27 Gennaio: in memoria di tutti i genocidi (Agoravox.it 27.01.16)

di Francesco Cecchini

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”                  

Primo Levi, in appendice a un’edizione di Questo è un uomo.

“Il genocidio è un atto criminale premeditato, organizzato sistematicamente e messo in atto con l’obiettivo di sterminare delle comunità civili mirate, scelte in base a criteri di nazionalità, razza o religione.”

Ryzard Kapuscinski, da Le Monde Diplomatique.

 

Il 27 gennaio del 1945, sono trascorsi 71 anni, l’Armata Rossa entrava nel campo di sterminio di Aushwitz, Oswiciem in polacco, e liberava i prigionieri superstiti. In quel giorno emerse in tutta la sua crudeltà quello che era accaduto di atroce in quel campo di concentramento. Il mondo scopriva l’orrore dell’Olocausto. Con l’avvento del nazismo di Hitler in Germania (1993/1945) venne avviato lo sterminio del popolo ebraico in Europa. Le vittime di questo immane olocausto sono calcolate in oltre in oltre 6 milioni di persone, la gran parte di loro morta nei campi di sterminio. Durante questo periodo non furono sterminati solo ebrei, ma anche quei gruppi non conformi al disegno nazista di purezza e perfezione della razza ariana: rom, omosessuali, neri, malati di mente, comunisti, slavi e via dicendo. Tutti quei gruppi definiti Untermenschen, sotto persone. Tra il 1941 ed il 1945 nei campi di concentramento e di sterminio istituiti dal regime nazionalsocialista morirono, compresi gli ebrei, tra i dieci e i quattordici milioni di persone.

A proposito di prigionieri politici, questa è la testimonianza dello scrittore ultracentenario Boris Pahor in “Triangoli rossi, i campi di concentramento dimenticati”.  Triangoli rossi erano i pezzi di stoffa che venivano appuntati al petto di prigionieri politici. “Ogni Giorno della memoria si ripete sempre nello stesso modo: si parla molto di Auschwitz, si parla di Birkenau o Treblinka, di Buchenwald o di Mauthausen, ma quasi mai di Dora-Mittelbau, di Natzweiler-Struthof e altri campi riservati ai Triangoli rossi, i deportati politici. E spesso mi risentivo, qualche volta a voce alta, non perché sono stato un Triangolo rosso anch’io, bensì perché avere sul petto, sotto il numero che sostituiva il nome e il cognome, il triangolo rosso, significava che ero stato catturato perché come soldato non mi ero presentato all’autorità militare nazista, ma avevo scelto di oppormi in nome della libertà.

Questa data è un giorno in cui non dobbiamo dimenticare che odio, violenza e illegalità possono riportare le tragedie del passato. Oggi stesso viviamo drammatici disastri. Le guerre d’ingerenza dell’imperialismo occidentale che hanno destabilizzato la Libia e il Medio Oriente. Il terrorismo islamista. Il terrore sionista in Palestina ed altro.

ALCUNI GENOCIDI DEL SECOLO SCORSO.

La storia del XX secolo conta oltre una decina di episodi di genocidio. Il termine episodio non è comunque il migliore, poiché questi massacri sono generalmente durati molto tempo. In ogni evento, lo svolgimento del massacro e dello sterminio della comunità perseguitata è stato preceduto da un periodo di sofferenze, di privazione per fame, di umiliazione, di terrore. Inoltre, in tutti i casi i genocidi sono stati preparati ed eseguiti in contesti sociali di crisi economica, politica, culturale e morale profonda.

Questa nota ne elenca alcuni, oltre l’Olocausto del popolo ebreo.

 

Olocausto Herero e Nama nell’ Africa tedesca, Deutsch-Sudwestafri

Fu il primo genocidio del 900. Tra il 1884 ed il 1908 la colonia tedesca,ora Naimbia fu il laboratorio per la creazione di campi di concentramento e la sperimentazione delle prime forme di eliminazioni di massa. Il piu famigerato campo campo di concentramento fu il Konzentrantionslager auf der Haifishensel vor Luderritzbucht nell’ isola di Shark, dove si registrò un taso di mortalità del 70%. Per il clima inospitale, freddo, la malnutrizione, le violenze fisiche e gli stupri, fu denominato Todesinsel, l’isola della morte.Questi due popoli, herero e nama fu sterminato per essersi ribellati, coraggiosamente ed in armi, infliggendo perdite, contro l’invasore tedesco. Significative sono le parole di Lothar Von Trotha, inviato con 20000 soldati per una vera e propria azione di annientamento, prima ai suoi superiori: “Ritengo preferibile che la nazione herero perisca piuttosto che infetti i nostri soldati e inquini la nostra acqua ed inquini i nostri cibi”. Poi al popolo herero:” Io, generale delle truppe tedesche indirizzo questa lettera al popolo herero. D’ora in poi gli herero non sono più sudditi tedeschi…Devono lasciare il Paese (ndr: cioè il territorio africano che appartiene loro). Qualsiasi herero scoperto all’ interno del territorio tedesco, armato oppure no, con oppure senza bestiame sarà ucciso. Non sarà tollerata neppure la presenza di donne e bambini che dovranno raggiungere gli altri membri della loro tribù (ndr: ossia morire di fame nel deserto), altrimenti saranno fucilati.”

Non c’ è una contabilità esatta dei morti per le armi, di fame, nei campi di prigionia o nelle deportazioni. Alcuni dicono che i due popoli, herero e nama furono ridotti dell’80%.

 

Genocidio del popolo armeno

Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C.
Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi.
Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi.
Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente.
Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.
Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor. Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.

 

Genocidi del colonialismo e fascismo italiani in Africa.

Libia

L’avventura coloniale in Libia, tra il 1911 e il 1931, fu accompagnata da orrori. deportazioni, bombardamenti, e l’uso di gas proibiti dalle convenzioni internazionali, campi di concentramento. Ad El Agheila e in altri campi di concentramento, secondo le stime più attendibili, furono rinchiuse circa 80mila persone. E ne uscirono, probabilmente, un quarto di meno. Un calo di ventimila unità dovuto fame e sentenze di Tribunale militare speciale, il quale, quasi sempre, decretava la pena capitale per gli imputati.

Colonialismo e fascismo italiani costarono al popolo libico un saldo di 100.000 morti su una popolazione di 700.000- 800.000.

 

Eritrea ed Etiopia

Il numero di morti eritrei dal 1890 al 1941 fu alto, anche se inferiore e di molto, a quello dei libici e degli etiopi. Per dare un’idea del genocidio africano di cui l’Italia coloniale e fascista è responsabile, le perdite etiopi nella guerra del 1935 e 1936 furono 760.000, secondo il numero fornito dal Negus alla Società delle Nazioni. Un numero forse non esatto, ma che indica la dimensione del massacro. In Etiopia a questo numero immenso, vanno aggiunte le perdite della prima guerra italo-etiope, 1895 – 1896, e dopo le stragi di bambini, donne e uomini in seguito all’ attentato a Graziani nel 1937, il massacro di Amazegna Wagni nel 1939 e i morti della seconda guerra mondiale in Africa Orientale.

Gli eritrei che hanno pagato il più alto prezzo di sangue furono i soldati dell’esercito coloniale, gli ascari. Le stime, però, sono molto vaghe. Per i soldati italiani morti in terra d’Africa la contabilità è precisa, i soldati eritrei sono carne da macello, qualche migliaio in più o in meno ha poca importanza.

Circa 2000 furono gli ascari morti nella prima guerra italo etiopica, tra il dicembre del 1895 e l’ottobre del 1896. Nella seconda guerra italo-etiopica, 1935-1936, gli ascari morti sono da 3500 a 4500. Contro gli inglesi i morti eritrei si stimano essere 10 000, solo 3700 nella battaglia di Gondar nel 1941. Queste morti di soldati di un popolo dominato, arruolati, con la costrizione o con il miraggio di sfuggire la fame, per combattere sotto la bandiera del dominatore devono essere addebitate al colonialismo ed al fascismo italiano.

Nocra, un lager africano

Colonialismo prima e fascismo poi crearono in Eritrea un sistema carcerario spietato. I campi di lavoro e di internamento furono molti, Assab, Massaua , Asmara, Cheren , Addi Ugri, Addi Caleh. Tra questi spicca il famigerato campo di concentramento di Nocra, nell’omonima isola dell’arcipelago Dakhlat, uno dei meno conosciuti orrori del dominio italiano in Africa.

L’isola, fu scelta perché i 55 km di distanza dalla costa, rendevano impossibile la fuga. Vi fu nel marzo 1893 il solo tentativo di fuga di massa, ma i fuggitivi furono catturati e passati per le armi. Il campo era costituto da un fabbricato di mattoni per le guardie e 200 tra tucul e tende per i prigionieri.

Un paradiso tropicale nel Mar Rosso che si trasformò in un inferno lungo cinquant’anni: caldo e umidità provocavano una sete che la poca acqua salmastra proveniente da un pozzo aumentava. Oltre che per la sete la morte arrivava per la fame( erano concessi pochi grammi al giorno, e non tutti i giorni, di farina, tè e zucchero), per le malattie (malaria, scorbuto e dissenteria) e per la fatica. In queste condizioni i prigionieri erano costretti a lavori forzati in una cava di pietra. Si sa che il numero di prigionieri arrivò a 1000 e la media fu 500, ma non esiste una contabilità di quanti morirono.

Un capitano della marina militare che la visitò nel 1901 la descrisse così: “I detenuti, coperti di piaghe e d’insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto e altre malattie. Non un medico per curare, 30 centesimi per il loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte hanno perduto l’uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente sul tavolato alto un metro dal suolo.” La realtà che trovarono gli inglesi dopo quarant’anni, quando la liberarono nel 1941, non fu molto diversa. Nocra fu, per le crudeli condizioni di prigionia, un vero e proprio campo di sterminio, una Auschwitz tropicale.

Genocidio dei popoli dell’Indonesia. 

Sterminio di comunisti.

Kusno Sosrodiharjo, noto come Sukarno, conosceva una frase in italiano: vivere pericolosamente. Chiamò il discorso che tenne il 17 agosto 1965 in occasione della festa nazionale il 17 agosto: the year of living dangerously, l’anno del vivere pericoloso. Molte furono, allora nel 1965, le decisioni di Sukarno, ritenute pericolose dall’ imperialismo americano. Il pretesto per la sanguinaria controrivoluzione si verificò il 30 settembre 1965: il colpo di Stato di un quartetto di colonelli che proclamò «un governo rivoluzionario» dopo aver giustiziato alcuni membri dello stato maggiore della fazione di centro destra.

Suharto,? responsabile delle truppe riserviste nazionali (KOSTRAD), il giorno dopo, il 1 ottobre 1965, prese il controllo di Jakarta e iniziò la repressione. Il coinvolgimento della Cia, dell’ambasciata degli Stati Uniti, così come dei servizi segreti britannici sono provati. Furono gli Stati Uniti a contribuire alla formazione per la guerra contro-insurrezionale degli ufficiali indonesiani nella Scuola ufficiali a Bandung (SESKOAD). La Cia svolgerà inoltre un ruolo chiave nell’elaborazione della propaganda anticomunista dei golpisti, non solo facendo circolare false notizie sulle atrocità commesse dai comunisti, ma fomentando l’odio razziale contro i cinesi o religioso contro gli atei. L’ambasciata e l’intelligence degli Usa avevano anche stilato un elenco di 5000 quadri di tutti i livelli del PKI (Partito Comunista Indonesiano) per l’esercito indonesiano, facilitando così la distruzione fisica di questo partito.

Nel periodo 1965/1967, quasi un milione di comunisti indonesiani furono eliminati dalle forze governative aiutate da squadroni della morte.

Genocidio a Timor Est.

In seguito all’invasione indonesiana di questo stato del sud-est asiatico, si è registrato lo sterminio violentissimo di oltre 250.000 persone in meno di cinque anni. L’offensiva condotta dall’esercito invasore puntava all’annientamento di Timor Est nel ? massacrando la popolazione a più riprese, provocando carestie e arrivando addirittura alla limitazione delle nascite tramite la sterilizzazione forzata delle donne. Si è condotta la distruzione ragionata del sistema agricolo e intere famiglie di contadini, che prima abitavano sparsi sul territorio e sulle montagne, sono state trasferite in villaggi strategici per essere meglio controllate e affamate. I Timoresiperseverano nella resistenza grazie anche al sostegno della popolazione e della Chiesa Cattolica. Intanto le autorità procedevano anche ad una vasta opera di infiltrazione etnica, spostando masse di contadini poveri da Bali e Giava sulle migliori terre sottratte ai timoresi ,nel tentativo palese di rendere il popolo autoctono una minoranza sulla propria stessa terra. Il governo provò anche ad offrire posti di lavoro in altre isole dell’arcipelago al fine di disperdere il più possibile la popolazione timorese ma, quando ciò non risultò sufficiente, ricorse senza remore alla deportazione di massa. Il conteggio delle vittime risulta difficoltoso a causa del serrato blocco sull’informazione imposto dal regime di Giakarta. Nel 1975 si parlava del 10% della popolazione uccisa, nel 1979 del 15% mentre nel 1988 la cifra si attestava a circa il 30%. Il Dipartimento di Stato stima le perdite in numero compreso tra 100.000 e 200.000 morti di fame o a causa degli effetti degli agenti chimici e defolianti. I dati ci confermano che gli indonesiani hanno attuato uno dei genocidi peggiori della storia.

 

Genocidio bengalese.

A inizio anni ’70 il potere in Pakistan era detenuto dall’etnia punjabi e dai mohajir. Con sorpresa di tutti però nelle elezioni del 1970 vinse la Lega Awani, ovvero il partito nazionale bangalese (il Pakistan orientale). Allora il 25 marzo 1971 le forze militari pakistane attaccarono il Bengala allo scopo di sterminare la nuova classe dirigente uccidendo politici, intellettuali, studenti e uomini d’affari. Fu un massacro. Alcuni storici parlano di 3.000.000 di persone uccise, di 400.000 donne torturate e violentate, 10.000.000 di profughi. Il tutto in un brevissimo arco di tempo: si calcolano circa 10.000 persone uccise al giorno.

Genocidio nigeriano

Dall’indipendenza della Nigeria nel 1960 i tre gruppi etnici, Hausa, Yoruba e Igbo, hanno sempre combattuto per il controllo del Paese. Dopo l’assassinio del presidente igbo Johnson Aguiyi-Ironsi da parte del generale hausa Yakubu Gowon, praticamente un contro-colpo di stato, gli abitanti del sud-est del Paese furono esclusi dal sistema di potere. Nel 1967 il governatore militare di quella zona dichiarò la secessione? in Repubblica del Biafra. Iniziò così una guerra civile molto aspra. Non riuscendo ad avere la meglio, i nigeriani iniziarono un durissimo assedio al Biafra con un blocco navale, terrestre e aereo e nel frattempo portando avanti incursioni nelle fattorie al fine di prendere il Paese “per fame”. Sono circa tre i milioni di persone morte durante il conflitto per fame o malattie.

Genocidio del popolo cambogiano

Pol Pot nel 1975 conquista Phnom Phen, abbatte il regime di Long Lot e si mette in testa di creare l’uomo nuovo. Per raggiungere lo scopo, evacua tutte le città cambogiane, raduna tutta la popolazione, perdendo centinaia di migliaia di persone per la strada, in campi di rieducazione. All’interno di questi campi li costringe a lavorare senza neanche poter manifestare affetto per i familiari, perché l’affetto veniva considerato una degenerazione borghese. Si è trattato di un omicidio pianificato di una nazione. Se era per Pol Pot potevano rimanere su 6 milioni, un milione di uomini nuovi cambogiani. Nel ‘79 sono arrivati i vietnamiti per mettere fine a questo episodio agghiacciante della guerra fredda in Asia.In poco più di 3 anni, dal 1975 il regime Khmer Rouge ( sarebbe opportuno chiamarlo Khmer Noir) provocò la morte di 2,5 milioni di persone tra esecuzioni politiche, lavori forzati ed evacuazioni dalle città attraverso la giungla.

 

Genocidio dei popolo del Ruwanda.

Nel 1994 si consumò quello che sarà il più grande massacro dalla fine della seconda guerra mondiale sotto gli occhi delle potenze occidentali che non intervengono assolutamente se non per portare via gli occidentali presenti nel Ruanda al momento dell’eccidio. Questo genocidio che si attuò fra l’aprile e il luglio del 1994, è stato il palese risultato delle politiche coloniali e post coloniali, quanto meno irresponsabili e sconsiderate, che si sono intrecciate con il retaggio storico africano. Quello del Ruanda è un genocidio diverso che vede il massacro nell’arco di poco tempo, soli cento giorni, di un numero spropositato di persone, i Tutsi. Vengono massacrate sistematicamente a colpi di armi da fuoco ma soprattutto con machete e bastoni chiodati non meno di 800 mila vittime, uomini ,donne e bambini.

 Genocidio in Darfur.

Il Darfur è una regione situata all’ovest del Sudan, nel deserto del Sahara. È in maggioranza costituita da popolazioni musulmane, come nel resto del nord della nazione, salvo alcune etnie che abitano il sud della regione che sono animiste. Il territorio è suddiviso in tre province. Dal 2003 il Darfur è teatro di un feroce conflitto che vede la lotta tra la maggioranza nera e la minoranza araba (però maggioranza nel Sudan). Iniziato nel febbraio del 2003, vede contrapposti i Janjaweed, un gruppo di miliziani reclutati fra i membri delle locali tribù e la popolazione non Baggara della regione. Il governo sudanese, pur negando pubblicamente di supportare i Janjaweed, ha fornito loro armi e assistenza e ha partecipato ad attacchi congiunti rivolti sistematicamente contro i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit. Le stime sul numero di vittime del conflitto variano a seconda delle fontida 50.000 (Organizzazione Mondiale della Sanità, settembre 2004) a 450.000 (secondo Eric Reeves, 28 aprile 2006). La maggior parte delle ONG reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice. I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, i termini di “pulizia etnica” e di “genocidio”.

 

 Genocidio dei popoli dell’America Latina.

Dalla rivoluzione messicana ai “desaparecidos” delle dittature militari degli ultimi decenni del XX secolo, sono oltre un milione le vittime della violenza di stato dei regimi dittatoriali sudamericani.

Come abbiamo scritto, l’elenco dei genocidi non è completo: basti pensare all’assassinio di milioni di indiani, mussulmani e hindu nel momento della secessione dell’India (1947-1948) e alle pulizie etniche nella ex-Jugoslavia.

É giusto che accanto alle vittime della follia nazista, nel Giorno della Memoria si ricordino anche le vittime di tutti i genocidi che invece sono stati dimenticati o non ricordati come dovrebbero. Un concetto è espresso molto bene dal filosofo e saggista spagnolo, Georges Santayana: “Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo”.

Una frase simile è scritta anche in un muro di Auschwitz.

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L’altra Armenia: tecnologia all’ombra dell’Ararat (Osservatorio Balcani e Caucaso 27.01.16)

Il settore IT rappresenta il 5% del PIL armeno, con un tasso di crescita del 20% annuo. Le ragioni del successo della Silicon Valley caucasica

Prosegue in Armenia l’ascesa del settore della tecnologia dell’informazione. Un successo che dà fiducia alla giovane repubblica caucasica sul cui futuro pesano molte incognite, non ultimo il conflitto per il Nagorno-Karabakh, che ha conosciuto nell’ultimo anno una preoccupante escalation. Con una crescita media annuale di oltre il 20% nell’ultimo decennio, il settore IT (acronimo inglese di information technology) si è affermato come un simbolo per molti armeni: l’orgoglio di una nazione antica che, nonostante la povertà e le difficoltà del presente, riesce a produrre innovazione a livello internazionale. La riscossa di un popolo che ha fatto nel passato – così simile, in questo, al destino degli ebrei – dell’intraprendenza economica e della sua cultura cosmopolita due pilastri della propria identità.

Le cifre spiegano solo in parte il significato di questo successo. Fonti governative parlano di 15.000 impiegati nel settore, in larga parte sviluppatori di software e ingegneri, per un’incidenza totale del 5% circa del PIL, con un fatturato di 550 milioni di dollari circa. Numeri importanti, per un paese di tre milioni di abitanti con oltre il 40% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Non è mancato chi ha parlato – in patria e non – di una “Silicon Valley” caucasica: software, applicazioni e videogame, tablet e tecnologia militare (droni inclusi) tutti made in Armenia, questi gli ingredienti del successo.

Un settore centrale per l’economia armena

Nel caso del settore IT, si può dire che gli armeni abbiano fatto – dato l’isolamento politico e geografico – di necessità virtù. Questo paese, che soffre dagli anni novanta il blocco dei confini da parte di Azerbaijan e Turchia, ha due soli sbocchi agibili via terra, con la Georgia e l’Iran. Comprensibili le forti difficoltà nello sviluppo commerciale. Se a ciò si aggiungono un notevole ritardo nello sviluppo delle infrastrutture, dalle strade (spesso in pessimo stato) alle ferrovie, e l’ingombrante presenza di una classe di oligarchi che strangola l’economia locale, si avrà un quadro più completo della situazione.

Per capire quanto incida questa felice eccezione, si devono inoltre tenere presenti i dati dell’economia armena, non proprio incoraggianti. Le previsioni della Banca Mondiale per il 2016 sono state di recente riaggiustate al ribasso: il 2.2% di crescita del PIL, lo 0,5% in meno rispetto a quanto annunciato il giugno scorso. Preoccupa, soprattutto, il crollo delle rimesse e dei trasferimenti dall’estero, che rappresentano per un numero altissimo di armeni la principale fonte di sussistenza, dovuto in larga parte alla crisi dell’economia russa e del rublo. Vi è poi la piaga della disoccupazione, che produce a sua volta una costante migrazione, soprattutto per quel che riguarda i giovani e i lavoratori più qualificati.

Un'aula del TUMO, Yerevan (Foto Simone Zoppellaro)

Un’aula del TUMO, Yerevan (Foto Simone Zoppellaro)

Si comprenderà bene, allora, la centralità di questo settore. Una boccata di ossigeno vitale che è riuscita a svilupparsi senza essere soffocata dalla corruzione imperante, e soprattutto senza essere fagocitata dalla classe degli oligarchi. E proprio tanti impiegati di questo settore si sono resi protagonisti negli ultimi anni dei vari movimenti di protesta che hanno scosso il paese. Non solo Electric Yerevan – di gran lunga il più conosciuto – ma anche quelli che l’hanno preceduto e seguito, in un succedersi pressoché ininterrotto. Nella contestazione contro la riforma pensionistica, all’inizio del 2014, i media locali hanno riportato come addirittura l’80% degli addetti di questo settore siano scesi in strada nelle proteste. E non solo questo: il loro sostegno è stato anche determinante per sviluppare quello che potremmo definire come un marketing della contestazione estremamente efficace: video molto curati e accattivanti, siti, pagine e gruppi sui social network (spesso anche in inglese) e persino adesivi e magliette. Tanto è pesata l’inesperienza organizzativa nelle manifestazioni di strada, quanto invece ha sorpreso la creatività “promozionale”, per così dire, dimostrata da questi movimenti di rottura a livello di comunicazione. E tutto ciò resta inspiegabile senza il supporto degli addetti del settore IT, una classe produttiva che ha un’inevitabile diffidenza nei confronti del malaffare e del parassitismo imperanti a livello politico e affaristico.

Sempre per quanto riguarda il legame fra tecnologia e politica, il successo dell’IT in Armenia è da mettere in relazione anche all’origine di una serie di gruppi di hacker armeni, particolarmente attivi. Sigle come la Monte Melkonian Cyber Army – che porta il nome di un rivoluzionario armeno, eroe della guerra in Nagorno-Karabakh – si sono resi responsabili di numerosi attacchi informatici, in particolare contro siti governativi della Turchia e dell’Azerbaijan. Degli ultimi giorni è la notizia, ad esempio, di un attacco operato da un altro gruppo a 26 siti internet in Azerbaijan, un atto simbolico che – nell’intenzione di chi l’ha compito – avrebbe avuto luogo per ricordare i 26 anni dei pogrom anti-armeni avvenuti a Baku nel gennaio 1990.

Un successo che viene da lontano

Ma qual è l’origine di quest’altra Armenia, innovativa e digitale? Si tratta di un successo che viene da lontano, e che affonda le radici in epoca sovietica, quando l’allora Repubblica Socialista di Armenia si distingueva come uno dei luoghi più all’avanguardia da un punto di vista industriale e tecnologico, con applicazioni che andavano dagli armamenti alle celebri imprese nello spazio. Proprio qui fu fondato, nel 1956, un centro di ricerca per lo sviluppo di macchine automatizzate e computer a fini civili e militari. In seguito al crollo dell’URSS, ci si trovò ad avere così un personale specializzato estremamente a buon mercato, dato il tracollo economico di quel periodo, che ha attirato da subito interessi e investimenti dall’estero, anche con un contributo importante della diaspora armena.

Un problema che ci si è trovati a fronteggiare, data la crescente richiesta di personale specializzato in questo settore, è quello di fornire percorsi educativi che siano in grado di preparare al meglio le nuove generazioni. Nonostante ci sia ancora un vuoto da colmare, non sono mancate le iniziative di successo, e non soltanto nella capitale. La più famosa è senza dubbio il TUMO Center for Creative Technologies, un centro all’avanguardia che si occupa di formare ragazzi fra i 12 e i 18 per questo settore. Inaugurato nel 2011 a Yerevan, ha aperto di recente succursali a Gyumri e a Stepanakert. Una grande speranza, per il futuro dell’Armenia.

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NAGORNO-KARABAKH: Ankara pronta a sfidare la Russia nel Caucaso (Eastjournal 26.01.16)

La Turchia è pronta a svolgere un ruolo di primo piano nel difficile processo di risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, piccola regione montuosa del Caucaso meridionale contesa da oltre vent’anni da Armenia e Azerbaigian. Questo è quanto emerso dalle recenti affermazioni fatte dal ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, che interpellato riguardo alla problematica disputa territoriale che divide armeni e azeri ha dichiarato come la risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh sia un problema di primaria importanza per la Turchia, aggiungendo che per l’Armenia sarà impossibile normalizzare i propri rapporti con la Ankara finché l’esercito di Yerevan non avrà abbandonato i territori occupati dell’Azerbaigian.

Il conflitto per il possesso del Nagorno-Karabakh è scoppiato nel 1988, con il verificarsi dei primi scontri violenti tra armeni e azeri, e si è trasformato in vera e propria guerra nel 1992, in seguito alla decisione del Parlamento locale di proclamare la propria indipendenza dall’Azerbaigian. La guerra è durata circa due anni, e ha lasciato sul campo circa 30.000 vittime. Nel 1994 i due paesi hanno firmato l’Accordo di Bishkek, che ha congelato di fatto il conflitto, anche se da allora lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian si sono registrati continui scontri armati, soprattutto negli ultimi due anni.

Il conflitto d’interessi con la Russia

Le dichiarazioni di Çavuşoğlu riguardo alla questione del Karabakh non sembrano però essere state un avvertimento rivolto alla sola Armenia. Il messaggio lanciato dalla Turchia, pronta a giocare un ruolo di maggior rilievo nella risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, è in parte diretto anche alla Russia, paese che ha grandi interessi nella regione, e che attualmente è sempre più in rotta con Ankara, soprattutto in seguito all’abbattimento del Sukhoi-24 russo colpevole di aver violato lo spazio aereo turco durante un raid nei cieli della Siria nord-occidentale; episodio al quale Mosca ha prontamente risposto con pesanti sanzioni.

La Russia ha sempre considerato il Caucaso come il proprio near abroad, ovvero una sfera d’influenza esclusiva, e per questo non ha mai gradito l’idea che altre potenze potessero insidiare la sua egemonia nella regione. Un esempio può essere dato dalla Seconda guerra in Ossezia del Sud del 2008, nel corso della quale i russi non si sono limitati a liberare la regione di Tskhinvali dalle milizie georgiane, ma si sono spinti fino alle porte di Tbilisi, lanciando un chiaro messaggio alla NATO e soprattutto agli Stati Uniti, pronti a fare entrare la Georgia nell’Alleanza atlantica.

Proprio per l’importanza strategica che viene attribuita alla regione, Mosca vedrebbe un eventuale tentativo turco di svolgere un ruolo di primo piano nella risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh come un’intromissione nei propri affari privati; un’intollerabile violazione del proprio spazio vitale. A partire dallo scoppio della guerra nel 1992 infatti, Mosca ha sempre tenuto in mano le redini del conflitto, armando e finanziando prima l’una e poi l’altra parte, fino ad arrivare al pilotato Accordo di Bishkek, che ha congelato il conflitto senza però risolvere la situazione di forte instabilità che si era creata nella regione.

Il doppio asse russo-armeno e turco-azero

Data la ormai sperimentata inefficacia del Gruppo di Minsk, creato dall’OSCE nel 1992 per cercare di raggiungere una soluzione pacifica al conflitto del Nagorno-Karabakh attraverso l’aiuto della diplomazia internazionale, la Russia ha così deciso di prendere in mano personalmente la situazione, determinata a salvaguardare lo status quo della regione. Grazie alla forte autorità che Mosca esercita nel Caucaso, e soprattutto in mancanza di concrete alternative, Armenia e Azerbaigian hanno finito così per legittimare la Russia nel ruolo di principale mediatrice del conflitto, attribuendole in questo modo un ruolo di fondamentale importanza. Se la Turchia provasse però a contrapporsi in maniera decisa a Mosca nel ruolo di mediatrice del processo di pacificazione del Karabakh, i fragili equilibri attualmente esistenti verrebbero inesorabilmente spostati, portando alla creazione di un doppio asse russo-armeno e turco-azero.

Per l’Armenia la Russia rappresenta attualmente l’alleato più affidabile a livello regionale. Chiusa a est e ad ovest da due paesi ostili, negli ultimi anni Yerevan ha cercato di legarsi in modo sempre più stretto a Mosca, per ottenere in cambio la necessaria protezione del Cremlino ed evitare il totale isolamento politico. Nell’ottobre 2014 l’Armenia ha firmato l’accordo di adesione all’Unione Economica Euroasiatica, mentre lo scorso novembre ha firmato con Mosca un accordo per la difesa aerea del Caucaso. Negli ultimi mesi Yerevan ha consentito inoltre al Cremlino di aumentare la propria presenza militare presso la base n° 102 di Gyumri, diventata tristemente famosa un anno fa per essere stata il teatro del massacro di un’intera famiglia armena da parte di un soldato russo.

Data la grande importanza ricoperta dalla Russia nel processo di risoluzione del conflitto del Karabakh, la sempre più stretta alleanza con Yerevan ha iniziato a dare notevole fastidio all’Azerbaigian, che a sua volta vorrebbe che anche la Turchia si ponesse a capo dei negoziati. Secondo Baku infatti il Gruppo di Minsk, presieduto da Russia, Francia e Stati Uniti, per come è composto attualmente sarebbe troppo sbilanciato su posizioni filo-armene; per questo gli azeri hanno chiesto all’OSCE di sostituire il rappresentante francese con uno turco. Se la Turchia dovesse cercare di prendere in mano la situazione avrebbe quindi il pieno appoggio dell’Azerbaigian, che in questo modo si ritroverebbe dalla propria parte una potenza regionale in grado di fare da parziale contrappeso alla Russia, e allo stesso tempo mettere maggiore pressione all’Armenia.

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Sarkissian: “Per la Siria la soluzione non deve essere militare” (Famiglia Cristiana 23.01.16

23/01/2016  Parla il primate degli Armeni di Siria, monsignor Sarkissian: “La situazione è tragica e non vedo soluzioni a breve scadenza, ma la via d’uscita può essere solo politica. Dobbiamo lavorare tutti uniti per trovare la pace”.

«Quanto unisce l’ecumenismo del sangue!». Monsignor Shahan Sarkissian, vescovo di Aleppo e primate degli Armeni in Siria, in Italia per qualche giorno, invitato dalla Comunità di Sant’Egidio, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, è convinto che solo uno sforzo congiunto potrà riportare la pace nel suo Paese.

«Uno sforzo che deve vedere insieme cristiani e musulmani, uniti contro il terrorismo. Perché non esiste un terrorismo islamico o cristiano. Bisogna far capire che terrorismo e islam non sono la stessa cosa. Il terrorismo non ha religione, non ha cultura, non ha credo. È violenza totale, non ha niente di umano, non ha niente di religioso».

Monsignor Sarkissian parla di una «tragedia continua», che lascia Aleppo «senza acqua, senza elettricità, senza comunicazioni, senza benzina. C’è bisogno di tutto: di dare da mangiare alla gente, di assistenza sanitaria, di rimettere porte e finestre alle case e alle scuole quando finisce il bombardamento, di educazione. Stiamo aiutando i ragazzi ad acquistare quello che è necessario per studiare e stiamo pagando gli insegnanti».

Ma la situazione, dopo cinque anni di guerra, è disastrosa. «Si vive nella paura e non si vede una soluzione in tempi brevi. Anche se da uomo religioso non posso che avere speranza. Guardando ora la città non si può avere idea di cosa era prima Aleppo. La guerra ha cambiato molte cose. Un giorno forse dovremo parlare di tutti i cambiamenti che si sono verificati, non solo quindi della distruzione del Paese, degli edifici, ma forse anche della mentalità. Non ricordo che prima della guerra ci fosse questa nozione di “ghetto”: cristiani e musulmani stavano insieme, da cittadini».

E poi c’è la paura dell’Isis. «Anche se», sostiene il vescovo, «nei media Occidentali si esagera il potere dello Stato Islamico. L’Isis non è così forte, anche se ha compiuto atti terroristici». In questa situazione, continua il vescovo, «sperimentiamo la fratellanza ecumenica tra le Chiese, non solo al più alto livello, cioè tra i vescovi e i rappresentanti delle varie confessioni religiose, ma anche tra la base, nella gente comune. E la stessa cosa vale anche per i cristiani e i musulmani». Ed è da qui che bisogna ripartire perché «ci deve essere una soluzione, ma la soluzione non deve essere militare, ma politica. Bisogna riunire insieme nello stesso posto i rappresentanti siriani, Governo e opposizione, e tutti devono imporsi di raggiungere la pace. I siriani possono trovare la soluzione tra di loro e ricostruire il Paese. Credo che non ci sia altra soluzione. La Comunità internazionale può fare pressione su tutte le parti, non solo su alcune, perché si siedano al tavolo. Tutti. Certo, non i terroristi. Non si può discutere di pace con i terroristi e non li si può collocare né con l’opposizione, né con il Governo. Il terrorismo deve solo essere estirpato dalle radici».

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‘Qui ho visto che non siamo soli di fronte alla guerra in Siria’ Il vescovo armeno di Aleppo Shahan Sarkissian (Comunità Sant’Egidio 23.01.16)

Venerdì 22 gennaio, nel cuore della Settimana di Preghiera per l’Unità dei cristiani, l’arcivescovo armeno di Aleppo, Shahan Sarkissian, ha partecipato alla preghiera serale della Comunità di Sant’Egidio a Santa Maria in Trastevere. Al termine della preghiera, il vescovo ha rivolto queste parole alla Comunità riunita per la preghiera:

Care sorelle e fratelli in Cristo,

rendiamo grazie all’Onnipotente che ci ha creati. Aver vissuto con voi questo momento di preghiera, essere qui con voi mi incoraggia come rappresentante del popolo siriano.

Io conosco la Comunità di Sant’Egidio da molto tempo. Come ha detto il mio fratello durante la sua omelia, quando ha parlato del nostro rapporto fraterno al servizio del bene, io credo che il cristianesimo e la fede cristiana siano qualcosa che entra nel cuore di ciascuno. E quando è cominciata la guerra in Siria un giorno ho incontrato il mio popolo, la mia comunità cristiana e dopo la celebrazione dell’eucarestia gli ho detto: Oggi cominciamo a pregare davvero. Avevo vissuto questa esperienza con la Comunità di Sant’Egidio quando sono venuto qui con il precedente catholicos di Cilicia degli armeni. Vengo da un paese dove la guerra continua e talvolta la gente pensa che questa guerra continuerà sempre e che non c’è nessuna soluzione.

La Comunità di Sant’Egidio mi ha invitato a venire qui per visitare questo paese e parlare della nostra situazione. So che c’è molta gente che conosce meglio di me la situazione del Medio Oriente ma ho visto, prima a Napoli e poi questa  sera qui con voi, che voi siete con noi e noi non siamo soli. Non siamo abbandonati.

Preghiamo sempre per la pace in tutto il mondo ma particolarmente per la Siria e per Aleppo.

Questa mattina ho cominciato i miei incontri con i padri missionari cattolici. Non vi racconterò tutta la giornata ma due cose sono essenziali per me, e ne voglio rendere testimonianza. Uno dei fratelli della Comunità di Sant’Egidio mi ha portato alle catacombe e sono rimasto molto colpito dalla presenza dei martiri nelle catacombe. Il  martirio non è qualcosa che ha a che fare con la morte, ma piuttosto con la vita. I martiri ci parlano oggi.

La seconda opportunità è stata poter visitare persone nel bisogno, in una delle case della Comunità di Sant’Egidio nel loro servizio ai bisognosi.

 

In entrambi i casi ho sentito che non siamo abbandonati e nella disperazione non perdiamo la nostra speranza. E se sono con voi stasera è perché voi mi insegnate come pregare e renderò testimonianza di voi davanti al Signore e davanti al mio popolo in Siria.

 

Nel pensare cosa dirvi pensavo di chiedervi di pregare e dico solo: continuate a pregare per noi.

Esprimo il mio ringraziamento alla Comunità di Sant’Egidio, a tutti i suoi membri e porto i saluti e le  benedizioni di sua beatitudine Aram I, il catholicos degli armeni di Cilicia in Libano, uno degli amici della Comunità di Sant’Egidio.

Grazie per avermi ascoltato, grazie per questa opportunità.

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Vescovo armeno Aleppo: siamo stremati, ma non cediamo all’odio (Radiovaticana 23.01.16)

Vescovo armeno Aleppo: siamo stremati, ma non cediamo all’odio

Ancora incertezza sull’inizio dei colloqui di pace per la Siria, previsti a Ginevra per il prossimo lunedì. Il nodo cruciale è la composizione dei rappresentanti dell’opposizione al governo di Bashar Al-Assad. Sul terreno continuano i raid russi nel Nord del Paese. Secondo la tv siriana sarebbero stati uccisi una trentina di militanti del sedicente Stato Islamico. Intanto, ieri sera a Roma si è svolta nella Basilica di Santa Maria in Trastevere una preghiera per la pace in Siria, organizzata dalla Comunità di S.Egidio e presieduta dall’arcivescovo armeno apostolico di Aleppo, mons. Shahan Sarkissian. Ascoltiamolo al microfono di Michele Raviart:

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R. – In Aleppo the tragedy is continuing…
La tragedia continua ad Aleppo. Una persona che vede ora Aleppo non può immaginare come fosse prima dei bombardamenti, dei combattimenti e della guerra. Al momento non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono comunicazioni. Ed ora che è arrivato il freddo e non c’è più benzina, usiamo il gasolio per scaldare le case e le scuole. La sofferenza è davvero grande.

D. – Come si vive quotidianamente in una città sotto assedio?

R. –  You mentioned that generally Aleppo…
Aleppo è circondata da gruppi differenti che combattono l’uno contro l’altro. C’è una sola strada vecchia e stretta per uscire, e a volte è chiusa. Sfortunatamente c’è anche lo Stato Islamico e fa paura. Penso, però, che nei media occidentali si esageri il potere dello Stato Islamico, anche se è arrivato e ha compiuto atti terroristici.

D. – Di cosa ha bisogno maggiormente la popolazione?

R. – Generally, there are four categories…
Ci sono quattro tipi di aiuti necessari. Il primo bisogno è quello di dare qualcosa da mangiare alla gente; il secondo è l’assistenza sanitaria, che è davvero essenziale, perché molti medici hanno lasciato il Paese; terzo, nel momento in cui finisce il bombardamento, bisogna rimettere porte e finestre nelle case e nelle scuole; quarto, l’educazione. Stiamo aiutando i ragazzi, acquistando quello che è necessario per studiare e pagando gli insegnanti.

D. – Ad Aleppo ci sono undici comunità cristiane, come sono i rapporti tra loro e con la comunità musulmana?

R. – With this situation we are used…
In una situazione del genere, come comunità cristiana, siamo abituati a stare insieme. Sperimentiamo la fratellanza ecumenica tra le Chiese, non solo al più alto livello, cioè tra i vescovi e i rappresentanti, ma anche tra la gente comune. E la stessa cosa vale anche per i cristiani e i musulmani.  La guerra credo che abbia cambiato molte cose. Un giorno forse dovremo parlare di tutti i cambiamenti che si sono verificati, non solo quindi della distruzione del Paese, degli edifici, ma forse anche della mentalità. Non ricordo che prima della guerra ci fosse questa nozione di “ghetto”: cristiani e musulmani stavano insieme, anche se alcune zone erano tipicamente cristiane, con chiese e così via. Ora, però, si sono mescolati e nello stesso edificio si possono trovare cristiani, musulmani, altre minoranze o persone provenienti da parti differenti del Paese, non solo della città.

D. – Di che cosa c’è bisogno, secondo lei, per porre fine a questa guerra?

R. – There must be a solution…
Ci deve essere una soluzione e la soluzione non deve essere militare, ma politica. Nella Chiesa cattolica quando viene eletto il Papa c’è il Conclave. Bisogna riunire insieme nello stesso posto i rappresentanti siriani e devono imporsi di raggiungere la pace. I siriani possono trovare la soluzione tra di loro. So che non c’è altra soluzione. Le risoluzioni delle Nazioni Unite, del Consiglio di Sicurezza e così via non sono sufficienti.

D. – Discutere con tutti include i terroristi?

R. – What is terrorism is excluded…
Ciò che è rappresentato dal terrorismo è escluso. Non si può discutere di pace con i terroristi. Non si può accettare di collocare i terroristi con l’opposizione o con il governo. Il terrorismo non ha religione, non ha cultura, non ha credo, niente, è violenza totale, non ha niente di umano, non ha niente di religioso. Il terrorismo deve essere estirpato.

D. – Cosa può fare la comunità cristiana per il futuro della Siria?

R. – As Christians we must participate…
Come cristiani dobbiamo partecipare alla ricostruzione del Paese. Personalmente non sono solo un arcivescovo o un funzionario nella Chiesa, ma sono prima di tutto un credente. Io credo che il mio Signore mi protegge, ci protegge! Ed io non sono un uomo coraggioso, sono un uomo responsabile: sto con la mia gente, con la mia comunità. Anche se ci sono persone che se ne vanno e lasciano il Paese, noi dobbiamo restare, dobbiamo continuare insieme. E le comunità cristiane o la cristianità in Medio Oriente deve continuare a dare la sua testimonianza. Siamo stati testimoni con il sangue, con il martirio, siamo stati testimoni con il servizio, siamo stati testimoni con la cultura, e stiamo facendo del nostro meglio, aspettando che l’aiuto arrivi dall’Onnipotente.

A Napoli, per non dimenticare la Siria. Incontro con l’arcivescovo armeno di Aleppo (Comunità Sant’Egidio 22.01.16)

E’ stato un incontro commovente quello con S.E. Shahan Sarkissian, arcivescovo di Aleppo della Chiesa cristiana Armena. Il primate è stato accolto nella chiesa di S. Gregorio armeno, nel cuore del centro antico di Napoli; al suo arrivo ha pregato con emozione dinanzi alle reliquie di S. Gregorio l’Illuminatore, fondatore della sua Chiesa,  custodite da secoli in una cappella.

Ha raccontato del grande dolore della Siria e della sua città, Aleppo, che da quattro anni e mezzo vive la guerra: centinaia di migliaia di vittime, profughi, chiese chiuse, mancanza di cibo e medicine … e ora la dura prova di un freddo inverno senza alcuna fonte di calore, ormai non ci sono più neanche alberi da tagliare per ardere legna, com’è stato possibile fino  allo scorso anno. A causa della temperatura rigida stanno morendo molti bambini e anziani.

“Prima della guerra vivevamo insieme cristiani delle diverse confessioni, musulmani, … convivere è possibile … Ora, in questo tempo di guerra, le chiese cristiane di Aleppo, armena, cattolica, ortodossa, protestante, insieme vivono una solidarietà concreta (scuole, aiuti alimentari, ecc)  verso chi è più debole ed esposto, siano cristiani o musulmani … Da secoli conviviamo con l’Islam, lo conosciamo; non pensate mai che il terrorismo è l’ islam, non sono veri musulmani; la religione musulmana è un’altra cosa!”.

Al termine un accorato appello a non dimenticarci mai della Siria e di Aleppo nella preghiera: “Abbiamo bisogno delle vostre preghiere che ci sostengono. Io al mio ritorno ad Aleppo racconterò di questo bell’incontro, del vostro interesse per noi, e questo ridarà speranza e forza a tanti in Siria!”.

 

L’incontro si è concluso con una preghiera per la pace e la fine di ogni violenza in tutti i Paesi del mondo dove c’è la guerra e situazioni di conflitto

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Azerbaijan: le preoccupazioni di Aliyev (Osservatorio Balcani e Caucaso 22.01.16)

Il crollo del prezzo del petrolio provoca il brusco rallentamento dell’economia azera, con possibili conseguenze sulla stabilità della regione caucasica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

L’Azerbaijan sta attraversando una fase di crisi legata alla variazione del prezzo delle materie prime, in particolare dell’energia. Sotto controllo della famiglia Aliyev dal 1993, il paese ha conosciuto una spettacolare crescita economica durante gli ultimi quindici anni grazie ai proventi derivanti dall’esportazione di gas e petrolio verso i paesi dell’Unione europea, che hanno chiuso un occhio sulle violazioni dei diritti umani nel paese. Anzi, l’Azerbaijan si è addirittura visto premiato in vari modi: membro del Consiglio d’Europa dal 2001, ha ospitato l’edizione 2012 dell’Eurovision Song Contest oltre alla prima edizione dei Giochi Olimpici Europei.

Ganja, la seconda città più importante del paese, è stata inoltre scelta come Capitale Europea della Giovinezza 2016. Decisione singolare per un paese celebre per le incarcerazioni di massa di giornalisti e attivisti per i diritti umani e per aver cacciato il team di Amnesty International alla vigilia delle elezioni tenutesi l’1 novembre 2015, elezioni su cui è pesata l’assenza dell’OSCE, impossibilitata a monitorare il corretto svolgimento del voto a causa delle restrizioni imposte dalle istituzioni azere.

I rapporti tra l’Azerbaijan degli Aliyev e l’Unione europea si sono consolidati soprattutto a partire dal 2006, data in cui venne ufficialmente inaugurato l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che dal mar Caspio trasporta il petrolio fino alle coste del Mediterraneo.

La famiglia Aliyev ha legittimato il proprio potere basandosi su due pilastri fondamentali: il relativo benessere finanziario derivante dall’esportazione di gas e petrolio, e la retorica nazionalista anti-armena, conseguenza del mai risolto conflitto per il Nagorno Karabakh.

Grazie a questi due pilastri, il regime ha potuto prosperare e procedere indisturbato con un’ondata di arresti e processi-farsa contro ogni tipo di opposizione: giornalisti, attivisti per i diritti umani, blogger, avvocati. Le prigioni dell’Azerbaijan accolgono a tutt’oggi numerosi oppositori e critici, tra cui la giornalista Khadija Ismayilova e l’attivista per i diritti umani Leyla Yunus, direttrice dell’Institute for Peace and Democracy in Azerbaijan e vincitrice, nell’ottobre 2014, del premio Andrei Sakharov per la Libertà di Pensiero assieme ad altri tre attivisti e avvocati azeri, Razul Jafarov, Anar Mammadli e Intiqam Aliyev.

Il ritorno dell’Iran

Ora la situazione in Azerbaijan rischia di essere fortemente scossa dal raggiungimento, lo scorso anno, dell’accordo sul nucleare iraniano, che ha aggravato la situazione per i paesi produttori di petrolio in un contesto già segnato da un brusco calo del prezzo del greggio. Nel gennaio 2015 il prezzo al barile era infatti già sceso sotto i 50 dollari, e la corsa al ribasso è poi continuata nel corso dell’anno.

La riduzione del prezzo al barile del petrolio ha avuto, tra le sue innumerevoli conseguenze, anche quella di portare la banca centrale dell’Azerbaijan, il 21 febbraio scorso, a svalutare il Manat, la moneta nazionale, del 33.5% contro il dollaro e del 30% contro l’euro. Il governo azero si era allora dichiarato nonostante tutto ottimista affermando che l’economia del paese era sufficientemente forte da reggere un prezzo al barile attorno ai 50 dollari. Tuttavia le quotazioni da allora sono continuate a scendere e oggi il prezzo al barile si attesta attorno ai 30 dollari. Troppo basso perché l’economia dell’Azerbaijan, la quale si regge per il 70% sull’esportazione di petrolio, non ne subisca conseguenze. All’inizio di gennaio la Banca centrale ha ammesso di aver dovuto spendere più di 8 miliardi di dollari per sostenere il Manat, e il 18 gennaio scorso il presidente Ilham Aliyev ha annunciato un pacchetto di misure d’emergenza per far fronte alla crisi.

La posizione dell’ArmeniaIl trattato sul nucleare iraniano ha portato alla fine di gran parte delle sanzioni che hanno isolato il paese negli ultimi dieci anni, riportando pienamente Teheran sulla scena regionale e internazionale. Dal punto di vista dei rapporti nell’area, questo costituisce un’occasione ghiotta per la piccola Armenia, la quale ha il triplo vantaggio di godere di un ottimo rapporto di vicinato con la Repubblica Islamica, di essere un’alleata della Russia e di far parte, dal 2 gennaio del 2015, dell’Unione Eurasiatica composta da Russia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan.

Sono molti i progetti nell’agenda delle rinnovate relazioni tra l’Armenia e l’Iran, il più importante dei quali potrebbe essere il progetto di un gasdotto che dovrebbe trasportare il gas iraniano verso la Georgia attraverso l’Armenia. Una possibilità che non sarebbe bene accolta dal governo azero, nel mezzo di una crisi economica che ha già innescato una serie di manifestazioni e scontri con la polizia in diverse città del paese.

La diretta conseguenza di un accordo tra Teheran, Yerevan e Tbilisi significherebbe infatti la perdita del monopolio energetico azero nella regione a vantaggio del nemico di sempre, l’Armenia. Il piccolo paese caucasico potrebbe infatti giocare un inedito e importante ruolo geopolitico tra l’Iran, la Georgia e la Russia, con la quale ha recentemente siglato un accordo che prevede una maggiore cooperazione militare tra i due paesi in funzione anti-turca e un incremento della presenza militare russa nelle basi di Gyumri, la seconda città armena in ordine d’importanza, e di Yerevan.

La carta del Nagorno KarabakhIl recente riacutizzarsi del conflitto in Nagorno Karabakh va dunque considerato alla luce delle vicende internazionali che hanno caratterizzato il 2015. A tutt’oggi sono in molti a pensare che il governo dell’Azerbaijan stia infatti tentando di giocarsi il tutto per tutto utilizzando la carta del conflitto per distogliere l’attenzione della popolazione e rilegittimare così un governo sempre più isolato a livello internazionale.

Regione separatista popolata da armeni ma, fino al crollo dell’Unione Sovietica, parte della Repubblica Sovietica Azera, il Nagorno Karabakh è teatro di un conflitto che oppone l’Armenia e l’Azerbaijan e che nel lontano 1994 venne interrotto dalla firma di un cessate il fuoco che certificava una sconfitta sul campo per le truppe azere e una sofferta vittoria per quelle armene. Da allora il conflitto è in fase di stallo, e a nulla sono serviti gli innumerevoli incontri organizzati dal cosiddetto Gruppo di Minsk – formato da Francia, USA e Russia – che da anni tenta di trovare una soluzione pacifica. Il cessate il fuoco del 1994 è stato costantemente violato nel corso degli anni, portando entrambi i paesi a investire ingenti somme di denaro nell’acquisto di armamenti.

Il conflitto ha conosciuto un’escalation senza precedenti a partire dall’estate del 2014, e ad oggi i colpi di mortaio e i tiri dei cecchini non avvengono più solamente lungo la linea di contatto tra la repubblica separatista del Nagorno Karabakh e dell’Azerbaijan, ma sempre più spesso lungo la frontiera tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Il 24 settembre del 2015 i bombardamenti dell’artiglieria azera sui villaggi frontalieri di Paravakar e Bertavan, nella regione del Tavush, nel nord dell’Armenia, hanno provocato la morte di tre donne armene, Sona Revazyan, 41 anni, Shushan Asatryan, 94 anni e Paytsar Aghajanyan, 83 anni. Pochi mesi dopo, il 9 dicembre, il conflitto ha conosciuto una nuova escalation con l’impiego, da parte dell’esercito azero, di carri armati.

Una spirale di violenza che secondo l’analista politico Richard Giragosian ha un solo obiettivo: provocare una reazione da parte armena che possa giustificare il ritorno a uno stato di guerra tale da ridare legittimità al governo azero. Una strategia le cui spese saranno pagate dai civili.

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La febbre suina avanza in Europa e in Asia; è pandemia? (Euronews.com 21.01.16)

La febbre suina è tornata a far paura. In Armenia
sono stati registrati 18 decessi negli ultimi due mesi, di cui 8 in 8 giorni. Tre le vittime in Georgia

In Russia quest’inverno 27 persone sono morte di influenza, la maggior parte per la H1N1.
Secondo la ministra della Sanità, Tatiana Iakovleva, non si tratta di una pandemia ma di un’ondata stagionale.
I malati ricoverati nella sola regione di San Pietroburgo negli ultimi 10 giorni sono stati 313.
La dottoressa Anna Popova ha dichiarato ai media russi che bisogna aspettarsi un aumento dei casi nelle prossime settimane.

La malattia ha colpito pesantemente l’Ucraina. Ben 51 le vittime in tutto il Paese, di cui 12 nell’est filo-russo.

I numeri sono ancor più elevati in Iran, dove da metà novembre ad oggi si contano 112 decessi e circa mille contagiati.

In India 12 morti nel Rajasthan.

Nessun decesso, al momento, ma due casi sotto controllo in Scozia.

Un’epidemia di H1N1 si era diffusa nel 2009, a partire da persone a contatto con allevamenti di suini in Messico, per poi estendersi ad altri 213 Paesi, uccidendo 18.500 persone. L’allarme era cessato nell’agosto 2010.

Da allora, ogni anno, si registrano casi più o meno isolati del virus. In questa occasione gli esperti di interrogano sulla possibilità che i nuovi casi indichino una tendenza in aumento.

Secondo ricercatori dell’Università di Pittsburgh, il virus era stato registrato la prima volta nel 1918, alternando poi periodi di diffusione e di recessione.

I sintomi sono quelli tipici delle influenze: febbre, tosse, mal di gola, raffreddore, dolori articolari, vomito, diarrea.
Una delle possibili complicazioni, soprattutto in persone anziane e fragili, è la polmonite.

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Sant’Egidio: cristiani di tutte le confessioni uniti per la pace (La Stampa 21.01.16)

Domani, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la Comunità di Sant’Egidio riceverà la visita dell’arcivescovo Shahan Sarkissian, vescovo di Aleppo e Primate degli Armeni in Siria. In Italia per alcuni incontri promossi da Sant’Egidio a Napoli e Novara, l’arcivescovo Sarkissian porterà la testimonianza della sofferenza di Aleppo, un tempo la più popolosa e ricca città della Siria, sottoposta oramai da cinque anni a bombardamenti e a un duro assedio.

Alla visita parteciperà anche una delegazione di studenti dell’Istituto ecumenico di Bossey. Fondato nel 1946 dal Consiglio Ecumenico delle Chiese come centro internazionale di incontro, dialogo e formazione, l’Istituto ospita studenti e ricercatori provenienti da tutto il mondo e appartenenti a diverse confessioni cristiane. La delegazione, comprendente studenti di diciotto paesi di tutti i continenti, visiterà la basilica di San Bartolomeo all’Isola, memoriale ecumenico dei martiri del XX e XXI secolo, e alle 20,30 parteciperà alla preghiera della Comunità a Santa Maria in Trastevere.

Per approfondimenti: www.santegidio.org