Francia richiama il suo ambasciatore a Baku per consultazioni (Trt 17.04.24)

Francia richiama il suo ambasciatore a Baku per consultazioni sulle azioni unilaterali dannose per le relazioni”

Il Ministero degli Affari Esteri precisa che il ritiro è stato deciso a causa di “azioni unilaterali dannose per le relazioni” tra Francia e Azerbaigian.

Sono tese le relazioni tra due paesi dal 2023 quando la Francia aveva inviato 50 carri blindati in Armenia, provocando la reazione dell’amministrazione di Baku.

L’Azerbaigian ha criticato il governo di Parigi per aver aumentato il suo sostegno materiale militare all’Armenia. A febbraio, il ministro della Difesa francese Sebastien Lecornu, durante la sua visita ufficiale in Armenia, ha annunciato di essere pronto a fornire a questo paese sistemi di difesa aerea a corto, medio e lungo raggio. Alla fine dello scorso anno, l’Azerbaigian aveva dichiarato “persona non grata” due dipendenti dell’ambasciata francese a Baku, mentre a gennaio un cittadino francese era stato arrestato con l’accusa di spionaggio nel Paese.

La guerra infinita tra Armenia e Azerbaigian insegna qualcosa (Haffington pot 17.04.24)

Quando politici e analisti, più o meno improvvisati, discutono di un possibile congelamento del conflitto in Ucraina quale soluzione della crisi, pochi dimostrano di avere un’idea precisa di quanto affermano. Lo riprova il fatto che ben di rado si faccia riferimento a ciò che avviene da oltre trent’anni nel Caucaso meridionale. Perché un conflitto congelato è – o almeno rischia di essere, alla prova dei fatti – una guerra che ritornerà domani più feroce che mai, non appena sarà ultimato il riarmo. Il tragico esempio del Nagorno-Karabakh, dove solo lo scorso anno si è arrivati a quella che il Parlamento Europeo, nelle risoluzioni approvate a larga maggioranza il 5 ottobre 2023 e il 13 marzo 2024, ha definito come “una pulizia etnica” nei confronti della minoranza armena, è a tal proposito un monito inequivocabile.

Perché – sembra un paradosso e non lo è, purtroppo – non è bastata neppure la riconquista dell’intero territorio del Karabakh da parte delle truppe azerbaigiane per porre fine alla guerra e ai morti. Il regime di Baku, galvanizzato dal trionfo bellico, ora è passato a rivendicare con sempre maggior insistenza il territorio vero e proprio dell’Armenia, che la propaganda azerbaigiana non esita a definire “Azerbaijan occidentale.” Un dato, ancora una volta, che dovrebbe far riflettere, pensando all’Ucraina.

Era l’11 maggio 1994 quando a Bishkek, al termine della prima guerra del Karabakh, Baku e Yerevan giungevano a un accordo di cessate il fuoco che – fra continue escalation e violazioni – resterà in vigore fino al 9 novembre 2020, quando ne sarà firmato un altro; e, ancora, fino al 20 settembre 2023, quando ne sarà firmato un terzo, tuttora in vigore. È importante ricordarlo, perché è un errore che mi è capitato di riscontrare più volte sui media italiani: Armenia e Azerbaijan sono a tutti gli effetti ancora due paesi in guerra. Ogni tentativo diplomatico, dagli anni Novanta ad oggi, non è mai andato oltre i tre accordi di cessate il fuoco qui menzionati – senza fermare la violenza.

Eppure, già il bilancio di quella prima guerra era stato drammatico: oltre 30.000 morti e centinaia di migliaia di profughi e sfollati azeri e, in misura minore, armeni, costretti a lasciare le loro terre, in molti casi per sempre. Intere città rase al suolo, come Aghdam, che ho potuto visitare due volte e che conservava intatta solo una moschea, circondata da un paesaggio impressionante di distruzione e macerie; massacri, come quello di Khojaly, costato la vita di duecento azerbaigiani secondo Human Rights Watch, e oltre il doppio secondo un’investigazione parlamentare di Baku; prima ancora della guerra, c’erano poi stati pogrom, come quello anti-armeno di Sumgait nel 1988.

Il Nagorno-Karabakh, territorio storicamente a maggioranza armena, la cui definizione territoriale all’interno del territorio dell’Azerbaijan – allora Repubblica socialista sovietica – risale all’Urss e a Stalin in persona, resterà quindi controllato dalla popolazione autoctona armena auto-costituitasi in Repubblica indipendente de facto con il supporto (ma non il riconoscimento ufficiale) di Yerevan. Sette regioni attorno ad esso, dalle quali l’intera popolazione azerbaigiana sarà espulsa, saranno occupate fino al 2020. Il parlamento edificato dagli armeni al centro di Stepanakert (oggi Khankendi, in lingua azera), sarà raso al suolo solo poche settimane fa, come testimonia il messaggio video di auguri per il Novruz – l’antico capodanno zoroastriano che corrisponde all’equinozio di primavera – dell’autocrate Ilham Aliyev.

Non escludo il ritorno. La Russia s’è defilata in Armenia, ma resta attore chiave nel Caucaso

 di  Carolina De Stefano

Ho iniziato a seguire questo conflitto dieci anni fa esatti, nel 2014, quando vivevo a Yerevan. Si parlava, di rado e distrattamente peraltro, di un conflitto congelato, appunto, nonostante le periodiche escalation che costavano la vita di soldati armeni e azerbaigiani, quasi tutti giovanissimi. Molti rimasero sorpresi nel 2016 quando il conflitto, anche se solo per quattro giorni, a inizio aprile, tornerà ad esplodere nel modo più drammatico. Massacri contro civili, come nel villaggio di Talish che ho potuto visitare pochi giorni dopo, deserto, sotto la minaccia dei cecchini e con le abitazioni crivellati di colpi; ma anche una guerra lungo tutta la frontiera, con un dispiego di droni che anticiperà il futuro di questo e di altri conflitti.

«Bisogna fare di tutto,» dichiarava in quei giorni la cancelliera Angela Merkel, «per evitare che venga versato altro sangue e che si perdano vite umane, perciò gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco sostenibile e duraturo sono ora estremamente urgenti.» Ma poco o nulla di concreto è seguito a queste e altre dichiarazioni, e la diplomazia europea e americana è tornata a cullarsi – finché ha potuto, certo – nell’idea che i conflitti nello spazio post-sovietico fossero una cosa tutto sommato trascurabile e marginale, non pericolosa.

Un tragico errore. Il Nagorno-Karabakh, per cui esisteva – uso il passato, purtroppo, dato che ha trionfato la violenza, nel frattempo – anche un piano di risoluzione del conflitto, i cosiddetti principi di Madrid elaborati nel 2006 e aggiornati nel 2009, avrebbe potuto essere un laboratorio per scongiurare quanto avvenuto in seguito in Ucraina. Certo, così non è andata. Ma l’idea che se, su più piccola scala, si fosse lanciata un’iniziativa diplomatica europea nel Caucaso del Sud capace di portare risultati tangibili – naturalmente, anche Abcasia e Ossezia del Sud potevano essere utili, a tal proposito – forse oggi non saremmo dove siamo, certo non è da scartare.

Il 2016, come dicevamo, è stato un avvertimento a cui nessuno ha prestato ascolto. L’idea egemone, fra gli analisti e nella diplomazia internazionale, che il legame sempre più stretto fra l’Europa e Baku e la mutua dipendenza economica e di risorse sarebbero bastati a scongiurare una nuova guerra si è dimostrata fallace.

Un nuovo conflitto, di ben altre dimensioni e corrispondente a una ennesima catastrofe umanitaria, ha avuto luogo dunque fra il 27 settembre e il 10 novembre 2020. Ancora una volta, migliaia di morti da entrambe le parti, e un assedio mosso dalle truppe di Baku contro la popolazione civile del Karabakh, costretta per oltre un mese a subire continui bombardamenti in tutti i maggiori centri abitati.

Da un punto di vista militare, si è assistito a un rovesciamento dell’esito della prima guerra, quando erano state le forze armene a trionfare. Quello che ho potuto vedere arrivando in Nagorno-Karabakh un mese e mezzo dopo la fine del conflitto, era un territorio altamente militarizzato dove, anche nelle zone ancora ufficialmente sotto il controllo armeno, erano le truppe di Baku e di Mosca, teoricamente dispiegate con funzione di peacekeeping, a controllare il territorio.

La gigantografia di Vladimir Putin all’entrata di Stepanakert, e i continui checkpoint russi – una decina – disseminati nell’unica strada ancora disponibile a legare l’Armenia al Karabakh, non lasciavano scampo a equivoci. Come anche la mancanza di acqua calda, di corrente elettrica e la scarsezza di cibo reperibile in loco, accompagnate da attacchi alla frontiera che, in due occasioni, mi è capitato di appurare personalmente, nonostante il cessate il fuoco.

E proprio quell’unica strada, il corridoio di Lachin, finirà al centro di un blocco imposto da Baku e Mosca insieme. Prima toccherà ai giornalisti (poco dopo la mia visita, già difficoltosa), quindi ai cittadini armeni e alla minoranza armena del Karabakh l’impossibilità di entrare e uscire dal territorio. Un blocco totale che, dal 12 dicembre 2022 fino allo scoppio di una nuova aggressione nel settembre scorso, ridurrà alla fame la popolazione locale, impossibilitata a ricevere anche solo medicine e cure per i malati, oltre che cibo.

Ma non era finita, purtroppo. Ridotta allo stremo, la popolazione autoctona armena subirà un nuovo attacco militare, come detto, che si concluderà il 3 ottobre dello scorso anno con quella che in molti definiscono ormai senza esitazioni una pulizia etnica. Ovvero l’espulsione forzata di oltre centomila armeni del Karabakh, che si trovarono a perdere tutto – casa, averi, lavoro, e persino le tombe dei loro cari – nel giro di pochi giorni.

Nagorno-Karabakh, migliaia di rifugiati arrivano in Armenia

Un trionfo, per la famiglia Aliyev; un regime in cui l’attuale presidente Ilham ha ereditato il potere dal padre, Heydar, e dove la moglie del presidente (caso unico al mondo) è anche la sua vice da un punto di vista istituzionale. Come prevedibile, le ambizioni dell’autocrazia, anziché essere placate, sono aumentate ulteriormente. Oltre alle ambizioni sul territorio armeno già citate, il regime sta colpendo con una violenza spietata anche i pochi giornalisti indipendenti rimasti nel paese e l’esile opposizione interna.

Una doppia guerra, interna e esterna appunto, quella del regime, che grazie ai proventi di gas e petrolio (con l’Italia ai primissimi posti, ricordiamolo) sta procedendo a un riarmo sempre crescente che nulla di buono lascia presagire per il futuro della regione. Se il regime ha dato ampia dimostrazione di essere in grado non solo di sopravvivere, ma di prosperare, nel contesto di una guerra senza fine, la domanda che dobbiamo porci oggi è se sarà invece in grado di sopravvivere anche a una possibile pace che si intravede all’orizzonte.

Come giustificare, da un punto di vista interno, un regime liberticida che produce diseguaglianze drammatiche da un punto di vista economico e che gestisce il potere finanziario e politico come una semplice questione di famiglia in mancanza di un “nemico” come l’Armenia? Per chi conosce e studia il funzionamento del potere in Azerbaijan, appare evidente come l’odio per il vicino sia una questione troppo strutturale per essere messa da parte senza rischiare una seria crisi del regime.

Da parte armena, invece, la sconfitta si sta traducendo in uno sfaldamento statale che rischia di minare la sopravvivenza stessa delle già fragili conquiste democratiche raggiunte dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Nikol Pashinyan, già popolare leader della Rivoluzione di velluto del 2018, oggi appare un leader sconfitto incapace di uscire dalla crisi che il paese ha imboccato.

Il dilemma fondamentale che oggi l’Armenia si trova ad affrontare è quello della sua stessa sopravvivenza: sarà in grado di resistere a un’eventuale uscita dall’alleanza militare che, almeno formalmente, ancora la lega a Mosca? Come affermato a febbraio dallo stesso Pashinyan, infatti, la partecipazione armena all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva guidata dalla Russia è «congelata» (di nuovo questo aggettivo). «Il Trattato di sicurezza collettiva non ha raggiunto i suoi obiettivi per quanto riguarda l’Armenia», ha commentato il Primo ministro armeno, facendo riferimento al mancato supporto russo negli ultimi anni.

Un’auspicabile quanto purtroppo tardivo engagement della diplomazia euro-americana nei confronti di Yerevan è sfociato nell’incontro del 5 aprile fra lo stesso Pashinyan, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken.

Come ha commentato Gabriel Gavin sulle pagine del quotidiano Politico, si tratta del lancio di «un piano dal valore storico per aiutare l’Armenia a uscire dall’orbita della Russia e sostenere la sua economia a fronte delle crescenti tensioni nella regione». 270 milioni di euro saranno stanziati dall’Unione Europea per sostenere l’economia armena nei prossimi quattro anni, nell’ambito di «una nuova e ambiziosa agenda di partenariato», come ha affermato von der Leyen.

Ma basterà questo a scongiurare una nuova esplosione di questa guerra che, senza interruzioni, si trascina fino dagli anni Novanta? Quali sono le garanzie concrete che Washington e Bruxelles possono offrire a Yerevan per scongiurare un nuovo attacco di Baku, che alla pari di Mosca ha espresso forti critiche nei confronti di questo incontro?

Le preoccupazioni, purtroppo, restano molte e giustificate. L’Europa, fino ad oggi, è sempre stata lontana dal Caucaso del Sud, e la sua credibilità – anche da queste parti – mostra segni inequivocabili di crisi.

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Venezia celebra la Giornata del Ricordo del Genocidio Armeno (Ilnuovoterraglio 16.04.24)

Venezia si erge come simbolo di memoria e impegno culturale nel ricordare il Genocidio Armeno, offrendo un omaggio commovente e significativo alle vittime e alla storia di questo tragico evento.

VENEZIA. Venezia, città di meraviglie e di storia millenaria, si è trasformata in un palcoscenico di commemorazione e impegno culturale in occasione della Giornata del Ricordo del Genocidio Armeno, celebrata il 24 aprile di ogni anno. Quest’anno, la terza edizione dell’evento è stata organizzata con cura dal Comune di Venezia e dall’Università Ca’ Foscari, in collaborazione con l’associazione Unione Armeni d’Italia, l’associazione civica Lido Pellestrina e l’associazione Voci di Carta.

L’atmosfera struggente e nostalgica, accompagnata dalle note di un flauto, ha trasportato i partecipanti in un viaggio attraverso le terre e le tradizioni del popolo armeno, ricordando le tribolazioni e le negazioni affrontate nel corso della storia. La cerimonia di apertura, tenutasi all’auditorium di Santa Margherita, ha visto la partecipazione di giovani studenti veneziani, ai quali è stato narrato il patimento di un popolo quasi annientato nel lontano 1915.

Davanti a una platea di giovani studenti della città è stato raccontato il patimento di un popolo quasi azzerato in un lontano 1915, mai percepito come così vicino, per l’odierna situazione di tensione internazionale. E’ stato il primo genocidio del XX secolo, il Grande male, ancor oggi non da tutti riconosciuto come tale.

“Il contributo di Venezia nel ricordare quanto accaduto 109 anni fa è grande proprio perché contribuisce a rompere il ‘silenzio’ che da allora ha sempre avvolto la triste storia armena”, ha detto Baycar Sivazliyan, Presidente dell’Unione armeni d’ Italia. “Fa onore a Venezia, seconda patria per molti armeni, ricordare e trasmettere a voi giovani la nostra storia. L’accoglienza di questa città ha contribuito notevolmente al seguente riconoscimento del Genocidio armeno. Io stesso, nato a Istanbul, ho conosciuto gli eventi del passato solo quando sono approdato a studiare in un collegio qui, in città. E solo dopo, la mia famiglia ha raccontato i patimenti affrontati”.

Un popolo sfortunato l’ha definito Aldo Ferrari, docente di Lingua e letteratura armena a Ca’ Foscari: “Un paese che a fine ‘800 stava per conoscere uno sviluppo economico e culturale simile a quello dei paesi europei, che l’avrebbe condotto all’indipendenza ma, invece di approdare a un “risorgimento”, ha presto conosciuto le stragi e poi il genocidio. E spiace oggi vedere che per il diritto internazionale non tutte le tragedie sono uguali”.

Tra gli appuntamenti, da oggi al 10 maggio, si segnala l’oramai classica visita guidata alla conoscenza dell’isola di San Lazzaro degli Armeni, previa iscrizione a: servizio.produzioni.culturali@comune.venezia.it. Fino ad esaurimento posti. E poi c’è la grande novità di quest’anno: il padiglione dell’Armenia della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, ai Magazzini del sale. Prevista per sabato 20 aprile una visita guidata. Anche per questo evento, iscrizioni fino ad esaurimento posti e fino al 17 aprile: armen.yes@gmail.com. Domenica 21 aprile, invece, sono disponibili 30 posti per la visita guidata a Santa Croce degli Armeni. Info e prenotazioni: servizio.produzioni.culturali@comune.venezia.it

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Sabrina Avakian, storia di una vita segnata dal genocidio armeno del 1915 (Ilterritorio 16.04.24)

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Esistono stragi di cui nel corso della storia si è spesso taciuto e il genocidio armeno iniziato nel 1915 è una di queste. IlTerritorio.net ha intervistato Sabrina Avakian, la cui vita è stata fortemente segnata dal Metz Yeghérn (questa la denominazione armena del massacro messo in atto dall’Impero Ottomano all’inizio del secolo scorso).

Oltre alla chiara volontà di voler trattare un argomento storicamente obliato, a monte di questa intervista c’è l’intenzione di promuovere un incontro letterario che si terrà il 27 aprile, in occasione della commemorazione del genocidio che ogni anno cade il 24 dello stesso mese. L’incontro, realizzato grazie all’impegno di Adele Franchi, si terrà alle 18 presso il Bohemien Cafè di Piazza della Repubblica, a Monterotondo.

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Chi è Sabrina Avakian?

Sabrina Avakian nasce ad Addis Abeba (Etiopia) da madre italiana e padre armeno. La sua appartenenza a un gruppo minoritario decimato da un genocidio dimenticato dal mondo la motiva a operare nel settore dell’emergenza umanitaria, lavorando in zone di guerra per dare voce ai più “deboli”. I suoi nonni, fuggiti attraverso il deserto siriano e salvati da una nave francese partita da Aleppo, approdarono a Gibuti e furono accolti come rifugiati in Etiopia. Sua nonna Makrwi la cullava tra le braccia cantandole ninne nanne degli eroi armeni.

Sua madre, Adriana Giostra, ha lottato per far ottenere a lei e alle sue sorelle la nazionalità italiana, poiché all’epoca la cittadinanza poteva essere trasmessa solo dal padre. Ecco chi è Sabrina Avakian: il prodotto di una famiglia di sopravvissuti, una donna dal portamento fiero ma umano, una donna che per le sue radici porta con sé un vissuto da apolide! Sabrina si dedica a missioni di pace, all’insegnamento ed è un’esperta nei campi psicologico, educativo e criminologico. Odia la violenza ed è una convinta vegetariana, poiché crede che ogni creatura abbia diritto di vivere“.

Qual è la storia della tua famiglia e come si intreccia con quella del genocidio armeno?

La storia della mia famiglia è un viaggio attraverso l’Armenia, l’Etiopia e l’Italia. Durante il genocidio del 1915 i miei nonni hanno subito violenze e soprusi. Gli armeni, di confessione cristiana, erano allora uniti alla popolazione turca, ma con l’avvento dei “Giovani Turchi”, che desideravano un impero neutro in cui si parlasse solo turco e in cui ci fosse una sola religione, i rapporti si incrinarono. Tuttavia la vera causa scatenante del genocidio, almeno per quanto mio padre mi ha raccontato – poiché è sempre stato difficile per lui parlare di questo argomento – è stata economica: l’intenzione era quella di privare gli armeni dei loro beni per arricchire le élites turche. Pertanto non è stata solo una questione geopolitica: gli armeni erano un popolo troppo diverso e troppo intraprendente.

La storia della mia famiglia, radicata nel cuore di Antaf, testimonia la lotta per la sopravvivenza di intere generazioni di armeni, costrette ad abbandonare le proprie case, le loro terre, la loro storia. Il sacrificio di mio nonno e di tanti altri armeni che si unirono alla lotta per difendere il territorio armeno fu una pagina dolorosa, che si è purtroppo ripetuta nel 2023 con l’esodo di centoventimila armeni dall’Azerbaigian. Ma questa è un’altra vicenda.

I miei nonni hanno marciato attraverso il deserto del Deir ez-Zor, dove hanno visto campi di concentramento in cui donne e bambini morivano di stenti, maltrattamenti e fame. Molte di loro si suicidavano per il troppo dolore, i soldati turchi strappavano i feti dai loro ventri e le ragazze armene venivano stuprate con regolarità. I miei nonni sono riusciti a fuggire strategicamente dopo oltre 10 giorni di marcia, pagando i beduini con i gioielli e le cose che erano riusciti a salvaguardare. I beduini li hanno nascosti, insieme ai loro tre figli e alla sorellina di mia nonna, nelle carovane coperte di sacchi di legna e di carbone. Ma un terribile destino fermò il loro viaggio.

Un gruppo di soldati di Ataturk li fermò e in cambio della loro libertà vollero la giovane ragazza, la sorellina di mia nonna, che fu portata via tra le urla e il dolore della sua famiglia. Venne venduta nei mercati di Damasco come schiava. Dopo giorni di viaggio, i miei nonni riuscirono ad arrivare al Porto di Aleppo, dove delle navi francesi erano in attesa di famiglie armene da salvare. Saliti su quella nave, i miei nonni con i loro tre figli furono dotati di un passaporto francese, che ancora conservo. Questa nave si diresse a Gibuti (Africa), da dove molte famiglie armene raggiunsero la vicina Etiopia, Paese cristiano che offriva rifugio agli armeni. È così che i miei nonni si stabilirono in Etiopia. Ma la storia completa verrà raccontata in un libro che pubblicherò presto”.

Il 24 aprile sarà il giorno della commemorazione del genocidio…

Sì, il 24 aprile di ogni anno si commemora il genocidio armeno, che è stato il primo del XX secolo e uno dei più dimenticati. Hitler lo citava come esempio dell’eliminazione che stava pianificando in Germania, dicendo: ‘Chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?‘.

Il Mez Yegern (il ‘grande male’) ebbe inizio nei territori dell’Impero ottomano nella notte del 24 aprile 1915. I turchi volevano edificare uno “Stato nazionale”, ossia uno Stato linguisticamente e culturalmente omogeneo, con una popolazione composta principalmente da un unico gruppo etnico, limitando le altre popolazioni a piccole minoranze. Per questo motivo, gli armeni, i greci, gli assiri (le tre comunità cristiane più importanti) rappresentarono i primi obiettivi. Il genocidio del 1915 iniziò a Costantinopoli nelle case degli intellettuali, degli studiosi, dei poeti. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada.

Gli arresti e le deportazioni furono principalmente compiuti dai “Giovani Turchi”. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.500.000 persone, molte morirono per fame, malattia o sfinimento. Ancora oggi la posizione ufficiale del governo turco è che le morti degli armeni durante i “trasferimenti” o “deportazioni” non possono essere considerate un “genocidio”. Inoltre, parlare di “genocidio” è considerato un reato punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, secondo l’art. 301 del codice penale (“vilipendio dell’identità nazionale”).

Tuttavia, un ampio consenso tra gli storici qualifica questo evento come il primo genocidio moderno e sottolinea la programmazione “scientifica” delle esecuzioni come prova di un disegno genocida. Anche l’Italia ha ufficialmente riconosciuto il genocidio”.

Quali ripercussioni ha avuto il genocidio sulla famiglia Avakian?

I segni lasciati dal genocidio nella mia famiglia sono stati profondi e le conseguenze delle atrocità compiute sui miei nonni sono rimaste impresse nei loro gesti di sopravvissuti. Mio padre Vasken Avakian non ha mai avuto il coraggio di parlare apertamente del genocidio e della sofferenza dei suoi genitori.

Ha cercato però di trovare la forza di andare avanti attraverso la strada della riconciliazione e del perdono, scontrandosi con le ripercussioni delle proprie ferite psicologiche. Una delle conseguenze più profonde che il genocidio ha lasciato alla mia famiglia è quella di esserci divisi, sparpagliati per il mondo e di non aver più fatto ritorno in Armenia, se non come degli armeni della diaspora“.

Qual è il tuo rapporto con l’Italia?

Il mio rapporto con l’Italia è profondo, fetale. La nazionalità italiana mi ha salvata, perché il mio passaporto etiope, rilasciato dall’Imperatore Haile Sellassie, a seguito del colpo di stato in Etiopia è diventato inutilizzabile. I miei mi hanno voluto che io studiassi nella scuola armena, in quella italiana e poi in quella internazionale affinché potessi parlare tante lingue. Mio padre diceva: “Nel mondo, per salvarti, devi parlare la lingua dei tuoi amici e dei tuoi nemici”. Infatti non c’è un armeno che non parli meno di quattro lingue. Mio padre ne parlava perfettamente undici, incluse il turco, il russo e ovviamente l’italiano, che per lui era la lingua dell’amore.

Come ho già detto, se ho la cittadinanza italiana è solo grazie a mia madre. Mio padre la conobbe ad Addis Abeba, dove è nata e dove è tornata al termine dei suoi studi universitari torinesi. La storia del loro incontro mi ha fatto sempre sorridere. Erano entrambi partecipanti ad una festa per ragazzi. Mio padre era accompagnato dalla sua fidanzata inglese, ma tra la folla notò mia madre, “questa bellissima Italiana” diceva lui molto orgoglioso.

Così, con la scusa di un malessere, riportò la fidanzata a casa e tornò alla festa per conoscere la ragazza dalle chiome brune e occhi verdi. Ma mentre tornava alla festa con la sua Tanus metallizzata, un asinello gli attraversò la strada. Per evitare l’animale, mio padre uscì di strada distruggendo la macchina. Nonostante ciò non desistette. Abbandonò l’auto e raggiunse la festa correndo, solo per conoscere mia madre. Questa è una storia che i miei mi raccontavano sempre in maniera allegra, quasi per placare il passato del genocidio della famiglia di papà”.

Adriana Giostra e Vasken Avakian

Perché, secondo te, alcuni genocidi non hanno la stessa eco storica di altri?

La storia umana è permeata di stermini, massacri, genocidi e crimini di guerra, una triste realtà spesso caratterizzata dall’indifferenza verso le minoranze colpite, lasciate nell’oblio. Il genocidio armeno ne è un esempio lampante, lungamente negato e dimenticato, con i responsabili che, dopo la sconfitta ottomana, trovarono rifugio principalmente in Germania senza subire conseguenze. Durante i trattati tra l’ex Unione Sovietica e la Turchia, gli ambasciatori di Ankara negarono l’esistenza degli armeni in Turchia, cercando di cancellare la loro memoria.

Negazione e oblio si riflettono anche nella distruzione delle chiese, dei monasteri e delle case armene, una violenza che continua nel Nagorno-Karabakh, dove l’Azerbaijan, guidato dall’etnonazionalismo, perpetua atti di violenza. La mancanza di intervento e di denuncia da parte della comunità internazionale, incluso il silenzio del Papa e dell’Italia, è assolutamente sconcertante. La guerra in Nagorno-Karabakh ha provocato l’esodo degli armeni, con il governo azero che aveva bloccato l’unica via di accesso agli aiuti umanitari facendo morire di fame la minoranza armena.

Questo ha portato, nel 2023, alla fine della Repubblica dell’Artsakh, che si era autoproclamata in quell’area geografica, quando gli azeri hanno occupato le case degli armeni. Sono rimasta sorpresa quando ho appreso che Israele ha firmato un accordo con il governo turco per fornito armi al governo azero per sterminare gli armeni, considerando il comune passato di genocidio con gli ebrei. Come diceva Vico, “corsi e ricorsi storici”: la storia sembra ripetersi, con gli armeni che subiscono nuovamente una pulizia etnica in Karabakh sotto lo sguardo silenzioso della comunità internazionale, inclusa l’Italia.

La mancanza di eco per alcuni genocidi è spiegabile dalla ‘fastidiosa’’ presenza delle minoranze per le maggioranze, il timore del diverso e, non da ultimo, gli interessi economici e geopolitici. Si pensi alle politiche di sterminio attuate dagli Stati Uniti e dal Canada contro i nativi americani, dall’Australia contro gli aborigeni e dalla Nuova Zelanda contro i Maori. La vergogna persiste nel fatto che, nonostante la chiusura dell’ultimo istituto australiano per l’educazione dei bambini aborigeni nel 1988, la situazione rimanga immutata.

In Cambogia, il regime di Pol Pot mirava a trasformare il paese in una repubblica socialista agraria, causando la morte di 1,5 milioni di persone tra il 1975 e il 1979. Anche il genocidio di Timor Est, avvenuto nel 1975, testimonia la brutalità umana.

Il genocidio in Ruanda, dove ho lavorato con le Nazioni Unite, evidenzia la fallacia delle missioni di peacekeeping, con un milione di morti e un intervento inefficace della comunità internazionale. L’ostilità tra gli Hutu e i Tutsi, acuita dalla divisione coloniale belga, portò a un massacro sistematico nel 1994, coinvolgendo anche gli Hutu moderati”.

Hai dedicato la tua vita agli altri: è questo il lascito della tua famiglia?

“Sì, è stato il lascito della mia famiglia. Appartenendo ad una minoranza e avendo un padre che mi ha insegnato che la sofferenza degli altri non va ignorata, mi sono sempre dedicata al servizio degli altri. Questo senso di impegno è stato rafforzato dalle parole di mia nonna, che a voce bassa ricordava l’Armenia perduta e le persone care che aveva perso nel genocidio. Anche il fatto di essere nata in Africa e cresciuta lì mi ha spinto ad aiutare gli altri, e quando dico “gli altri”, intendo tutti gli esseri viventi: umani, animali, piante, tutti. Per me, la vita è preziosa. Noi armeni siamo sopravvissuti e io mi sento una guerriera ma non uso le armi, perché non le amo ma amo l’educazione/istruzione“.

Per 23 anni ho lavorato con le Nazioni Unite in paesi colpiti dalla guerra come il Kosovo, il Rwanda, l’Angola, la Bosnia, l’Afghanistan, l’Armenia, la Somalia, il Sudan, eccetera. Ho anche lavorato costantemente con le Nazioni Unite sulle navi della guardia costiera, impegnata nelle operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti. Qui ho visto e sentito la vera sofferenza, e ho capito perché le persone cercano rifugio in Italia: perché conosco i loro paesi, ci ho lavorato e ci sono nata. E ora mi dedico all’insegnamento portando le mie esperienze ai ragazzi e il mio messaggio: ‘Nelle vera storia, il conflitto tra Turchi e Armeni non è una frattura tra popoli, ma la rivelazione dell’avidità dei potenti‘”.

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Pulizia etnica, la disputa tra Armenia e Azerbaigian arriva all’Aja: in corso udienze pubbliche (Tag24 16.04.24)

Armenia e Azerbaigian si scontrano alla Corte internazionale di giustizia. Le udienze all’Aja hanno avuto l’inizio ieri, 15 aprile 2024, e dureranno per due settimane. La massima corte internazionale esamina la lunga disputa su accuse reciproche di pulizia etnica tra Erevan e Baku.

Armenia e Azerbaigian si scontrano all’Aja sulla pulizia etnica

Azerbaigian e Armenia hanno fatto ricorso all’Aja dopo gli scontri del 2020 nella regione del Nagorno-Karabakh. La battaglia legale, quindi, risale al 2021. Le forze azere hanno riconquistato la regione nel settembre 2023 dopo anni di controllo armeno. Le parti si sono accusate reciprocamente di pulizia etnica e di violazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 21 dicembre 1965.

I due paesi sembravano vicini ad un possibile accordo di pace nel Caucaso. Continuano, però, ad aumentare le tensioni tra due paesi che storicamente hanno relazioni complicate. Le decisioni dell’Aja sono vincolanti, tuttavia, la Corte non dispone di alcun meccanismo di attuazione.

Le udienze alla Corte internazionale di giustizia

L’Armenia ha formulato accuse di pulizia etnica e di violazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale contro l’Azerbaigian. Inoltre, Erevan ha accusato Baku di promuovere il razzismo contro gli armeni, consentire discorsi di odio contro di loro e distruggere siti culturali armeni. Baku nega tutte queste accuse.

L’Azerbaigian ha presentato un ricorso contro l’Armenia con le stesse accuse. Ha anche accusato Erevan di non impegnarsi sinceramente nei negoziati prima di portare il caso in tribunale.

Durante l’udienza di ieri ha chiesto alla Corte internazionale di giustizia di respingere il caso intentato dall’Armenia sostenendo che non rientra sotto la giurisdizione della Corte.

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Armenia e Azerbaigian si sfidano alla Corte internazionale di giustizia (Internazionale 15.04.24)

A partire dal 15 aprile la Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aja esaminerà una disputa tra l’Armenia e l’Azerbaigian incentrata su accuse reciproche di “pulizia etnica”, in un momento in cui le tensioni militari tra i due paesi del Caucaso tornano a crescere.

Gli avvocati delle parti esporranno il loro punto di vista nel corso di due settimane di udienze.

All’inizio del mese i due governi si sono accusati reciprocamente di aver aperto il fuoco lungo il confine condiviso, minando le speranze di un accordo di pace dopo decenni di violenze.

La battaglia legale risale al settembre 2021, quando nel giro di una settimana i due paesi si erano denunciati reciprocamente alla Cig, accusandosi di “pulizia etnica” e di violazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.

La Cig, che si occupa di controversie tra stati, aveva emesso un ordine di emergenza nel dicembre 2021, invitando le parti ad astenersi dal commettere crimini di questo tipo.

Tuttavia, anche se le sue decisioni sono vincolanti, la Cig non ha i mezzi per farle rispettare, e da allora le tensioni sono aumentate, culminando nel settembre scorso nell’offensiva lampo dell’esercito azero nella regione contesa del Nagorno Karabakh.

Baku ha riconquistato l’enclave, spingendo l’intera popolazione armena – più di centomila persone – a fuggire in Armenia.

Erevan contro Mosca

Poche settimane dopo, l’Armenia ha presentato un nuovo ricorso alla Cig, chiedendo ai giudici di ordinare all’Azerbaigian di ritirare le sue truppe dalla regione e di permettere il ritorno in sicurezza dei profughi armeni.

A novembre la Cig ha ordinato all’Azerbaigian di consentire a chiunque voglia tornare nel Nagorno Karabakh di farlo “in piena sicurezza, senza ostacoli e in tempi rapidi”.

Il conflitto ha anche messo a dura prova i legami storici tra l’Armenia e la Russia, con Erevan che ha accusato Mosca di non aver fatto abbastanza per proteggerla quando era sotto attacco.

A febbraio l’Armenia ha aderito alla Corte penale internazionale (Cpi), nonostante gli avvertimenti di Mosca.

Tra le altre cose si è quindi assunta l’obbligo di arrestare il presidente russo Vladimir Putin nel caso dovesse mettere piede in territorio armeno, in virtù di un mandato d’arresto emesso dalla Cpi nel marzo 2023.

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Armenia, il ministero degli Esteri a Nova: “Nessun colloquio con il Regno Unito sui migranti” (Agenzia Nova 15.04.24)

Armenia e Regno Unito hanno un ampio dialogo politico ma non ci sono stati colloqui sulla questione della deportazione dei migranti, come quello che Londra ha siglato con il Ruanda. È quanto ha riferito l’ufficio stampa del ministero degli Esteri di Erevan, interpellato da “Agenzia Nova” a commento di un articolo del quotidiano “The Times”. “Pur avendo un ampio dialogo politico con il Regno Unito, per quanto riguarda il tema sollevato nella pubblicazione non ci sono stati colloqui sostanziali o tecnici”, ha riferito una portavoce del ministero degli Esteri. Le dichiarazioni del dicastero di Erevan smentiscono, quindi, quanto riportato dal “Times”. Secondo il quotidiano, in seguito alla visione di alcuni documenti classificati, il Regno Unito avrebbe avviato trattative per replicare il programma di deportazione dei migranti concordato con il Ruanda anche con Armenia, Costa d’Avorio, Costa Rica e Botswana. I documenti rivelano come il governo di Londra stia cercando di siglare almeno un altro accordo per trasferire la gestione dell’afflusso dei migranti in Paesi terzi.

Le autorità britanniche starebbero tentando questa strada nonostante l’intesa fra Londra e Kigali sia in stallo a causa delle lentezze nel processo di approvazione parlamentare. Secondo i documenti trapelati, sarebbero stati contattati anche diversi Paesi sudamericani, tra cui Ecuador, Paraguay, Perù, Brasile e Colombia, ma tali Stati sarebbero meno interessati a un accordo. Altri Paesi africani, tra cui Marocco, Tunisia, Namibia e Gambia, invece, hanno “esplicitamente rifiutato” di partecipare a discussioni tecniche. Infine, Capo Verde, Senegal, Tanzania, Togo, Angola e Sierra Leone sono stati inseriti in una lista di Paesi indicati come “di riserva” qualora i negoziati in corso dovessero fallire.

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L’Armenia e il gioco (sporco) dell’Occidente (Spondasud 15.05.24)

(BRUNO SCAPINI) – Spiace dirlo, ma l’Armenia, attirata dai flebili luccichii di uno specchietto per le allodole, rischia seriamente questa volta di cadere nella trappola occidentale.

Indotta a guardare all’Europa e alla NATO come a due mete ineludibili per la propria sicurezza e benessere economico, Yerevan sta ora lentamente, ma progressivamente, adottando una linea di scostamento da quelle direttrici che avevano fino a pochi anni orsono costituito le costanti invariabili della sua azione estera fin dall’indipendenza.

La politica del c.d. “doppio binario”, seguita tradizionalmente dalla sua dirigenza, e che aveva garantito al Paese – nel contemperamento delle proprie prospettive sia ad Est che ad Ovest – una più che apprezzabile crescita economica e visibilità internazionale, è venuta purtroppo ad infrangersi contro il bivio di una scelta di campo imposta da una spregiudicata strategia occidentale volta ad accerchiare la Russia attraverso il graduale, ma incessante, allargamento ad Est della NATO.

Una mossa che ha riportato drasticamente l’orologio indietro nel tempo riproponendo una “guerra fredda” all’Europa che quest’ultima rischia ora di combattere solo con le proprie forze qualora gli Stati Uniti si dovessero riservare, come sembra, di utilizzare la NATO per finalità più attinenti ai propri interessi nazionali.

È esattamente in questo quadro che il ruolo dell’Armenia andrebbe oggi collocato e valutato.  Non bastando più l’Ucraina per tenere a bada Mosca, l’Occidente sta facendo scivolare l’asse dello scontro con la Russia verso il Caucaso Meridionale con l’intento di destabilizzare nell’area proprio quel Paese che, presentando le maggiori criticità, per via di una guerra perduta con l’Azerbaijan nel Nagorno Karabagh, appare più suscettibile di recepire le ingannevoli profferte di Washington e di Bruxelles.

Che gli Stati Uniti intendano verosimilmente approfittare delle incertezze dell’attuale corso politico in Armenia per aprire un ulteriore fronte in funzione anti-russa non sembrerebbe del resto un’ipotesi fantapolitica, ma più realisticamente l’esito di un cinico calcolo strategico. Vari segnali lo rivelerebbero.

È da osservare, infatti, al riguardo che mai come in questi ultimi tempi i Paesi occidentali stanno mostrando un così intenso interesse verso l’Armenia. Paese tradizionalmente ancorato alla sfera di influenza moscovita, cui risulta legato in virtù della partecipazione alla Unione Economica Euro-asiatica e alla CSTO quale alleanza di difesa, solo sporadicamente era stato in passato oggetto di attenzioni da parte occidentale. Ma tutto è cambiato con la “rivoluzione di velluto” del 2018. Da allora, con il nuovo Governo impostosi con l’intento di contenere l’influenza delle tradizionali oligarchie economiche, si è attuata una inversione di tendenza. Il nuovo Primo Ministro, nella persona di Nikol Pashinyan, insediatosi col favore delle piazze, ottiene una chiara legittimazione da parte di Washington e di Bruxelles. Lo testimonierebbero del resto le più intense frequentazioni intessute da Yerevan con i Paesi occidentali e la NATO che hanno trovato proprio nella sconfitta subita nel 2020 dall’Armenia nella guerra contro l’Azerbaijan, e in quella del 2023 con lo strappo finale sul Karabagh di Baku, il terreno più fertile per sostituirsi a Mosca quali principali referenti per un riassetto politico della regione.

Né d’altra parte Yerevan farebbe mistero del proprio orientamento indirizzato verso una accentuata politica di sganciamento da Mosca. Le mosse, infatti, intraprese da Yerevan fin dall’affermarsi dell’attuale Governo se, da un lato, hanno incoraggiato per molti versi l’avvicinamento al Paese degli Stati Uniti e dell’Europa, dall’altro, hanno però indispettito Mosca inducendola non solo a guardare oggi all’Armenia con deciso sospetto, ma anche a valutare il suo corso politico di allontanamento come una manifestazione di sostanziale e aperta ostilità. Una circostanza che avrebbe portato Mosca a dosare con certa attenzione il proprio appoggio all’Armenia nelle sue due ultime guerre nella plausibile previsione che una sua sconfitta avrebbe potuto condurre ad una caduta del Governo senza tuttavia causare al Paese una totale disfatta. Se, infatti, l’intervento della Russia nella mediazione ha certamente contribuito a contenere le ambiziose velleità territoriali di Baku ( basti vedere i termini del compromesso raggiunto nel novembre del 2020 a fronte delle pretese azere sul corridoio di Zangezur), la prospettiva di un cambiamento di Governo a Yerevan sarebbe stata smentita proprio dall’irrigidimento assunto dal Governo armeno nel reprimere ogni forma di dissenso insorto all’interno del Paese in esito alla sconfitta militare.

A tali antefatti andrebbe, dunque, ricondotta oggi  la fondamentale ambiguità della politica estera armena: da un lato il Premier strizza l’occhio a Washington e alla NATO, dall’altro dichiara di aver congelato la partecipazione di Yerevan all’alleanza militare della CSTO nella pretesa che Mosca faccia chiarezza sugli effettivi termini del suo impegno in favore dell’Armenia.  In realtà il rapporto con Mosca è già compromesso. E chiari segnali lo indicherebbero come: le esercitazioni militari condotte sul suolo armeno con unità statunitensi (mossa senza precedenti nella Storia dell’Armenia indipendente intrapresa a dispetto della presenza di una base militare russa a Gyumri), i tentativi di concludere accordi di cooperazione sia con Ankara che con Baku – peraltro storici nemici dell’Armenia – dietro concessioni territoriali non più limitate al Karabagh, ma estese addirittura al territorio sovrano del Paese ( vedasi la pretesa azera sulla regione di Tavush), la recente inusuale visita in Armenia del Segretario Generale della NATO, Stoltenberg, l’aiuto militare annunciato dalla Francia e dal Regno Unito, la preannunciata visita a Yerevan di Zelensky poi annullata e la recente dichiarazione del Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen che avrebbe confermato essere l’Armenia un “partner vitale nella politica di vicinato dell’Unione”.

In questo quadro, già di per sé assai critico e labile, l’ambiguità della situazione in cui l’Armenia è venuta a trovarsi verrebbe ulteriormente confermata proprio dal recente incontro avvenuto a Bruxelles il 5 aprile scorso tra il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, il Segretario di Stato, Antony Blinken, i vertici dell’UE, Ursula von der Leyen e Josef Borrell, e il Direttore dell’USAID, Samantha Power. Scopo dichiarato dei colloqui sarebbe stato, infatti, quello di assicurare l’Armenia sul sostegno occidentale alla sua sovranità, democrazia, integrità territoriale, nonché alle condizioni socio-economiche del Paese.

Ebbene, se sul piano strategico le prospettive lanciate dall’incontro risultano facilmente intuibili, atteso l’obiettivo di sostenere Yerevan nella sua politica di allontanamento da Mosca – ed è significativo a tal fine non solo il congelamento dichiarato da parte armena della partecipazione alla CSTO quale alleanza militare con la Russia, ma anche il più recente annuncio di Yerevan di voler spegnere le trasmissioni televisive russe nel Paese – è sul piano dei benefici che la scelta euro-atlantista presenterebbe delle innegabili perplessità per l’Armenia. Ma vediamo più analiticamente la questione.

La ricerca di un nuovo assetto territoriale nell’area che soddisfi le aspettative strategiche occidentali, non potrebbe realizzarsi senza compiacere le pretese della Turchia e dell’Azerbaijan non solo quali attori imprescindibili delle dinamiche regionali, ma anche come protagonisti attivi della cooperazione euro-atlantista.  Il ché non potrebbe mancare di incidere negativamente sulla capacità di Yerevan di salvaguardare la propria integrità territoriale col rischio di un sacrificio perfino delle stesse sue cause storiche nazionali: il riconoscimento del Genocidio e la reintegrazione nella sovranità nazionale delle terre di insediamento storico armeno come il Nagorno Karabagh. Confermerebbe del resto, e chiaramente, tale debole impegno dell’Occidente proprio la dichiarazione rilasciata da parte americana nell’incontro tenutosi a Berlino questo fine febbraio secondo la quale gli Stati Uniti non potranno intervenire nella conciliazione tra Yerevan e Baku con un “ruolo di garanti della sicurezza dell’Armenia”.  Una affermazione, questa, che vuole ampiamente alludere alla priorità che Washington riserverebbe al riconoscimento degli interessi dell’Azerbaijan ritenuti prevalenti.

Ma anche sul piano economico la svolta pro-West di Yerevan implicherebbe pesanti conseguenze. L’abbandono da parte dell’Armenia dello spazio euro-asiatico priverebbe l’export del Paese di una quota di almeno il 40% che è quella parte di mercato rappresentata dalla Russia. Non solo, ma ben il 70% delle rimesse dall’estero dei lavoratori armeni proverrebbe dalla Russia; il che trasformerebbe in un disastro epocale una eventuale politica di ritorsione che Mosca attuerebbe in caso la tensione tra i due Paesi dovesse acutizzarsi fino a raggiungere un punto di rottura. Eppure, le offerte occidentali sembrerebbero comunque seducenti per il Premier armeno; e ciò nonostante sia sufficientemente chiaro oggi come l’insistente attivismo occidentale verso questo Paese induca a immaginare quale possa essere il vero interesse degli Stati Uniti: sostenere la causa di Yerevan nel sottrarsi alla dipendenza da Mosca per poi sostituirvisi nel controllo del Paese e dell’intera area caucasica.  Sempre sul piano economico, infine, è pure da precisare come l’aiuto da ultimo offerto a Yerevan da Washington e da Bruxelles non solo risulti ridicolo per entità, se rapportato a quello dato agli altri Paesi dell’area (appena 290 milioni di dollari da spalmarsi su 4 anni), ma anche offensivo in realtà per via della sua inidoneità ad assicurarsi la fedeltà di un Paese confrontato oggi da una scelta strategica particolarmente sofferta.

Peccato a questo punto che l’ambiguità dell’atteggiamento americano non venga colta dall’attuale Governo armeno, il quale si ostina invece ad osteggiare sempre più Mosca alienandosi il sostegno storico della Russia, unico Paese in fondo in grado di garantirne la integrità territoriale. All’Occidente, infatti, poco importa del riconoscimento del Genocidio armeno o della reintegrazione del Nagorno Karabagh nel perimetro del Paese. Quello che conta per Washington e la NATO è alla fin fine assicurarsi al minimo costo l’acquisizione di una ulteriore pedina nello scacchiere caucasico da utilizzarsi all’uopo in funzione anti-russa. E in questa prospettiva, le cause storiche nazionali armene potranno pur essere sacrificate se l’obiettivo è infliggere il maggior danno possibile alla Russia. Del resto cos’altro potrà mai offrire l’Armenia – priva di petrolio e di gas – in cambio della “protezione” occidentale se non il sacrificio dei propri interessi nazionali per consentire alla NATO di metter piede sul suo suolo?

Un certo parallelismo, a ben osservare, emergerebbe dal corso politico seguito in questo ultimo decennio dall’Ucraina e dall’Armenia. I due Paesi, infatti, candidati inizialmente entrambi a un Accordo di Associazione con l’Unione Europea, sarebbero stati sollecitati, in tempi diversi, da forze esterne ad un cambiamento di leadership in grado di reindirizzarli verso una deriva euro-atlantista. Deriva ovviamente malvista dalla Russia in quanto capace di pregiudicarne, come intuibile, la sicurezza dei confini. E non sarebbe quindi un caso che in entrambi i Paesi sia andata progressivamente affermandosi una crescente presenza statunitense, premessa per Kiev a un sostegno oggi in una guerra aperta contro la Russia, e prodromo per Yerevan domani di una crisi regionale foriera di pessimi presagi. Nessuna sorpresa dunque. È sempre la stessa strategia del Pentagono che verrebbe applicata all’Armenia divenuta ora terreno ideale per condurre un altro affondo ai danni del Cremlino. Riusciranno tuttavia gli Stati Uniti a conseguire questo obiettivo? Dipenderà molto dalla forza di contenimento che Mosca saprà e vorrà applicare al caso, ma soprattutto dalla voglia di Washington di impegnarsi in uno scontro diretto, volto questa volta a scacciare fisicamente i russi dalla loro base militare nel Paese.

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In Armenia torna Yerevan Cocktail Week con un’edizione dedicata all’arte (Beverfood 14.04.24)

La Yerevan Cocktail Week (YCW) sta per tornare, e quest’anno promette di essere un’apoteosi artistica come mai prima d’ora. L’evento inizierà la prima domenica di maggio, e andrà dunque in scena  dal 5 al 12 . Questo evento annuale fondato da Gegam Kazarian – Kazari’s Project e co-organizzato da Lusine Melkonyan, fondatrice della società di viaggi Next Is Armenia, riunisce i migliori bar, talentuosi barman, esperti internazionali e appassionati di cocktail per esplorare un tema unico attraverso l’arte della mixologia.

 

Dopo il successo della tematica  dello scorso anno che celebrava l’architettura, la YCW è orgogliosa di annunciare che quest’anno ruoterà intorno al affascinante mondo delle belle arti. Mentre la vivace capitale dell’Armenia abbraccia il suo ricco patrimonio artistico, la Yerevan Cocktail Week invita a intraprendere un viaggio sensoriale attraverso il regno della pittura, della scultura e della creatività.

Durante la csettimana, i bar partecipanti in tutta Yerevan creeranno cocktail signature ispirati al tema: da innovative creazioni che omaggiano opere d’arte famose a miscele d’avanguardia che riflettono movimenti artistici, ogni cocktail promette di essere un capolavoro a sé stante.

Inoltre, la Yerevan Cocktail Week funge da piattaforma per lo scambio di conoscenze e networking all’interno della comunità globale dei cocktail. Professionisti e esperti rinomati provenienti da diverse parti del mondo convergeranno a Yerevan, condividendo la loro esperienza e i loro insight con i membri dell’industria locale. Questa convergenza di talento e creatività favorisce la collaborazione, elevando gli standard della mixologia in Armenia e oltre.La Yerevan Cocktail Week non è solo una celebrazione dei cocktail; è una celebrazione dell’identità culturale di Yerevan e del suo spirito vibrante.

Per ulteriori informazioni, inclusa una lista dei bar partecipanti e degli eventi, visita il sito ufficiale su www.yerevancocktailweek.com.

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Mosca potrebbe trasferire i colloqui sul Caucaso da Ginevra in un altro Paese (Bluwin 14.04.24)

La Russia sembra voler punire la Svizzera per la sua posizione nella guerra in Ucraina. Il Cremlino sta valutando la possibilità di trasferire i colloqui sul Caucaso meridionale da Ginevra a un altro Paese, ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri russo.

«La Russia è costretta a sollevare la questione del trasferimento dei colloqui sulla regione del Nagorno-Karabakh, nel Caucaso meridionale, dalla Svizzera a un altro Paese», ha precisato oggi la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova all’agenzia statale Tass.

«Abbiamo ripetutamente avvertito la Svizzera che la sua posizione irresponsabile e apertamente ostile nei confronti della Russia è contraria alla neutralità», ha aggiunto la portavoce. Zakharova ha citato la partecipazione della Svizzera alle sanzioni contro la Russia e la sua «solidarietà illimitata con il regime di Kiev».

Alla luce di ciò, la Russia si sente costretta a considerare la questione del trasferimento dei colloqui internazionali sulla sicurezza e la stabilità nel Caucaso meridionale verso un altro Paese. La Russia è favorevole a un Paese «le cui autorità non intraprendano azioni che danneggino gli interessi di nessuno dei partecipanti a questo formato negoziale».

Offensiva dello scorso autunno

La portavoce del Ministero degli Esteri russo ha spiegato che diversi altri Stati si sono già detti disposti ospitare le riunioni periodiche di discussione.

La regione del Nagorno-Karabakh all’interno dell’Azerbaigian, popolata prevalentemente da armeni, è stata per molti anni oggetto di contesa tra Baku ed Erevan. Lo scorso autunno, con una sorprendente offensiva, l’Azerbaigian ha conquistato l’enclave. La Repubblica del Nagorno-Karabakh, non riconosciuta a livello internazionale, è stata sciolta il 1° gennaio 2024. Migliaia di armeni hanno lasciato la regione.

I colloqui per la pace e la risoluzione del decennale conflitto si sono recentemente arenati. Negli ultimi anni si sono svolte a Ginevra numerose discussioni diplomatiche tra le parti in conflitto.

Va ricordato che la Confederazione si impegna da anni a favore della pace nel Caucaso meridionale. Nell’ambito del suo mandato in qualità di potenza protettrice, la Svizzera rappresenta dal 2009 gli interessi diplomatici della Georgia a Mosca e gli interessi della Russia a Tbilisi.

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La Russia vuole punire la Svizzera per il suo sostegno all’Ucraina (Tio.ch)