Erdogan: Turchia pagherà se sarà dimostrato genocidio armeno. Askanews

Roma, 30 gen. (askanews) – La Turchia è pronta a “pagare il prezzo” se verrà stabilito che è colpevole delle uccisioni di massa degli armeni un secolo fa. L’ha affermato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

In un’intervista dal vivo al canale televisivo statale TRT, Erdogan ha detto che il suo paese prenderà le necessarie misure se gli storici concluderanno che ha torto nella disputa con gli armeni.

“Se i risultati rivelassero che abbiamo commesso un crimine, se noi dovessimo avere un prezzo da pagare, allora come Turchia valuteremmo e faremmo i passi necessari”, ha detto il presidente turco.

Armeni, Turchia: un autogol…. La Stampa

http://www.lastampa.it/2015/01/30/blogs/san-pietro-e-dintorni/armeni-turchia-un-autogol-nCasfeDdlgaL2Q72rPBLzI/pagina.html

 

Poche settimane prima che in tutto il mondo si ricordi il centenario dell’inizio del Genocidio degli Armeni, il primo del secolo dei genocidi, il governo di Ankara ha commesso un autogoal la cui ironia può essere pienamente apprezzata solo da chi conosce il vigore della politica negazionista di Ankara.

marco tosatti

30/01/2015

Poche settimane prima che in tutto il mondo si ricordi il centenario dell’inizio del Genocidio degli Armeni, il primo del secolo dei genocidi, (il 12 aprile il Papa celebrerà una messa in ricordo) il governo di Ankara ha commesso un autogoal la cui ironia può essere pienamente apprezzata solo da chi conosce il vigore della politica negazionista di Ankara.

 

Il Ministero degli Esteri turco ha pubblicato, pare per errore, una fotografia del “Monumento al Genocidio Armeno” eretto a Yerevan, capitale dell’Armenia, in un pieghevole ufficiale preparato per commemorare la battaglia di Çanakkale, la battaglia dei Dardanelli, combattuta dalla Turchia contro le forze alleata durante la Prima Guerra mondiale. Un funzionario del Ministero degli Affari Esteri ha detto a Hurryet Daily News che la fotografia è stata “inclusa accidentalmente insieme ad altre fotografie”.

 

E’ stata aperta un’inchiesta per capire come sia stato possibile un errore del genere, e il responsabile verrà punito, ha detto il funzionario, aggiungendo che la maggior parte dei pieghevoli non sono stati ancora distribuiti. Il funzionario ha negato vigorosamente che la fotografia faccia parte di un’operazione di “apertura” verso l’Armenia.

Oltre il genocidio: la storia del popolo armeno. Resegoneonline

Ecco un articolo scritto dagli studenti lecchesi a seguito di una visita alla Casa Armena di Milano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo inviatoci dagli studenti del liceo scientifico del Collegio Volta

Lunedì 26 Gennaio noi ragazzi di seconda scientifico del Collegio Volta ci siamo recati in visita a Hay Dun, la Casa Armena di Milano, in occasione del Giorno della Memoria, in cui si ricordano tutti i genocidi del XX secolo. Rispetto alla Shoah, il genocidio armeno è sottovalutato, principalmente per ragioni politiche, ed è proprio per questo che noi studenti, su proposta dell’insegnante di Lettere, abbiamo deciso di approfondire l’argomento.

Dopo aver conosciuto la presidentessa dell’associazione, la signora Marina Mavian – che ci ha raccontato la storia avventurosa e quasi incredibile della sua famiglia, miracolosamente scampata ai massacri – abbiamo incontrato il prof. Aldo Ferrari, armenista dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, esperto di Russia e Caucaso e ricercatore presso l’ISPI (Istituto di Politica Internazionale). Il professore ha esordito ricordando che quest’anno, 2015, ricorre il centenario del genocidio armeno e che, poiché il governo della Repubblica Turca continua a negare quello che è successo, parlarne non è solo un dovere storico, ma anche un atto politico.

Di Armeni si parla poco, anche sui libri di scuola, e di loro si sa qualcosa solo del genocidio, mentre niente si conosce della loro millenaria storia. Perciò il docente ha ritenuto opportuno colmare questa lacuna, offrendoci una panoramica sulla storia armena dall’antichità fino all’inizio del ‘900. Ecco il report della sua lezione. L’Armenia storica era un grande territorio, che si estendeva su zone ora appartenenti alla Turchia, alla regione del Caucaso e, in parte, all’Iran.

Collocato tra impero romano e persiano, per lungo tempo il regno di Armenia ha rivestito una importanza notevole, in particolare dal VI – V secolo a.C al IV secolo d.C. Una data fondamentale per la storia e l’identità armena è il 301 d.C., anno in cui il regno fu il primo Paese al mondo a diventare ufficialmente cristiano, addirittura prima del cosiddetto editto di Costantino, del 313. Dopo la conversione, il Cristianesimo diventò il fattore principale della identità culturale armena.

Il prof. Ferrari ha poi precisato alcune questioni legate alla Chiesa armena: essa appartiene, insieme alla Chiesa copta, siriaca ed etiope, alle Chiese orientali o non calcedonite, che cioè non hanno accettato il concilio di Calcedonia (attuale quartiere stambuliota di Kadıköy) del 451. Il nome ufficiale è Chiesa Apostolica Armena, o Gregoriana (da San Gregorio Illuminatore, colui che ha portato la fede cristiana presso gli Armeni); la loro guida è chiamato Catholicos. Oggi in Armenia gli apostolici sono il 92 % circa della popolazione; esistono anche minoranze cattoliche e protestanti, in particolare tra gli Armeni della diaspora. Anche a Milano c’è una chiesa apostolica armena, in via Jommelli, dove si riunisce in preghiera la parte non cattolica della comunità milanese.

Tornando alla storia, il docente ha evidenziato che, molto presto, gli Armeni sono stati minacciati dai Persiani antichi (di religione zoroastriana) che, nel 451, tentarono di convertirli con la violenza. Ci fu una guerra, la guerra dei Vardanank: gli Armeni persero, ma riuscirono a resistere dal punto di vista religioso. Una cronaca armena riporta il famoso discorso tenuto dal comandante Vartan il 2 giugno del 451, nell’imminenza di una battaglia in cui tutti gli Armeni avrebbero trovato la morte: “150 anni fa siamo stati battezzati con l’acqua, oggi ci battezzeremo col sangue e faremo vedere che la nostra fede poggia su una roccia forte; il Cristianesimo non è un abito che si può togliere”.

 

Il professor Ferrari, che ha tenuto la lezione

Successivamente, a partire dal VII secolo, arrivò l’Islam. Gli Armeni furono gli unici a non convertirsi e a restare incrollabilmente cristiani. Alcuni, però, cedettero e scelsero di diventare musulmani, ma in questo modo cessarono ipso facto di essere armeni, perché per loro la conversione fa uscire dalla comunità. Essere armeni, dunque, è una questione sia etnica che, soprattutto, di appartenenza religiosa. Pian piano, col passare del tempo, il regno armeno si è sgretolato sotto il peso delle invasioni finché, attorno al 1050, perse l’indipendenza e cadde sotto la dominazione musulmana. A questo punto, il prof. Ferrari ha affrontato il capitolo dei rapporti tra Cristianesimo e Islam, cruciale dal punto di vista storico e molto attuale, dopo i recenti fatti di Parigi.

Posta la premessa che un conto è una religione, un conto le azioni commesse da chi la professa, quando si parla di Islam ci sono due estremi, entrambi da evitare: una visione “nera” (che dipinge l’Islam come violento, aggressivo, arretrato) e una visione “rosa” (secondo cui l’Islam è tollerante, aperto, colto). Cosa può dire uno storico? Di certo l’Islam prevede che le religioni monoteistiche abbiano diritto all’esistenza: aspetto molto importante, soprattutto se pensiamo che spesso, nella storia, i Cristiani non si sono dimostrati altrettanto tolleranti.

Va però sottolineato che la tolleranza islamica aveva dei limiti: Ebrei e Cristiani potevano sì mantenere la loro fede, ma in una condizione di discriminazione. A livello giuridico, la parola di un musulmano contava due volte rispetto a quella di un ebreo o di un cristiano. Inoltre, non potevano occupare posti di rilievo a livello politico e militare e dovevano essere disarmati. Dovevano anche pagare una tassa molto consistente per la protezione che lo stato concedeva loro. Perciò convertirsi era conveniente da tutti i punti di vista.

Il professore ha poi amaramente constatato che, come la storia ci insegna, alla discriminazione ci si abitua, volenti o nolenti, ma non ci si può abituare alla insicurezza quotidiana. E’ proprio questo fattore, la totale mancanza di sicurezza, che ha spinto molti Armeni ad emigrare, intorno all’XI sec., sia in Oriente (Alessandria, Smirne), sia in Europa. Tra un quinto e un decimo degli Armeni ha abbandonato la sua terra. È minore di quella ebraica, ma si tratta pur sempre una diaspora. Gli Armeni sono quindi diventati commercianti, imprenditori, artigiani, con un livello culturale alto, proprio come gli Ebrei. E come gli Ebrei sono stati per secoli oggetto di invidie, maldicenze, astio, che alla fine sono sfociati in qualcosa di tremendo, in un Male Assoluto.

Ma torniamo alla storia. Nel XIX secolo la maggioranza degli Armeni si trovava nell’impero ottomano, di gran lunga lo stato più forte dell’epoca. Senza dubbio il loro problema principale era l’insicurezza, come mostrato da un episodio avvenuto a Mush nel 1889, in cui un tribunale turco, in nome della condivisione della fede musulmana, ha assolto un bandito curdo autore di vari crimini contro i contadini armeni. Non tutti erano però esposti a soprusi e violenze: chi era emigrato nelle città (Costantinopoli, Aleppo, Smirne, Damasco) costituiva comunità borghesi ricche e colte.

A differenza dei musulmani, che facevano (e fanno ancora oggi) fatica ad accettare elementi di modernità, in ragione del loro “complesso di superiorità religiosa”, a dire il vero corroborato da quasi mille anni (dall’egira al fallito assedio di Vienna del 1683) di vittorie militari, gli Armeni erano felicissimi di prendere parte alla modernità europea, fin dal Settecento. Molti erano medici, avvocati, professionisti, sia nelle grandi città ottomane che in occidente, ad esempio a Venezia.

Nell’Ottocento anche gli Armeni iniziarono a sognare l’indipendenza, sulla scia di quello che stava avvenendo in Italia, nei Balcani, in Grecia. Ma gli Armeni erano al centro dell’impero, a differenza dei greci, e il sultano non poteva permettere che si staccassero: l’impero sarebbe collassato. Dobbiamo comunque ricordare che, in questo periodo, l’Impero ottomano era debolissimo, tanto da essere chiamato “il grande malato d’Europa”. Gli Armeni pertanto iniziarono a organizzarsi e molti di loro confidavano nell’aiuto dell’impero zarista russo, a cui erano legati già da tempo.

I primi gravi episodi ai danni degli Armeni avvennero nel biennio 1894-6: sono i cosiddetti massacri Hamidiani, dal nome del sultano Abdul Hamid II, che causarono 200.000 morti, vale a dire un decimo della popolazione armena. Questi massacri, per quanto terribili ed efferati, non possono essere chiamati “genocidio”, in assenza del decisivo elemento della pianificazione. Il genocidio, il Metz Yeghern – il Grande Male, come lo chiamano gli Armeni – avvenne nel 1915. I Giovani Turchi, al potere dal 1908, avevano notato che Francia e Germania erano Paesi forti e abitati da popolazioni etnicamente omogenee, mentre l’impero era un vero e proprio mosaico di popoli.

La loro idea era omogeneizzare lo stato, un progetto politico inevitabilmente e intrinsecamente criminale. L’occasione fu loro offerta dallo scoppio della prima guerra mondiale, che ha provocato la fine dei grandi imperi: russo, asburgico, ottomano. In questo contesto storico il timore dei Giovani Turchi – va ammesso – era legittimo e plausibile: perdere i territori orientali della Anatolia, che sarebbero passati o alla Russia o a un neonato stato indipendente armeno, e che in effetti oggi, dopo il genocidio, sono territori turchi.

Il professore non ha indugiato sui particolari macabri del genocidio, organizzato dal Triumvirato (Djemal, Talaat, Enver), la cui violenza è indicibile. Si è limitato a sottolineare la data di inizio, il 24 aprile, quando vennero arrestati 3-400 notabili armeni di Costantinopoli (che si chiamerà İstanbul solo dopo la nascita della Repubblica Turca), tra scrittori, giornalisti e politici, poi tutti uccisi. È come se, quel giorno, la letteratura armena fosse improvvisamente finita. Ancora oggi gli Armeni ricordano il genocidio il 24 aprile. A Costantinopoli vivevano 200 mila armeni, su una popolazione di 1,5 milioni, ma fu uccisa solo l’élite. La ragione – agghiacciante – fu che lì si trovavano tutte le ambasciate straniere, per cui non si poteva fare uno sterminio eccessivo; inoltre, visti gli incarichi di rilievo ricoperti dagli Armeni, si sarebbe fermata l’intera economia della città.

Per primi furono eliminati gli uomini adulti arruolati, tutti uccisi in qualche mese, fucilati o fatti morire di fatica. È terribile a dirsi, ma furono quelli a cui andò meglio. In Anatolia e sulla costa l’esercito turco separava gli adulti che, per varie ragioni, non erano stati arruolati, i quali venivano subito fucilati. Donne, vecchi, bambini, invece, vennero deportati, destinazione il deserto siriano, nei pressi di Der-Es-zor. I Turchi dicono che l’hanno fatto perché gli Armeni avrebbero potuto appoggiare i Russi: per loro non fu un genocidio, fu una deportazione.

“Ma è falso!” – ha esclamato il professore – “Che rischio era rappresentato dalla componente femminile e anziana?”. Inoltre, la destinazione era il nulla. Lo scopo era quindi il totale annientamento della popolazione. Infatti a destinazione non è arrivato quasi nessuno. Per quanto concerne lo scarno dato numerico, è impossibile una valutazione certa. Possiamo solo dire che, nel 1914, gli Armeni erano 2 milioni, mentre nel 1924 erano 70.000, tutti a Costantinopoli.

Dei 2 milioni, sottratti quelli che si sono salvati seguendo i Russi, in quella che oggi è l’Armenia, quelli che sono andati in Libano, Siria, Egitto, Iran, i bambini che sono stati salvati dalle associazioni internazionali per orfani e portati soprattutto in Grecia, Francia, USA, tolti i 70.000 di Costantinopoli, restano circa 1,3 milioni. Anche altri si sono salvati, soprattutto bambine, che sono state sottratte alle loro famiglie e turchizzate o curdizzate (i cosiddetti “resti della spada”). Ma quello che conta è che una intera popolazione fu spazzata via. Gli Armeni della regione che dagli stessi Turchi era chiamata Ermenistan sono stati totalmente cancellati.

Oggi gli Armeni in Turchia sono 40.000, tutti a Istanbul. Nella vecchia Armenia non ce n’è neppure uno. Il Genocidio fu criminale, feroce, spietato, ma razionale, a differenza della Shoah, che ha avuto elementi di follia tipicamente nazisti. Il trattato di Sèvres, del 1920, ha riconosciuto i territori alla Repubblica Armena, ma il trattato di Losanna, del 1923, li ha concessi alla Turchia, semplicemente perché non c’erano più Armeni.

Se aggiungiamo anche il massacro dei Greci del Ponto (Mar Nero) e dei Siriaci, deduciamo che la presenza cristiana è stata praticamente spazzata via. I Giovani Turchi, che pure non erano ferventi musulmani, anzi, giudicavano l’Islam una fede retrograda e oscurantista, sapevano bene che era impossibile turchizzare quei popoli, per cui decisero di eliminarli in quanto non assimilabili. I Cristiani, alla nascita della Repubblica Turca, erano ridotti allo 0,5 %, circa come oggi.

Al termine di questa splendida lezione, siamo tornati a casa con una domanda: che cosa spinge l’uomo a commettere azioni così atroci e letteralmente “disumane”? Noi possiamo solo continuare a studiare il passato, a ricordarlo, a sforzarci di non dimenticare, e lavorare quotidianamente per costruire un mondo migliore, in cui a tutti – indipendentemente da etnia, religione, condizione sociale – sia riconosciuta la piena dignità di esseri umani.

Ankara e la questione armena. Globalist

Nel giorno della commemorazione del giornalista turco-armeno Hrant Dink, il governo del presidente Erdogan è chiamato ad accelerare il processo di normalizzazione dei rapporti con Yerevan

 

Il 19 gennaio la Turchia ha commemorato Hrant Dink, il giornalista turco-armeno, direttore del settimanale Agos, ucciso nel 2007. Come ogni anno, una grande folla e discorsi appassionati hanno accompagnato la ricorrenza celebrata proprio nel luogo in cui Hrant Dink venne colpito da un giovane legato ad ambienti ultra-nazionalisti. E come ogni anno è stata manifestata rabbia per il corso della giustizia interrotto a metà: puniti gli esecutori materiali, ancora ignoti i mandanti di un assassinio di dichiarata matrice politica.   Il 20 gennaio è arrivato il messaggio di cordoglio del premier Ahmet Davutoğlu: parole importanti per riconoscere il ruolo prezioso dell'”intellettuale d’Anatolia” – così viene ricordato Dink – nel creare un “futuro comune tra turchi e armeni senza sacrificare la sua identità armena e la sua lealtà alla Turchia”. Dink era infatti membro della minoranza armena dell’Impero ottomano spazzata via quasi del tutto dai tragici eventi del 1915, quelli che gran parte della comunità internazionale considera un genocidio in piena regola. Dink era però nato e sempre vissuto in Turchia. Era dunque un cittadino turco a tutti gli effetti.   Un gesto nobile e probabilmente sincero da parte del primo ministro turco. Dopotutto, è stato proprio Davutoğlu l’ispiratore del processo di normalizzazione tra Turchia e Armenia, che però – nonostante i protocolli di Zurigo del 2009 – non ha prodotto i risultati promessi e sperati. Anzi, la ricorrenza del centenario il 24 aprile 2015 pone Ankara in una posizione difficilissima, sotto la pressione incrociata di Yerevan e della combattiva diaspora. E c’è chi legge le condoglianze agli armeni espresse dal presidente Erdoğan per la prima volta lo scorso anno, e questo messaggio del primo ministro Davutoğlu, come iniziative puramente strumentali.Ma l’invito a riprendere quei negoziati – anche in nome di Hrant Dink – è esplicito e costruttivo: “un nuovo inizio”, “il dialogo per superare l’animosità”, “il ricordo di una storia in comune di 800 anni”, “una prospettiva di amicizia e di pace”. In più, il governo negli ultimi anni ha compiuto dei passi concreti per valorizzare la presenza armena nella storia e nella cultura della Turchia, mentre fino a un recentissimo passato era stata anche fisicamente cancellata (restauro e riapertura di chiese, restituzione di proprietà confiscate, visibilità per i leader religiosi e civili). Tutto ciò però non basta, la richiesta dell’Armenia e della diaspora è quella di un riconoscimento formale degli eventi del 1915 come genocidio: una richiesta che la Turchia ritiene inaccettabile, perché basata su una lettura parziale e distorta dei fatti storici. Tornare allo spirito di Zurigo, sembra impossibile: almeno per quest’anno.

Armenia: dopo la strage di Gyumri . Osservatorio Balcani & Caucaso

Maxence Smaniotto | Yerevan http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-dopo-la-strage-di-Gyumri-158588

Continuano in Armenia le reazioni alla strage perpetrata da un soldato russo, nel silenzio delle autorità ufficiali, preoccupate di incrinare il rapporto con Mosca. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Si respira un’aria di tensione in Armenia in seguito alla brutale strage di una famiglia armena per mano di un soldato russo di stanza nella 102sima base russa di Gyumri. La sera del 12 gennaio, Valery Permyakov – questo il nome del soldato – ha fatto irruzione nell’abitazione della famiglia Avetisian uccidendo a colpi di pistola tutti i presenti, in tutto sette persone. Un crimine reso ancora più odioso agli occhi dell’opinione pubblica armena in quanto sono stati freddati a colpi di pugnale anche una bambina di due anni, mentre il neonato, di sei mesi, è deceduto nella notte del 20 gennaio all’ospedale di Gyumri in seguito alle ferite riportate. Il soldato ha confessato il crimine dopo che le Guardie di Frontiera russe lo hanno preso mentre tentava di fuggire oltre il confine turco.

Il movente del delitto resta incerto, ma fonti ufficiali russe descrivono Permyakov, un coscritto di 18 anni che ha servito alla base di Gyumri per solamente due mesi, come mentalmente instabile, il che, se confermato, solleverebbe ancora seri dubbi sui criteri di selezione e controllo dell’esercito russo, noto per il suo nonnismo endemico e indicato con un termine preciso, dedovščina.

La reazione della popolazione locale non si è fatta attendere. Nei giorni successivi al massacro, migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade della città e protestato di fronte alla base russa e al consolato, che per l’occasione è stato protetto dalla polizia armena in tenuta antisommossa. I manifestanti reclamano maggiore sicurezza e il diritto di processare il colpevole in un tribunale armeno, diritto per ora negato da Mosca, che promette un processo esemplare ma in territorio russo. Infatti la Costituzione russa nega l’estradizione di un suo cittadino verso paesi stranieri, una legge, questa, contestata dagli attivisti armeni che accusano Mosca di violare gli accordi bilaterali del 1997 secondo cui, se un militare russo commette un crimine fuori dalla base russa di Gyumri, il fatto cadrà sotto alla giurisdizione armena, e non russa.

Il massacro della famiglia Avetisian è solo l’ultimo di una serie di incidenti, omicidi e vessazioni che gli abitanti di Gyumri subiscono da anni. Nel 2013 due ragazzini sono morti in seguito all’esplosione di una mina dimenticata in prossimità della base militare. Il campo non era recintato, tuttavia nessuno è stato punito per questa fatale mancanza, ignorando totalmente le proteste dei locali. Nel 1999 due soldati ubriachi si sono recati nel mercato locale e hanno aperto il fuoco uccidendo 2 persone e ferendone 14 altre. I colpevoli sono stati giudicati da un tribunale armeno e condannati all’ergastolo, tuttavia Mosca ha preteso e ottenuto che fossero giudicati dalla corte marziale russa. Frequenti sono anche i casi in cui i soldati, spesso ubriachi, attaccano briga coi locali e aprono il fuoco in ristoranti e locali notturni per il solo gusto di intimorire i presenti con una dimostrazione di forza.

Le manifestazioni, l’esasperazione e la presenza di migliaia di persone presenti ai funerali della famiglia massacrata rischiano di rimettere in questione la stessa presenza della base militare russa e, più in generale, l’influenza russa nel piccolo paese del Caucaso meridionale. Una situazione delicata e dalle numerosissime conseguenze geopolitiche e economiche se si tiene in conto l’enorme dipendenza armena nei confronti della Russia.

L’Armenia: un paese isolato

Il contesto geopolitico e economico dell’Armenia è estremamente complicato e fragile. Due delle sue quattro frontiere, quelle con la Turchia e con l’Azerbaijan, sono chiuse e militarizzate per via della guerra del Nagorno Karabakh, conflitto “congelato” che provoca ogni anno decine di vittime tra civili e militari e che ha visto susseguirsi nel 2014 varie escalation militari, soprattutto durante il mese di luglio, quando le schermaglie sono sfociate in veri e propri combattimenti, e novembre, quando un elicottero miliare dell’Esercito di Difesa del Nagorno Karabakh è stato abbattuto durante un’esercitazione sulla linea di contatto da un razzo azero, nei cieli sopra la città di Agdam. Restano la frontiera al sud con l’Iran, inviso al paesi del blocco occidentale e indebolito da anni di sanzioni, ma vitale per via dell’oleodotto che rifornisce l’Armenia, e la frontiera con la Georgia al nord, nemica giurata della Russia e alleata strategica di UE e NATO, e il cui porto di Batumi è di vitale importanza per l’economia dell’Armenia, dato che quest’ultima non possiede sbocchi sul mare.

L’Armenia è strettamente legata alla Russia e alla sua politica estera. È uno dei pochi paesi al mondo ad averriconosciuto l’annessione russa della Crimea, dal 1991 fa parte della Comunità degli Stati Indipendenti e dal 1992 dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva. Inoltre, il 3 settembre del 2013, durante il summit di Vilnus, l’Armenia, con un cambio di rotta che lasciò di stucco i responsabili dell’Unione Europea con cui aveva lungamente discusso degli accordi di associazione, decise di associarsi al progetto dell’Unione Economica Eurasiatica (UEE) voluta da Putin, Unione a cui l’Armenia è entrata a far parte ufficialmente il 2 gennaio del 2015 assieme a Russia, Bielorussia e Kazakistan.

Dato il reciproco bisogno di supporto da parte della Russia che, tramite la base di Gyumri, si assicura una forte influenza nel sud di quel Caucaso eccessivamente vicino all’Occidente, e dell’Armenia, per la quale le entrate che gli immigrati armeni residenti in Russia versano alle famiglie rimaste nel paese costituiscono un importante polmone per ossigenare la fragile economia del paese, questo fatto di cronaca non poteva accadere in un momento peggiore.

Il noto analista armeno Richard Giragosian, fondatore del Regional Studies Center, un think-tank che da anni si occupa di analizzare la geopolitica del Caucaso e dell’Europa dell’Est, accusa Mosca di strumentalizzare il conflitto con l’Azerbaijan e le difficili relazioni diplomatiche con la Turchia per giustificare la presenza militare russa e l’ingerenza politica negli affari interni dell’Armenia. Parole-chiave come “partenariato”, “sicurezza”, “supporto”, “protezione” e “alleanze” (estremamente ridondanti nei discorsi ufficiali del governo armeno quando si tratta di parlare delle relazioni russo-armene) sarebbero, secondo Giragosian, poco più che fumo negli occhi. Le proteste e l’esasperazione della popolazione armena in seguito alla tragedia del 12 gennaio ne sarebbero un’ulteriore prova, che potrebbe rischiare di rimettere in questione i molteplici accordi con il governo russo.

Le reazioni

Oltre alle manifestazioni e all’indignazione degli armeni, è da segnalare il rumoroso silenzio del presidente Serzh Sargsyan. Negli stessi giorni in cui i manifestanti sfilavano per le strade di Gyurmi e Yerevan reclamando giustizia, il presidente armeno visitava asili e rilasciava dichiarazioni ufficiali sui rapporti turco-armeni in vista del centenario del Genocidio armeno del 1915, evitando ogni dichiarazione ufficiale sull’accaduto e incassando, il 18 di gennaio, durante una telefonata, la promessa da parte del presidente Putin che il colpevole sarà adeguatamente giudicato da un tribunale russo.

Mikael Ajapahyan, capo della locale diocesi, è una delle poche figure ufficiali ad essersi pronunciata sui fatti, condannando il massacro e invitando alla calma i manifestanti. Una calma che per ora pare tardare.

Francesco: una Messa in ricordo del genocidio degli armeni. Alteita.org

Sarà celebrata il 12 aprile a S. Pietro per il centenario di Metz Yeghern, il “Grande Male”. Tensione tra Armenia e Turchia a proposito delle celebrazioni

 

Chiara Santomiero (620)

 

Il 24 aprile del 2015 ricorre il centenario dell’inizio del massacro di un milione e mezzo di armeni ad opera del governo dei Giovani Turchi del padre della moderna Turchia, Mustafa Kemal Ataturk. Gli armeni lo indicano come Metz Yeghern, il “Grande Male”.

 

 

Nell’ambito della commemorazione, in Italia e nel mondo di questi avvenimenti, papa Francesco, secondo quanto stabilito dal calendario delle celebrazioni presiedute dal pontefice tra febbraio e aprile, celebrerà una Santa Messa a S. Pietro per i fedeli di rito armeno alle ore 10 del 12 aprile, domenica della Divina Misericordia.

GENOCIDIO O STERMINIO?

Gli storici non sono ancora d’accordo sull’attribuzione della definizione di “genocidio” (riconosciuta in presenza di precise caratteristiche della persecuzione contro “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”), ma in molti ritengono che lo sterminio della popolazione armena di Istanbul e in tutta l’area dell’ex impero ottomano sia stato il preludio a ognuno dei grandi massacri del Novecento, dalla Shoah, ricordata il 27 gennaio con la Giornata della memoria, al massacro di Srebenica (8 mila musulmani inermi uccisi dai serbi) del conflitto nella ex Yugoslavia e del quale quest’anno ricorrerà il ventennio.

Secondo Raz Segal, 39enne storico dell’Università di Tel Aviv che da anni studia i paralleli e le differenze tra diversi genocidi: «Lo sterminio degli armeni segna il vero inizio del ventesimo secolo. È la pulizia etnica in nome della purezza dello Stato Nazione che con la violenza sradica qualunque diversità. La stessa idea i nazisti l’hanno declinata in un senso più ampio e ancora più radicale. Ma con la Shoah e la catastrofe degli ebrei quell’idea purtroppo non è morta in Europa. Basti pensare ai Balcani e alla strage di Srebrenica» (L’Espresso 27 gennaio).

IL NEGAZIONISMO TURCO

La Messa presieduta da papa Francesco il 12 aprile si inserisce tra le numerose  commemorazioni che si sono aperte ufficialmente in Armenia nei giorni scorsi e che dureranno per tutto l’anno. Il prossimo 23 aprile il patriarca armeno ortodosso Karekin II presiederà la canonizzazione di massa di un milione e mezzo di uomini, donne e bambini armeni morti a causa della loro appartenenza etnica e religiosa. Nella lettera enciclica scritta per l’occasione Karekin ha ricordato che “nel 1915 e negli anni successivi un milione e mezzo di nostri figli e figlie ha subito la morte, la fame, la malattia; è stato deportato e costretto a camminare fino alla morte” (Il Sismografo 27 gennaio).

Il patriarca ha sottolineato il mancato riconoscimento del genocidio da parte delle istituzioni turche, dai tempi del fondatore Ataturk fino all’attuale presidente Erdogan, cui si accompagna una “negazione criminale della Turchia”, cioè un’opera attiva di negazionismo.

“GUERRA” DI COMMEMORAZIONI

Per la Turchia è difficile riconoscere degli eventi storici la cui crudeltà coinvolge gli stessi padri fondatori della moderna repubblica. Qualche apertura diplomatica verso l’Armenia non ha mai preso in considerazione la possibilità di riconoscere il “genocidio”: per i turchi le vittime furono “solo” 350 mila e per la maggior parte morirono per “tragica fatalità” durante i trasferimenti coatti della popolazione armena nell’est del Paese.

L’anno scorso, tuttavia, in occasione del 24 aprile e della memoria del “Grande Male”, il presidente Erdogan inviò un messaggio con il quale offrì le condoglianze ai discendenti degli armeni morti “nelle circostanze dell’inizio del XX secolo”, specificando che “è un dovere umano capire e condividere la volontà degli armeni di commemorare le loro sofferenze durante quel periodo”.

Quest’anno, nel timore delle ricadute politiche delle celebrazioni che si svolgeranno a Yerevan il 24 aprile prossimo, il governo turco ha deciso di anticipare di due giorni l’anniversario della vittoria nella battaglia dei Dardanelli del 1915 (di solito ricordata il 25 aprile) proponendo a 102 capi di Stato e di governo – tra cui il presidente armeno Serzh Sargsyan – un vertice per la pace a Istanbul proprio il 24 aprile. “Un tentativo grossolano – lo ha definito nella risposta a Erdogan il presidente armeno – di distrarre l’attenzione della comunità internazionale dalla commemorazione del centennale del genocidio armeno”.

IL “GIORNO DELLE MEMORIE”

Di fronte alla “contabilità” dei morti e ai contorcimenti diplomatici, assume maggior significato la proposta dello scrittore Moni Ovadia che vorrebbe trasformare la “Giornata della memoria” istituita il 27 aprile in ricordo delle vittime della Shoah che non furono solo ebrei ma anche “rom, antifascisti, omosessuali, menomati, Testimoni di Geova, slavi, emarginati, militari che rifiutarono di piegarsi ai nazifascisti” in “Giorno delle memorie”. “La nuova denominazione – scrive lo scrittore – dovrebbe riorientare le manifestazioni, gli studi, l’edificazione della casa della Memoria come laboratorio della cultura di pace, di giustizia, di uguaglianza nel ricordo di tutti i genocidi e degli stermini di massa” (gariwo.net).


http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_27/papa-pietralata-tor-bella-monaca-poi-va-napoli-celebra-armeni-a8764676-a610-11e4-96ea-4beaab57491a.shtml

 

Papa a Pietralata e Tor Bella Monaca
poi va a Napoli e celebra con armeni

In febbraio e marzo visita alle due parrocchie della periferia: denso di impegni il calendario della Quaresima: «Dobbiamo pregare per accettare la volontà di Dio»

di Ester Palma

 

ROMA – Due visite in parrocchie di periferia, dove il disagio sociale e la crisi economica si fanno sentire particolarmente: nel periodo della Quaresima papa Francesco visiterà San Michele Arcangelo a Pietralata (domenica 8 febbraio alle 16) e quella del Santissimo Redentore a Tor Bella Monaca (l’8 marzo, stessa ora). Il calendario degli impegni papali nel periodo che precede la Pasqua è molto fitto: il 21 marzo compirà una visita pastorale a Napoli e Pompei, mentre dal 22 al 27 febbraio farà gli esercizi spirituali di Quaresima ad Ariccia, con i vertici della Curia. E domenica 12 aprile, II domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, celebrerà la messa per i fedeli di rito armeno per ricordare i 100 anni dal genocidio degli armeni a opera dell’Impero ottomano.

«L’importanza dell’obbedienza»

Intanto martedì mattina , nella quotidiana omelia di Santa Marta, ha ricordato l’importanza per i cristiani di «pregare per avere la voglia di seguire la volontà di Dio, pregare per conoscere la volontà di Dio, pregare per andare avanti con la volontà di Dio». Perchè l’«obbedienza alla volontà di Dio» è la vera «strada del cristiano». Francesco invita i fedeli a domandarsi: «Come faccio per fare la volontà di Dio? Prego perché il Signore mi dia la voglia di fare la sua volontà o cerco i compromessi perché ho paura della volontà di Dio?». E aggiunge: «Devo pregare per conoscere la volontà di Dio su di me e sulla mia vita, sulla decisione che devo prendere adesso, sul modo di gestire le cose. Per compiere quella volontà, che non è la mia: e non è facile». Ma in questo il cristiano ha un esempio illuminante: «Non è stato facile per Gesù che fu tentato nel deserto e anche nell’Orto degli Ulivi accettare la volontà del Padre – ricorda il Papa – ma con lo strazio nel cuore accettò il supplizio che lo attendeva. Non fu facile per alcuni discepoli, che lo lasciarono perché non capirono. Non lo è per noi, dal momento che ogni giorno ci presentano su un vassoio tante opzioni». La strada della disobbedienza a Dio ha origine nella storia dell’uomo: «Cominciò in Paradiso con la non obbedienza di Adamo e quella disobbedienza ha portato il male a tutta l’umanità. I peccati sono atti di disobbedienza a Dio».

27 gennaio 2015 | 12:28

Amal Clooney per il riconoscimento del genocidio degli Armeni del 1915. Panorama e altri

Guardano tutti lei, Amal Clooney, nel giorno del debutto della moglie dell’attore americano sul palcoscenico della Corte per i diritti umani di Strasburgo, nel ruolo professionale di avvocato del governo armeno che chiede il riconoscimento del genocidio del 1915.

Mrs Clooney appare nella sala d’udienza della Corte indossando una toga nera, una pettorina bianca, tacchi a spillo, orecchini di brillanti e un anello a ciascun anulare.

La Svizzera ha condannato un cittadino turco che negava il genocidio
Impossibile avvicinarla mentre si dirige al tavolo posto al centro della sala da cui perorerà la causa degli armeni – la Corte di Strasburgo deve riconoscere che la Svizzera ha avuto ragione nel condannare un cittadino turco per aver negato l’esistenza del genocidio armeno.

La nota avvocatessa dei diritti umani è attorniata dalla sicurezza organizzata dalla Corte e protetta dalla sua guardia del corpo. “Abbiamo dovuto assicurarle che non sarebbe stata importunata prima o durante l’udienza da giornalisti o da altri” spiegano alla Corte. “Ma la sicurezza non è stata rinforzata solo per lei ma anche perche’ la questione che si dibatte è politicamente molto delicata”.

La prova è lo schieramento di almeno 10 camionette della polizia davanti alla Corte. Schierate in mezzo alla strada separano gli armeni, dai curdi, e dai numerosi turchi, venuti a manifestare pro e contro il riconoscimento del genocidio.

E mentre i manifestanti brandiscono slogan e sventolano le bandiere dei loro Paesi, dentro la Corte inizia l’udienza della Grande Camera sul ricorso che Dogu Perincek, giurista e uomo politico turco, ha presentato contro la Svizzera. Il presidente della Corte, Dean Spielmann, stabilisce l’ordine degli interventi. Mrs Clooney sara’ l’ultima a prendere la parola.

Libertà d’espressione: “Fu un massacro, non un genocidio”
Il primo a intervenire è proprio Perincek che difende il suo diritto alla libertà d’espressione, e quindi a dire che non esiste un genocidio armeno, perché “genocidio è un termine legale che non si può applicare a questo caso”. “Ma io ho sempre riconosciuto che gli armeni sono stati massacrati e deportati” sottolinea.

I suoi avvocati seguono la stessa linea. Poi tocca ai legali svizzeri. Loro vogliono solo che i giudici ribaltino la sentenza di condanna che una Camera della Corte pronunciò nel dicembre del 2013, ritenendo i tribunali svizzeri colpevoli di non aver fatto bene il loro lavoro.

Poi parla il legale del governo turco, che come quello armeno ha chiesto di intervenire come terza parte.

Avvocato Clooney: “nel 1915 fu genocidio”
Infine arriva la volta dei rappresentanti legali degli armeni. Parlano in 3, e Mrs Clooney è l’ultima. Parla in inglese. Nel suo discorso elenca fatti che provano che nel 1915 è stato compiuto un genocidio e accusa la Corte di aver fatto “un passo nella direzione sbagliata e un torto alle vittime e alle loro famiglie”. Il suo intervento dura meno di 8 minuti.

Il presidente della Corte la interrompe, “Mrs Clooney il tempo a sua disposizione è terminato”. Prima di lasciare l’aula la moglie di George si concede una sessione di foto in compagnia di funzionari e parlamentari armeni.


La moglie di Clooney debutta nel processo a Strasburgo sul genocidio armeno. Il Giornale 28.01.2015

 

Amal Alamuddin rappresenta il governo armeno, costituitosi parte civile nel processo contro un cittadino turco, che in Svizzera ha negato l’esistenza del genocidio armeno

Orlando Sacchelli

Amal Alamuddin, moglie di George Clooney, debutta alla Corte di Strasburgo. Nota avvocato dei diritti umani, rappresenta il governo armeno che si è costituito parte civile nel processo che vede imputato un politico turco,Dogu Perincek, che durante un viaggio in Svizzera negò il genocidio armeno. Perincek fu multato per le sue affermazioni, ma presentò appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, sostenendo che la Svizzera aveva violato il suo diritto alla libera espressione.

Oggi è iniziato il processo di appello. La sede della Corte era assediata dalla stampa. Oltre ai numerosi giornalisti e fotografi presenti circa 200 armeni che chiedono il riconoscimento del genocidio del 1915.

Il genocidio armeno

Gli armeni erano già finiti al centro di una dura repressione da parte del sultano ottomano Abdul Hamid II, tra il 1894 e il 1896. Per genocidio, tuttavia, si intende quello avvenuto tra il 1915 e il 1916. Gli armeni lo commemorano ogni anno il 24 aprile. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1915, infatti, furono compiuti numerosi arresti e deportazioni di armeni, inizialmente contro l’élite intellettuale di Costantinopoli: più di mille tra giornalisti, scrittori e persino parlamentari armeni furono deportati in Anatolia, e molti di essi neanche vi arrivarono perché uccise (o lasciate morire di stenti) nelle lunghe “marce della morte”. Da qualche anno nell’impero ottomano si era affermato il governo dei “Giovani Turchi”, formazione costituitasi alla fine del XIX secolo per trasformare l’impero in una moderna monarchia costituzionale, con un esercito ben addestrato. I giovani turchi temevano che gli armeni potessero allearsi coi russi, di cui erano acerrimi nemici. E in effetti alcuni battaglioni armeni dell’esercito russo nel 1915 si misero a reclutare armeni che prima avevano fatto parte dell’esercito ottomano. Anche i francesi, con il loro esercito, forniva soldi e armi agli armeni, spingendoli alla rivolta contro il movimento che, nel 1923, avrebbe dato vita alla repubblica. Furono anche (qualcuno dirà soprattutto) ragioni politiche e di alleanze, dunque, a causare i massacri.

Ancora oggi la Turchia rifiuta di riconoscere il genocidio compiuto a danno degli armeni. E nel modo più assoluto Ankara nega che il massacro fu pianificato e messo in atto così come, anni dopo, fecero i nazisti in Germania contro gli ebrei. Uno storico turco, che negli anni Settanta affrontò il tema spingendosi a ipotizzare che vi fosse stato un genocidio, fu incarcerato e condannato a dieci anni di prigione.

Gallerie fotografiche correlate

Amal Alamuddin Clooney difende gli armeni

Oggi Taner Akçam vive e lavora negli Stati Uniti. La Turchia tuttora punisce con una pena fino a tre anni chiunque in pubblico citi l’esistenza del genocidio degli armeni: viene considerato un gesto anti-patriottico. Questo negazionismo ha creato moltissime frizioni tra Turchia e Unione Europea, in relazion al negoziato per l’adesione di Ankara nell’Ue. Eppure le foto di Armin T. Wegner testimoniano quel massacro.


Amal Clooney a Strasburgo
per difendere l’Armenia

 

L’avvocato Amal Alamuddin Clooney – più famosa, suo malgrado, come moglie della star di Hollywood George – è al lavoro in uno dei processi più impegnativi della sua carriera. Rappresenta, infatti, l’Armenia (qui con il collega Geoffrey Robertson) al processo di appello sul caso Perincek, di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La vicenda risale al 2008. Durante una visita in Svizzera Il politico turco Dogu Perincek, del Partito dei lavoratori turchi, aveva negato che il genocidio del 1915 – nel quale un milione e mezzo di armeni hanno perso la vita – avesse mai avuto luogo. Perincek è stato multato per queste affermazioni da un tribunale in Svizzera, ha fatto appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha stabilito nel dicembre 2013 che la Svizzera aveva violato il suo diritto alla libera espressione. Adesso, inizia il processo di appello (Reuters)


L’Armenia difesa dalla signora Clooney

Amal Alamuddin sosterrà il punto di vista dello stato caucasico nel caso Perinçek

 

STRASBURGO – Per difendere il punto di vista armeno nel caso Perinçek che sarà trattato a Strasburgo, le autorità dello stato caucasico hanno chiesto l’assistenza del celebre avvocato australiano Geoffrey Robertson, che si presenterà in compagnia di Amal Alamuddin Clooney. Anch’essa specialista delle questioni legate ai diritti umani, la moglie dell’attore statunitense George Clooney è lontana parente del missionario appenzellese Jakob Künzler, deceduto in Libano nel 1949.

Nata in questo paese nel 1978 da un padre druso e da una madre sunnita, Amal Alamuddin lavora dal 2010 nel celebre studio legale londinese Doughty Streets Chambers. Legami di parentela la uniscono al missionario elvetico Jakob Künzler (Hundwil, 8 marzo 1871 – Ghazir, 15 gennaio 1949), soprannominato “il padre degli orfani armeni”. Basati a Urfa (sud-est della Turchia), Künzler e la moglie hanno tratto in salvo migliaia di bimbi armeni durante e dopo la Prima Guerra Mondiale.

La figlia dei Künzler, Ida, ha sposato Najib Alamuddin, il cugino del nonno di Amal Alamuddin Clooney, indicano fonti armene. Nel 1970, Ida Künzler ha pubblicato un libro sul padre e la sua azione umanitaria, intitolato “Papà Künzler e gli Armeni”.

Lo stesso Künzler ha redatto nel 1921 “Nella terra del sangue e delle lacrime, la Mesopotamia durante la Grande Guerra (14-18)”, considerato dagli armeni come una testimonianza capitale dell’esistenza del genocidio.

ats ansa


AMAL CONTRO I NEGAZIONISTI DEL GENOCIDIO ARMENO: LADY CLOONEY LOTTA DI FRONTE ALLA CORTE EUROPEA CONTRO IL POLITICO TURCO CHE DEFINÌ LA MORTE DI 1,5 MILIONI DI ARMENI “UNA BUGIA” (VIDEO) –

La vicenda risale al 2008. Durante una visita in Svizzera il politico turco Dogu Perincek, del Partito dei lavoratori turchi, aveva negato che il genocidio del 1915 – nel quale un milione e mezzo di armeni hanno perso la vita – avesse mai avuto luogo…

VIDEO – AMAL RAPPRESENTA L’ARMENIA IN CORTE EUROPEA

Da http://www.corriere.it

 

L’avvocato Amal Alamuddin Clooney – più famosa, suo malgrado, come moglie della star di Hollywood George – è al lavoro in uno dei processi più impegnativi della sua carriera.

Rappresenta, infatti, l’Armenia (qui con il collega Geoffrey Robertson) al processo di appello sul caso Perincek, di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La vicenda risale al 2008. Durante una visita in Svizzera il politico turco Dogu Perincek, del Partito dei lavoratori turchi, aveva negato che il genocidio del 1915 – nel quale un milione e mezzo di armeni hanno perso la vita – avesse mai avuto luogo.

Perincek è stato multato per queste affermazioni da un tribunale in Svizzera, ha fatto appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha stabilito nel dicembre 2013 che la Svizzera aveva violato il suo diritto alla libera espressione. Adesso, inizia il processo di appello.


http://www.2duerighe.com/autori/26-01-2015-corte-europea-per-i-diritti-umani-un-seconda-possibilita-sul-caso-perincek

Corte Europea per i Diritti Umani, una seconda possibilità sul caso Perinçek

Con una sentenza che ha fatto molto discutere, la Corte Europea per i Diritti Umani ha scagionato, il 17 Dicembre del 2013, Dogu Perincek, sconosciuto ai più nel nostro Paese, ma tristemente noto nel mondo della diaspora Armena (e non) per essere un convinto negazionista del genocidio armeno. Poche settimane fa l’importante organo ha deciso di riesaminare il caso, e il nazionalista turco sarà nuovamente sotto i riflettori il prossimo 28 Gennaio, avendo accettato i giudici di Strasburgo il ricorso avanzato dalla Svizzera. Ripercorriamo i fatti.

Questa storia comincia nel 2005, quando, durante una serie di conferenze tenute un giro per la Svizzera, il Presidente del Partito dei Lavoratori turco (gruppo nazionalista di sinistra) Dogu Perinçek parla più volte del genocidio armeno definendolo “menzogna internazionale”. Nel 2007 la giustizia elvetica lo condanna in quanto le sue allocuzioni erano “animate da un movente razzista, negato a più riprese il genocidio armeno” considerando ancche che i discorsi di Perinçek non erano motivati e dalla volontà di aprire un dibattito storico ma da un’evidente volontà negazionista. Il nazionalista viene riconosciuto colpevole per aver violato l’articolo 261 bis del Codice penale, che sanziona nello specifico chiunque neghi, minimizzi grossolanamente o cerchi di giustificare un genocidio. La pena inflitta dal Tribunale di Losanna fu di 90 giorni, ammenda con aggravante per discriminazione razziale e 3000 franchi di multa, per aver negato pubblicamente l’esistenza del genocidio armeno. Nel 2013 il colpo di scena. Il Presidente del Partito dei Lavoratori turchi, che aveva portato il caso davanti alla Corte Europea per i Diritti Umani, ottiene quello che vuole: per cinque voti favorevoli e due contrari, la Corte giudica che la sua condanna da parte del tribunale elvetico violava l’articolo 10 della Convenzione Europea per i Diritti Umani. Si afferma che le motivazioni avanzate dalla magistratura svizzera per giustificare la condanna di Dogu Perinçek non fossero tutte pertinenti, per non dire che fossero addirittura insufficienti. Secondo la Corte, le istanze svizzere non avevano dimostrato che la condanna del nazionalista turco rispondeva ad una “necessità sociale impellente” in una società democratica, né che fosse necessaria per proteggere l’onore e i sentimenti dei discendenti delle vittime che avevano subito delle atrocità dal 1915 in poi.

La Svizzera reagisce con forte emozione a questa sentenza e fa ricorso. Questo viene accettato e la Corte invia il caso Perinçek alla Grande Camera della Corte Europea. Questa decisione è stata accolta con sollievo dall’Associazione Svizzera-Armenia (ASA), il suo Presidente onorario, Sarkis Shahinian, afferma rendersi conto della “complessità” del procedimento innescato. Ma la Svizzera non è più sola nel perorare questa causa; l’appoggio dell’Armenia e della Francia come alte parti contraenti, danno nuovo spessore a questo caso. La Svizzera può oggi contare anche del sostegno de Licra (Lega Internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo), la FIDH (International Federation for Human Rights), la Lega per i Diritti Umani turca, la ASA (Association Suisses d’Armenie) e l’associazione tedesca per la difesa dei popoli minacciati di Thessa Hofman che compaiono come parti terze. Oltre ad Amal Alamuddin Clooney, l’accusa verrà rappresentata anche da Geoffrey Robertsons, avvocato di reputazione internazionale e autore del libro “Un genocidio che disturba: Chi si ricorda oramai degli Armeni?”.

Ricordiamo che Dogu Perinçek non solo è stato processato da Ankara, incarcerato a vita nell’Agosto 2013 e miracolosamente rilasciato lo scorso Marzo per, aver preso parte al movimento estremista Ergenekon, accusato complottare contro Erdogan e volere la sua destituzione, ma è anche membro del Comitato Talaat. Questo Comitato prende il nome da uno dei tre architetti del genocidio armeno ed opera in Europa con il fine di diffondere azioni negazioniste e manifestazioni pubbliche di stampo negazionista. Nel 2012 in Francia sono riusciti a radunare 30mila persone che hanno sfilato sotto l’egida del Comitato Talaat Pacha, scandendo slogan anti armeni dai toni più che offensivi, toni che rivelavano più un desiderio di odio, intimidazione e provocazione che libertà di parola. Sicuramente la Corte Europea per i Diritti Umani dovrà tener conto anche di questo. Negare un genocidio vuol dire uccidere due volte, e questo non c’entra nulla con la libertà di espressione.

di Jacqueline Rastrelli


http://it.blastingnews.com/cronaca/2015/01/in-memoria-di-un-genocidio-dimenticato-00250829.html

In memoria di un genocidio dimenticato

Amal Clooney difende il ricordo del genocidio armeno contro il Negazionismo turco.

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Amal Alamuddin finalmente dimostra di essere ben più che semplicemente la moglie del finora scapolo impenitente George Clooney, cioè un brillante avvocato. Il suo primo grande caso da quando è Mrs. Clooneyriguarda un evento tragico ma dimenticato della storia mondiale: il genocidio armeno del 1915-1916. Un cittadino turco, come d’altronde l’intero popolo turco, nega che vi sia stato un vero e proprio genocidio nei confronti degli armeni, popolazione cristiana che sin dal VII secolo a. C. ha vissuto la dominanza di Parti, Medi, Persiani, Macedoni e Ottomani.

La loro storia è appunto costellata di rivalse e ingiustizie, ritorsioni e inferiorità, da ogni punto di vista: è entrata, purtroppo, nella storia, l’orrenda battuta che Adolf Hitler pronunciò nel 1939 riguardo alla questione ebraica: “Chi oggi si ricorda degli armeni?”. I turchi hanno fatto del loro meglio per nascondere la morte, avvenuta nelle terribili marce della morte, di circa 2 milioni di persone. Eppure, luoghi come il Mussa Dagh, nomi di carnefici come dottor Nazim, Enver, Talat e Cemal Paça, fino all’eroico tedesco Armin T. Wegner, che fotografò e testimoniò l’intero massacro che, oltrepassando ogni tipo di divieto, riuscì ad osservare da vicino, non possono e non devono essere scordati.

Certo, gli armeni non se ne sono mai dimenticati e combattono tuttora affinché il mondo riconosca che, accanto agli Ebrei e ai Tutsi (anzi, cronologicamente è stato il primo genocidio del ‘900 propriamente detto), anche loro hanno sofferto le stesse, terribili, disumane atrocità. Davanti alla Corte riunita per discutere e giudicare il caso, si sono posti oltre 200 armeni. Tale giudizio deve essere una resa dei conti non tanto, e non solo, con quest’uomo che siede in tribunale, bensì una presa di coscienza dell’ennesimo tremendo atto di violenza dell’uomo contro se stesso; in altre parole, un altro corso e ricorso della Storia.

Il Giorno della Memoria non dovrebbe limitarsi alla trasmissione di film, fiction e documentari sull’argomento o alla pubblicazione in massa di libri perlopiù inventati e che mirano più a strappare le lacrime con bambini coraggiosi che a riportare un fatto storicamente avvenuto, ma dovrebbe essere dentro di noi, o meglio nella nostra anima e nel nostro lato più umano. Quotidianamente ci viene chiesta una presa di posizione circa massacri e guerre che si svolgono lontano dalle nostre case, eppure sotto i nostri occhi che fissano il televisore e tutti gli schermi della nostra vita: dall’Africa al Medio Oriente, fino alle nostre coste o nelle nostre strade di città. Ieri le vittime sono stati gli ebrei, gli omosessuali, i dissidenti politici, i disabili e gli zingari, oggi i tibetani, i palestinesi, gli emarginati di ogni genere.

E non si deve trattare di una questione religiosa, dal momento che l’Islam è sempre al centro delle polemiche: se alcuni hanno visto nel genocidio armeno un jihad, oggi è il caso di Charlie Hebdo a far discutere di più. La vera questione non è chi siano le vittime e chi i carnefici, perché di giorno in giorno cambiano volto, luogo, lingua, ideali, ma quale diritto sia dato all’uomo perché questo accada. Se viene citato Darwin, come di solito capita, si può benissimo controbattere che gli animali non fanno ciò che l’uomo ha fatto in tutti questi secoli in cui è la specie dominante. Lo fanno le bestie, che purtroppo non vengono mai a mancare.

Pro Armenia. Gli ebrei raccontano il genocidio fantasma. Panorama.it

Nel giorno della Memoria un toccante libro di Giuntina fa luce sul primo genocidio del Novecento, quello degli armeni per mano dei Giovani turchi

Pro Armenia. Gli ebrei raccontano il genocidio fantasma

Anna Mazzone

Nel 1939, poco prima dell’invasione della Polonia, Adolf Hitler tenne un discorso al comando delle SS, in cui ordinò come procedere per la “soluzione finale” e lo sterminio degli ebrei attraverso un universo concentrazionario fatto di sangue e orrore. Quando qualcuno dalla platea gli fece notare che sterminare milioni di ebrei non sarebbe passato inosservato, Hitler rispose: “Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?”. Anche in questo Hitler è stato sconfitto. Non si può cancellare un popolo né la sua memoria. E a mantenere vivo il ricordo del genocidio armeno per primi sono stati proprio quattro ebrei.

“Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando…”. Nel giorno della Memoria che ricorda l’Olocausto degli ebrei nella Germania nazista della Seconda guerra mondiale e a settanta anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, la casa editrice La Giuntina dà alle stampe Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, un libro toccante e coraggioso a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti, che racconta dello sterminio degli armeni per mano dei Giovani turchi nel 1915.

Toccante perché le voci narranti di Metz Yeghern, il Grande male come lo chiamano gli armeni, sono quelle di quattro ebrei. Coraggioso perché, a distanza di cento anni dal massacro degli armeni, il loro genocidio è ancora negato dai carnefici. Nessuna traccia sui libri di scuola di tanti Paesi europei, nessuna traccia nei libri di scuola della Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan.

E, a quanto sembra, nessuno traccia nemmeno nelle commemorazioni che si terranno il 24 aprile a Berlino, visto che il ministro degli Esteri tedesco, Frank Walter Steinmeir, ha recentemente dichiarato che “Il governo (tedesco) è informato delle iniziative programmate dalle comunità armene per il centenario degli eventi del 1915. Ma al momento non è previsto il patrocinio queste iniziative”. Rispondendo nel Bundestag a una serie di domande dei deputati di Die Linke, il capo della Diplomazia tedesca ha detto che non c’è “certezza storica” del genocidio armeno e che, per questo, la questione va risolta tra Turchia e Armenia. .

Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno  è un volume che gronda sangue e memoria. La prefazione di Antonia Arslan squarcia il velo di racconti serrati e tragici. Le parole di Lewis Einstein, André Mandelstam, Aaron Aaronsohn e Rapahel Lemkin rievocano un genocidio fantasma, che aleggia sull’Europa e la cui testimonianza impone una doverosa riflessione. Il racconto in tempo reale di questi quattro ebrei è ancora più significativo perché Einstein, Mandelstam, Aaronsohn e Lemnkin furono tra le poche voci a cercare di portare all’attenzione del mondo quello che nel 1915 stava succedendo in Turchia. All’epoca i tedeschi erano a conoscenza e non fecero nulla per fermare l’eccidio, rendendosi storicamente complici dei Giovani turchi e del massacro di più di 1 milione e mezzo di armeni.

Sfilano nelle pagine di Pro Armenia le immagini di madri, padri, bambini, anziani, ragazzi e ragazze, un intero popolo sterminato, cacciato dalle proprie case, umiliato, offeso, torturato. I vagoni merce che trasportavano gli armeni a morire nel deserto non erano marchiati dalla svastica del Terzo Reich, ma dalla Mezzaluna dell’impero ottomano, tuttora nella bandiera della Repubblica turca. Immagini di morte e disperazione in bianco e nero, che prendono corpo e vita, che respirano plasticamente attraverso il racconto di chi c’era e ha provato a salvarli.

Quattro uomini giusti, quattro ebrei. Furono tra i pochi a squarciare il velo dell’indifferenza su un genocidio che era il tragico antipasto della mattanza ebraica cui il mondo avrebbe assistito solo un pugno di anni dopo. Le quattro voci dei “fratelli” ebrei degli armeni provarono a lanciare l’allarme, tentatono di fermare l’eccidio in una disperata corsa contro il tempo. Ma la comunità internazionale colpevolmente volse lo sguardo altrove.

Oggi, a cento anni dal genocidio armeno, non è più possibile chiudere gli occhi e – anzi – è un dovere tenerli bene aperti. Perché, se – come dice Elie Wiesel – l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione, la demonizzazione dell’altro, l’antisemitismo e l’armenofobia galoppante, alimentata negli ultimi anni sia dall’Azerbaijan che dalla Turchia, è il segnale che un nuovo genocidio potrebbe ancora compiersi, perché laddove non esiste “memoria”, il Grande male può nuovamente affilare i suoi artigli.

Ebrei ed armeni, uniti nella memoria e nella condivisione di un passato di morte e di una ferita lacerante che si riapre ogni volta che la comunità ebraica e quella armena entrano nel mirino di antisemiti e armenofobi. Non è casuale che nel giorno della memoria della Shoah il presidente armeno Serzh Sargsyan abbia indirizzato alla comunità ebraica mondiale un discorso, dicendo che “E’ verità incontestabile che relegare le vittime di genocidi all’oblio e al negazionismo, soprattutto se di Stato, rappresenti un altro passo dello stesso crimine. E si tratta di un doppio crimine perché viene commesso non solo contro delle vittime innocenti ma anche contro il nostro presente ed il nostro futuro”.

Ma c’è una speranza. In un’Europa segnata da un antisemitismo crescente, la Fondazione per la Memoria della Shoah e la Fondazione per l’Innovazione politica, hanno diffuso i risultati di una ricerca sulla “Memoria nel Ventesimo secolo”. Un’inchiesta condotta su 31.172 giovani tra i 16 e i 29 anni in 24 Paesi del mondo. Il 77% dei giovani intervistati crede che nel 1915 in Turchia andò in scena il genocidio degli armeni. E in Italia i numeri sono addirittura più alti. Nonostante il silenzio dei libri di Storia, l’87% dei ragazzi italiani interpellati non ha dubbi nel dire che quello degli armeni fu un genocidio.

Alla faccia di Hitler e delle sue convinzioni assassine, la Storia ha già parlato. E questo vale per gli ebrei, per gli armeni e per i ruandesi. I tre popoli che nel Ventesimo secolo hanno attraversato l’inferno del genocidio e ne custodiscono la memoria, tramandandola affinché non succeda mai più.

Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno

a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti

Prefazione di Antonia Arslan

Edizioni La Giuntina

pag. 140, euro 12


http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/01/26/news/dagli-armeni-alla-shoah-il-novecento-secolo-dei-genocidi-1.196375

Dagli armeni alla Shoah, il Novecento secolo dei genocidi

Un secolo fa gli armeni. E settant’anni fa gli ebrei. Due tragedie unite in un libro in uscita, che mostra come il secolo scorso sia stato percorso dall’idea malsana della pulizia etnica

di Wlodek Goldkorn

27 gennaio 2015

Le scarpe degli internati conservate nel campo di Auschwitz Quando si parla di genocidi, deportazioni di massa, uccisioni su scala industriale; quando ai nostri occhi di spettatori postumi si presentano immagini di uomini, donne, bambine e bambini (tanti) condotti verso la morte (da pochi), è difficile reprimere l’impulso di chiedere: «Ma perché non si sono ribellati?». Di fronte a una evidente superiorità numerica delle vittime rispetto ai loro aguzzini non è facile capire la presunta rassegnazione o peggio passività di chi sta per essere assassinato. Nasce da questa nostra incredulità, da questa nostra incapacità di immaginare l’inimmaginabile l’idea che le vittime avessero rinunciato alla diginità e all’onore.

La domanda: «Perché non vi siete ribellati?» risuonò nell’aula del tribunale di Gerusalemme durante il processo di Adolf Eichmann, rivolta dal pubblico ministero Gideon Hausner ai testimoni supersiti della Shoah. Ne è nato un libro polemico, non privo di rancore: “La banalità del male” di Hannah Arendt.

In concomitanza con la Giornata della memoria (il 27 gennaio di settant’anni fa Auschwitz fu liberata dall’Armata rossa) l’editore Giuntina ha pubblicato un piccolo e prezioso libro. Non parla della Shoah, o almeno non direttamente. Si intitola “Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno” (a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti) con la prefazione di Antonia Arslan. A pagina 33 del volume si trova una frase che, sebbene scritta 45 anni prima del processo Eichmann, letta oggi, clamorosamente rovescia la questione posta da Hausner: «Alla domanda del perché non si ribellarono è facile rispondere». L’autore è Lewis Einstein, diplomatico americano, esperto della Turchia, morto nel 1967 all’età di novant’anni. E il testo, uno dei quattro del libro, lo ha composto nel 1917, due anni dopo il massacro che costò la vita a un milione di esseri umani, colpevoli solo di essere nati armeni.

Einstein spiega le ragioni per cui le vittime non si ribellarono così: «L’intero Paese era sotto le armi e con la legge marziale, la resistenza organizzata diventava impossibile». Esattamente la ragione per cui solo pochi ebrei, qualche decennio dopo, si ribellarono ai nazisti. Ma il diplomatico va oltre: racconta come a «Izmit (…) il vescovo rivestito dei suoi più bei paramenti sacerdotali, guidò il suo gregge, cantando l’inno che si dicesse cantassero i figli d’Israele quando fuggirono dall’Egitto». La fuga dall’Egitto era una marcia verso la libertà. Qui invece l’autore rovescia il testo e la tradizione biblica e aggiunge: «E così partirono, quasi sempre verso la morte». In altre parole: nessun carnefice è in grado di togliere la dignità alla vittima, se la vittima della sua dignità rimane cosciente.

Gli armeni furono sterminati in due ondate successive. La prima nel 1893-1894, ad opera del sultano Abdul Hamid II. L’accusa rivolta loro era quella di fomentare i disordini e di lavorare per la distruzione dell’impero ottomano. Furono ammazzate 200 mila persone. La seconda ondata, quella di un vero genocidio, nel senso che un’intera cultura venne sradicata assieme ai suoi portatori e ai suoi segni materiali (case, chiese, cimiteri) sugli altopiani dell’Anatolia, risale al 1915. La prima guerra mondiale era in corso.

La Turchia, governata da nazionalisti che in apparenza volevano modernizzare il paese, era nemica della Russia e nelle file delle armate dello zar c’erano molti soldati armeni. A Costantinopoli degli armeni cittadini turchi non ci si fidava. Occorreva quindi sbarazzarsi di loro. La ricostruzione della storia e del contesto in cui il massacro avvenne è, nel libro, opera di Raphael Lemkin, ebreo polacco, giurista, inventore, nel 1944, della parola genocidio scomparso nel 1959 a New York (ai suoi funerali parteciparono appena sette persone). I suoi studi su cosa significhi l’assassinio e la cancellazione di un intero popolo risalgono ai primi anni Venti, quando lesse resoconti del processo intentato a Berlino a un giovane armeno imputato di aver ucciso Mehmet Talaat, ex ministro del governo turco, considerato il principale responabile della sorte subita dai suoi confratelli.

Le sofferenze dagli armeni – per altro raccontate in forma romanzata da Antonia Arslan (l’autrice, appunto della prefazione a questo libro) in “La masseria delle allodole” (da cui i fratelli Taviani trassero l’omonimo film) – in questo libro sono narrate da Aaron Aharonson, sionista, agronomo talentuoso e uomo che in Palestina si mise contro i turchi al servizio dei britannici. Nel suo testo racconta di «treni stipati con 60-80 armeni in carri merci». E poi, con un tocco degno di un raffinato scrittore presenta il caso di un uomo sui 45 anni, elegante, che viene catturato a Costantinopoli assieme a un bambino di tre anni e portato al commissariato di polizia.

Gli armeni non finirono nelle camere a gas, a differenza degli ebrei. Trovarono la morte durante le lunghe marce dalle loro città e villaggi e fino al deserto. Erano sottopposti a ogni possibile angheria; tra stupri delle donne, uccisioni arbitrarie, decessi per stenti, a causa di fame o per mancanza d’acqua. Uno sterminio più artigianale quindi rispetto a quello degli ebrei. Ma uno sterminio che non sfuggì, ecco un’altra coincidenza, agli occhi dei tedeschi, alleati dei turchi (ne parla nel libro il russo Andre Mandelstam), tanto che servì a Hitler da esempio su come il mondo sia in grado di tollerare e dimenticare tutto.

Dice Raz Segal, 39enne storico dell’Università di Tel Aviv che da anni studia i paralleli e le differenze tra diversi genocidi: «Lo sterminio degli armeni segna il vero inizio del ventesimo secolo. È la pulizia etnica in nome della purezza dello Stato Nazione che con la violenza sradica qualunque diversità. La stessa idea i nazisti l’hanno declinata in un senso più ampio e ancora più radicale. Ma con la Shoah e la catastrofe degli ebrei quell’idea purtroppo non è morta in Europa. Basti pensare ai Balcani e alla strage di Srebrenica». Di quella strage, oltre 8mila musulmani inermi, ammazzati dai serbi, quest’anno cade il ventesimo anniversario. Un altro anniversario da ricordare, in questa giornata della memoria.

Il Giorno della Memoria continua. Quinewscecina.it

In programma ​altre iniziative: giovedì 29 la commemorazione di Oberdan Chiesa e venerdì la proiezione gratuita del film ‘La tregua’

ROSIGNANO MARITTIMO — Ieri, lunedì 26 gennaio, circa cinquecento ragazzi, studenti delle scuole Medie “G. Fattori” e delle scuole Superiori “E. Mattei” di Rosignano Solvay hanno partecipato ad una mattinata intensa di emozioni dedicata alla rievocazione di alcuni fatti storici legati alla Shoah e alla persecuzione degli armeni. Questa è solo la prima delle iniziative previste nel Comune di Rosignano in occasione del settantesimo anniversario della Shoah e anche del centenario del genocidio armeno, che a detta di molti storici fu per Hitler fonte di ispirazione per “la soluzione finale della questione ebraica”.

Le iniziative dedicate alla commemorazione e al ricordo dello sterminio degli ebrei e degli italiani che si sono opposti al fascismo proseguiranno anche nei prossimi giorni: giovedì 29 gennaio alle ore 11 presso la spiaggia del Lillatro l’Amministrazione Comunale renderà omaggio alla memoria di Oberdan Chiesa. Il giovane antifascista fucilato per rappresaglia nel 1944, divenuto per la comunità simbolo della lotta per la libertà e la democrazia, sarà ricordato dal sindaco, Alessandro Franchi, in presenza delle Autorità e di un picchetto dei Carabinieri in uniforme di rappresentanza.
In caso di pioggia la cerimonia, a cui prenderanno parte anche il coro ANPI Rosignano, il gruppo filarmonico “E.Solvay” e il gruppo teatrale ISIS Mattei, si svolgerà presso la sala Auditorium di Piazza del Mercato.

Venerdì 30 gennaio alle ore 21,15 al Cinema Castiglioncello, tutta la cittadinanza è invitata a partecipare proiezione gratuita del film “La Tregua” tratto dall’omonimo romanzo di Primo Levi e girato nel 1997 dal regista Francesco Rosi, recentemente scomparso. La proiezione sarà preceduta da un breve intervento di parole e musica, a cura dell’associazione “La Nottola”.

Nella mattinata di ieri, alla presenza dell’assessore alle politiche scolastiche e culturali, Valentina Domenici, della presidente del Consiglio Comunale, Caterina Giovani, e di alcuni esponenti della Comunità ebraica di Livorno, i ragazzi delle scuole del territorio hanno assistito ad un breve video realizzato dalle scuole medie Fattori e successivamente al documentario “Oro Macht Frei”, sulle vicende degli ebrei romani dal 1938 al 1944.
La seconda parte della mattinata, quella sicuramente più densa di emozioni, ha visto la partecipazione di una delle figlie di Arminio Wachsberger, Clara, che ha raccontato ai ragazzi la storia del padre, che si trovò, suo malgrado a fare da interprete a Joseph Mengele, il direttore sanitario del campo di sterminio di Auschwitz, diventando così uno dei principali testimoni del meccanismo di sterminio adoperato dai tedeschi. All’incontro hanno partecipato inoltre il professor Giangiacomo Panessa, Manuela Mirman e Gaiane Badalaian, che hanno parlato ai ragazzi dello sterminio degli armeni e di come la comunità armena si è integrata a Livorno da oltre cinque secoli. Si è trattato di un momento molto significativo ed educativo per i ragazzi, che hanno ascoltato con molta attenzione le parole di questi preziosi testimoni.

 

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Centenario genocidio armeno, guerra tattica Turchia-Armenia. Online-news.

Senza sorprese a poche settimane dal centenario dell’inizio del ‘genocidio armeno’ del 1915-16 perpetrato dalla Turchia ottomana è iniziata una guerriglia diplomatica e dei comunicati fra Ankara ed Erevan. L’Armenia, e la sua importante diaspora sparsa per il mondo, sperano di ottenere molti nuovi riconoscimenti internazionali del «genocidio» – con lo sterminio secondo diversi storici di 1,5 milioni di armeni da parte del governo nazionalista dei ‘giovani turchi’. La repubblica della Mezzaluna, fondata da Mustafa Kemal Ataturk sulle rovine dell’impero dei sultani nel 1923, continua a negare che si sia trattato di un «genocidio», e vuole limitare i danni diplomatici che teme possa causare l’impatto emotivo del centennale. Per cercare di distrarre l’attenzione del mondo, accusa l’Armenia, dalle cerimonie organizzate a Erevan il 24 aprile prossimo – la Chiesa armena potrebbe dichiarare ‘beati’ centinaia di migliaia di vittime dello sterminio – Ankara ha cosi deciso di anticipare di due giorni le celebrazioni dell’anniversario della battaglia dei Dardanelli del 1915 finora ricordata ogni anno il 25 aprile. Quest’anno la Turchia celebrerà invece la vittoria sugli Alleati franco-britannici-australiani-neo-zelandesi dal 23 al 25 aprile. E proprio il 24 il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan ha proposto a 102 capi di stato e di governo un ‘vertice per la pace’ a Istanbul. Erdogan ha perfino invitato il presidente armeno Serzh Sargsyan. Che non l’ha presa bene. I due paesi limitrofi non hanno rapporti diplomatici, divisi non solo dallo scoglio del «genocidio» ma anche dall’appoggio di Erevan alla minoranza armena nel conflitto del Nagorno-Karabah in Azerbaigian, mentre Ankara si è schierata con i ‘fratelli’ turcofoni azeri. L’anno scorso, Erdogan aveva fatto un gesto verso Erevan, inviando il 24 aprile le proprie condoglianze ai discendenti degli armeni morti nel 1915-16. I dirigenti turchi negli ultimi anni hanno tentato aperture diplomatiche verso l’Armenia, ma senza spostarsi di un millimetro sulla questione del «genocidio». Nella risposta a Erdogan, Sargsyan non ha usato i guanti. Ha denunciato un «tentativo grossolano di distrarre l’attenzione della comunità internazionale dalla commemorazione del centennale del genocidio armeno» con l’anticipazione delle cerimonie turche per Gallipoli. E ha ricordato che il genocidio armeno «ha aperto la strada all’Olocausto nazista e ai genocidi perpetrati poi in Ruanda, Cambogia e Darfur», invitando la Turchia ad avere il coraggio di ammettere il genocidio e a liberarsi così di un «pesante fardello». Da qui ad aprile le pressioni in questo senso su Ankara dovrebbero accentuarsi. Diversi parlamenti in tutto il mondo già hanno riconosciuto il genocidio. Quello francese ha anche chiesto che penalmente sia punibile il ‘negazionismo’. Come per il genocidio degli ebrei. E l’Europarlamento da tempo ha definito il riconoscimento del genocidio armeno da parte della Turchia come un pre-requisito per una sua ipotetica futura adesione all’Ue.