Una sfortunata intervista della BBC conseguenza dell’ignoranza sbalorditiva dei media globali sul Caucaso meridionale e sul crimine di genocidio (Korazym 29.01.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 29.01.2023 – Vik van Brantegem] – Il 23 gennaio scorso abbiamo già fatto un accenno all’intervista a Ruben Vardanyan (foto di copertina) – dal novembre 2022 Ministro di Stato (l’equivalente di un Primo Ministro) della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh – che era stato trasmesso quel giorno nel programma HARDTalk della BBC: quando un intervistatore non vuole fare il giornalista. L’intervistatore Stephen Sackur ha avuto poco interesse per l’Artsakh, parlando principalmente del Presidente russo Putin e il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, ma Ruben Vardanyan era comunque riuscito a parlare del disastro umanitario e dell’aggressione azera contro l’Artsakh. Oggi riportiamo, nella nostra traduzione italiana dall’inglese, la Dichiarazione dell’Istituto Lemkin per la Prevenzione di Genocidio su questa “sfortunata” intervista.

Poi, nel ricordare nostro articolo del 21 gennaio 2023 L’enigma Vardanyan e la profezia del Molokanopresentiamo di seguito alcuni spunti biografici per rendere giustizia all’uomo Vardanyan, visto che Sackur lo ha presentato come “l’uomo di Mosca in Karabakh”. Invece, osserva l’Istituto Lemkin, risulta «che il gas russo viene esportato in Azerbajgian e poi, presumibilmente, in Europa, il che potrebbe significare che lo stesso Ilham Aliyev è, in effetti, “l’uomo di Mosca” nel Caucaso meridionale. Tralasciare un contesto importante e noto come questo sembra mirato a fuorviare intenzionalmente il pubblico».

La Dichiarazione dell’Istituto Lemkin
(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

L’Istituto Lemkin per la Prevenzione di Genocidio è scioccato e inorridito dal fatto che il conduttore del programma HARDtalk della BBC, Stephen Sackur, abbia offerto il genocidio come una delle due “opzioni realistiche” che devono affrontare gli Armeni nell’Artsakh durante un’intervista con il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan, trasmessa il 23 gennaio 2023.

Riferendosi al blocco illegale di 49 giorni dell’Artsakh da parte del regime dittatoriale del Presidente azero, Ilham Aliyev, Sackur ha chiesto a Vardanyan: “Ora controlla una minuscola enclave che sta soffrendo a causa del blocco economico in questo momento, e sembra che la sua unica opzione realistica sia quella di elaborare un accordo politico con l’Azerbajgian o che il popolo, la comunità armena nel Nagorno-Karabakh, decida che questo non è più sostenibile e lasciare il territorio. Quindi, quale sarà: un accordo politico o una partenza?”.

Come l’Istituto Lemkin ha sottolineato in numerosi Avvisi e Dichiarazioni di Bandiera Rossa, costringere le persone a lasciare la propria terra con la minaccia di morte è una forma di genocidio.

L’Istituto Lemkin è sorpreso di dover sottolineare che il genocidio non dovrebbe mai essere offerto ai popoli minacciati come una possibile “opzione realistica” in futuro. Le persone minacciate di genocidio affrontano scelte senza scelta. Se gli Armeni sono costretti a fuggire di fronte alle minacce azere, questa non è una “opzione realistica”, è un genocidio. L’inquadramento della questione da parte di Sackur lo colloca nella posizione dell’autore, che in questo caso è Ilham Aliyev. Coinvolgendo Artsakhsis in uno scenario di fantasia in cui sono possibili negoziati politici con l’attuale regime azero anti-armeno e genocida, Sackur si impegna in una negazione non così sottile del genocidio e incolpa persino la vittima: Artsakh è sotto blocco non a causa dei disegni genocidi di Azerbajgian, ma a causa di un’inspiegabile testardaggine da parte degli Armeni in Artsakh o dei loro leader – o entrambi, come sembra credere.

Implementando una tattica chiamata DARVO (Deny, Attack, Reverse Victim and Offender, ovvero Negare, Attaccare, Invertire Vittima e Colpevole), Sackur rispecchia una strategia comune di genocidi. Non una volta Sackur ha osservato che il blocco dell’Artsakh da parte dell’Azerbajgian è una violazione dell’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine alla guerra del 2020, né ha osservato che le tattiche di assedio contro i civili costituiscono una violazione del diritto internazionale. Infatti, sembra giustificare il blocco riferendosi a un “malinteso” tra Azerbajgian e Armenia sui termini dell’accordo del 2020 dopo che Vardanyan ha giustamente sottolineato che il blocco è una chiara violazione del suddetto cessate il fuoco.

Uno dei momenti più significativi dell’intervista è quando Sackur interrompe Vardanyan per “chiarire” il linguaggio che dovrebbe essere usato per riferirsi all’Artsakh: “Ha appena fatto riferimento al suo territorio come Artsakh, dovrei chiarire che mentre le, nel suo territorio, vi riferite ad esso come Artsakh, il governo azero, ovviamente, lo chiama Nagorno-Karabakh, come del resto fa la comunità internazionale, quindi voglio solo essere chiaro su questo”.

L’Istituto Lemkin è sconvolto dall’insistenza di Sackur sull’uso del nome Nagorno-Karabakh. Il “chiarimento” di Sackur suggerisce l’illegittimità del nome Artsakh, che è in realtà il nome storico armeno della regione. La sua insistenza ignora anche le sfumature politiche del termine Nagorno-Karabakh, o semplicemente Karabakh, un nome che viene spesso utilizzato durante le sessioni di tortura, in cui i soldati azeri costringano, sotto minaccia di danni fisici, i prigionieri di guerra armeni a ripetere termini come “Karabagh è l’Azerbajgian”. Queste sessioni sono state documentate dagli stessi soldati azeri e diffuse attraverso i social media. Il commento di Sackur, che egli inquadra come una verità rivelata e incontestabile, suggerisce una totale ignoranza della storia del conflitto dell’Artsakh e ignora il fatto che l’Artsakh sia stato dato all’Azerbajgian sotto il dominio coloniale dell’Unione Sovietica, senza il consenso o il contributo della maggioranza armena della popolazione residente all’interno.

Sebbene Sackur dica costantemente “il suo territorio”, sembra ignorare il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Come abbiamo affermato in diversi documenti, il diritto all’autodeterminazione è uno dei più fondamentali all’interno del sistema giuridico internazionale secondo le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite e di diversi strumenti sui diritti umani. Questo diritto è fondamentale quanto l’integrità territoriale, l’eguale sovranità e il divieto generale dell’uso della forza. Gli Armeni dell’Artsakh hanno espresso in modo continuo e coerente la loro volontà di indipendenza dal 1991, quando hanno votato in un referendum che ha portato a una schiacciante maggioranza del 99,89% a favore dell’autonomia. Inoltre, hanno costruito istituzioni democratiche e chiesto costantemente di essere riconosciute globalmente come Repubblica indipendente. Quindi, riferendosi ad esso come Artsakh, il Ministro di Stato Ruben Vardanyan non solo onora l’antica storia della regione, ma esercita anche il diritto all’autodeterminazione dell’Artsakh come rappresentante ufficiale del Paese.

L’intera intervista infatti è caratterizzata da presupposti e schemi che sembrano provenire da Baku. A volte, Sackur sembra utilizzare i social media come unica fonte per enormi affermazioni di verità, come quella secondo cui gli Artsakhsis credono che il “tempo di Vardanyan come… Ministro di stato sia stato un disastro”. A un certo punto Sackur nomina come fonte lo “scienziato politico” Elkhan Sahinoglu, il Capo del Centro di ricerca Atlas di Baku, e lo cita dicendo che “Ruben Vardanyan è l’uomo di Mosca in Karabakh”. Sackur sembra del tutto inconsapevole che tutti gli istituti di ricerca in Azerbajgian, come tutti i media, sono sotto il totale controllo del regime del Presidente Aliyev. Se Sackur menzionerà la propaganda azera come fonte, ha l’obbligo di far sapere agli ascoltatori che non c’è libertà di indagine, ricerca o parola in Azerbajgian.

Sackur sembra anche non sapere che il gas russo viene esportato in Azerbajgian e poi, presumibilmente, in Europa, il che potrebbe significare che lo stesso Ilham Aliyev è, in effetti, “l’uomo di Mosca” nel Caucaso meridionale. Tralasciare un contesto importante e noto come questo sembra mirato a fuorviare intenzionalmente il pubblico.

Gran parte di questa intervista è stata sprecata nel tentativo di screditare Ruben Vardanyan come uomo d’affari corrotto e tirapiedi russo. Ciò che è così pericoloso in questa linea di domande è la sua relazione con la storica armenofobia che ha motivato il genocidio armeno. Sin dai tempi dei massacri di Hamidian nel XIX secolo, la violenza contro gli Armeni è stata giustificata attraverso l’inquadramento degli armeni come tirapiedi e simpatizzanti russi. Mentre l’Istituto Lemkin sostiene con tutto il cuore la responsabilità di un giornalista di porre domande difficili ai leader politici, in questo caso le domande sono apparse più limitate che difficili, e di conseguenza abbiamo perso l’opportunità di ascoltare il punto di vista della leadership dell’Artsakh su argomenti importanti come il governo durante il blocco, ciò che è necessario alla comunità internazionale, la pianificazione per il futuro e il significato di patria.

L’Istituto Lemkin considera questa sfortunata intervista come la conseguenza dell’ignoranza sbalorditiva dei media globali sul Caucaso meridionale in generale e sul conflitto del Nagorno-Karabakh in particolare. Lo consideriamo anche la conseguenza dell’ignoranza dei media sul crimine di genocidio e sulle modalità della sua prevenzione. Infine, riteniamo che questa intervista sia la conseguenza di una forte tensione interna anti-armena e filo-turca in Gran Bretagna, che risale alla fine del XIX secolo, in particolare la scoperta del petrolio intorno a Baku e i successivi importanti investimenti britannici nei campi di petrolio dell’Azerbajgian [della questione abbiamo trattato [QUI]].

Chiediamo ai mezzi di informazione britannici di esaminare possibili pregiudizi anti-armeni nelle loro notizie. Chiediamo inoltre alla BBC e ad altri media globali di garantire l’accuratezza dei loro servizi sul Caucaso meridionale. Suggeriamo inoltre che più società di media si concentrino sull’educazione di editori e giornalisti sulle leggi e gli approcci relativi alle atrocità di massa e alla sua prevenzione. Infine, chiediamo che i giornalisti non propongano i risultati del genocidio come “opzioni realistiche” affrontate dalle comunità minacciate.

Testo originale inglese della Dichiarazione dell’Istituto Lemkin [QUI].

Ruben Vardanyan
ANI-Armenian Research Center, 21 maggio 2015

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

“Non sono mai stato qui prima. È molto emozionante”, dice Ruben Vardanyan, mentre entra in un lungo edificio scolastico in mattoni grigio-marroni appena fuori Yerevan. Non è difficile capire perché. Se non fosse stato per questo edificio e per quello che è successo al suo interno, Vardanyan e sua sorella Marine non sarebbero nati.

Ruben Vardanyan e sua sorella Marine.

La struttura bassa si trova all’ingresso di Etchmiadzin, la Santa Sede della Chiesa Apostolica Armena. I corridoi sono rivestiti con le loro vesti nere e viola e ogni ora l’aria si riempie dei suoni di canti.

Cento anni fa c’erano anche canti e musica. Ma erano i lamenti dei bambini – orfani del genocidio armeno. Il nonno di Vardanyan, Hmayak, era uno di loro.

“Suo padre e due fratelli sono stati uccisi durante il genocidio. È fuggito a piedi quando aveva otto anni da Archesh, provincia di Van nell’impero ottomano, dove lui e la sua famiglia sono cresciuti. Ha camminato verso nord con sua madre e altri membri della famiglia”, spiega Vardanyan.
Sua madre e sua sorella minore morirono pochi giorni dopo aver raggiunto l’Armenia orientale, che allora era sotto il controllo russo. Hmayak è stato accolto dall’orfanotrofio, gestito dalla Near East Relief Foundation, un ente di beneficenza americano che aveva raccolto milioni di dollari per aiutare a prendersi cura delle vittime del genocidio.

Il nonno di Ruben Vardanyan, Hmanyak.

Oggi, Ruben Vardanyan è tra i pochi pionieri armeni nati in Armenia e che trascorrono gran parte del loro tempo lavorando per ricostruire la loro patria quasi da zero. Come Irlanda e Israele, Armenia è uno di quei Paesi che ha più cittadini che vivono fuori dalla patria che in essa.

Vardanyan è ben posizionato per alzare lo sguardo dell’Armenia. È un sopravvissuto che ha prosperato e vuole che l’Armenia ora faccia lo stesso.

Vardanyan si è trasferito a Mosca nella tarda adolescenza per studiare all’Università Statale di Mosca. Quando il riformatore sovietico Mikhail Gorbaciov salì al potere, vide i vantaggi della liberalizzazione e iniziò una carriera nel settore bancario e dei servizi finanziari che alla fine gli avrebbe fatto guadagnare una fortuna quando aveva trent’anni. I suoi interessi commerciali sono sopravvissuti al crollo dell’Unione Sovietica.

Tornò in patria per vederla conquistare la sua indipendenza nel 1991 e poi crollare a causa degli effetti del devastante terremoto di tre anni prima, del blocco economico della Turchia, delle turbolenze nel nord mentre altre ex repubbliche sovietiche si separavano da Mosca e della guerra con la vicina Azerbajgian. “Siamo passati dal XX al XVII secolo quasi da un giorno all’altro. Abbiamo dovuto bruciare legna e persino libri per sopravvivere all’inverno. Dovevamo alzarci alle cinque del mattino e fare ore di fila solo per prendere il pane, da mangiare per restare vivi”.

Anno dopo anno, ha visto la sua terra tornare gradualmente alla normalità.
Non sorprende che Vardanyan dica di sentirsi “come se avessi già avuto circa quattro vite”. Sta per iniziare un quinto, che, per lui, è forse il più importante di tutti.

È iniziato più di un decennio fa quando Vardanyan ha incontrato Noubar Afeyan, un imprenditore armeno con sede a Boston, mentre studiava ad Harvard. I due uomini d’affari di successo iniziarono a parlare di come avrebbero potuto usare le loro capacità imprenditoriali a beneficio dell’Armenia.

Nel 2009 Vardanyan e Afeyan hanno iniziato a pensare a come utilizzare il centenario del genocidio per attirare l’attenzione sull’Armenia e stimolare il cambiamento. 100 VITE è il risultato.

“L’Armenia è un Paese indipendente da 25 anni, ma, come popolo e nazione più ampia, la civiltà armena ha 5.000 anni. Dobbiamo costruire su questo. Dobbiamo liberarci del nostro senso di vittimismo e guardare al futuro”.

“È difficile. È un cambiamento nella mente. Stiamo incoraggiando l’Armenia ad andare oltre la sopravvivenza e verso la prosperità. È rivoluzionario, ma rivoluzione da una prospettiva diversa.

Ruben Vardanyan e sua moglie Veronika.

Cambiare idea richiederà tempo e denaro. Vardanyan ha entrambi. Sta dedicando la maggior parte del suo tempo a 100 LIVES e sta anche investendo in Armenia. Con sua moglie Veronika ha fondato e finanziato una nuova scuola United World Colleges da 135 milioni di dollari a Dilijan, a un’ora di auto da Yerevan. E, grazie a 100 LIVES, c’è dell’altro in arrivo.

Mentre lasciano l’edificio grigio-marrone che ha salvato la loro famiglia e tornano a Yerevan, Marine si rivolge a suo fratello e dice: “Ogni uomo o donna può fare quello che può fare. Fai quello che puoi. Non puoi fare di più”. Vardanyan spera che gli Armeni di tutto il mondo si sentano allo stesso modo e facciano quello che possono.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Quarantanovesimo giorno del #ArtsakhBlockade. L’unica soluzione corretta, giusta e pacifica è riconoscere la Repubblica di Artsakh. Nuovo appello del Papa (Korazym 29.01.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 29.01.2023 – Vik van Brantegem] – Conclusa la recita dell’Angelus domenicale con i fedeli oggi in piazza San Pietro, dopo aver espresso il suo grande dolore nel apprendere le notizie che giungono dalla Terra Santa, Papa Francesco ha detto: «Rinnovo poi il mio appello per la grave situazione umanitaria nel Corridoio di Lachin, nel Caucaso Meridionale. Sono vicino a tutti coloro che, in pieno inverno, sono costretti a far fronte a queste disumane condizioni. È necessario compiere ogni sforzo a livello internazionale per trovare soluzioni pacifiche per il bene delle persone».

Oggi, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha facilitato il trasferimento di 11 persone dall’Armenia all’Artsakh, che si uniranno alle loro famiglie. Un camion del CICR ha portato medicine e altri rifornimenti per le istituzioni sanitarie locali. Inoltre, il CICR ha facilitato il trasferimento di 6 pazienti gravemente malati dall’Artsakh all’Armenia per le cure, ha affermato in una nota il Ministero della Sanità della Repubblica di Artsakh. Ha aggiunto che gli interventi chirurgici pianificati rimangono sospesi in tutti gli ospedali dell’Artsakh a causa del blocco dell’Azerbajgian. Inoltre, 8 bambini sono in terapia intensiva e neonatale presso l’ospedale Arevik e altri 12 pazienti sono in terapia intensiva presso il Republican Medical Center a Stepanakert. Cinque dei 12 pazienti sono in condizioni critiche. Finora, il CICR ha facilitato il trasferimento di un totale di 55 pazienti dall’Artsakh all’Armenia durante il blocco.

«L’Azerbajgian interrompe la fornitura di gas all’Artsakh mentre le temperature a Stepanakert scendono sotto lo zero. Questa purtroppo non è vista come una notizia dell’ultima ora, poiché questo è diventato un tema molto comune per l’Artsakh, anche se le temperature scendono sotto lo zero. Spero che riescano a trovare un modo per stare al caldo durante il freddo dell’inverno.
Secondo altre notizie [di cui abbiamo riferito il 26 gennaio 2023 [QUI]], Mykhailo Podolyak, Consigliere del Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha recentemente dichiarato in un’intervista che il blocco dell’Artsakh è stato costruito per “distrarre l’attenzione dalla guerra in Ucraina e reindirizzarla su altri punti di conflitto in modo che il mondo intero guardi lì”. Lo stesso sentimento è risuonato con altri funzionari ucraini, che hanno espresso il loro sostegno essenziale al blocco e hanno mostrato la loro posizione filo-azera. Non è davvero una sorpresa dato che l’Ucraina avrebbe venduto bombe al fosforo bianco all’Azerbajgian durante la guerra dell’Artsakh del 2020. Non capisco come un Paese attualmente attaccato da un regime oppressivo e autocratico possa sostenere un altro regime oppressivo e autocratico. Questo è davvero sconcertante in quanto non sembra esserci alcun motivo reale per cui l’Ucraina intraprenda relazioni così amichevoli con l’Azerbajgian. Credo che questo sia molto ipocrita, figuriamoci molto pericoloso. Mi dispiace signor Podolyak, ma il mondo non ruota solo intorno alla guerra in Ucraina, perché ci sono gravi crisi in altre parti del mondo. Capisco che la situazione in Ucraina sia grave ed è scoraggiante che una simile guerra sia attualmente in corso e che centinaia di migliaia di vite ne abbiano sofferto di conseguenza. Tuttavia, prendiamo in considerazione i bisogni e le crisi degli altri, specialmente se sono per mano di un simile regime oppressivo. Noi Armeni sappiamo cosa significa soffrire per un regime oppressivo e perdere vite preziose a causa della guerra. Possiamo entrare in empatia con te nella tua lotta attuale e sperare che giunga presto a una fine clamorosa, che non favorisca l’uscita vittoriosa di un regime oppressivo e autocratico» (Varak Ghazarian – Medium, 28 gennaio 2023 – Nostra traduzione italiana dall’inglese).

«L’Azerbajgian ha nuovamente interrotto completamente la fornitura di gas all’Artsakh dall’Armenia. L’inverno è qui. Nella foto Nare di 9 mesi al buio, del villaggio Khnatsakh» (Siranush Sargsyan, giornalista freelance a Stepanakert, 28 gennaio 2023).

Stamattina l’Azerbajgian ha riaperto la valvola del gasdotto dall’Armenia e da domani vengono riaperte le scuole in Artsakh. Il Ministero dell’Istruzione, della Cultura, dello Sport e della Scienza dell’Artsakh informa che le strutture competenti stanno lavorando per modificare gli impianti di riscaldamento negli istituti scolastici riscaldati a gas naturale e ha invitato i genitori a vestire i propri figli con indumenti caldi prima di mandarli a scuola.

«Il giorno 49 del #ArtsakhBlockade, se sei fortunato e aspetti in fila, l’unico ortaggio che puoi acquistare sono le carote (solo 5 pezzi consentiti). In queste fredde giornate invernali puoi solo sognare il borsh, dato che non puoi ancora comprare patate, cavoli e barbabietole» (Siranush Sargsyan, giornalista freelance a Stepanakert).

«Stepanakert, 28 gennaio 2023. Dopo quasi 50 giorni di assedio dell’Azerbajgian» (Foto di Liana Margaryan). “Non ci cancellerete!”. “Artsakh è sempre stato Armenia e sarà sempre Armenia!”.

«”Vedo la missione degli europei, della Russia e di altri Paesi nell’aprire un corridoio aereo per noi”, ha detto [il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben] Vardanyan a France TV. Che differenza fa se grano saraceno e medicinali vengono portati dalle forze di mantenimento della pace russe/CICR in auto o in aereo? Questa è una soluzione?» (Marut Vanyan, giornalista freelance a Stepanakert). L’unica soluzione corretta e giusta per il blocco dell’Artsakh è riconoscere la Repubblica di Artsakh.

«L’Artsakh è una terra armena collocata in Azerbajgian dal machiavellismo di Stalin. È ora che gli Occidentali smettano di nascondersi dietro l’intangibilità dei confini. L’Artsarkh va staccata dall’Azerbajgian oppure va restituito il Kosovo alla Serbia» (Fabrice Balanche, professore associato e direttore della ricerca presso l’Università di Lyon 2).

«L’Azerbaigian può affermare che il blocco del Nagorno-Karabakh è una “eco-protesta”, ma sotto la superficie, anche gli “eco-attivisti” lo percepiscono come una continuazione della guerra del 2020, la fase successiva della pulizia etnica della popolazione indigena armena dal Nagorno-Karabakh» (Lindsey Snell).

«Invece di attivisti ambientalisti che bloccano il Corridoio di Lachin e soffocano l’Artsakh, vediamo piuttosto soldati e nazionalisti azeri cantare l’inno nazionale azero, di cui appunto le parole sono molto nazionalista-militari…» (Jean-Christophe Buisson, Vicedirettore Le Figaro Magazine).

Oggi la Comunità armena d’America ha bloccato temporaneamente una sezione di Wilshire Boulevard vicino a Sepulveda a Los Angeles per sensibilizzare sul blocco dell’Artsakh in corso da 49 giorni. Speriamo che i cittadini di Los Angeles si sono sentiti frustrati per la chiusura della strada, ora riflettano un momento per capire perché questa causa è importante. Il breve blocco di Wilshire Boulevard non è niente in confronto al blocco dell’autostrada interstatale Goris-Stepanakert che mette in pericolo la vita dei cittadini in Artsakh.

Poi, la Comunità armena d’America ha raggiunto il Consolato dell’Azerbajgian a Los Angeles per chiedere la riapertura del Corridoio di Lachin.

Al loro arrivo, i partecipanti alla protesta davanti al Consolato dell’Azerbaigian a Los Angeles hanno trovato un manifesto appiccicato ovunque su Wilshire Boulevard, su cui era scritto: «Azerbajgian + Turchia + Pakistan + Israele = 4 fratelli cancelleranno l’Armenia dalla mappa inshallah». Il riferimento è alla Turchia, Israele e Pakistan che sostengono l’Azerbaigian militarmente e non riconoscono il genocidio armeno, mentre il Pakistan non riconosce l’Armenia).

Invece, l’immancabile Adnan Huseyn (l’agitprop azero al soldo del dittatore Aliyev, che conosciamo già per la sua quotidiana negazione del blocco del Corridoio di Lachin, mostrando i veicoli del CICR e del contingente di mantenimento della pace russo, che sono gli unici mezzi che possono attraversare il posto di blocco degli “eco-attivisti”) si è ovviamente fatto vivo e su Twitter si è rivolto a coloro che “osano” denunciare queste affissioni a Los Angeles in sostegno del dittatoriale Azerbajgian e inneggiano all’annientamento dell’Armenia democratico, con le seguenti parole: «Queste persone riescono quotidianamente a farmi fare ad alta voce questa domanda – CON CHI ABBIAMO A CHE FARE? I loro disturbi mentali e psichiatrici alzano abbastanza bandiere da coprire la superficie della terra, eppure una maggioranza allarmante si innamora ancora della loro isteria, dei falsi e delle bugie». Questo genio riesce sempre a centrare la questione: una maggioranza (allarmante) sostiene gli Armeni dell’Armenia e dell’Artsakh.

Per il resto si tratta di “riflessioni” di una persona che pensa che il genocida #ArtsakhBlockade sia il sequel del film Hunger Games in cui gli Armeni devono lottare per la sopravvivenza, mentre lui può aprire e chiudere a piacere la #StradaDellaVita per scopi di intrattenimento.

L’Azerbajgian e i suoi servi non avranno mai il coraggio di ammettere apertamente i crimini che stanno commettendo e troveranno sempre un modo per capovolgere la narrazione nel modo più vantaggioso per le loro azioni.

Ieri, 28 gennaio 2923 la comunità armena dell’Iran si è riunita presso il cortile della cattedrale armene di San Sarkis a Teheran, in sostegno del popolo dell’Artsakh, per protestare contro la chiusura del Corridoio di Berdzor (Lachin) e la violazione dei diritti del popolo dell’Artsakh da parte dell’Azerbajgian.

Che fine hanno fatto i prigionieri armeni?
Karabakh.it-Iniziativa italiana per il Karabakh, 28 gennaio 2023

Ufficialmente sono 33 i prigionieri di guerra armeni detenuti illegalmente nelle carceri dell’Azerbajgian oltre due anni dopo la fine del conflitto. Per il regime di Baku sono “terroristi“. Poiché i soldati armeni furono catturati alcune settimane dopo la fine della guerra in una vallata dell’Artsakh rimasta sotto il loro controllo e sfuggita all’operazione militare azera non vi è altro termine per l’Azerbajgian di definirli. Altrimenti Baku dovrebbe ammettere un’operazione militare avvenuta dopo l’accordo di tregua del 9 novembre 2020 e restituire al controllo armeno il territorio nel quale si trovavano i soldati così come previsto dalle condizioni del suddetto accordo.

Quindi, le corti azere hanno processato questi soldati e condannati a pene detentive molto alte in palese, criminale, violazione delle convenzioni internazionali e del documento che ha posto fine alla guerra del 2020.

Ma oltre a questi ci sarebbero un’ottantina di soldati armeni mancanti, missing in action, di cui non si hanno più notizie. Potrebbero essere stati uccisi in battaglia o anche dopo e i loro corpi mai restituiti; oppure potrebbero essere imprigionati da qualche parte, al di fuori dei procedimenti “legali”.

Oltre un centinaio di soldati che ventisette mesi dopo la fine del conflitto ancora non possono tornare a riabbracciare le famiglie, ammesso che siano ancora vivi.

Le istituzioni internazionali hanno ripetutamente invitato l’Azerbajgian a restituire i prigionieri di guerra ma senza ricevere alcun riscontro dal regime di Aliyev che l’altro giorno ha riconsegnato il corpo di un soldato armeno ucciso nell’attacco all’Armenia del 13 settembre: oltre quattro mesi dopo…

«I social media azeri riferiscono che l’Azerbajgian sta evacuando la sua Ambasciata a Teheran. Un filmato mostra un autobus e un camion davanti all’Ambasciata, con le luci accese nell’edificio di notte. Questo un giorno dopo un attacco armato alla missione diplomatica e ora gli attacchi aerei segnalati in Iran. Esplosioni segnalate in installazioni militari iraniane, rapporti ufficiali dichiarano danni alle installazioni del Ministero della Difesa a Esfahan, ma ufficiosamente altre aree sono state prese di mira» (Nagorno Karabakh Observer).

Questa foto abbiamo pubblicata per la prima volta il 24 dicembre 2023, nel 13° giorno del #ArtsakhBlockade. Allora non sapevamo il nome del fotografo, che oggi possiamo dare il merito per una foto che dice più di mille parole: Davit Ghahramanyan per AFP.

Il blocco del Nagorno-Karabakh da parte dell’Azerbaigian è un disastro in attesa di accadere, a meno che non agiamo ora
Con l’attenzione rivolta alla guerra in Ucraina, le nazioni rischiano di ignorare una crisi nel Caucaso e una possibile nuova fase del conflitto armeno-azerbaigiano che potrebbe trascinare nella mischia Russia, Turchia, Iran e Occidente
di Neil Hauer
Globe and Mail, 27 gennaio 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Sarebbe difficile trovare qualcuno oggi che non sia a conoscenza della catastrofe in Ucraina, poiché l’invasione russa di quel paese raggiunge il traguardo degli 11 mesi. Ma pochi potrebbero dirti che c’è un’altra crisi umanitaria in corso non lontano da lì, su un altro bordo dell’Europa, nella minuscola repubblica non riconosciuta del Nagorno-Karabakh.

Per più di un mese, i residenti di questa contesa enclave nelle montagne del Caucaso sono stati tagliati fuori, da quando i manifestanti organizzati dal governo dell’Azerbajgian, che rivendica la regione, hanno bloccato l’unica strada per il mondo esterno il 12 dicembre. l’elettricità è ora razionata, le forniture di gas vengono regolarmente tagliate e almeno 100.000 civili sono effettivamente sotto assedio.

Questo conflitto può sembrare oscuro e senza importanza: una disputa arcana in un angolo remoto del mondo con poche implicazioni per qualsiasi altro luogo. Ma i rischi di una nuova guerra che potrebbe coinvolgere potenze regionali e internazionali – tra cui Russia, Turchia, Iran e persino l’Occidente – sono alti. International Crisis Group, il principale osservatore mondiale dei conflitti, ha nominato il conflitto Armenia-Azerbajgian (incluso il Nagorno-Karabakh, o semplicemente Karabakh in breve [in breve è più corretto dirlo come gli Armeni: Artsakh. V.v.B.]) secondo nella sua lista di conflitti da tenere d’occhio nel 2023, dietro solo all’Ucraina. Il momento di reagire al blocco è adesso.

Sia l’Armenia che l’Azerbajgian sono ex repubbliche sovietiche che hanno a lungo contestato la proprietà della regione. L’attuale crisi è l’ultimo sviluppo di un conflitto decennale in una regione la cui complessità e diversità possono rivelarsi impegnative anche per osservatori esperti. Un tempo regione più meridionale dell’Unione Sovietica, nel 1991 il Caucaso ha guadagnato il non invidiabile primato di essere le aree più violente dell’URSS in disintegrazione. I suoi tre nuovi stati indipendenti – Georgia, Armenia e Azerbajgian – hanno visto non meno di quattro conflitti separatisti come ha tentato di stabilire la propria sovranità mentre l’autorità comunista si disintegrava.

Una di queste regioni era il Nagorno-Karabakh. Quando negli anni ’20 furono tracciati i confini interni dell’Unione Sovietica, l’Oblast autonomo del Nagorno-Karabakh fu posto all’interno dell’Azerbajgian sovietico, nonostante la sua popolazione prevalentemente etnica armena. Quando l’URSS iniziò a crollare alla fine degli anni ’80, la popolazione del Karabakh chiese di essere unita all’Armenia sovietica. La violenza etnica tra Armeni e Azeri si è intensificata e lo scioglimento dell’URSS ha lasciato il posto a una guerra su vasta scala. Quando finalmente fu raggiunto un cessate il fuoco nel 1994, gli Armeni etnici controllavano non solo lo stesso Nagorno-Karabakh, ma anche sette province adiacenti dell’Azerbajgian vero e proprio.

Questa situazione è perdurata fino al 2020. Dopo aver ricostruito e modernizzato il proprio esercito, l’Azerbajgian – sostenuto dalla Turchia – ha lanciato una nuova guerra per rimediare al fallimento di tre decenni prima. Durante i 44 giorni di guerra, l’Azerbajgian riconquistò non solo le sette province che aveva perso, ma un terzo dello stesso Nagorno-Karabakh, inclusa la città fortezza di Shushi. Le forze di pace russe sono state dispiegate nel restante territorio controllato dagli Armeni per mantenere un fragile cessate il fuoco, ma l’Azerbajgian e il suo Presidente, Ilham Aliyev, non erano soddisfatti. Negli ultimi due anni, l’Azerbajgian ha continuato i suoi tentativi di ottenere il controllo sul resto del Karabakh, con o senza la sua popolazione armena.

Negli ultimi mesi, questi sforzi hanno preso piede. Il signor Aliyev ha cercato di spingere l’Armenia a firmare un trattato di pace capitolatorio che la vedrebbe abbandonare completamente la questione del Nagorno-Karabakh e riconoscere il territorio come parte dell’Azerbajgian. A settembre, ciò ha assunto la forma di un’invasione su vasta scala della stessa Armenia, con quasi 300 soldati uccisi in totale in soli due giorni.

Quando ciò non ha ottenuto il risultato desiderato, l’Azerbajgian ha deciso una nuova tattica: utilizzare “manifestanti” civili schierati dal governo per bloccare l’unica strada per il Karabakh dal 12 dicembre in poi. Da oltre 40 giorni l’unico traffico in entrata o in uscita è costituito da pochi mezzi della Croce Rossa [e dalle forze di mantenimento della pace russe. V.v.B.] con rifornimenti urgenti. Ci sono pochi segnali che il blocco sarà revocato in tempi brevi.

La guerra in Ucraina ha avuto effetti a catena che si sono fatti sentire in tutto il mondo, ma ci sono pochi luoghi in cui il deterioramento delle condizioni è così chiaramente collegato a quel conflitto come il Karabakh.

La Russia è stata tradizionalmente il principale intermediario internazionale nel conflitto del Karabakh: ha governato l’area per quasi due secoli e mantiene una forte influenza su una regione che è stata a lungo periferica per l’Occidente. Il contingente di mantenimento della pace russe di 2.000 persone in Karabakh, così come le basi militari di lunga data in Armenia, lo riflettono.

Ma poiché l’offensiva di Mosca in Ucraina vacilla, lasciando la Russia isolata a livello internazionale e prosciugando le sue risorse, l’Azerbajgian ha cercato di trarne vantaggio. La Russia è diventata sempre più dipendente dalla cooperazione dell’Azerbajgian: i due hanno firmato un trattato di alleanza appena due giorni prima che Mosca lanciasse la sua brutale invasione dell’Ucraina, e da allora hanno firmato accordi per la vendita di gas russo all’Azerbajgian (e poi all’Europa).

Di conseguenza, le forze di pace russe che dovrebbero garantire il libero passaggio lungo la strada Armenia-Karabakh non hanno invece potuto riaprire il Corridoio. Sono rimasti pigramente a guardare il blocco, nonostante l’apparente umiliazione di essere impotenti di fronte a un’altra ex repubblica sovietica che Mosca ha a lungo considerato un partner minore.

La debolezza russa ha creato un’apertura per i Paesi occidentali per assumere un ruolo più forte nella regolazione del conflitto, uno che avevano apparentemente perso dopo il cessate il fuoco mediato dalla Russia del 2020. Gli Stati Uniti, da parte loro, sono stati decisi nel condannare l’aggressione dell’Azerbajgian contro l’Armenia vera e propria.

Dopo l’invasione dello scorso settembre, l’allora Presidente della Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, ha effettuato una visita senza precedenti in Armenia, nominandola insieme a Taiwan e all’Ucraina come “una delle avanguardie… della lotta tra democrazia e autoritarismo”. Sebbene tale sforzo abbia contribuito a prevenire una maggiore violenza sul territorio dell’Armenia, ci sono state poche indicazioni che gli Stati Uniti siano disposti a prendere il tipo di misure necessarie per fermare l’assedio del Karabakh da parte dell’Azerbajgian. Le espressioni di preoccupazione non sembrano sufficienti per porre fine al blocco questa volta.

Analogamente, l’Unione Europea ha lottato per consentire la risoluzione pacifica del conflitto del Karabakh. Sulla scia dei combattimenti di settembre, molti politici europei hanno condannato l’invasione dell’Azerbajgian; l’Unione Europea ha successivamente dispiegato una missione di osservazione civile al confine armeno, che è stata rinnovata e ampliata proprio questo mese.

Ma le azioni di Brussel prima di allora potrebbero aver contribuito direttamente alla fiducia di Aliyev che non si sarebbe opposta alla sua invasione. A luglio, una sorridente Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, ha visitato l’Azerbajgian per firmare un accordo con Aliyev per espandere le forniture di gas del Paese all’Europa.

La signora von der Leyen, che ha descritto l’Azerbajgian come un “partner affidabile”, ha ricevuto pesanti critiche dai gruppi per i diritti umani per aver assecondato il regime di Aliyev. Sembra probabile che l’accordo sul gas abbia accresciuto la fiducia dell’Azerbajgian che il mondo avrebbe chiuso un occhio sulla sua invasione di settembre.

L’attuale lotta minaccia di coinvolgere anche altri importanti attori regionali. Primo tra questi è la Turchia, che ha sostenuto apertamente l’Azerbajgian nella guerra del 2020 e da allora lo ha sostenuto con forza.

Le strette relazioni tra i due Paesi – sia Aliyev che il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan spesso descrivono la fratellanza dei loro stati come “una nazione, due stati” – è probabile che si approfondiscano solo nei prossimi mesi con l’avvicinarsi delle elezioni turche. Il signor Erdoğan ha spesso cercato di utilizzare i conflitti stranieri per rafforzare il sostegno nazionalista e presentarsi come un uomo forte, potente e rispettato a livello internazionale. Mentre si avvicina alla sua più grande sfida elettorale da anni, potrebbe cercare di usare una nuova guerra tra l’Azerbajgian e l’Armenia come un’altra distrazione dalla terribile situazione economica della Turchia.

L’Iran, nel frattempo, ha scosso più volte la sciabola contro l’Azerbajgian dalla guerra del 2020, organizzando giochi di guerra di massa sul confine condiviso e affermando ripetutamente che “la sicurezza dell’Armenia è la sicurezza dell’Iran”. In caso di una grande escalation militare, anche Teheran potrebbe essere facilmente coinvolta.

Al centro di questo conflitto protratto ci sono differenze fondamentali tra i tipi di Paesi e società che sono oggi l’Armenia (e il Nagorno-Karabakh) e l’Azerbajgian. Come la maggior parte degli ex stati sovietici, l’Armenia ha lottato contro l’autoritarismo, ma nel 2018 ha segnato una rottura decisiva con questo passato, quando la “rivoluzione di velluto” ha portato al potere l’attuale Primo Ministro Nikol Pashinyan. Una delle poche storie di successo democratico degli ultimi anni, le riforme dell’Armenia hanno guadagnato lodi da parte degli stati occidentali e di altri osservatori internazionali. In un esempio, l’Economist ha nominato l’Armenia Paese dell’anno 2018 per “aver migliorato di più” negli ultimi 12 mesi.

Il mandato democratico di Pashinyan è stato rinnovato nel 2021, in un’elezione che è stata salutata dagli osservatori per essere stata libera ed equa, un risultato non da poco sulla scia di una devastante guerra persa. Il Nagorno-Karabakh, da parte sua, ha avuto elezioni ragionevolmente competitive nel 2020 ed è classificato dal gruppo di sorveglianza Freedom House come “parzialmente libero”.

Il contrasto con l’Azerbajgian non potrebbe essere più netto. Lì, Ilham Aliyev governa dal 2003, quando gli è stata lasciata in eredità la presidenza dal suo defunto padre, Heydar (che l’aveva guidato dal 1993), e ha schiacciato violentemente la sua opposizione dopo un voto fittizio. Le elezioni hanno da tempo superato il punto di farsa in Azerbajgian: le autorità del Paese hanno notoriamente rilasciato i risultati truccati delle elezioni del 2013 un giorno prima che si svolgessero effettivamente le votazioni. La corruzione è dilagante, le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno e le proteste vengono violentemente disperse in pochi minuti – un altro aspetto che rende molto più trasparente il teatro dei presunti “eco-attivisti” che attualmente bloccano il Karabakh.

Freedom House classifica l’Azerbajgian come “non libero”, con un punteggio pari a nazioni come Cina e Bielorussia, e descrive il governo di Aliyev come un “regime autoritario”. Questo per non parlare del virulento razzismo anti-armeno sponsorizzato dallo Stato nel Paese, forse catturato in modo più vivido nel Parco della Vittoria a Baku, la capitale dell’Azerbajgian. Lì, nel 2021, figure di cera grottescamente caricaturali di Armeni che muoiono in vari modi raccapriccianti sono state esposte con orgoglio fino a quando il contraccolpo internazionale ha convinto le autorità a rimuoverle.

Sebbene sia allettante per molti osservatori semplicemente liquidare questa dimensione come irrilevante, è difficile immaginare che molte persone rinuncerebbero volentieri a vivere in una società in gran parte libera, a causa di una dittatura repressiva che li disprezza.

Mentre il blocco del Karabakh continua, la domanda più importante da porsi è come potrebbe essere portato a termine. Le realtà attuali non sono incoraggianti su questo fronte. L’Azerbajgian sembra non voler accettare altro che un regime doganale e propri posti di blocco lungo la strada dall’Armenia al Karabakh. Cita “preoccupazioni per la sicurezza”, nonostante ciò costituisca una violazione dell’accordo di cessate il fuoco del novembre 2020 firmato dallo stesso Aliyev.

Per il governo e la popolazione del Nagorno-Karabakh, l’idea stessa è un anatema. Le truppe azere hanno dimostrato ripetutamente che uccideranno allegramente qualsiasi Armeno su cui riescano a mettere le mani, come hanno dimostrato con le esecuzioni sommarie durante la guerra del 2020, durante l’offensiva dello scorso settembre e con i prigionieri di guerra armeni in cattività. Se avessero accesso ai civili del Karabakh, e l’opportunità di detenerli e ucciderli arbitrariamente, non c’è dubbio che ciò porterebbe a un esodo di massa e alla pulizia etnica finale del territorio.

Il governo armeno, nel frattempo, ha poche opzioni a disposizione: sta presentando petizioni ai suoi partner internazionali e lanciando ricorsi legali che hanno avuto un certo successo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ripetutamente chiesto all’Azerbajgian di riaprire il Corridoio, ma vi sono poche indicazioni che Baku intenda conformarsi.

In mezzo a tutte queste dispute geopolitiche, sono le persone normali a soffrire. Proprio come gli Ucraini hanno rafforzato la loro determinazione di fronte alla brutalità russa, i civili del Karabakh non sono stati intimiditi, ma piuttosto rinvigoriti dalla loro resistenza a qualsiasi possibilità di essere posti sotto il dominio mortale dell’Azerbajgian. Ma non è abbastanza. In assenza di serie pressioni internazionali, Aliyev e la sua dittatura non mostrano segni di cessazione del blocco e delle privazioni che sta infliggendo.

Il mondo è venuto in aiuto dell’Ucraina e del suo popolo quando sono stati minacciati da una brutale dittatura vicina. Aspettiamo di vedere se accadrà lo stesso per i 100.000 abitanti assediati del Karabakh.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Corridoio di Lachin, il Papa invoca soluzioni pacifiche per il bene delle persone (VaticanNews 29.01.23)

Francesco non dimentica la difficile crisi umanitaria nel Caucaso Meridionale dove, in pieno inverno, migliaia di persone sono costrette a vivere in condizioni “disumane”. L’appello del Pontefice perché si compia ogni sforzo a livello internazionale

Antonella Palermo – Città del Vaticano

“È necessario compiere ogni sforzo a livello internazionale per trovare soluzioni pacifiche per il bene delle persone”

È l’appello rinnovato di Papa Francesco che, dopo la preghiera dell’Angelus domenicale, non trascura di guardare alla “grave situazione umanitaria nel Corridoio di Lachin, nel Caucaso Meridionale”.

Sono vicino a tutti coloro che, in pieno inverno, sono costretti a far fronte a queste disumane condizioni. 

Scarseggiano cibo, medicine, carburante

La situazione nell’Alto Karabakh, tra Armenia e Azeirbagian, è in effetti sempre più in fase di stallo. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, nel corso di una riunione governativa, ha dichiarato che l’Azerbaigian conduce una “politica palese di pulizia etnica” e obbliga gli armeni che vivono nella enclave del Nagorno Karabakh ad andarsene. Parliamo di piccolo fazzoletto di terra del Caucaso meridionale (11.458 chilometri quadrati) che si dibatte tra la guerra e la pace da più di vent’anni. Era il 1991 quando la regione si proclamò unilateralmente indipendente. La popolazione di origine armena preferisce chiamare la regione «Artsakh», il nome antico armeno. Il blocco del corridoio di Latcin, una strada strategica perché collega l’Armenia all’enclave, perdura ormai da più di un mese. Un’operazione attraverso cui gli azeri sostengono di voler tutelare l’ambiente contro le mine illegali. Di fatto, ciò sta causando, nella regione montagnosa di circa 120.000 abitanti, grande penuria di cibo, medicine e carburante.

Scuole chiuse e timori di una fuga forzata in massa di armeni

“Se fino ad ora la comunità internazionale è stata scettica in merito alle nostre preoccupazioni riguardanti le intenzioni dell’Azerbaigian di sottomettere gli armeni del Nagorno Karabakh alla pulizia etnica – sostiene Pashinyan – ora vediamo che questa percezione si rafforza lentamente ma costantemente nella comunità internazionale”. Il timore che esprime è che gli armeni dell’area debbano fuggire tutti dalle proprie case. La denuncia è che circa 6.000 alunni degli enti pre-scolari del Nagorno Karabakh, circa 19.000 studenti delle scuole medie e 6.800 studenti universitari sono privati da circa un mese del diritto allo studio, perché gli asili, le scuole e le università sono chiuse.

Vai al sito

Terra Santa, la presenza dei cristiani è minacciata (Renovatio 29.01.23)

I cristiani a Gerusalemme sono ora una minuscola frazione della popolazione, appena 10.000 persone, ovvero meno del 2% del totale, un enorme calo rispetto all’11% di qualche decennio fa. La stragrande maggioranza sono musulmani palestinesi, anche se esiste anche una piccola comunità cristiana armena.

I cristiani a Gerusalemme stanno diminuendo di numero e quelli che rimangono affrontano quotidianamente molti problemi: gli stessi problemi che devono affrontare tutti i palestinesi. Infatti, se un residente di Gerusalemme desidera sposare una persona di Betlemme, la coppia può aspettare fino a 20 anni per ottenere un permesso per vivere insieme a Gerusalemme.

Anche le chiese affrontano sfide particolari a causa delle attività di gruppi radicali di coloni ebraici – spesso finanziati dagli Stati Uniti – i cui obiettivi sono in conflitto con il modus vivendi che ha conferito a Gerusalemme il suo carattere unico.

Alcuni radicali umiliano i religiosi. Lo scorso novembre, un soldato in uniforme ha sputato sul patriarca armeno mentre marciava con la croce. Ci sono anche vessazioni, fisiche o verbali, commesse da gruppi ebraici radicali che creano un ambiente ostile.

Un problema molto più grande è la proposta di estensione di un parco nazionale attorno al Monte degli Ulivi. 20 siti cristiani sarebbero interessati. Gran parte della terra in questo luogo appartiene a chiese o alla popolazione palestinese, oltre che a nuovi coloni.

Parte del progetto prevede la costruzione di una grande passeggiata che collegherebbe due comunità di coloni. Un gruppo israeliano sottolinea che quando gli israeliani verranno al parco, si aspetteranno protezione armata e l’area diventerà pericolosa per i palestinesi.

Secondo quanto riferito, il parco è sotto l’autorità israeliana per la natura e i parchi piuttosto che le autorità municipali, sebbene l’area si trovi nei territori occupati, legalmente al di fuori dell’ambito della legge israeliana. L’Autorità avrebbe il potere discrezionale di autorizzare gli sviluppi: chiese e residenti perderebbero il controllo delle loro proprietà.

Inoltre, le autorità municipali di Gerusalemme ignorano i bisogni delle chiese. Organizzano eventi nelle chiese che non tengono conto del carattere del luogo. Alcune parti del centro storico possono essere transennate per giorni, vietando l’accesso alle chiese.

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, spiega che, per i gruppi di coloni, la loro filosofia è l’esclusione: «hanno un atteggiamento “questo posto è nostro”. I cristiani sono tollerati o invitati. Ma noi non siamo ospiti: è anche casa nostra».

Gli imbrogli dei coloni e del governo israeliano

Vi sono poi le attività degli Ateret Cohanim, un gruppo di coloni che acquistarono proprietà strategiche nella città vecchia, in particolare l’Hotel Little Petra e l’Hotel Imperial, in una zona di importanza simbolica per le Chiese, e la grande Locanda di San Giovanni, vicino al Santo Sepolcro.

Queste transazioni sono state rese possibili perché l’ex patriarca greco-ortodosso ha autorizzato un consulente finanziario che ha venduto i contratti di locazione delle proprietà ai coloni su una dubbia base giuridica. L’attuale patriarca ha impugnato quegli accordi, ma la Corte Suprema israeliana ha respinto l’ultimo ricorso qualche mese fa, nonostante la presentazione di nuove prove.

Daniel Seidemann, avvocato israeliano specializzato in geopolitica, ritiene importanti queste transazioni immobiliari: «Non si tratta di un incidente isolato. Fa parte di un piano generale sponsorizzato direttamente dal governo israeliano per circondare la Città Vecchia e i suoi dintorni, e integrarla in una versione di Gerusalemme secondo le motivazioni bibliche dei coloni».

«Questa iniziativa si inserisce nella trama di una politica complessiva, che è quella di circondare e permeare la città vecchia con insediamenti e attività legate ai coloni. E questa non è solo una minaccia per gli hotel, ma una minaccia per il carattere di Gerusalemme e, più specificamente, una minaccia per la vitalità della presenza cristiana a Gerusalemme, ed è così che la vedono le chiese».

I problemi della Chiesa di Gerusalemme, ovviamente, non sono nuovi. Ma dopo le ultime elezioni in Israele, che hanno dato un peso ancora maggiore ai coloni e agli ebrei ultraortodossi, la pressione rischia di essere sempre più forte, e di continuare a cacciare l’esiguo residuo di cristiani.

Vai al sito

L’antisemitismo c’è, il comunismo è finito: parla lo storico Marcello Flores D’Arcais (Gazzetta del Mezzogiorno 28.01.23)

l comunismo? Estinto. Il fascismo? Rivive nei nostalgici. L’antisemitismo? Mai terminato.

Lo spiega in questa intervista un grande studioso come Marcello Flores D’Arcais, storico e saggista nato a Padova, docente all’Università di Siena e direttore del Master europeo in «Human Rights and Genocide Studies», nonché autore di una serie di libri editi da Il Mulino, Laterza, Feltrinelli, Il Saggiatore, sulla questione armena, sul comunismo e sulla Resistenza. Flores sarà domani a Bari alle 11 ad inaugurare il primo dei «Dialoghi delle Donne in Corriera», terza edizione, in programma al Teatro Abeliano (via Kolbe, 3) fino a metà marzo, ogni domenica mattina ore 11 (con l’eccezione di sabato 2 marzo alle 20).

Quest’anno i Dialoghi si articolano in due sezioni tematiche, «Che fine ha fatto la fine della storia? Crisi della rappresentanza e tramonto degli ordini mondiali» e «Stati di natura», con la presenza di tanti autorevoli nomi degli studi storici, ideati e condotti da Pino Donghi e dalla presidente di «Donne in corriera» Gabriella Caruso. L’iniziativa ha il patrocinio di Regione Puglia, Città Metropolitana e Comune di Bari, Ciheam Bari, #barisocialbook. La «Gazzetta» è media partner (info@ledonneincorriera.it ). I prossimi due incontri si terranno il 12 febbraio con Gaetano Quagliariello, che parlerà della «Crisi della rappresentanza» e Gabriella Caruso; il 2 marzo alle 20, con Vittorio Emanuele Parsi, su «La forma dell’Europa», introduce Rosanna Quagliariello.

Professor Flores, che fine ha fatto il comunismo e in quali Paesi del mondo a suo avviso resiste ancora in qualche forma?

«Il comunismo è un’esperienza storica che, pur avendo dominato nel corso del XX secolo, si è completamente conclusa e non appartiene più alla storia di questo secolo. I recenti elogi del capitalismo del Segretario del Partito comunista cinese Xi Jinping sono stati, da questo punto di vista, una autorevolissima conferma. Il regime totalitario e autocratico della Corea del Nord ha ormai soltanto nelle apparenze simboliche e celebrative un richiamo all’esperienza comunista, mentre essa si è del tutto sbiadita anche a Cuba ed è sparita nel Vietnam. Del comunismo, quindi, si può e si dovrebbe parlare come di un’esperienza storica conclusa, un’esperienza non solo contraddittoria ma anche costituita da realtà ed eventi molto diversi e non tutti accomunabili a un’unica visione o a un’omogenea esperienza di governo (dove è stato al potere) o di opposizione (dove non vi è mai arrivato). Quanto al permanere di un’ideologia comunista, o della speranza e volontà di poter far rivivere il movimento comunista, mi pare che esistano oggi soltanto in minuscoli gruppetti minoritari e nostalgici che mi sembra abbiano perso del tutto contatto con la realtà. Non è un caso che oggi l’unico movimento collettivo transnazionale sia quello legato all’ambiente e alla difesa dal disastro ecologico, o alle battaglie per i diritti delle donne, della lotta al razzismo e così via».

La storia del comunismo: quale l’errore più grave?

«Per uno storico, che cerca di comprendere quanto avvenuto in passato e di spiegarne le ragioni, le dinamiche, il ruolo dei singoli eventi e dei personaggi individuali e collettivi che ne sono protagonisti, parlare di “errore” è un po’ un controsenso, anche perché si tratterebbe, comunque, di esaminare il perché di comportamenti che hanno condotto a esiti disastrosi che si possono anche definire, in modo schematico, errori. Nel caso del comunismo credo che il momento cruciale sia stato, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il rifiuto da parte di Lenin e dei bolscevichi di creare un governo unitario di tutte le forze socialiste (con i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e forse anche gli anarchici) e di voler mantenere, invece, il monopolio della forza e del governo per i bolscevichi soltanto, da cui sono nate le scelte che hanno poi portato alla dittatura del partito unico, al predominio della polizia politica, al clima di terrore verso ogni opposizione o voce anche minimamente critica. Quanto questo fosse legato alla concezione marxista in generale o alla sua interpretazione fattane da Lenin e dai bolscevichi è ovviamente oggetto di discussione storica. Anche se il fallimento di una ipotesi di società opposta e contraria al capitalismo non può essere lasciato fuori dalla riflessione storica sugli esiti storici del comunismo».

In questi giorni di manifestazioni per la Giornata della Memoria e guardando ai tanti studi che lei ha portato avanti nell’ambito della questione armena, proviamo a ricostruire i motivi di quel genocidio e delle discriminazioni attuali mai estinte?

«La discriminazione, in forme sempre nuove e diverse, è una costante della storia. Nei confronti degli ebrei ha una storia addirittura millenaria, che si è modificata nel tempo e che si è accelerata, radicalizzata e concretizzata nella volontà della distruzione totale degli ebrei da parte di Hitler e del nazismo. Malgrado la terribile esperienza storica della Shoah, l’antisemitismo non è purtroppo terminato, e ci sono anzi segni di una sua recrudescenza proprio negli ultimi anni, di cui ci si dovrebbe preoccupare seriamente. Per quanto riguarda il genocidio degli armeni esso avvenne come risultato di una volontà di riorganizzazione demografica-etnica-religiosa dell’Anatolia da parte del governo ottomano, che utilizzò il contesto della prima guerra mondiale per portare a termine l’uccisione, la deportazione e la cacciata degli armeni dal territorio che poi divenne, dopo la sconfitta e altre vicende, la Repubblica turca. Si trattava di una scelta politica di tipo identitario, fatta in nome della identità e superiorità turca, di un nazionalismo estremo che ha preso il sopravvento dopo la rivoluzione dei «giovani turchi» e di un’ideologia contraria alla convivenza e ai diritti delle minoranze. Il contesto violento della guerra spinse a utilizzare l’estrema violenza delle uccisioni dirette, delle marce della morte, della morte nei campi di prigionia per risolvere quella che da diversi decenni era nota come la “questione armena”, cioè la presenza di una forte e attiva minoranza nel cuore della società ottomana. Se si esclude il governo turco e l’opinione pubblica che ne segue le orme, e quello dell’Azerbaigian che ha un contenzioso territoriale con l’Armenia per la regione del Nagorno-Karabagh, non sembra esistere un antiarmenismo diffuso, che rimane circoscritto così soltanto ai territori dove ebbe luogo il tragico genocidio del 1915-16».

Chi è per lei l’ultimo fascista? E l’ultimo comunista?

«Potrei rispondere a questa domanda dicendo che l’ultimo fascista è colui (o coloro) che vive con nostalgia il regime mussoliniano e lo considera un momento grande e positivo della storia italiana, pur se si dichiara nell’oggi favorevole alla democrazia o almeno ad alcuni suoi aspetti; e che l’ultimo comunista è colui (o coloro) che ritiene ancora che il comunismo possa essere l’alternativa possibile e vincente al capitalismo per costruire una società ovviamente più giusta ed ugualitaria di quella in cui viviamo. In questo senso bisogna riconoscere che non c’è “l’ultimo fascista” o “l’ultimo comunista”, ma ce ne sono molti, sparsi in gran parte del mondo anche se ridotti a piccole minoranze, e che ovviamente non vanno accomunati se non per lo sguardo antistorico e nostalgico che hanno. I primi, infatti, vorrebbero rinverdire la “grandezza” del regime di Mussolini senza dover rinunciare a parte dei vantaggi delle democrazie in cui vivono, ma poter emarginare quelli che ritengono i nemici della propria «sovranità», mentre i secondi si aggrappano alla speranza palingenetica di una società giusta per rimuovere l’esperienza storica del comunismo e mantenere viva l’ideologia che ne fu una componente separando arbitrariamente i due momenti».

Vai al sito

Quarantottesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Perché gli Armeni devono ancora combattere per il loro diritto di esistere? (Korazym 28.01.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 28.01.2023 – Vik van Brantegem] – «La candela accesa non è per il mio compleanno, ma la luce per strapparci dall’oscurità completa. Che strana sensazione avere un compleanno sotto assedio» (Siranush Sargsyan, giornalista freelance a Stepanakert). Il blocco dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh rimane in vigore, presidiato da sedicenti “eco-attivisti” sponsorizzati dallo Stato, accompagnati da polizia e forze armate dell’Azerbajgian. Nessun cambiamento di rilievo nella situazione dell’assedio imposto dall’Azerbajgian.

La scarsità di tutti i prodotti di prima necessità e dell’energia continua. Tutto il transito civile e commerciale in entrata e in uscita dal territorio rimane bloccato dal 12 dicembre 2022. Gli unici veicoli visti transitare dal posto di blocco sotto la città Shushi di Artsakh occupato dalle forze armate dell’Azerbajgian, sono quelli del contingente di mantenimento della pace russo in Artsakh e, sporadicamente, del Comitato Internazionale della Croce Rossa, che ogni tanto evacua pazienti gravemente malati verso Armenia. Le autorità dell’Artsakh riferiscono che le valvole di alimentazione del gas vengono sporadicamente chiuse vicino alla città di Berdzor (Lachin), un’area passata sotto il controllo azero in agosto 2022. Oggi hanno informato di una nuovo interruzione della fornitura del gas naturale all’Artsakh da parte dell’Azerbajgian.

Senz’alcun dubbio, In questo momento, l’Azerbajgian sta attuando una politica di genocidio contro gli Armeni in Artsakh, mentre il mondo rimane apatico. Gli Azeri vogliono far morire di fame e di freddo gli Armeni dell’Artsakh, per costringerli a lasciare la loro terra. mentre gli armeni sono esposti a un altro assalto genocida. Con ogni giorno di #ArtsakhBlockade che passa, aumenta l’elenco di giornalisti, analisti, organizzazioni internazionali, funzionari e politici di Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea, ecc. che condannano l’Azerbajgian e invitano Aliyev a porre fine al blocco di 120.000 Armeni. All’Azerbaigian non importa. È ora di sanzionare l’Azerbajgian di riconoscere l’Artsakh atteso da tempo.

Artsakh è Armenia, lo sapeva anche Senofonte (ca.430-ca.355 a.C.), il comandante di Atene, filosofo e autore di Anabasis, uno dei più grandi libri basati sui fatti militari. La storia è il più grande nemico di Turchia e Azerbajgian.

Nel quarto libro del suo Anabasis descrive a lungo come nel 401/400 a.C. un esercito di mercenari greci, che aveva sostenuto il pretendente persiano Ciro il Giovane, dovette combattere per tornare da Babilonia al Mar Nero attraverso l’Armenia:

«1.Quando ebbero completato la traversata, si schierarono in linea di battaglia verso mezzogiorno e marciarono attraverso l’Armenia, su un paese interamente pianeggiante e colline in leggera pendenza, non meno di cinque parasanghe; poiché non c’erano villaggi vicino al fiume a causa delle guerre tra Armeni e Carduchi.
2. Il villaggio che finalmente raggiunsero era grande e aveva un palazzo per il satrapo, mentre la maggior parte delle case erano sormontate da torri; e le provviste erano abbondanti.
3. Da lì marciarono per due tappe, dieci parasanghe, fino a superare le sorgenti del fiume Tigri. Da lì marciarono per tre tappe, quindici parasanghe, fino al fiume Teleboas. Questo era un bel fiume, anche se non grande, e c’erano molti villaggi intorno.
4. Questa regione era chiamata Armenia occidentale. Il suo luogotenente-governatore era Tiribazus, che si era dimostrato amico del re e, tutte le volte che era presente, era l’unico uomo autorizzato ad aiutare il re a montare a cavallo.
5. Si avvicinò ai Greci con un corpo di cavalieri e, inviando un interprete, disse che desiderava conferire con i loro comandanti. I generali decisero di ascoltare ciò che aveva da dire e, dopo essersi avvicinati a distanza udibile, gli chiesero cosa volesse.
6. Rispose che voleva concludere un trattato con queste condizioni, che da parte sua non avrebbe danneggiato i Greci e che loro non avrebbero bruciato le case, ma avrebbero potuto prendere tutte le provviste di cui avevano bisogno. Questa proposta fu accettata dai generali e conclusero un trattato in questi termini».

Screenshot dal «video [QUI] delle truppe azere accanto agli “eco-attivisti” organizzati dallo Stato al posto di blocco del Corridoio di Lachin nel Nagorno-Karabakh, mentre cantano l’inno nazionale del Paese» (Nagorno Karabakh Observer).

L’Azerbajgian accusa l’Armenia di aver deforestato il territorio dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh, ma i dati satellitari raccontano una storia diversa. L’Azerbajgian è addormentato mentre il dipartimento per la manomissione delle prove è addormentato. Questa fallita propaganda azera è un tentativo di distrarre il mondo dal loro blocco di quasi 50 giorni con gli “eco-attivisti” che tengono in ostaggio i 120.000 abitanti dell’Artsakh, privandoli dell’accesso a beni e servizi essenziali, semplicemente per attuare i piani di pulizia etnica di lunga data dei successivi governi azeri.

Oltre a creare una crisi umanitaria, l’Azerbajgian – un Paese petrolifero estremamente inquinante – fa causa all’Armenia per presunti danni ambientali in tempo di guerra per distogliere l’attenzione dai loro crimini di guerra dell’uso del fosforo bianco sulle foreste dell’Artsakh, distruggendo piante e fauna rare durante la guerra dei 44 giorni di fine 2020 (di cui abbiamo riferito il 31 ottobre 2020 [QUI]), con ripetuti bombardamenti a parte di obiettivi civili mirati, provocando anche incendi boschivi, con uso su larga scala del fosforo bianco.

L’ignoranza è una brutta malattia ed è un grave danno per la pacifica convivenza tra i popoli, che i clown possano uscire dalle proprie tane e ripetere online le sciocchezze della fabbrica delle menzogne a loro piacimento.

Una foresta nell’Artsakh/Nagorno-Karabakh, vista dal monastero di Gandaszar (Foto di Adam Jones).

L’Azerbajgian usa come arma la legge sulla conservazione in conflitto con l’Armenia
L’Azerbajgian accusa l’Armenia di aver deforestato la contesa regione del Nagorno-Karabakh, ma i dati satellitari raccontano una storia diversa
di Joseph Lo
Climate Change News, 27 gennaio 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Il governo dell’Azerbaigian sta armando le foreste e gli animali del Nagorno-Karabakh nei colloqui di pace con la vicina Armenia.

I due paesi hanno combattuto una guerra di sei settimane nella regione nel 2020. Dopo migliaia di morti, l’esercito dell’Azerbajgian è uscito vittorioso. Il suo governo ora afferma di aver citato in giudizio l’Armenia per presunta distruzione ambientale durante i 30 anni in cui controllava il territorio.

Il 18 gennaio, il Ministero degli Esteri dell’Azerbajgian ha accusato l’Armenia di “diffusa deforestazione, disboscamento insostenibile e inquinamento significative dovuto a costruzioni e miniere” nella regione contesa del Nagorno-Karabakh. Ha affermato in un comunicato stampa che questo è stato il primo arbitrato interstatale noto ai sensi della Convenzione di Berna del Consiglio d’Europa sulla conservazione della fauna selvatica e degli habitat naturali.

Gli esperti hanno detto a Climate Home che nessuna richiesta di arbitrato era stata presentata ufficialmente, le foreste se la passavano meglio sotto il controllo dell’Armenia rispetto a quello dell’Azerbaigian e il caso aveva un “elemento di propaganda”.

Le due parti hanno combattuto per la regione, a fasi alterne, per più di 100 anni. Durante l’era sovietica, era un’enclave autonoma all’interno dell’Azerbajgian, con una popolazione a maggioranza etnica armena. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Armenia prese il sopravvento. Nel 2008, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è schierata dalla parte dell’Azerbajgian.

Il conflitto si è riacceso nel 2020 e l’Armenia ha ceduto il controllo all’Azerbajgian e alle forze di pace russe. I combattimenti sono ora cessati e continuano i colloqui per una soluzione a lungo termine.

C’è solo una strada che collega il Nagorno-Karabakh all’Armenia. Le persone che affermano di essere attivisti ambientalisti azeri lo stanno bloccando. I leader armeni li hanno accusati di essere nazionalisti Azeri e Turchi, incoraggiati dal governo azero a bloccare il territorio.

Uno dei manifestanti è il Presidente del Women, Development, Future Public Union, Gulshan Akhundova. Ha detto a Climate Home che gli Armeni stavano estraendo “i nostri minerali (oro e rame)” e li inviavano in Armenia e abbattevano alberi. Ha detto che la maggior parte dei manifestanti proveniva da ONG ambientali azere [questa è una delle affermazioni azere che sono smentite con i dati già più volte in passato] e che ci sono anche rappresentanti del Ministero dell’Ambiente dell’Azerbajgian.

Human Rights Watch ha affermato che il blocco potrebbe avere “triste conseguenze umanitarie”. Impedisce agli Armeni della regione di ottenere cibo e servizi essenziali o di partire per l’Armenia.

Rapporto Unep

Il governo dell’Azerbajgian ha invitato il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) a visitare il Nagorno-Karabakh nel marzo 2022. La visita è stata organizzata tra il Ministero dell’Ambiente dell’Azerbajgian e Mahir Aliyev, Coordinatore regionale dell’Unep per l’Europa. Aliyev è dell’Azerbajgian, anche se non rappresenta il suo governo. Il team dell’Unep è stato accompagnato durante tutto il viaggio dal personale del Ministero dell’Ambiente, che ha organizzato tutti gli incontri e facilitato tutte le visite. Parti della regione sono coperte di mine antiuomo. Il team Unep ha prodotto un rapporto di 45 pagine. Nel suo comunicato stampa che annunciava l’arbitrato, il governo dell’Azerbajgian ha citato selettivamente questo rapporto.

Diceva correttamente che l’Unep aveva notato che l’estrazione mineraria dell’Armenia aveva causato “l’inquinamento chimico dell’acqua, del suolo e [di piante e animali]”. Ma ha tralasciato la conclusione dell’Unep secondo cui l’abbandono delle aziende agricole a causa del conflitto aveva portato piante e fauna a “ristabilirsi”.

Strada della Vittoria

Unep ha inoltre riferito che “anche la nuova costruzione di strade – avviata nell’ambito della campagna di ricostruzione nel gennaio 2021 – sta avendo un impatto significativo sulla copertura forestale; in particolare il tratto autostradale di circa 80 chilometri tra Fuzuli e Shushi”.

Zaur Shiriyev, analista dell’International Crisis Group in Azerbajgian, ha spiegato che il governo dell’Azerbajgian ha iniziato a costruire questa strada non appena ha conquistato la regione nel 2020. È conosciuta come “Strada della Vittoria” in Azerbajgian. Le autorità prevedono di costruire 1.500 km di strade nelle “terre liberate”.

Dopo aver esaminato i dati satellitari, Liz Goldman di Global Forest Watch, ha dichiarato a Climate Home: “Non sembra esserci una significativa perdita di copertura arborea nella regione del Nagorno-Karabakh”. In effetti, ha affermato che tra il 2000 e il 2020 circa, la regione ha guadagnato più copertura arborea di quanta ne avesse persa. Ha perso 355 ettari e guadagnato 2.310 ettari.

I dati di Goldman coprono solo 20 anni dei 30 anni di occupazione. Ma suggerisce che il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, ha sbagliato ad affermare che “dai cinquanta ai sessantamila ettari di foresta sono stati completamente distrutti” dall’Armenia nel Nagorno-Karabakh.

“La perdita di copertura arborea è stata particolarmente bassa negli ultimi anni, ma è aumentata a circa 50 ettari nel 2021” [a seguito dell’occupazione azera di gran parte dell’Artsakh dopo la guerra di fine 2020], ha affermato Goldman, “con la perdita che si è verificata lungo le strade”. I dati satellitari condivisi con Climate Home confermano che questa perdita di alberi è lungo la “Strada della Vittoria” dell’Azerbajgian.

“Punto di pressione”

Shiriyev ha detto a Climate Home che entrambi i Paesi stavano avanzando rivendicazioni e contro-reclami l’uno contro l’altro nei forum internazionali come leva nei colloqui di pace. “Lo vedono come un punto di pressione”, ha detto, aggiungendo “c’è un elemento di propaganda per entrambe le parti”.

Parlando attraverso la società di pubbliche relazioni britannica Portland Communications, il governo dell’Azerbajgian ha dichiarato a Climate Home che i “requisiti di riservatezza” significavano che non era in grado di dire quali articoli della Convenzione di Berna stava accusando l’Armenia di violare. Il suo Portavoce ha detto di aver notificato i documenti direttamente all’Armenia. Un Portavoce del Segretariato della Convenzione di Berna ha affermato che dovevano essere presentate loro richieste di arbitrato e “finora non abbiamo ricevuto alcuna richiesta”.

Il governo dell’Azerbajgian ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo e, al momento della pubblicazione, non aveva risposto alle domande scritte. Il governo dell’Armenia non ha risposto e l’Unep ha rifiutato di commentare.

Fondazione per la conservazione della fauna selvatica e dei beni culturali (FPWC)
Allarme ecocidio nel Caucaso meridionale
Fpwc.org, novembre 2020

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Il 27 settembre è scoppiata una guerra in piena regola tra Armenia e Azerbajgian per la regione dell’Artsakh nel Caucaso meridionale. Questa guerra in corso è una grave minaccia per la biodiversità della regione. Considerata uno degli hotspot mondiali in termini di biodiversità, la regione ospita oltre 6.000 specie di piante, 153 specie di mammiferi e 400 specie di uccelli. Centinaia di specie vegetali e animali in Artsakh sono anche elencate nella Lista rossa IUCN delle specie minacciate.

Il 30 ottobre, munizioni al fosforo bianco sono state utilizzate come arma chimica sulle foreste primordiali dell’Artsakh. Come sappiamo, l’uso di armi chimiche è internazionalmente riconosciuto come un crimine di guerra e i suoi effetti sull’ambiente sono devastanti. Minaccia direttamente l’esistenza di qualsiasi essere vivente nell’area e gli habitat delle specie in via di estinzione della regione, come gli orsi bruni, le capre bezoar, i mufloni, le linci, gli avvoltoi, le aquile e il leopardo del Caucaso. Quest’ultimo è un felino ad alto rischio di estinzione nella regione.

L’Armenia e l’Artsakh sono note per le loro foreste primordiali, che sono tra le foreste più ricche di biodiversità della regione. Non solo queste foreste svolgono un ruolo importante nel preservare condizioni ambientali favorevoli per lo sviluppo sostenibile, ma la popolazione locale dipende fortemente da queste foreste per il proprio sostentamento. La conoscenza tradizionale legata alla foresta accumulata nel corso di migliaia di anni è profondamente radicata nella cultura degli abitanti dell’Artsakh.

Le munizioni al fosforo bianco sono pericolose armi chimiche che non solo bruciano habitat cruciali e distruggono gli ecosistemi, ma si accumulano anche nel suolo e nei fiumi, contaminando le acque sotterranee per anni. Rappresentano quindi una grave minaccia per tutte le persone che vivono nella regione più ampia, compresi l’Armenia e l’Azerbajgian. L’uso di munizioni al fosforo contraddice le disposizioni delle principali convenzioni ambientali come la Convenzione di Berna, il Protocollo di Nagoya, nonché le Convenzioni di Helsinki e Rotterdam, firmate sia dall’Armenia che dall’Azerbajgian.

Se il 98% della popolazione mondiale vive sotto la protezione della Convenzione sulle armi chimiche, dovrebbe essere applicabile anche agli Armeni etnici che vivono nell’Artsakh. Gli sforzi di conservazione della natura non riconoscono alcun confine politico. Il loro obiettivo è sostenere la vita sulla terra, l’unico pianeta su cui viviamo.

In qualità di organizzazione dedicata alla conservazione della fauna selvatica e dei beni culturali in Armenia e in Artsakh, a cui si uniscono 50 organizzazioni partner locali, chiediamo a tutti i nostri partner della comunità globale della conservazione di unirsi a noi nei nostri sforzi per condannare l’uso di munizioni al fosforo nel guerra in corso che stanno provocando un disastro ambientale nella regione.

Chiediamo alle organizzazioni ambientaliste globali di agire ora per prevenire un ecocidio regionale. Le guerre finiscono, ma il diritto alla vita dovrebbe essere riconosciuto e rispettato a livello globale per tutti gli esseri viventi e tutte le specie del mondo.

[Firmato da 52 organizzazioni ambientali dell’Armenia]

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Karabakh. Il conflitto invisibile. Cosa sta succedendo alla popolazione dell’Artsakh (Tempi 28.01.23)

 

 

 

Maartedì 31 gennaio, alle ore 21.00, presso il Centro culturale Rosetum (via Pisanello 1, Milano), si terrà l’incontro “Karabakh. Il conflitto invisibile. Cosa sta succedendo alla popolazione dell’Artsakh”.

Antonia Arslan, scrittrice

Mario Mauro, già Ministro della Difesa e Vicepresidente del Parlamento europeo

Con un video di Artak Beglaryan, consigliere del ministro di Stato dell’Artsakh

Capi delle chiese cattoliche condannano attacco di coloni contro un ristorante armeno a Gerusalemme (Infopal 28.01.23)

Gerusalemme/al-Quds- WAFA. I capi delle Chiese cattoliche di Gerusalemme hanno condannato venerdì un attacco di coloni ebrei contro un ristorante armeno nel quartiere cristiano della città occupata di Gerusalemme.

“La scorsa notte, un folto gruppo di coloni israeliani, portando bandiere, cantando ed urlando, è entrato dalla Porta Nuova. Alcuni turisti erano seduti in un ristorante, godendosi l’atmosfera tranquilla del quartiere, quando improvvisamente questo gruppo ha iniziato a molestarli e a distruggere sedie e tavoli dei negozi e dei ristoranti locali”, afferma un comunicato stampa.

Il ristorante è stato identificato come il Taboon Wine Bar.

“Questa violenza non provocata ha instillato paura nei negozianti e nei residenti del quartiere cristiano, nonché nei turisti. Non è finita fino a quando la polizia è arrivata, un’ora dopo, e ha portato via gli aggressori. La polizia israeliana, arrivata sulla scena un’ora dopo, non ha effettuato arresti tra gli aggressori”, si legge nella dichiarazione.

L’attacco, ha aggiunto l’Assemblea, è stato “solo l’ultimo di una serie di episodi di violenza religiosa che sta colpendo i simboli della comunità cristiana e non solo”.

L’Assemblea ha condannato tali attacchi ed ha espresso la propria preoccupazione “per l’escalation della violenza nella Città Santa. Questo è accaduto nella strada che conduce al Santo Sepolcro, il luogo cristiano più sacro del mondo, e nel quartiere cristiano che ospita molti monasteri e chiese”, ha sottolineato l’Assemblea.

Hanno criticato le autorità d’occupazione israeliane per non aver fatto alcun passo tangibile per fermare i casi di violenza dei coloni ebrei contro i palestinesi, compresi i cristiani.

“È prioritario che le autorità politiche e religiose operino secondo la propria responsabilità per riportare a maggiore serenità la vita civile e religiosa della città. Gerusalemme deve rimanere la patria dei credenti di tutte le fedi e non ostaggio di gruppi radicali”.

La violenza dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà è una routine in Cisgiordania ed è raramente perseguita dalle autorità israeliane.

La violenza dei coloni include incendi dolosi di proprietà e moschee, lancio di pietre, sradicamento di raccolti e ulivi, attacchi a case vulnerabili, tra gli altri.

Ci sono oltre 800 mila israeliani che vivono nelle colonie in Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Vai al sito

TRIESTE FILM FESTIVALIn Aurora’s Sunrise la rievocazione del genocidio armeno (Taxidrivers 28.01.23)

Aurora’s Sunrise presentato al Trieste Film Festival nella sezione “Fuori dagli sche(r)mi“, è al contempo un colpo allo stomaco e un esempio di come l’animazione, associata magari ad altri strumenti espressivi, possa sondare territori dell’immaginario davvero impervi e a contribuire a far luce sulle più buie pagine di Storia.
In questo caso trattasi di una delle vicende più dolorose e sconvolgenti del Novecento, lo spaventoso genocidio compiuto ai danni del popolo armeno il cui inizio è datato 24 aprile 1915, ma che avrebbe poi riempito di orrori gli ultimi anni di vita dell’Impero Ottomano e gli esordi stessi della repubblica fondata in Turchia da Mustafa Kemal Atatürk.

Una tragedia dimenticata, anzi, rimossa

Tra gli aspetti più sconcertanti di una pulizia etnica così estesa, che costò la vita a oltre un milione di vittime innocenti e che raggiuse punte di crudeltà particolarmente disumane, efferate, eguagliate forse soltanto dai massacri portati avanti da “banderisti” ucraini nel corso della Seconda Guerra Mondiale o dall’attività dei militari nell’Indonesia degli anni ’60, vi è senz’altro il mancato riconoscimento di tali eventi da parte della Turchia, in tutto l’arco della sua (spesso autoritaria) Storia recente. Caso di “negazionismo” protratto nel tempo che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva di tale nazione. Ed è ingenuo anche solo immaginare che possa essere il tetro regime instaurato da Erdoğan a proporre marce indietro sull’argomento…
Alla letteratura, al cinema e all’arte in genere è rimasto quindi in tutti questi anni il compito di vincere l’omertà diffusa a così alti livelli, ricordare e far conoscere i fatti, commemorare le vittime. Solo a livello cinematografico si possono citare diversi capitoli di questa storia parallela, sommersa, più o meno brillanti a livello filmico, ma in ogni caso necessari. Dallo straziante, stratificato Ararat di Atom Egoyan (che ha incidentalmente fatto riferimento alle proprie origini anche in altre opere) a Le Voyage en Arménie di Robert Guédiguian. Passando magari per uno dei film più sottostimati (e al quale non difettano, al contrario, incisività e coraggio) dei Fratelli Taviani, La masseria delle allodole. Ora a tale galleria si è aggiunto un tassello non meno significativo, per i suoi meriti sia estetici che storici ed etici.

La genesi di un piccolo capolavoro

La dolente opera cinematografica della Sahakyan, Aurora’s Sunrise, è in realtà un gioco di scatole cinesi ove confluiscono armonicamente impulsi di varia natura, sia come provenienza che a livello formale. Lo spunto iniziale è offerto da una pellicola che seppe destare clamore e indignazione ai tempi del muto, Auction of Souls (1919) proiettata con successo nei cinema di mezza America per essere poi dimenticata in fretta e sparire dai radar anche fisicamente, materialmente, rimozione cui contribuì senz’altro il mutato quadro politico. Già, perché a interpretare quel film, direttamente ispirato alle sue dolorosissime esperienze, era una vera sopravvissuta al genocidio armeno, il cui nome venne “americanizzato” in Aurora Mardiganian.
Col tempo sono stati ritrovati alcuni brevi spezzoni di quella pellicola, da aggiungere qui al filmato di un’intervista realizzata qualche decennio dopo con la stessa Aurora, ormai anziana. Ma perfettamente in grado di ricordare gli orrori subiti da giovane nelle martoriate terre dell’Anatolia.

Alla ricerca, attraverso l’animazione, dei frammenti mancanti

La meravigliosa operazione compiuta dalla cineasta di Yerevan, Inna Sahakyan, è stata quindi mettere insieme i diversi pezzi del puzzle, ovvero le scarne tracce del film muto da poco recuperate e quella lunga intervista degli anni ’40, utilizzando poi l’animazione per dare forma a quei ricordi della protagonista che non era più possibile associare ad immagini, andate ormai perdute assieme ai rulli di una pellicola all’epoca così popolare. Con un esito artistico e contraccolpi emotivi a dir poco strepitosi: grazie a un’animazione dal tratto estremamente curato, possente, lirico, attento ai dettagli, prendono forma sullo schermo sia i momenti felici vissuti dalla famiglia di Aurora prima della repressione turca, sia le fasi più crudeli dello sterminio durante il quale quasi tutti i famigliari della ragazza vennero barbaramente uccisi, sia gli alti e bassi del successivo approdo negli Stati Uniti. Ma si può tranquillamente dire che il momento più elevato di tutta la narrazione sia l’allegoria incentrata su quello spensierato teatrino in famiglia, con genitori e fratelli che però malinconicamente si dissolvono, spariscono da quel ricordo gioioso di vita in comune, man mano che nella realtà i militari dell’Impero Ottomano e i banditi curdi (loro complici in quell’abominio) li accompagnano una alla volta verso la morte.
L’ispirata scelta dei disegni, pronti a declinare sia la bellezza che il sopraggiungere del terrore, fa quindi il paio con un’impostazione teorica molto appropriata, tesa cioè a spingere l’animazione non soltanto verso un apprezzabile valore testimoniale ma anche all’iperbolica ricostruzione dei tasselli mancanti, delle immagini perdute. Fondendo quindi tale risorsa espressiva con assai delicate esigenze documentarie. Quasi inevitabile, a questo punto, il parallelo con la poetica del cambogiano Rithy Panh, che proprio in The Missing Picture aveva sperimentato, tramite l’animazione a passo uno, un analogo desiderio di dare nuovamente vita ai “fantasmi” di chi è stato cancellato con inaudita brutalità, in quel caso la propria famiglia massacrata dagli Khmer Rossi.

Vai al sito

Azerbaigian-Iran, la risposta delle autorità azere all’attentato di Teheran (Nanopress 27.01.23)

L’iran è stato colpito da un’attentato che ha visto prendere di mira l’ambasciata dell’Azerbaigian a Teheran. La sede istituzionale è stata colpita da un attacco armato, a causa del quale, il capo della squadra di sicurezza dell’ambasciata è rimasto ucciso e altri due esponenti delle forze dell’ordine sono rimasti feriti.  Le autorità iraniane hanno immediatamente avviato indagini accurate e soltanto un’ora dopo è stato annunciato l’arresto dell’attentatore.

Teheran ambasciata azera
Teheran, ambasciata dell’Azerbaigian attaccata – Nanopress.it

L’accaduto ha lasciato stupiti e perplessi i funzionari iraniani, almeno in apparenza, così come le autorità dell’Azerbaigian che chiedono venga fatta luce su questo attacco deliberatamente feroce e finalizzato all’uccisione di cittadini innocenti. Quello che emerge però dalle notizie già trapelate, riguardo le indagini iniziali, mostrano un quadro differente da quello terroristico, ipotizzato inizialmente, ma rivelano invece problematiche familiari dell’aggressore che ovviamente dovranno essere verificati ed accertati. Nonostante ciò le tesi sostenute dal governo azero sono differenti.

Iran, attacco all’ambasciata dell’Azerbaigian

Questa mattina, alle 08:00 in Iran, un uomo armato di kalashnikov è entrato nell’ambasciata azera e ha aperto il fuoco rivolgendosi ai presenti nell’edificio. Ovviamente si è scatenato il panico e me non è stato possibile evitare e la morte del capo delle guardie di sicurezza.

Il ministero degli affari esteri della Repubblica dell’Azerbaigian ha deciso di prendere, immediatamente, parola ed ha dichiarato: “Alle otto del mattino, ora di Teheran, una persona è entrata nell’ambasciata con un’arma Kalashnikov e ha iniziato a sparare”.

Le autorità di Teheran hanno confermato inoltre che e l’aggressore è stato tratto in arresto un’ora dopo l’accaduto e emerge, anche, che l’uomo ha approfittato per entrare nell’edificio approfittando dell’ingresso del personale nell’edificio che si apprestava ad iniziare il proprio turno. L’attentatore è entrato nell’ambasciata dell’Azerbaigian di Teheran assieme ai suoi due figli piccoli e ha affermato nelle prime dichiarazioni, rilasciate agli inquirenti, che la motivazione di questo attacco era legata a: “problemi personali e familiari“.

Le agenzie di stampa iraniane hanno tra l’altro già condiviso la dichiarazione iniziale rilasciata dall’uomo durante l’indagine preliminare. Nella nota l’uomo precisa la sua motivazione e ha affermato: “Nell’aprile di quest’anno mia moglie si è recata all’ambasciata azera a Teheran e non è tornata a casa. Nelle mie frequenti visite all’ambasciata, non ho ricevuto alcuna risposta da loro e ho pensato che mia moglie fosse di stanza presso l’ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian a Teheran e non fosse disposta a incontrarmi. Questa mattina ho deciso di andare in ambasciata con il fucile Kalashnikov che avevo già preparato”.

Alcuni media ed esponenti della Repubblica dell’Azerbaigian ritengono che l’attentato possa essere stato causato in qualche modo dall’Armenia. La mira sull’ambasciata azera in Iran potrebbe essere un modo per portare ulteriore deterioramento nelle relazioni tra Baku e Teheran.

Durante gli ultimi anni le relazioni e le dinamiche tra Azerbaigian e Armenia sono state molto tese e nervose e hanno portato diversi conflitti e scontri armati.

Secondo questi esperti, il governo azero probabilmente chiederà nel breve termine alle autorità iraniane di consegnare l’imputato a Baku.

Tra l’altro non si tratta della prima volta che l’ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian è bersaglio di un attacco, in cui anche l’Iran sembra coinvolto ed avere un ruolo preciso.

Soltanto lo scorso agosto si è verificato un attacco da parte di un gruppo sciita all’ambasciata dell’Azerbaigian a Londra e, in quell’occasione, è stata alzata la bandiera del gruppo di “Labik o Hossein” sopra la porta.

Secondo le notizie emerse invece dalle agenzie di stampa affiliate al corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche in Iran, sembrerebbe che l’accaduto venga attribuito a “un gruppo di agenti di Sadegh Shirazi” e alcuni media azeri hanno addirittura ipotizzato il coinvolgimento   dell’Ambasciata della Repubblica islamica dell’Iran a Londra nell’attacco verso le istituzioni azere all’estero.

La tensione tra Teheran e Baku si è intensificata negli ultimi anni e si sono viste offese e sgarri reciproci, critiche ma anche commenti diretti e, più di una volta invadenti, di entrambe le parti l’una verso l’altra.

Le autorità della Repubblica islamica si sono ripetutamente contrapposte alla “ripresa del Corridoio di Zangzor” e allo “stabilimento di relazioni con Israele” da parte della Repubblica dell’Azerbaigian e i due Paesi hanno più volte convocato i reciproci ambasciatori.

A novembre 2022 è emerso, tramite il servizio di sicurezza statale dell’Azerbaigian, che era stato arrestato un gruppo di cittadini azeri addestrati e finanziati dalle agenzie di spionaggio In Iran per agire contro gli interessi nazionali e di sicurezza del loro Paese.

In quell’occasione è stata fatta la precisazione che 22 persone erano state arrestate per sospetto spionaggio a favore della Repubblica islamica e ma soprattutto per essere strettamente collegate al corpo delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran.

Un mese dopo è arrivata la conferma ufficiale direttamente tramite la tv ufficiale azera che ha riferito di aver sventato diversi attacchi e tra questi uno in programma era per l’appunto l’attacco all’ambasciata israeliana.

La Repubblica islamica aveva precedentemente accusato le autorità azere di consentire ad Israele di avere una presenza militare vicino al confine tra Azerbaigian e Iran. E anche questo è sicuramente emotivo di in tensione e scontro. Anche dalle autorità turche è arrivata una condanna verso l’attacco avvenuto questa mattina nell’ambasciata azera a Teheran.

Il ministro Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha scritto in un messaggio sul suo account Twitter: “L’azerbaigian non è mai Solo”.

La reazione delle autorità azzera  e dopo l’attentato a Teheran

Il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha condannato l’attacco all’ambasciata azera a Teheran. Il capo di Stato, innanzitutto, ha espresso le sue condoglianze ai parenti dell’impiegato del servizio di sicurezza, che ha perso la vita durante questo attentato. Il presidente ha affermato pubblicamente: “Chiediamo che si indaghi presto su questo atto terroristico e che i terroristi vengano puniti. Un attacco terroristico contro le missioni diplomatiche è inaccettabile“.

Il deputato azero agil Abbas ha dichiarato che: “il iraniano “Mullah Fars”, che si è autodefinito Repubblica islamica, è lontano dai valori islamici, scrive la parola “ALLAH” sulla sua bandiera e serve il diavolo, ha fatto ricorso a un’altra umiliazione. Hanno fatto irruzione nell’ambasciata dell’Azerbaigian a Teheran. Un dipendente della nostra ambasciata è stato ucciso e due dipendenti sono rimasti feriti. Questo era terrorismo, lo stesso terrorismo politico. Secondo le leggi adottate nel mondo, l’ambasciata in qualsiasi paese è considerata il territorio di quel paese. Attaccare l’ambasciata è anche una grave violazione del confine di stato. O hai attaccato la nostra ambasciata o hai attraversato il fiume Araz e sei andato in uno dei nostri villaggi.

Sottolineando che: “Inoltre, ogni Stato si impegna ed è responsabile della protezione delle ambasciate e delle altre rappresentanze diplomatiche operanti nel proprio Paese.Tutte le ambasciate e le missioni diplomatiche che operano in Azerbaigian sono protette dai nostri servizi speciali e dalle forze dell’ordine. Compresa l’ambasciata iraniana a Baku. Anche le nostre forze dell’ordine non consentono picchetti davanti alle ambasciate.”

Il deputato azero ha poi concluso dicendo che: “Le indagini su questo crimine non possono essere affidate solo allo Stato iraniano. Lo Stato iraniano cercherà probabilmente di insabbiare il crimine che ha commesso. pertanto, dovrebbe essere creata una commissione e i servizi speciali dell’Azerbaigian dovrebbero far parte di questa commissione e andare in Iran per un’indagine obiettiva sul crimine. Come cittadino, condanniamo fermamente questo atto di terrorismo politico. Lo Stato iraniano dovrebbe immediatamente scusarsi, risarcire la famiglia della vittima e del ferito. Chiediamo a Dio di avere pietà del nostro martire Orkhan Asgarov, porgiamo le nostre condoglianze alla sua famiglia, ai parenti e alla nostra nazione. Dio maledica il diavolo!”.

Post presidente turco Erdogan
Post del presidente turco Erdogan per l’Azerbaigian – Nanopress.it

Ovviamente è stato avviato un procedimento penale subito dopo l’atto terroristico, contro l’ambasciata azera a Teheran, e tramite i media locali emerge la dichiarazione dell’autorità iraniana che spiega: “Il 27 gennaio 2023, intorno alle 08:30 del mattino, ora di Baku, è stato effettuato un attacco armato contro l’ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian nella Repubblica islamica dell’Iran. L’aggressore ha distrutto il posto di sicurezza con un’arma automatica Kalashnikov e ha ucciso il capo del servizio di sicurezza dell’ambasciata, Asgarov Orkhan Rizvan oglu, e ha ferito altre due guardie di sicurezza. Le istituzioni competenti della Repubblica islamica dell’Iran sono state indirizzate per risolvere le necessarie questioni relative alle indagini.”

il governo iraniano ha poi concluso: “Sarà fornita un’indagine completa e completa su tutti i casi di atti terroristici commessi contro l’Ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian nella Repubblica islamica dell’Iran e ulteriori informazioni saranno fornite al pubblico”.

Vai al sito