativa e quindi di deterrenza, non solo in ambienti war fighting (di guerra), ma anche di Crisis Responce Operations, ovvero missioni di pace, che restano uno via imprescindibile alla pacificazione di realtà contese, come Putin ha appena confermato nello scenario transcaucasico appena descritto. Il sensor to shooter è dunque oggi il fattore chiave su cui già competono le forze terrestri.

Gen. EI (ris.) Antonio Venci

1 Il Nagorno Karabakh è una regione montuosa dell’Azerbaijan occidentale, compresa nel territorio dell’Autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, entità geografica con popolazione prevalentemente armena, non riconosciuta come stato indipendente.

2 Tecnologie che generano un vantaggio strategico a chi le possiede: big data, elaboratori quantistici, materiali innovativi, ecc.

3 L’Italia, presente nel Gruppo di Minsk dell’OSCE, mantiene una posizione equidistante tra le parti, auspicando la soluzione pacifica della controversia territoriale. In data 11 novembre 2020 il MAECI ha emesso il seguente comunicato stampa: “In risposta all’emergenza umanitaria provocata dall’escalation delle ostilità nella regione del Nagorno-Karabakh, il Sistema della Cooperazione Italiana, su indicazione del Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Emanuela Del Re, ha contribuito con 500.000 euro al Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Grazie al contributo italiano, il CICR potrà rafforzare le sue attività nel fornire servizi umanitari essenziali, come cibo e riparo, agli oltre 75.000 sfollati colpiti dal conflitto, su entrambi i lati della linea di contatto, e in collaborazione sia con la Croce Rossa Armena che con la Mezzaluna Rossa dell’Azerbaijan.

4 Agenzia Nova. È stato firmato il 18 dicembre in videoconferenza un contratto tra Azerenerji e Ansaldo Energia, che prevede la ricostruzione di quattro sottostazioni in aree recentemente liberate dall’occupazione militare delle forze militari dell’Armenia: i distretti di Agdam, Kalbajar, Gubadly e Fuzuli. Nelle prossime settimane, si legge in un comunicato, è prevista l’apertura di una filiale di Ansaldo Energia a Baku. (18.12.20)

5 Alcuni Stati definiscono le violenze contro gli armeni del 1915 (seguite a quelle degli anni 90 dell’’800) da parte dell’Impero Ottomano ‘genocidio’. La Turchia rifiuta questa definizione inquadrando le deportazioni delle popolazioni armene nelle esigenza di difesa nazionale nel corso del primo conflitto mondiale, quando interi battaglioni di quella popolazione militava nell’esercito russo. Papa Francesco il 12 aprile 2015 ha ricordato il massacro degli Armeni (cristiani) “generalmente considerato come primo genocidio del Novecento“. La frase, pronunciata durante una celebrazione liturgica del rito armeno in San Pietro per il centenario del martirio armeno, ha scatenato l’immediata reazione della Turchia che ha ritirato il suo ambasciatore. (Servizio Studi del Senato. Nota breve n.67)

6 La popolazione stimata è di 150.000 persone. Il conflitto di cui stiamo parlando ha generato 70.000 profughi, che ora in parte ritornano alle proprie case. https://www.aljazeera.com/news/2020/10/12/the-human-cost-of-the-nagorno-karabakh-conflict (2020)

8 Ora il Corridoio di Lachin, che costituisce l’unica via di collegamento dell’Artsakh con l’Armenia, è presidiato dai peacekeeper russi, in base agli accordi di “cessate il fuoco” assunti tra Armenia e Azerbaijan con la mediazione russa, il 9 novembre 2020. Correndo questa via attraverso la città di Shushi, ora in mano azera, l’accordo prevede anche la realizzazione di una bretella per aggirare l’abitato e garantire la viabilità verso Stepanakert. In questo modoviene garantita una via di collegamento e di rifornimento tra Artsakh e Armenia.

9 Il 9 novembre 2020 un elicottero russo è stato abbattuto mentre sorvolava la linea di confine tra Armenia e Azerbaijan. Due piloti sono rimasti uccisi, un terzo membro dell’equipaggio si è salvato. L’Azerbaijan si è assunta la responsabilità scusandosi per l’incidente.

10 Nella Dichiarazione congiunta dei Capi delegazione dei Paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE viene fatta esplicita richiesta: “… i Capi delegazione chiedono anche la piena e pronta partenza dalla regione di tutti i mercenari stranieri e invitano tutte le parti a facilitare questa partenza”.

11 Dal discorso di Erdogan tenuto a Baku in occasione della parata militare celebrativa della vittoria militare del 10 dicembre 2020 (Agenzia NOVA 25.12.20)

12 Sumgait è una città industriale azera sita sul mar Caspio, a nord di Baku. Nel 1988 bande di azeri lì residenti scatenarono un pogrom contro la comunità armena. Ci furono devastazioni, morti feriti e stupri in misura tale da risvegliare la memoria delle sofferenze patite dagli armeni nel periodo della Grande Guerra. Pietro Kuciukian. Gariwo Network. https://it.gariwo.net/rubriche/viaggio-fra-i-disobbedienti-azeri/testimoni-dei-pogrom-di-sumgait-19699.html (2021). Ancora riportiamo: “In quell’anno il Premio Nobel Andrei Sakharov, attivista per i diritti umani ed eminente scienziato (sposato a un’armena), in una lettera indirizzata al leader sovietico Mikhail Gorbaciov sui pogrom di Sumgait scriveva: “Se prima degli eventi di Sumgait qualcuno poteva avere ancora dei dubbi, dopo questa tragedia non resta nessuna possibilità morale di insistere sul mantenimento dell’appartenenza territoriale del Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan. Le liste delle vittime di Sumgait non sono state pubblicate, cosa che mette in dubbio l’esattezza dei dati ufficiali relativi al numero delle vittime. Non ci sono informazioni sulle indagini. Un crimine del genere non può non avere degli organizzatori. Chi sono questi?”. Francesco De Palo. https://impaginato.it/article/3069/trent-anni-fa-i-massacri-degli-armeni-a-sumgait.-ma-chi-se-ne-ricorda/ (2021)

13 LUISS Osservatorio sulla sicurezza internazionale. https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/12/18/nagorno-karabakh-lopinione-putin/ (01.01.21)

14  Robin Forestier-Walker. Aljazeera (13.10.20)

15 Shaan Shaikh, Wes Rumbaugh. Center of strategic and international studies. (2020)

16 Ibidem.

17 La carta della situazione/informazioni, costituita da una carta topografica riportante anche la posizione delle unità schierate sul terreno, le direttrici di movimento e di attacco, le posizioni difensive, ecc. può essere oggi realizzata con sistemi digitali distribuiti all’interno dei posti comando, se non anche nei computer portatili in rete dei soldati schierati sul campo. In tale configurazione “virtuale”, la carta della situazione/informazioni assume la denominazione di Common Operational Picture (COP).

18 Armi da fuoco, eserciti permanenti al servizio di stati nazionali dopo la Pace di Vestfalia, leva di massa, rivoluzione industriale e binomio carrarmato e aereo d’attacco al suolo, armi nucleari, Information Technology militare, possono considerarsi altrettante rivoluzioni negli affari militari, ovvero, momenti di rottura nell’andamento delle operazioni generati dall’irruzione di un fatto nuovo. Una politica militare lungimirante dovrebbe osservare l’evoluzione tecnologica, come questa influenzi il war fighting e tendere a evitare di giungere al prossimo conflitto impreparati.

19 Sensor to shooter, letteralmente dall’individuazione del bersaglio all’azione di fuoco: un processo che l’automazione delle procedure di comando e controllo unitamente a quelle di ricognizione, sorveglianza e acquisizione obiettivi rende più celere. Conferisce il vantaggio consentendo la celere individuazione anche di più obiettivi contemporaneamente, l’ingaggio, la designazione e la neutralizzazione. Tali processi sono validi anche solo per il controllo della conflittualità, senza necessariamente usare il fuoco letale, come avviene nelle operazioni di risposta alle crisi (CRO). Si veda anche https://asc.army.mil/web/news-alt-jas19-from-sensor-to-shooter-faster/ (2021) e https://www.rafael.co.il/worlds/land/multi-service-network-centric-warfare/ (2021).

Foto: ARMENPRESS / AZERTAC / Ministry of Defence of the Russian Federation / Ministero della Difesa

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System of a Down: ‘Finché siamo dalla stessa parte possiamo continuare a fare musica’. Video (Rockol.it 15.01.21)

Lo scorso 6 novembre i System of a Down hanno sorpreso i propri fan interrompendo un silenzio discografico che durava da 15 anni, ovvero dall’uscita del dittico composto da “Mezmerize” e “Hypnotize” del 2005, pubblicando i brani “Protect the Land” e “Genocidal Humanoidz” per raccogliere fondi a favore della popolazione armena a seguito del conflitto tra Armenia e Azerbaigian sulla regione contesa dell’Artsakh.

Recentemente intervistati da Zane Lowe per Apple Music, Serj Tankian e Shavo Odadjian hanno raccontato come sono nate le due canzoni che hanno segnato il ritorno della formazione di origini armene, spiegando che “è stato davvero fantastico” per i componenti della band di “Toxicity” lavorare di nuovo insieme, e hanno parlato della possibilità di ascoltare altra nuova musica dei SOAD in futuro.

A proposito dei più recenti brani dei System of a Down, Tankian ha detto: “Ovviamente abbiamo canzoni che non sono necessariamente sociopolitiche, ma anche divertenti, ogni genere di cosa. Credo che quando lo abbiamo fatto lo abbiamo fatto bene”. Ha aggiunto: “Questa volta siamo stati eccezionali in questo senso, non per lodarci o qualcosa del genere. Il fatto che abbiamo usato la musica come un’arma, senza rimorsi, è così che dovrebbe essere. Sono davvero orgoglioso di quello che abbiamo fatto. È stato davvero fantastico”.

ll frontman della formazione di “Chop Suey!” – che nel corso del 2020 ha più volte spiegato perché, prima dell’uscita di “Protect the Land” e “Genocidal Humanoidz”, in 15 anni non ha presentato materiale inedito insieme al suo gruppo – parlando del futuro della band ha dichiarato:

“Il futuro è un mistero. Vedremo cosa accadrà. Le vibrazioni sono molto positive. Finché siamo dalla stessa parte, possiamo continuare a fare musica, se siamo sulla stessa lunghezza d’onda”.

A margine della chiacchierata con Zane Lowe, Shavo Odadjian ha – tra le altre cose – narrato che non avrebbe mai voluto che i System of a Down si prendessero una pausa tra il 2006 e il 2011 e che spera che non riaccada di nuovo in futuro. Odadjian ha spiegato: “Anche quando ci siamo sciolti per un po’ verso il 2006, sono sempre stato un supporter della band”. Ha continuato: “Sono sempre per l’idea che dovremmo continuare per sempre. Non chiameremo mai una fine. Mi rifiuterò. Non mi interessa. Mi rifiuterò se qualcun altro lo farà. Fino a quanto saremo tutti in vita saremo un gruppo”.

Sulla possibilità che i System of a Down, dopo i due singoli dello scorso novembre, tornino nuovamente in studio di registrazione per lavorare su nuova musica, il bassista della formazione di origini armene ha fatto sapere: “Affinché possa accadere per bene com’è stato in passato e come potrebbe essere in futuro, dobbiamo essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda, ed essere contenti e soddisfatti di ciò che stiamo facendo. Se uno di noi non lo fosse, significherebbe che non è la cosa giusta da fare. Questo è il fattore decisivo”.

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Settimana preghiera unità cristiani: Altamura, tre appuntamenti ecumenici e di dialogo interreligioso in diretta su YouTube (SIR 15.01.21)

Tre appuntamenti di cammino, ascolto, conoscenza e dialogo trasmessi in diretta sul canale YouTube della diocesi con possibilità di interagire attivamente con i relatori attraverso lo strumento dei commenti al video in streaming. A proporli, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, è l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti in collaborazione con l’Ufficio per le comunicazioni sociali e il Servizio informatico.
In preparazione alla XXXII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei (17 gennaio), nella serata di ieri, giovedì 14, Vittorio Robiati Bendaud (coordinatore Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia) ha tenuto la meditazione “Il libro del Qohelet dalle cinque Meghillot”. In apertura della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), il 18 gennaio alle 20 si svolgerà un dialogo a tre voci “Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto (Giovanni 15, 1-17)” tra il vescovo Giovanni Ricchiuti, p. Florin Carling (Chiesa ortodossa romena in Altamura) e il pastore Nicola Colafemmina (Chiesa pentecostale Fiumi di Acquaviva in Acquaviva delle Fonti).
Infine, all’indomani del Giorno della memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati nei campi nazisti (27 gennaio), giovedì 28 è in programma alle 20 il dialogo a tre voci “Ebrei e Armeni: attualità di genocidi” tra il già citato Robiati Bendaud, la scrittrice di origine armena Antonia Arslan e Siobhan Nash-Marshall, docente di filosofia teoretica al Manhattanville College di New York.

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«Case, chiese, santuari, a Shusha gli azeri stanno distruggendo tutto» (Tempi.it 14.01.21)

«Shusha è ancora nelle mani degli azeri. Secondo i nostri corrispondenti, la situazione sta peggiorando ogni giorno. In particolare, mi è stato detto che stanno distruggendo case, santuari armeni e il nostro patrimonio culturale. Se la situazione continua così, non rimarranno tracce di armeni lì. Troveranno qualcosa da distruggere ogni giorno». Come decine di migliaia di famiglie anche il padre Andreas Taadyan rettore della cattedrale di Cristo San Salvatore, nella “città sacra” di Shusha, ha vissuto il Natale ortodosso da rifugiato a Stepanakert, capitale della Repubblica dell’Artsakh, aiutando gli sfollati, celebrando le messe e cercando di ricostruire le comunità disperse dal 9 novembre, quando l’Armenia è stata costretta a riconoscere la sconfitta contro gli azeri e cedere numerosi territori all’Azerbaigian. «Non credo che conserveranno o ristruttureranno i monumenti cristiani, come abbiamo fatto quando abbiamo rinnovato la moschea della città. Se decidessero di distruggere la nazione armena, distruggerebbero i monumenti per sempre».

SALVO SOLO MONSTERO DI DADIVANK, CUSTODITO DAI RUSSI

È una drammatica intervista quella rilasciata al National Catholic Register da padre Taadyan: l’unico monumento che al momento si è salvato dalla furia degli azeri, che nei villaggi conquistati hanno seminato morte e decapitazioni, è il monastero di Dadivank, custodito dalle forze di pace russe grazie ai negoziati condotti dal Catholicos Karekin II, patriarca della Chiesa Apostolica Armena, «pochi giorni fa, l’abbiamo visitato a bordo di veicoli blindati, poiché il luogo è circondato dagli azeri. Ma temo che, purtroppo, i terroristi prima o poi punteranno a distruggere tutti monumenti su quel territorio, come la chiesa di Tsitsernavank o quella della provincia di Hadrut». Le chiese, spiega il rettore, hanno i giorni contati: a Shusha, San Giovanni Battista è stata fatta esplodere e presto anche la storica cattedrale di Cristo San Salvatore, simbolo della cristianità armena sin dal XIX secolo, potrebbe finire in cenere: non c’erano postazioni militari o strategiche intorno all’edificio, già danneggiato durante il pogrom antiarmeno del 1920, la guerra del Nagorno Karabach del 1988 e i bombardamenti dell’aviazione azera nel 1992, eppure è lì che combattenti e mercenari di Erdogan, giunti in Azerbaigian per sostenere la «crociata contro i cristiani» hanno puntato i razzi l’8 ottobre scorso.

LA CATTEDRALE SVENTRATA DELLA GERUSALEMME DELL’ARTSAKH

«C’erano molte chiese a Shusha», racconta padre Taadyan della “Gerusalemme del Nagorno-Karabakh”, città dalla vivace vita culturale e religiosa: dodici i giornali fondati e tre o quattro sacerdoti a capo di ogni comunità parrocchiale che dopo il massacro del 1920 riedificarono gli edifici sacri suonando le campane per tutte le città vicine. L’ultima immagine che religiosi e abitanti si sono portati via scappando con i loro soli vestiti a Stepanakert è quella della cattedrale sventrata, una grande voragine nel tetto crollato su altare e navata, le icone intatte alle pareti a vegliare su un enorme ammasso di macerie. Senza tetto, come la maggior parte della popolazione sfollata che terrorizzata dalla guerra prova a dirigersi verso l’antica Yerevan, capitale armena: nessuno si sente al sicuro «perché non c’è pace nelle città e nei villaggi di confine. Le persone sono in pericolo permanente; gli azeri entrano spesso nei villaggi di confine, cercando di rubare animali per terrorizzare le persone».

RITORNARE A CASA, IMPAURITI E SENZA I BAMBINI

Tempi vi ha già raccontato delle atrocità commesse dai conquistatori, documentate nei video diffusi su internet e confermate da un’inchiesta indipendente del Guardian: «Ecco come ci vendichiamo: tagliando teste», grida in uno dei filmati una voce fuori campo mentre un membro dell’esercito azero davanti a una telecamera sgozza e decapita con un coltello un uomo armeno, per poi porre la testa mozzata su un animale morto. «Il nostro governo e il nostro esercito devono proteggere questi luoghi in modo che la nostra gente possa essere veramente al sicuro». In questi giorni, spiega a Ncr padre Taadyan, sono molte le famiglie che hanno deciso di tornare a casa «nonostante il pericolo, ma molte di queste non vogliono portare con sé i propri figli perché il posto non è ancora sicuro».

«SIAMO CIRCONDATI DAGLI AZERI, TUTTO È NELLE MANI DI DIO»

A Stepanakert i religiosi stanno cercando di tenere unito il popolo armeno, lavorando con le amministrazioni per registrare chiunque non abbia casa, cercando di aiutare le famiglie con tanti bambini e i compatrioti fuggiti a Yerevan e hanno perso abitazione e lavoro, «sperando sempre in giorni migliori. In questo momento siamo circondati dagli azeri, che rappresentano un pericolo concreto per ciascuno di noi, ma tutto è nelle mani di Dio». Nel silenzio dell’Occidente un barlume di speranza è stato acceso dalla Repubblica francese, «poiché il Parlamento ha recentemente approvato una risoluzione per il riconoscimento (del Nagorno Karabakh, ndr). Almeno, non abbiamo perso la speranza che un giorno l’Artsakh venga liberato. Saremmo molto grati al mondo».

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SYSTEM OF A DOWN, SERJ TANKIAN NON ESCLUDE NUOVA MUSICA (Radiofreccia 14.01.21)

Il 2020 ha portato, tra lo stupore di tutti, i primi nuovi inediti dei System Of A Down da moltissimi anni a questa parte, ‘Genocidal Humanoidz’ e ‘Protect The Land’, attualmente nella Top 20 di Radiofreccia e ora il frontman della band Serj Tankian e il bassista Shavo Odadjan aprono alla possibilità di nuova musica insieme a distanza di oltre 15 anni dall‘ultimo disco.

Il ritorno dei System Of A Down ha preso tutti alla sprovvista. Una band che da oltre 15 anni non riesce a mettere da parte i dissapori interni per registrare un nuovo disco, limitandosi alla sola attività dal vivo, che all’improvviso annuncia non una ma ben due tracce inedite.

La motivazione che ha spinto la formazione di origine armena è stata, come spesso accade, di carattere sociale e politico e ‘Protect The Land’ e ‘Genocidal Humanoidz’ hanno avuto il compito di mettere sotto i riflettori gli scontri che hanno colpito il territorio armeno dell’Artsakh e di raccogliere fondi per aiutare le numerose vittime del conflitto.

L’operazione dei System Of A Down con i due brani  è riuscita a fruttare in una sola settimana ben 600.000 dollari interamente devoluti ad Armenia Fund, un’organizzazione che si occupa di supportare le vittime del conflitto.

Bisogna essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda

La domanda che tutti i fan si sono subito posti è stata: uscirà un nuovo disco dei System Of A Down?

Nelle prime uscite pubbliche la band è stata poco incline a dare una risposta affermativa ma in una recente intervista con Zane Low per Apple MusicSerj Tankian e il bassista Shavo Odadjan non hanno escluso del tutto la possibilità di un ritorno in studio per la band di origine armena.

Gli ultimi dischi dei System Of A Down, infatti, risalgono al 2005, anno in cui i SOAD pubblicarono “Mezmerize” e “Hypnotize”.

Parlando con Apple Music, Shavo si è dichiarato sempre e comunque un fan della band: “Personalmente, sin dal primo momento, anche quando ci siamo sciolti per un po’ verso il 2006, sono sempre stato un supporter della band – ha detto il bassista – sono sempre dalla parte di quelli che pensano che dovremmo continuare per sempre. Mi rifiuto di gettare la spugna, non mi importa, non mi importa di ciò che pensano. Fino a quanto saremo tutti in vita saremo un gruppo, ci credo ancora”.

Sulla possibilità di tornare a produrre del nuovo materiale dopo le uscite dello scorso anno Shavo dice che c’è bisogno di una condizione fondamentale, ovvero del trovarsi tutti sulla stessa linea: “Perché ciò accada per bene come è stato in passato e al meglio delle possibilità dobbiamo essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda ed essere tutti felici per ciò che stiamo facendo. Se non fosse così per solo uno di noi, significherebbe che non è la cosa giusta. E’ questo l’elemento fondamentale per la nostra scelta”.

Così non è stato per questi ultimi quindici anni in cui la band ha saputo ritrovarsi solo su un palco: “In questi 15 anni ci abbiamo provato ma c’era sempre qualcuno che aveva meno passione, in tal caso non ha senso. Spero che riusciremo ad essere tutti nello stesso stato mentale di potere tornare a farlo. Se così non sarà non mi accontenterò di quello che c’è, o tutto o niente”. 

Se siamo dalla stessa parte possiamo continuare a fare musica insieme

Anche il cantante dei SOAD Serj Tankian è d’accordo con il compagno di band ed è felice di come la nobile causa di supportare il popolo armeno abbia riunito di nuovo i System Of A Down in uno studio:

“Sono completamente d’accordo, tornare a suonare insieme ci è sembrato più che speciale. Tutto è parso molto naturale, del resto è qualcosa che abbiamo fatto per così tanto tempo e per me è stato molto importante specialmente il fatto di avere una causa per farlo – ha detto il cantante dei SOAD – Una cosa è fare qualcosa per te stesso, per la tua band, per la musica, la carriera o il business. Un’altra è farla per qualcosa che è totalmente al di fuori dei tuoi interessi, donare il ricavato in modo che la canzone e il gruppo diventano parte, una grossa parte, dell’attivismo. Credo che averlo fatto con questa band sia una cosa unica, lo abbiamo fatto in passato attraverso la nostra musica, anche se abbiamo anche canzoni che non sono per forza sociopolitiche ma anche divertenti, abbiamo di tutto. Credo che quando lo abbiamo fatto lo abbiamo fatto bene” 

“Questa volta – continua Tankian – siamo stati eccezionali in questo senso. Non voglio vantarmi ma abbiamo la musica come un’arma senza rimorsi, ed è così che dovrebbe essere. Sono davvero orgoglioso di ciò che abbiamo fatto e mi sono sentito benissimo”.

Ma quindi, ci sarà un nuovo disco dei System Of A Down? Secondo Serj Tankian tutto è possibile:

“Il futuro è un mistero, vedremo cosa succedere. Le vibrazioni che proviamo sono molto positive. Fino a quando saremo dalla stessa parte possiamo continuare a fare materiale”.

System Of A Down, Serj Tankian non esclude nuova musica

Serj Tankian protagonista del documentario “Truth To Power”

Serj Tankian sarà anche protagonista di “Truth To Power”, un documentario che racconterà di come il  cantante e leader dei System Of A Down sia stato una figura cruciale nel portare a conoscenza di tutto il mondo la questione armena, e la rivoluzione Armena del 2018 sia con la sua musica che con l’ impegno sociale e l’attivismo politico.

Il film sarà disponibile in streaming a partire dal 19 febbraio 2021 con una durata di 79 minuti per la regia di Garin Hovannisian che ha dichiarato: “Con Oscilloscope e Live Nation a guardarci le spalle, la musica e il messaggio del nostro film può ora toccare i cuori e le menti delle platee di tutto il mondo, inspirando tutti noi a dire e portare avanti la verità davanti ai potenti”.

La pellicola è da tempo in lavorazione e già nel 2018 Tankian ne aveva parlato in un’intervista con Rolling Stone USA anticipando di avere “Un documentario in fase di lavorazione che con i miei occhi guarda a come un messaggio diventa realtà attraverso l’arte”.

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Cosa c’è dietro la cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan (Formiche.net 14.01.21)

Geopolitica e “risposta” comune agli accordi Abraham: si sta snodando una nuova strategia alla base della rinnovata amicizia fra i tre player che, ognuno a modo suo, dimostrano mire precise nella macro regione di appartenenza

Cosa c’è davvero dietro la cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan che si sono accordate ufficialmente per combattere l’islamofobia, la discriminazione e la persecuzione delle minoranze musulmane? La preoccupazione diffusa dai tre Paesi per le gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità commessi contro le comunità musulmane in varie parti del mondo cela il progetto di fare muro contro le conseguenze degli accordi di Abraham, che toccano anche il Marocco in chiave geopolitica e il Mediterraneo in chiave energetica

DIALOGO

I ministri degli Esteri dei tre Paesi hanno annunciato la creazione di una piattaforma comune per rafforzare il dialogo trilaterale. Da Islamabad, in sostanza, prende avvio una fase di collaborazione articolata per combattere le persecuzione delle minoranze musulmane, in particolare nei forum regionali e internazionali. Accanto a ciò è stato discusso il tema legato alle conseguenze economiche dovute alla pandemia: a questo proposito hanno concordato uno scambio costante di informazioni, al fine di lavorare ad una maggiore solidarietà internazionale.

OLTRE L’ACCORDO?

Oltre quell’accordo c’è dell’altro. In primis l’idea di costruire una soluzione sostenibile e reciprocamente accettabile della questione di Cipro, direttamente connessa alla partita per il gas aperta nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale sulla base del diritto internazionale. Un annuncio che però si discosta dalla nota avversione di Erdogan alla Convenzione di Montego Bay e al Trattato di Lisbona, che ha delimitato dopo il primo conflitto mondiale le acque internazionali tra Turchia e Grecia.

Ma non è tutto, perché Turchia, Azerbaigian e Pakistan mirano ufficialmente a porre fine al conflitto tra Armenia e Azerbaigian, investendo su una generica normalizzazione. Come? Partendo, dicono in una nota ufficiale, dalla sovranità e dall’integrità territoriale dei confini internazionalmente riconosciuti all’Azerbaigian in conformità con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Parole che però non tengono conto di “come” Ankara abbia spinto sul Nagorno Karabakh anche con l’utilizzo dei suoi droni, gli stessi che hanno fatto la differenza in Libia.

STRATEGIE

Su questo si segnala la strategia messa a punto dal presidente russo, Vladimir Putin, e da Erdogan al fine di elaborare una sorta di Centro bilaterale per il monitoraggio dell’attuazione del cessate il fuoco. Come ha riferito il Cremlino l’obiettivo è “garantire il rispetto del cessate del fuoco e tutte le attività militari nell’area del conflitto”. Un passo formale che segue l’intesa trilaterale raggiunta da Russia, Armenia e Azerbaigian il 9 novembre scorso. Secondo il presidente azero Ilham Aliyev il centro turco-russo sarà ad Aghdam, un distretto del Nagorno-Karabakh che è stato consegnato all’esercito azero il 20 novembre scorso come condizione della tregua.

La tesi pubblicamente sostenuta da Erdogan è che la Turchia lavora per creare quell’humus utile ad azeri e armeni per vivere insieme nel Nagorno-Karabakh. Lo scorso novembre, va ricordato, il parlamento turco aveva approvato la mozione per lo spiegamento di truppe in Nagorno-Karabakh per un anno.

ABRAHAM

La rinnovata partnership tra Turchia, Azerbaigian e Pakistan va però letta in filigrana, senza evitare di analizzare le ripercussioni degli accordi di Abraham. Erdogan si è persino spinto a dire la Turchia è favorevole al miglioramento delle relazioni diplomatiche con Israele, “ma la sua politica palestinese è inaccettabile per Ankara”, entrando in quel solco di critiche agli accordi di Abraham già tracciato da Hamas. Appare evidente che la mossa israeliana di aver ripristinato con successo le relazioni diplomatiche tra il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti (come parte dell’accordo Abraham mediato dagli Stati Uniti) sia uno dei principali elementi che sta determinando reazioni a catena nell’intero quadrante mediorientale.

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Nagorno-Karabah, riaprono i passaggi con Turchia, Russia, Iran (Asianews.it 14.01.21)

Grazie alla mediazione di Putin, si riaprono prospettive per la rinascita economica della regione. Soldati russi per lo sminamento dei territori e la ricostruzione dei passaggi interrotti. Pašinyan non ha ottenuto il ritorno dei prigionieri. Cresce l’opposizione interna.

Mosca (AsiaNews) – I corridoi che permettono i trasporti fra il Nagorno Karabakh e i Paesi attorno (Armenia, Azerbaijan, Turchia, Russia, Iran, …) verranno presto riaperti. Lo ha assicurato il presidente russo Vladimir Putin dopo 4 ore di discussione con l’armeno Nikol Pašinyan (foto 2) e l’azero Ilham Aliev (foto 3).

Le trattative, tenutesi lo scorso 11 gennaio, non hanno sciolto tutti i nodi del conflitto, ma hanno presentato alcune prospettive per la rinascita economica della regione.  Martoriata dagli scontri armati negli ultimi mesi, la sua pace è per ora garantita da “pacificatori” russi e turchi.

Putin ha garantito che i corridoi dei trasporti verranno riaperti grazie al lavoro dei soldati russi che smineranno i territori e ricostruiranno i passaggi interrotti.

I due leader in conflitto hanno ascoltato il presidente russo con espressioni non molto concilianti: Aliev era molto freddo e Pašinyan estremamente nervoso (fino all’ultimo il suo arrivo era stato messo in dubbio); si sentiva poi la mancanza del “convitato di pietra” turco, il presidente Recep Tayyip Erdogan, che negli ultimi interventi ha insistito sulla necessità che la Turchia partecipi a tutti i processi post-bellici nella regione. Putin sembra voler imporre il formato tripartito esclusivo delle trattative, mentre Aliev ha parlato continuamente degli “interessi dei nostri Paesi vicini”. Con la riapertura dei trasporti, l’Azerbaigian ottiene infatti il ristabilimento del contatto diretto (soprattutto ferroviario) con la regione del Nakhichevan (zona azera in territorio armeno) e con la Turchia stessa.

A sua volta, il premier Pašinyan ha insistito sulla contrarietà armena allo status del Nagorno Karabakh e sulla questione dello scambio di prigionieri. Tuttavia egli si è dichiarato sostanzialmente d’accordo sugli accordi economici proposti da Putin, che riaprono anche i collegamenti tra Russia e Iran, e “possono condurre a garanzie più efficaci di sicurezza”.

Contro le trattative è intervenuto ieri il capo dell’opposizione a Pašinyan, il leader del “Movimento per la salvezza della patria” Vazken Manukyan. Con espressioni molto dure, egli ha detto che l’incontro di Mosca segna una nuova umiliazione per l’Armenia, che non ha ottenuto la restituzione dei prigionieri e ha assecondato tutte le richieste di Aliev. Manukyan è tornato a chiedere le dimissioni di Pašinyan, “che non è in grado di difendere gli interessi del nostro Paese”.

Anche in Georgia le reazioni all’accordo sono state piuttosto negative, in quanto le proposte del trio Putin-Aliev-Pašinyan riducono il ruolo di Tbilisi a semplice zona di transito delle comunicazioni tra nord e sud del Caucaso, senza poter intervenire nei meccanismi economici. I convogli per Baku e Ankara ora passeranno dal Nakhichevan, escludendo appunto la Georgia, che peraltro mantiene un ruolo strategico nel trasporto di gas e petrolio. In Georgia la politica è comunque bloccata dalla discussione sull’ennesimo ritiro dalla politica del miliardario Bidzina Ivanišvili (foto 4), fondatore e leader del partito al potere, il “Sogno Georgiano”.

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Henrikh Mkhitaryan “La mia Armenia ferita nel silenzio del mondo” (Repubblica 13.01.2021)

La Repubblica (M. Pinci) – Sorrisi leggeri e pensieri profondi. Henrik Mkhitaryan ha scelto di raccontarsi senza filtri, affrontando anche la questione del conflitto tra l’Azerbaigian e la sua Armenia.

Mkhitaryan, qual è il suo primo ricordo legato al calcio? 

È legato a mio padre Hamlet. Era attaccante, andò a giocare in Francia e lì ho iniziato a seguire le partite. È morto quando avevo 7 anni: quando si ammalò siamo tornati a Erevan e lì sono andato a scuola calcio.

Ha iniziato a giocare per lui?

Si, lui è stato il motore della mia scelta, il mio idolo e la motivazione per cui ho iniziato a giocare.

Lei per motivi politici non ha potuto giocare la finale di Europa League 2019 a Baku: da armeno non sarebbe stato al sicuro. 

La Uefa dovrebbe garantire la sicurezza di tutti i giocatori. Una finale europea è l’occasione di una volta, a volte l’unica che ti capita. E saltarla per motivi di sicurezza è davvero doloroso, come dolorosa è la guerra tra Armenia e Azerbaigian. È un diritto di ogni calciatore giocare al sicuro in ogni paese, soprattutto se ospita una finale europea.

Il conflitto del Nagorno Karabkh è scoppiato un anno prima della sua nascita: che peso ha avuto nella sua formazione? 

Non sono molte le persone che mi capiscono perché poche si sono trovate in situazioni simili. Da piccolo non capivo molto, ma poi ho studiato, anche a scuola, e ho visto cose dolorose. È incredibile che nel XXI secolo capitino cose del genere, una guerra che dura trent’anni. Fa male pensare ci siano prigionieri detenuti in Azerbaigian, sottratti alle loro famiglie da anni e anni.

Si sarebbe aspettato maggiore sostegno dal mondo del calcio?

Quando è esploso il conflitto mi hanno chiesto di convincere i calciatori a esporsi con un messaggio di sostegno all’Armenia. Ma io sono contrario a chiedere a persone che non conoscono la storia del Paese di prendere posizione. L’ho fatto io, ma solo con appelli alla pace, nient’altro.

Cosa l’ha convinta?

Era importante che il mondo si svegliasse, che qualcuno facesse sentire la propria voce. Molti hanno preferito non essere coinvolti. Ringrazio il governo italiano per il sostengo, anche Matteo Salvini, anche se la mia non è una preferenza politica. E grazie a chi ha riconosciuto l’indipendenza dell’Artskajh (repubblica proclamata dagli armeni in Nagorno Karabakh).

Da qualche giorno la Roma ha sensibilizzato i Roma Club a mettere a disposizione la loro rete per aiutare il popolo armeno…

Si, è fantastico ed è stata una iniziativa fantastica. Hanno colto la sofferenza della gente e si sono impegnati per dare un contributo. Non finirò mai di ringraziarli.

Derby da romanista: Pellegrini, un tifoso sulla trequarti

In quel contento è riuscito a unire il calcio e lo studio…

È stato difficile: gli allenamenti a volte erano la mattina, dovevo scegliere tra quelli e andare a scuola. I miei genitori volevano studiassi molto: quanti pensano di poter fare i calciatori? Ma basta un infortunio e se non hai studiato non sai fare nulla.

Da bambino era tifoso? 

Avevo le maglie di molte squadre ma non sono mai stato tifoso. Solo verso i 10, 12 anni ho iniziato a tifare Arsenal: Wenger aveva una squadra che prendeva i ragazzi, io sognavo di giocare lì. E alla fine l’ho fatto.

Cosa ha pensato quando le hanno detto “vai alla Roma”? 

Era un possibilità per dimostrare di poter ancora giocare bene. La Roma ha creduto in me, si vede da come gioco che qui sono felice, no?

Quindi rinnoverà il contratto? 

Non c’è stato tempo di parlarne, in pochi giorni abbiamo avuto l’Inter e ora la Lazio. Presto ne parleremo.

Da quando sono arrivati i Friedkin è cambiato qualcosa? 

Sono sempre vicino alla squadra, ma il fatto che Pallotta non ci fosse mai non deve essere un alibi. Dobbiamo essere pronti ai cambiamenti, che sia il modulo o il cambio di società.

A proposito: dal cambio di modulo la squadra è più continua. 

Ha dato più fiducia ai giocatori, se vedi anche in campo come giochiamo, proviamo cose insieme. E si, l’allenatore capisce meglio di tutti se cambiare formazione o no.

Venerdì giocherà il suo primo derby: ha studiato quelli passati? 

Non mi piace guardare partite vecchie, ho sentito parlarne i compagni, ma non servono parole per spiegarlo a un calciatore. Siamo pronti per una battaglia.

Sa che quando è arrivato i tifosi hanno registrato una canzone per lei sulle note di “Felicità” di Al Bano? 

Si (ride), qui la sento ogni giorno.

La Serie A come se la immaginava?

Penso sia sottovalutata. In Inghilterra dicevano che il livello era calato molto, ma un campionato non si giudica solo per il numero degli spettatori: da subito ho notato una qualità in campo molto elevata.

NAGORNO-KARABAKH: Quali novità per il 2021? ( East Journal 13.01.21)

La situazione in Nagorno-Karabakh è rimasta relativamente tranquilla con l’inizio del 2021. Lo scorso 27 dicembre, si è registrata una seconda violazione del cessate il fuoco definito dall’accordo del 9 novembre, mentre la popolazione di Stepanakert, evacuata durante i 44 giorni di guerra, sta progressivamente tornando nelle proprie case.

Rimangono però molti i punti problematici rimasti irrisolti, su tutti: lo scambio di prigionieri di guerra, la demarcazione del nuovo confine tra Armenia e Azerbaigian,  e lo status futuro del Nagorno-Karabakh. Queste e altre questioni sono state discusse l’11 gennaio a Mosca nel primo incontro dalla fine del conflitto tra il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan e il presidente azero, Ilham Aliyev, mediato dal capo di stato russo, Vladimir Putin.

Sparatorie, prigionieri e confini

Il 27 dicembre, il ministero degli Esteri dell’Azerbaigian ha riportato di una sparatoria avvenuta nei pressi del villaggio di Aghdam, nella regione di Khojavend, uno dei territori passati sotto il controllo azero per effetto del conflitto dello scorso autunno. Secondo la ricostruzione di Baku, i sei membri di un gruppo armato armeno rimasto nell’area avrebbero attaccato alcune unità dell’esercito azero, uccidendo un soldato. La notizia è, però, stata categoricamente smentita dalle autorità dell’Armenia.

Sempre nella regione di Khojavend, sono stati catturati 62 soldati armeni finiti al centro di un’altra controversia, rimasta irrisolta, tra le parti. Erevan ne ha, infatti, chiesto il rilascio in base all’ottavo punto dell’accordo di pace del 9 novembre [“Deve essere effettuato lo scambio di prigionieri di guerra, ostaggi e altri detenuti”]. Secondo Baku, invece, questi detenuti, essendo stati arrestati dopo la firma del cessate il fuoco, non sono prigionieri di guerra e dovranno, quindi, rispondere alla giustizia azera.

La demarcazione della nuova frontiera tra Armenia e Azerbaigian è un’altro dei punti spinosi tra le parti. Il confine internazionale che si può osservare su tutte le mappe della regione esiste, infatti, solo sulla carta. Grazie alla vittoria nella guerra degli anni Novanta, Erevan ha controllato per trent’anni il territorio da entrambi i lati della frontiera. Le infrastrutture – come per esempio una delle strade che collegano la capitale armena al sud del paese – sono state costruite guardando alla realtà sul territorio e senza curarsi delle cartine geografiche. Con il nuovo conflitto e l’avanzata territoriale azera, però, la questione è diventata spinosa. Baku  sostiene che la nuova frontiera debba essere marcata in base a come era definita dalle autorità sovietiche nel 1988 (ovvero prima dell’inizio della guerra). Erevan, invece, sottolinea l’importanza di riconoscere le realtà che si sono create con il tempo nell’area, oltre alle strade, anche pascoli e campi necessari al sostentamento degli abitanti della regione. Il problema potrà forse essere risolto con la mediazione russa, ma qualunque soluzione è destinata a creare scontento da una parte o dall’altra.

Le tante questioni aperte sono state, presumibilmente, discusse a Mosca l’11 gennaio durante le quattro ore dell’incontro a porte chiuse tra Aliyev, Pashinyan e Putin.

Ai termini del vertice trilaterale, i tre capi di governo hanno rilasciato alla stampa dichiarazioni dai toni molto diversi. Il presidente azero, forte del recente successo militare e del conseguente supporto popolare in patria, si è dichiarato soddisfatto per la fine del conflitto e per la piena attuazione delle clausole dell’accordo del 9 novembre. Il premier armeno, invece, alle prese con una difficile situazione politica interna che potrebbe portare alla caduta del suo governo, ha usato un tono molto più cupo. Pashinyan ha, infatti, sottolineato che il conflitto non è risolto vista l’assenza dello definizione di uno status per il Nagorno-Karabakh e si è detto insoddisfatto per la mancata risoluzione della questione dei prigionieri di guerra, una delle priorità per Erevan.

Putin, invece, ha espresso grande soddisfazione per la firma, avvenuta ai margini dell’incontro, di un accordo in quattro punti per la riapertura dei corridoi economici e infrastrutturali nella  regione. In particolare, il documento definisce l’istituzione di un gruppo di lavoro per la costruzione di infrastrutture ferroviarie e stradali tra Armenia, Azerbaigian e Russia, il cui primo incontro avverrà il 30 gennaio. Come sottolineato dall’analista Thomas de Waal, il vertice dell’11 gennaio è stata una delle poche occasioni in cui il presidente russo è stato presente al Cremlino dall’inizio della pandemia, a dimostrazione che la questione occupa un posto importante nella sua agenda.

I problemi da risolvere nel 2021 sono numerosi e complessi. I progressi fatti potrebbero essere messi in discussione da tanti fattori, su tutti il prevalere di forze politiche in Armenia contrarie ai negoziati con l’Azerbaigian. Il costo umano del conflitto dello scorso autunno dimostra che un’altra guerra va evitata a tutti i costi.

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