#ArtsakhBlockade. La popolazione del Nagorno-Karabakh continua a subire da 45 giorni un assedio disumano. Il momento di agire è adesso (Korazym 25.01.23)

Korazym.org/Blog dell’Editore, 25.01.2023 – Vik van Brantegem] – Il Ministro degli Esteri di Armenia, Ararat Mirzoyan, è intervenuto al dibattito tenutosi al Comitato degli Affari Esteri del Parlamento Europeo e ha risposto alle domande dei membri del Parlamento Europeo. Di seguito riportiamo il testo integrale del suo discorso nella nostra traduzione italiana dall’inglese.

“Il momento di agire è adesso.
L’Azerbajgian dovrebbe essere

ritenuto responsabile delle sue azioni.
Bisognerebbe spiegare all’Azerbajgian
che ci sono regole internazionali
a cui tutti devono attenersi”.

Prima di tutto, vorrei ringraziarvi per aver accettato la nostra richiesta di una discussione in questo formato.

Desidero continuare il mio intervento inviando parole sincere di gratitudine al Consiglio Europeo in generale e a ciascuno di voi singolarmente per aver espresso posizioni chiare sulle questioni più importanti per il mio Paese.

Le discussioni urgenti e l’adozione di dichiarazioni negli ultimi due anni sulla questione dei prigionieri di guerra armeni, la distruzione del patrimonio culturale e le conseguenze umanitarie del recente blocco del Nagorno-Karabakh sono una risposta adeguata e obiettiva alle sfide senza precedenti che il popolo dell’Armenia e del Nagorno Karabakh deve affrontare, sfide che continuano a minacciare la stabilità e la sicurezza della nostra regione. Tutte queste sfide sono perfettamente riassunte nella relazione 2022 sulla politica estera e di sicurezza comune, per la quale vorrei ringraziare in modo particolare lei, Onorevole McAllister e tutti i membri del Parlamento Europeo che hanno lavorato a questa relazione e hanno contribuito oggettivamente all’inclusione di sezioni riflettenti sulla situazione nella nostra regione.

Naturalmente, accolgo con favore le dichiarazioni chiare e ogni voto espresso dal Parlamento Europeo a favore della soluzione dei problemi umanitari citati. La vostra voce è stata ascoltata in Armenia e nel Nagorno-Karabakh. Spero che sia stato ascoltato e preso in considerazione anche a Baku. Spero davvero che, seguendo l’esempio del Parlamento Europeo, altre istituzioni europee diano prova di sufficiente coraggio e giustizia nelle questioni relative al Caucaso meridionale.

I messaggi fermi e chiari dell’Unione Europea, compresa la sua legislatura, sono davvero importanti. In primo luogo, l’Unione Europea rimane il partner principale dell’Armenia nel sostenere il nostro programma di riforme basato su valori e istituzioni condivisi e, in secondo luogo, nonostante tutte le sfide, continuiamo ad ampliare la portata del nostro partenariato basato sull’impegno dell’Unione Europea a promuovere la stabilità nella nostra regione.

Riteniamo che la nostra architettura di sicurezza non possa essere completa senza la protezione dei diritti umani e della democrazia. Al fine di garantire il benessere del nostro popolo, abbiamo attuato riforme volte a rafforzare i diritti umani e lo stato di diritto, garantendo una governance efficace e una lotta senza compromessi contro la corruzione. Ho molto da dire sui risultati conseguiti dall’Armenia nel campo delle riforme democratiche, ma oggi non entrerò nei dettagli per mancanza di tempo. Posso assicurarvi che siamo determinati a continuare il cammino delle riforme democratiche e ci aspettiamo l’ulteriore sostegno dei nostri partner.

Per quanto riguarda il prezioso contributo dell’Unione Europea alla stabilità della nostra regione, vorrei accogliere con favore la decisione presa ieri dal Consiglio Europeo di inviare una missione di monitoraggio a lungo termine in Armenia. Voglio sottolineare che lo scopo di questa missione è la sicurezza delle persone che vivono nelle zone di confine, dei bambini che vanno a scuola, delle persone che svolgono il lavoro agricolo e delle famiglie che vogliono vivere nelle loro case senza timore di essere prese di mira. Gente chiara, scuole chiare, case chiare.

Negli ultimi due anni, il governo armeno, avendo ricevuto il voto dei nostri cittadini per portare avanti l’agenda di pace, oltre ad avere la volontà politica di regolare le relazioni con l’Azerbajgian, è stato coscienziosamente coinvolto in negoziati in tre diverse direzioni:

  • Il primo è lo sblocco di tutte le comunicazioni di trasporto nella regione.
  • Il secondo è la demarcazione dei confini e la sicurezza dei confini
  • Il terzo è un accordo di pace o di risoluzione dei conflitti tra Armenia e Azerbajgian.

A questo proposito, vorrei attirare la vostra attenzione sui seguenti punti.

Subito dopo la formazione del gruppo di lavoro per lo sblocco delle comunicazioni, l’Azerbajgian, interpretando a suo modo la Dichiarazione Trilaterale del 9 novembre 2020, ha iniziato a chiedere un corridoio extraterritoriale. Vorrei sottolineare che l’Armenia è pronta ad aprire tutte le comunicazioni non appena l’Azerbajgian accetterà che le strade debbano operare sotto la sovranità e la giurisdizione degli Stati che attraversano.

Mesi dopo la formazione delle commissioni di demarcazione dei confini, l’Azerbajgian non solo ha presentato nuove rivendicazioni territoriali, ma ha anche cercato di giustificare la sua ultima aggressione con la falsa argomentazione che il confine non era delimitato. Ironia della sorte, queste commissioni sono state create dopo la prima invasione azera del territorio sovrano dell’Armenia nel maggio 2021, con l’obiettivo di impedire qualsiasi ulteriore azione militare.

In terzo luogo, abbiamo avviato i negoziati sul testo del trattato di pace tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica di Azerbaigian. Purtroppo, la stragrande maggioranza delle proposte fondamentali offerte dalla parte armena in merito al trattato di pace sono state respinte dall’Azerbajgian.

Tra le raccomandazioni c’è l’adeguamento dei criteri per la demarcazione del confine di Stato, perché riteniamo che senza criteri chiaramente concordati per la demarcazione del confine interstatale tra Armenia e Azerbajgian, la vera pace sia impossibile. Il prossimo è il ritiro delle forze armate dal confine di Stato e l’istituzione di una zona smilitarizzata per prevenire possibili ulteriori escalation, nonché misure di rafforzamento della fiducia e un meccanismo di sicurezza, l’istituzione di garanti del trattato di pace, che garantire il rispetto degli impegni.

In generale, l’Azerbajgian si aspetta che l’Armenia accetti solo tutte le sue richieste, e se non ottiene ciò che vuole, l’Azerbajgian usa tutti i possibili strumenti di pressione, dal tenere in ostaggio i prigionieri di guerra armeni alla diffusione dell’odio contro gli Armeni sponsorizzato dallo Stato, dalla retorica bellicosa all’uso della forza.

Abbiamo accettato la proposta dell’Azerbajgian di discutere parallelamente, separatamente, la risoluzione delle relazioni tra Armenia e Azerbajgian e la questione del Nagorno-Karabakh. Contro questo, l’Azerbajgian ha iniziato a sostenere che il Nagorno-Karabakh è il loro problema interno, opponendosi alla proposta obiettiva dell’Armenia di creare un meccanismo internazionale per i negoziati tra Baku e Stepanakert.

È anche chiaro che le azioni dell’Azerbajgian fino ad ora, incluso il blocco del Corridoio di Lachin, hanno dimostrato ancora una volta l’assoluta necessità del coinvolgimento internazionale nella risoluzione dei problemi di diritti e sicurezza del popolo del Nagorno-Karabakh.

In questo preciso momento, la popolazione del Nagorno-Karabakh continua a subire un assedio disumano, a causa del blocco del Corridoio di Lachin, l’unica ancora di salvezza che collega il Nagorno-Karabakh con l’Armenia. Avendo convocato la scorsa settimana una discussione urgente e adottato la risoluzione sulle “conseguenze umanitarie del blocco del Nagorno-Karabakh”, voi siete ben consapevoli della situazione.

C’è una circostanza che vorrei sottolineare. Questo non è un episodio isolato, e dovrebbe essere considerato come parte di una politica su larga scala e attuata sistematicamente dall’Azerbajgian volta alla pulizia etnica del popolo del Nagorno-Karabakh. Creando condizioni di vita insopportabili, l’Azerbajgian mira a costringere la popolazione del Nagorno-Karabakh a lasciare le proprie case e la propria terra natale. L’ultima dichiarazione del Presidente dell’Azerbajgian, con la quale ha proposto di espellere quegli Armeni che non vogliono diventare cittadini dell’Azerbajgian, dimostra ancora una volta la loro intenzione di effettuare la pulizia etnica.

Poiché la crisi umanitaria in Nagorno-Karabakh si sta intensificando di giorno in giorno, è necessario l’immediato intervento della comunità internazionale. Come menzionato nella risoluzione straordinaria del Parlamento Europeo la scorsa settimana, l’invio di una missione conoscitiva internazionale in Nagorno-Karabakh e nel Corridoio di Lachin per valutare la situazione umanitaria sul campo, nonché garantire l’accesso umanitario senza ostacoli dei pertinenti organismi delle Nazioni Unite a Nagorno-Karabakh, è imperativo.

Non possiamo stare ai margini e guardare le persone morire lentamente di fame a causa di giochi politici e forse calcoli geopolitici.

Lasciatemelo dire chiaro. Ci sono due opzioni teoriche per rimuovere il blocco del Corridoio di Lachin: militare o diplomatico. L’Armenia è impegnata nella seconda opzione, ma questa è possibile solo in caso di intervento deciso della comunità internazionale, forti pressioni sull’Azerbajgian e azioni concrete in quella direzione.

Il momento di agire è adesso. L’Azerbajgian dovrebbe essere ritenuto responsabile delle sue azioni. Bisognerebbe spiegare all’Azerbajgian che ci sono regole internazionali a cui tutti devono attenersi.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Camera, i colloqui riservati dell’ambasciatore azero: ricordatevi del nostro gas (l’Espresso 25.01.23)

Quello che è accaduto stamane alla Camera spiega con nitidezza cosa vuol dire per l’Italia la dipendenza energetica da altri stati non propriamente democratici. Nel giorno di una delicata audizione in commissione Esteri sulla crisi umanitaria nel Nagorno Karabakh, il diplomatico Rashad Aslanov, ambasciatore dell’Azerbaigian di recente nomina, in numerosi colloqui di una decina di minuti, ha incontrato parlamentari e anche capigruppo di maggioranza e di opposizione per anticipare la sua versione dei fatti, per fornire risposte prima di ricevere le domande e soprattutto per ricordare agli amici italiani quant’è importante la collaborazione energetica col metano azero che approda sulle coste della Puglia attraverso il gasdotto Tap.

I deputati degli Esteri hanno convocato Aslanov per ottenere informazioni sul blocco del corridoio di Lachin nel Caucaso meridionale, regione controllata dal governo di Baku. Oltre 120.000 armeni che abitano nella non riconosciuta Repubblica dell’Artsakh, terra di guerra, di sangue, contesa da Armenia e Azerbaigian, sono in trappola, affamati, senza viveri, medicine, speranze. La grave crisi umanitaria ha mobilitato le organizzazioni internazionali e anche papa Francesco ha lanciato il suo appello. Ieri la Camera ha ascoltato l’ambasciatrice armena, quest’oggi era il turno del collega azero, di certo non lieto di dover giustificare il suo governo dinanzi agli amici/clienti italiani.

Non sono ancora mute le fanfare che hanno accompagnato la visita di Giorgia Meloni in Algeria e non sono ancora sgualciti gli annunci di opere meravigliose e occasioni fantastiche che potrebbero trasformare l’Italia in «hub» europeo del gas. Secondo i flussi del metano, calcolati con precisione da Nomisma, il crollo delle importazioni di gas dalla Russia è stato compensato in particolare dall’Azerbaigian e non dall’Algeria: Baku ha raggiunto i 10,2 miliardi di metri cubi con 3 miliardi in più sul 2021, mentre Algeri ne ha recuperati 2,3 miliardi in più passando da 21,2 a 23,7.

Oggi i contribuiti azeri sono equivalenti a quelli russi e in prospettiva possono crescere velocemente perché, a differenza degli algerini, hanno infrastrutture migliori e il progetto di un altro Tap. Perché negarsi un futuro grande come un «hub»? Intelligenti pauca.

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L’autogol dell’Azerbaigian in Armenia (Tempi 25.01.23)

Dopo aver battuto agli ottavi degli Austalian Open di tennis il giapponese Yoshihito Nishioka, il russo di origini armene Karen Khachanov si è avvicinato alla telecamera e ha lasciato una dedica che ha fatto infuriare l’Azerbaigian: «Continua a credere fino alla fine. Artsakh, resisti!». È il segnale di quanto la causa armena abbia acquistato forza nel mondo nell’ultimo mese, da quando cioè Baku ha bloccato in modo criminale il Corridoio di Lachin mettendo a rischio la vita dei 120 mila armeni residenti in Artsakh e scatenando una crisi umanitaria senza precedenti.

L’Ue si impegna in difesa dell’Armenia

Dopo l’importante condanna dell’Azerbaigian da parte del Parlamento europeo, il Consiglio europeo ha deciso di istituire una missione civile biennale dell’Ue in Armenia. L’obiettivo è contribuire a garantire la stabilità nelle zone di frontiera dell’Armenia con pattugliamenti sistematici.

Come dichiarato da Josep Borrell, alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, «l’istituzione di questa missione apre una nuova fase dell’impegno dell’Ue nel Caucaso meridionale».

Le mosse degli Stati Uniti

Anche gli Stati Uniti si stanno muovendo nell’area storicamente sotto l’influenza della Russia. Domenica, in un colloquio telefonico, il segretario di Stato americano Anthony Blinken ha chiesto al presidente azero Ilham Aliyev di raddoppiare gli sforzi per raggiungere una pace duratura con l’Armenia e ha invocato la riapertura del Corridoio di Lachin. In precedenza Blinken aveva ospitato il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, e il collega azero, Jeyhun Bayramov, per cercare una mediazione. 

La mossa americana, che ha due obiettivi, dovrebbe far fischiare le orecchie alla Russia. Da un lato, gli Stati Uniti vogliono impedire che l’Azerbaigian, e il suo alleato turco, si impossessino militarmente e indebitamente dell’area. Dall’altro potrebbero cercare di strappare la regione del Caucaso all’influenza di Mosca.

Il tentativo americano, insieme a quello europeo, potrebbe giocare a favore degli armeni, suggerendo cautela all’Azerbaigian e spingendo la Russia ad agire con più decisione in favore di Erevan, suo alleato. Fare pressione su Aliyev perché riapra il Corridoio di Lachin potrebbe diventare una necessità per Mosca.

Il blocco è tutto politico

Emergono intanto nuovi dettagli sui cosiddetti manifestanti “ambientalisti” che dal 12 dicembre bloccano il Corridoio di Lachin. Baku ha sempre sostenuto che si tratta di privati cittadini mossi da preoccupazioni ecologiche e che il governo non c’entra con la loro decisione di protestare.

In realtà, come sottolineato dalla fondazione Center for Law and Justice “Tatoyan”, per raggiungere il Corridoio dall’Azerbaigian è necessario attraversare i territori riconquistati due anni fa da Baku durante la guerra dei 44 giorni. Per accedervi, però, è necessario ottenere un permesso scritto dal ministero degli Interni dell’Azerbaigian, che fino ad ora l’aveva rilasciato soltanto a giornalisti e personaggi della cultura e della politica azera impegnati in iniziative statali.

Si tratta dell’ennesima conferma che il blocco, tutt’altro che ambientale, è politico. Ma con la sua iniziativa, violando il diritto internazionale, l’Azerbaigian rischia di guadagnare all’Armenia alleati scomodi.

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A Roma il Consiglio Pan-Ucraino delle Chiese, per portare la loro voce al Papa (AciStampa 25.01.23

Avevano scritto una lettera al Papa, si sono pronunciati più volte con dichiarazioni forti durante la guerra (e non solo su temi di guerra, ma anche su questioni sociali, come la ratifica della Convenzione di Istanbul da parte del governo ucraino), ma sono sul campo e sui territori in conflitto sin dal 2015: i membri del Consiglio Pan-Ucraino delle Chiese sono ora a Roma, dove trascorreranno tre giorni incontrando Papa Francesco e alti officiali vaticani e partecipando ai Vespri in San Paolo Fuori le Mura il 25 gennaio, giornata in cui si chiude tradizionalmente la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani.

La presidenza del Consiglio cambia ogni sei mesi, ma vi sono rappresentate praticamente tutte le confessioni religiose ucraine. Il 5 per cento delle confessioni restanti sono gruppi molto minoritari, quasi minuscoli greggi in un mosaico interreligioso molto più ampio. Ovvio, c’è l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, padre e Capo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina, ma anche il vescovo Vytaly Kryvyc’kyi di Kyiv, che rappresenta la Chiesa latina; vi è compresa la Chiesa Ortodossa Ucraina, l’autocefalia che ha causato il cosiddetto “scisma ortodosso”, con Mosca distante da Costantinopoli; ma vi è anche rappresentata la Chiesa ortodossa legata a Mosca. E poi, c’è la Chiesa Apostolica Armena e la Chiesa Luterana; le comunità ebraiche e quelle musulmane.

In tutto, al giugno 2021, il Consiglio comprendeva 15 Chiese e organizzazione religiose e una organizzazione interconfessionale. Ma in quest’incontro non ci sono solo i rappresentanti al Consiglio, ma anche i capi delle Chiese.

Sono arrivati a Roma la sera del 23 gennaio, e avranno incontri istituzionali ai massimi livelli in Vaticano. Portano con loro una organizzazione nata già nel 1996, con lo scopo di unire gli sforzi delle denominazioni religiose per promuovere la vita spirituale dell’Ucraina e per coordinare il dialogo inter-confessionale e inter-religioso sia in Ucraina che all’estero.

Ma i membri del Consiglio, come detto, si impegnano anche nel dialogo con il governo, e nell’elaborare gli atti legislativi che riguardano le relazioni tra confessioni e Stato.

Sebbene collabori con il governo in alcune circostanze, il Consiglio è completamente autofinanziato e autonomo. Ogni decisione viene approvata per consenso, in modo da avere pareri bilanciati.

Sono molti i progetti umanitari in cui è coinvolto il Consiglio, e la crisi del coronavirus ha aggiunto anche una necessità di riformare la missione dei pastori stessi. Ora, con la guerra aperta, si è aggiunta anche la necessità di una pastorale per i militari.

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La missione civile dell’Ue in Armenia segna un ulteriore arretramento della Russia nel Caucaso (Agenzia Nova 25.01.23)

L’invio di una missione civile dell’Unione europea in Armenia al confine con l’Azerbaigian sembra un nuovo segnale dell’arretramento della sfera d’influenza russa nel Caucaso. In una fase in cui sono sempre più accese le polemiche relative alla chiusura del Corridoio di Lachin, situato nel Nagorno-Karabakh, e il ruolo dei militari di mantenimento della pace russi inviati nell’area del 2020 viene messo in discussione, la decisione del Consiglio Affari esteri dell’Ue di lunedì scorso, oltre ai continui tentativi di mediazione del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, sembrano confermare come la Russia nel Caucaso sia sempre più in difficoltà. La regione è storicamente parte della sfera d’influenza di Mosca, ma il conflitto in Ucraina ha evidentemente distolto l’attenzione del Cremlino, un fatto confermato dalle diverse violazioni del cessate il fuoco commesse nell’area dove sono di stanza circa 2 mila militari russi nel Nagorno-Karabakh. È giusto specificare che le due missioni – quella civile dell’Ue e della di mantenimento della pace russa – hanno aree di competenza in termini di dispiegamento a livello geografico e strutture differenti, visto che la prima ha un inquadramento civile, mentre quella russa è di tipo militare.

In Armenia è emersa più volta l’insoddisfazione sulla missione russa, soprattutto perché l’Azerbaigian negli oltre due anni trascorsi dalla fine del conflitto del 2020 ha compiuto degli avanzamenti, conquistando alcune alture strategiche. L’Armenia, peraltro, in questo momento si trova davanti anche a un problema d’immagine: la storica vicinanza alla Russia è ovviamente malvista dai partner occidentali e, secondo alcuni ambienti governativi, limiterebbe di fatto il sostegno internazionale alle istanze di Erevan. Nonostante ciò, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan – figura con cui il Cremlino non ha sempre avuto un rapporto positivo – ha proposto una proroga del mandato delle forze russe di mantenimento della pace, e ciò nonostante non siano ancora trascorsi i cinque anni previsti dalla dichiarazione trilaterale del 9 novembre del 2020 che sanciva un mandato di cinque anni per la missione militare, prorogabile di altre cinque in caso di accordo fra Erevan e Baku. Fonti diplomatiche di Erevan, peraltro, riferiscono che la responsabilità dell’incapacità dei russi di condurre con efficacia il loro incarico di mantenimento della pace ricade più che altro sull’Azerbaigian, che non sarebbe d’accordo con una proroga, oltre a non aver ufficialmente approvato il mandato per i cinque anni in corso.

Oltre a intensificare i rapporti con l’Ue, l’Armenia ha intensificato i contatti con la Nato come dimostrato dall’incontro fra il ministro degli Esteri Ararat Mirzoyan e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Il colloquio è avvenuto sempre nella giornata di lunedì, quando il Consiglio Affari esteri dell’Ue ha approvato l’invio della missione civile, ed è stato incentrato sulla situazione relativa al Corridoio di Lachin. Quest’area, una fetta di territorio larga nove chilometri nel suo punto più stretto, rappresenta la strada più breve fra l’Armenia e l’Artsakh (l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh). Da 44 giorni le autorità armene denunciano il blocco del corridoio ad opera di “ambientalisti” che, secondo Erevan, sarebbero stati inviati dall’Azerbaigian per impedire il transito. La Russia, al momento, non è intervenuta sulla questione, se non proponendo delle canoniche iniziative di mediazione che, tuttavia, non sembrano sufficienti a risolvere la situazione. La questione dirimente, tuttavia, è chi potrebbe occupare lo spazio lasciato vuoto da un ulteriore arretramento russo nel Caucaso meridionale: in prima fila c’è certamente la Turchia, storico e più stretto alleato dell’Azerbaigian, mentre nelle retrovie non si può non tenere conto dell’Iran che, sebbene abbia rapporti complessi con Baku, con Erevan vanta una cooperazione positiva.

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Armenia, via alla missione UE di monitoraggio a lungo termine (Osservatorio Balcani e Caucaso)

L’UE ha approvato una missione civile nelle zone di confine tra Armenia e Azerbaigian (L’Indipendente)

I 10 conflitti da tenere d’occhio nel 2023 (La Svolta 25.01.23)

Ucraina, Armenia e Azerbaigian, Iran, Yemen, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo e Grandi Laghi, Sahel, Haiti, Pakistan, Taiwan. Secondo la ong International Crisis Group questi 10 Paesi rappresentano le crisi da monitorare con maggiore attenzione nel 2023.

L’Icg, con sede centrale a Bruxelles, è una delle principali organizzazioni non governative che si occupa di prevenzioni di conflitti. Lo staff, composto da membri del mondo accademico, della società civile, della diplomazia e dei media, copre circa 70 conflitti reali e potenziali, e ogni anno stila la classifica dei 10 da monitorare con più attenzione nel mondo. Nel 2023 sono molte le crisi che il gruppo seguirà più da vicino, lavorando per “prevenire, gestire e risolvere conflitti mortali”, scrive Crisis Group.

Il primo conflitto da tenere d’occhio è quello in Ucraina, a quasi un anno dal 24 febbraio 2022. Quando il Cremlino ha iniziato la sua invasione, “apparentemente si aspettava di sbaragliare il Governo ucraino e instaurare un regime più flessibile. Ha calcolato male. La resistenza dell’Ucraina è stata feroce quanto la pianificazione della Russia è stata inetta”, scrive l’Icg. 1 ucraino su 3 è stato costretto a fuggire, nell’ultimo anno, e sembra che né Kyiv né Mosca vogliano tirarsi indietro: “Nessuna delle due parti mostra un genuino appetito per i colloqui di pace”, prolungando una guerra che ha creato, probabilmente, “il più alto rischio di scontro nucleare degli ultimi 60 anni”.

La seconda crisi da monitorare è quella tra Armenia e Azerbaigian: al centro della disputa tra i due Paesi che sorgono nella regione del Caucaso, a cavallo tra Asia ed Europa, c’è il Nagorno-Karabakh, che potrebbe impegnarli in una nuova guerra “più breve ma non meno drammatica del conflitto di 6 settimane nel 2020” che provocò la morte di più di 7.000 soldati.

Il terzo conflitto è, immancabilmente, l’Iran: qui, dove da fine settembre stanno continuando le massicce proteste contro il regime che “hanno rappresentato la minaccia più duratura e determinata all’autorità della Repubblica islamica dal Movimento dei Verdi del 2009”, i colloqui per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 “sono ora congelati”.

Poi c’è lo Yemen, ora “nel limbo”: i ribelli huthi e il Governo riconosciuto a livello internazionale si stanno preparando a tornare in guerra. La tregua mediata dalle Nazioni Unite ha rappresentato una pausa inaspettata in un conflitto durato 8 anni, ma il lungo periodo di pace è giunto al termine dopo il mancato rinnovo dell’accordo per il “cessate il fuoco”. Il rischio di una nuova guerra, avverte Icg, è “scomodamente alto”.

Il conflitto in Etiopia, uno dei “più mortali del 2022”, con oltre 600.000 civili morti e 2 milioni e mezzo di sfollati nella regione del Tigray e dintorni, si è, per ora, interrotto. La guerra civile è iniziata nel 2020, quando il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray, che governava nella regione nel nord-est del Paese, ha attaccato le basi militari del governo federale guidato dal Primo Ministro Abiy Ahmed. Anche se è stato firmato un accordo tra le parti il 2 novembre, “la calma è fragile”.

La sesta crisi da monitorare da vicino è quella della Repubblica Democratica del Congo e della regione dei Grandi Laghi: qualche giorno fa il Governo di Kinshasa, capitale della Rdc, ha chiesto alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità, sanzionando le autorità del Ruanda e i leader del M23 che continuano a violare il diritto internazionale e i diritti umani nell’Est del Congo. Il popolo congolese ha deciso di porre definitivamente fine all’insicurezza e alle violenze, con o senza il supporto internazionale. Il Movimento 23 Marzo, il gruppo di ribelli ruandesi – conosciuto come M23, detiene numerose città e sta scatenando il caos nella parte orientale del Paese, costringendo decine di migliaia di persone a fuggire dalle loro case. Il conflitto rischia di destabilizzare l’intero continente.

Nel Sahel, il “bordo del deserto” lungo 8.500 km che attraversa 12 Stati, le insurrezioni islamiste stanno avendo la meglio e Burkina Faso, Mali e Niger non mostrano alcun segno di volerle respingere. In Burkina Faso i gruppi jihadisti controllano quasi due terzi del territorio, nel Nord del Mali lo Stato è praticamente assente, dopo i due colpi di stato nel 2020 e nel 2021, mentre il Niger sembra essere in condizioni migliori, ma comunque preoccupanti.

Segue Haiti, immersa nel Mare dei Caraibi e paralizzata dallo stallo politico a seguito dell’assassinio del presidente Jovenel Moïse, nel luglio 2021, e dalla violenza dilagante perpetrata dalle bande criminali, che controllano più della metà del Paese, investito da un’ondata di colera.

Il Pakistan, sommerso da devastanti inondazioni nel corso del 2022, potrebbe dover affrontare un’altra crisi politica, in un Paese in cui “20,6 milioni di persone necessitano ancora di aiuti umanitari”, scrive l’Icg.

A chiudere, c’è Taiwan, “il più grande punto di infiammabilità tra Stati Uniti e Cina” che “sembra sempre più instabile”. Da quest’estate, quando l’allora portavoce della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi visitò la capitale Taipei, la situazione è peggiorata. E il rischio che accada ancora è alto.

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Caucaso, appello degli Stati Uniti all’Azerbaijan: “Riaprite i confini, in Nagorno Karabakh si rischia una crisi umanitaria” (La Stampa 24.01.23)

l presidente azero Aliyev nega il blocco, ma oltre centomila persone sono senza rifornimenti di cibo, medicinali e beni essenziali

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Quarantaquattresimo giorno del #ArtsakhBlockade. «Possiamo essere vicini dell’Azerbajgian, ma mai parte dell’Azerbajgian (Korazym 24.01.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 24.01.2023 – Vik van Brantegem] – Ruben Vardanyan, il Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh ha detto: «Possiamo essere vicini dell’Azerbajgian, ma mai parte dell’Azerbajgian. Pensi che gli Armeni vogliano essere governati da uno Stato, dove nei suoi 104 anni di esistenza, 44 anni sono stati controllati da un’unica famiglia? A parte gli Armeni dell’Artsakh, i loro stessi cittadini Azeri non hanno mai sperimentato nessuno dei diritti umani che dice di praticare».

Che Vardanyan ha ragione, ci ricorda la storia e anche lo stesso Heydar Aliyev (10 maggio 1923, Nakhichevan, Azerbajgian 12 dicembre 2003, Cleveland, USA), il padre di Ilham, da cui ha ereditato la Presidenza e proseguito la politica repressivo e sfruttamento delle ricchezze petroliferi del Paese, senza alcuna considerazione per l’ambiente. In un breve filmato, trasmesso il 25 novembre 2013 da ATV-Azad Azerbaycan TV, è ripresa una parte di una conferenza di Heydar Aliyev, durante la quale cita da un suo discorso che pronunciò al Soviet Supremo all’inizio di febbraio 1991, l’anno in cui il Soviet Supremo sciolse formalmente l’URSS (il 26 dicembre): «Ricordo che all’inizio di febbraio del 1991 mi doleva il cuore quando sono apparso per la prima volta in una sessione del Soviet Supremo. Ma purtroppo allora, invece di capire questo mio discorso, mi hanno fatto pressioni, insultato e ricattato. Cosa ho detto allora? Ho detto che il Nagorno-Karabakh è completamente perduto. Il Nagorno-Karabakh non è più dell’Azerbajgian. L’Azerbajgian non ha né governo statale né alcuna politica sul Nagorno-Karabakh. Tutto è fatto in modo approssimativo. Qualcuno spara con una pistola da qualche parte quando può, fa quello che può. Non c’era politica. Ed è successo esattamente così. L’Azerbajgian ha sofferto di questa orribile situazione perché dal 1988 fino alla fine nessuno ha avuto una politica e una strategia adeguate, perché le persone non si sono incontrati e non si sono unite, non hanno cercato e trovato una soluzione a questo problema».

AZAD AZƏRBAYCAN TV-ATV – Heydar Aliyev: Dopotutto, ho detto che il Karabakh non appartiene all’Azerbajgian.

Per quanto riguarda il contesto del suo discorso, in realtà Heydar Aliyev stava criticando il governo di Ayaz Mütallibov (il 1° Presidente dell’Azerbajgian dal 5 febbraio 1991 al 6 marzo 1992 e dal 14 al 18 maggio 1992). Heydar Aliyev fa riferimento alla prima guerra del Nagorno-Karabakh (20 febbraio 1988 – 16 maggio 1994) e al tentativo da parte dell’Azerbajgian sotto la sua Presidenza di risolvere militarmente la questione del Nagorno-Karabakh con l’offensiva del 1993, che si rivelò un totale fallimento. Alla fine l’Armenia continuò a detenere il controllo del Nagorno-Karabakh e la questione rimase aperta.

Heydar Aliyev è stato il 3° Presidente dell’Azerbaigian dal 10 ottobre 1993 al 31 ottobre 2003, quando suo figlio Ilham Aliyev gli è succeduto nella carica presidenziale, fra molte polemiche e moti di protesta. Emanuel Pietrobon l’ha definito «padre fondatore dell’Azerbajgian indipendente e fonte primigenia di quel legato che, trasmesso in eredità ai posteri, ha trovato piena espressione all’alba del ventunesimo secolo». Nell’insieme, ha dominato la vita politica azera per oltre un trentennio e il suo regime è stato descritto come dittatoriale, autoritario e repressivo. Numerosi commentatori politici hanno sottolineato che Heydar Aliyev ha governato uno Stato pesantemente poliziesco, ha truccato le elezioni e imbavagliato i media, mentre alcuni hanno sottolineato che la sua politica ha portato stabilità e ricchezza al Paese.

Gli eventi recenti ci portano alle parole di Heydar Aliyev, riportato in questo filmato (che inizia proprio con delle immagini del 21 febbraio 1988, quando scoppiarono le violenze), che dimostra che l’Azerbajgian ha mai avuto e non ha una politica unanime e specifica sul Nagorno-Karabakh.

Queste ragazze sono arrivate a Yerevan da Stepanakert con la madre per un viaggio di 2 giorni. È successo quasi 50 giorni fa. Il loro padre è intrappolato ad Artsakh e loro sono a Goris, una delle tante famiglie separate dal blocco azero. Dicono: «Tutto ciò che vogliamo è tornare a casa».

«Se volete avere un’idea del volume di armenofobia in Azerbajgian, leggete i commenti sotto uno qualsiasi dei miei post. La società creata dal dittatore Aliyev è quasi completamente avvelenata dalla xenofobia» (Gegham Stepanyan #StopArtsakhBlockade @Gegham_Artsakh, Difensore dei Diritti Umani della Repubblica di Artsakh, su Twitter). Una risposta del 6 gennaio 2023 riflette quello che la leadership dell’Azerbajgian ha detto che attende “i separatisti criminali del Karabakh [Artsakh/Nagorno-Karabakh] quando sarà presa Khankendi [la capitale Stepanakert]”: «Amico, ti meriterai la tua cella nella prigione di Baku».

Il Ministro degli Esteri dell’Armenia Ararat Mirzoyan, intervenendo al dibattito tenutosi al Comitato degli Affari Esteri del Parlamento Europeo ha osservato, che le azioni dell’Azerbajgian fino ad ora, compreso il blocco del Corridoio di Lachin, hanno dimostrato ancora una volta l’assoluta necessità dell’impegno internazionale per risolvere i problemi di diritti e sicurezza del popolo dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. «Non possiamo stare ai margini e guardare le persone morire lentamente di fame a causa di giochi politici e, forse, calcoli geopolitici. Il momento di agire è adesso. L’Azerbajgian dovrebbe essere ritenuto responsabile delle sue azioni. Bisognerebbe spiegare all’Azerbajgian che ci sono regole internazionali a cui tutti devono attenersi», ha detto Mirzoyan.

Dalle ore 02.00 del 25 gennaio 2023 in tutta la Repubblica di Artsakh si verificheranno interruzioni di elettricità 3 volte al giorno, ciascuna della durata di 2 ore (invece delle attuali due volte di 3 ore), informa la società Artsakhenergo sulla sua pagina Facebook [QUI]: «Tenendo conto delle osservazioni della popolazione e della necessità di impostare il regime più confortevole per il riscaldamento, si è deciso di mantenere il programma giornaliero di 6 ore di interruzione dell’energia elettrica, attuando le interruzioni per una durata inferiore».

“#ArtsakhBlockade, No gas” (Foto di David Ghahramanyan).
Ad Artsakh, assediato dall’Azerbajgian, violando il diritto all’istruzione dei giovani, accorciano la loro giornata creando gioielli fatti a mano.
«Il Comune di Stepanakert fornisce stufe a legna ai cittadini. Il vicino stava cercando un vecchio tubo della stufa nel seminterrato. “Devo tenere al caldo i miei nipoti, cosa devo fare?” Lo metterà nel suo appartamento al 5° piano» (Marut Vanyan, giornalista freelance a Stepanakert).
«“Sono già stata su questa strada, ma non voglio che i miei figli e nipoti passino tutto questo” (Rima, 85 anni, villaggio di Badara). Nel 44° giorno del #ArtsakhBlockade» (Siranush Sargsyan, giornalista freelance a Stepanakert).

Le stazioni di rifornimento di gas naturale compresso a Stepanakert e nelle regioni saranno chiuse dal 24 gennaio 2023, ha dichiarato in una nota l’InfoCenter dell’Artsakh. Il gas accumulato d’ora in poi sarà fornito solo alle strutture sanitarie e ad altre strutture essenziali.

Negli ultimi due giorni il gas accumulato era stato fornito a istituzioni sanitarie, panifici e alle stazioni di servizio. Tuttavia, tenuto conto delle code create alle stazioni di servizio e del volume limitato di gas, il lavoro delle stazioni di servizio sarà interrotto fino a che verrà ripristinata la fornitura di gas. Al fine di garantire il regolare funzionamento del servizio pubblico e delle organizzazioni di servizio pubblico, i veicoli delle suddette organizzazioni saranno alimentati con benzina o gasolio.

Le 100 tonnellate di alimentari donate dal Fondo All-Armenian “Hayastan” nell’ambito del programma di sostegno umanitario urgente all’Artsakh si trovano attualmente nella città di Goris. A causa del blocco dell’unica strada che collega l’Artsakh all’Armenia dall’Azerbajgian, non è possibile consegnare il carico all’Artsakh, informa il Ministero dello Sviluppo Sociale e della Migrazione della Repubblica di Artsakh sulla sua pagina Facebook. Il post afferma inoltre: “Sono in corso trattative con il comando delle forze di mantenimento della pace russe per consegnare il carico umanitario alla Repubblica di Artsakh nella situazione di crisi. Se sarà possibile trasportare il carico, sarà depositato presso il Ministero dello Sviluppo Sociale e della Migrazione della Repubblica di Artsakh e distribuito gratuitamente ai gruppi socialmente vulnerabili secondo gli elenchi del Ministero”.

La Dichiarazione trilaterale di cessate il fuoco del 9 novembre 2020 non prevede restrizioni al trasporto merci per quanto riguarda la loro “natura, scopo o uso”

«Di recente le autorità azere sono sempre più ricorse a un’interpretazione arbitraria del paragrafo 6 della Dichiarazione trilaterale del 9 novembre 2020, in merito al funzionamento del Corridoio Lachin», ha affermato il Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno Karabakh in una nota.
«Per portare avanti la propria agenda politica, l’Azerbajgian ha tenuto in ostaggio l’intera popolazione dell’Artsakh per più di 40 giorni, bloccando l’unica strada che collega l’Artsakh con l’Armenia e il mondo esterno e creando una grave crisi umanitaria.
Allo stesso tempo, l’Azerbajgian ricorre a varie speculazioni, cercando di mascherare la sua politica disumana nei confronti del popolo dell’Artsakh. In particolare, le autorità azere presentano i dati sul passaggio dei veicoli del CICR e delle forze di mantenimento della pace russe come prova dell’assenza di crisi umanitaria e blocco. Tuttavia, i fatti sul campo confutano lo stratagemma azero, progettato per fuorviare la comunità internazionale.
In primo luogo, durante i 43 giorni del blocco, attraverso il Corridoio di Lachin sono transitati meno veicoli rispetto al flusso di traffico giornaliero nel periodo precedente al blocco. Tutti questi veicoli appartenevano al CICR o alle forze di mantenimento della pace russe. Non un solo veicolo appartenente ai residenti dell’Artsakh è passato per il Corridoio.
In secondo luogo, a causa del blocco, il flusso di persone attraverso il Corridoio di Lachin in entrambe le direzioni è stato interrotto. Anche i veicoli delle forze di mantenimento della pace russe, che trasportavano i minori dall’Armenia all’Artsakh, sono stati fermati e i passeggeri all’interno sono stati sottoposti a deliberato terrore psicologico da parte dell’Azerbajgian.
In terzo luogo, l’importazione di beni di consumo, pari a oltre 400 tonnellate al giorno, è stata completamente interrotta. Il blocco dell’Artsakh non solo ha portato a una carenza di forniture essenziali, compresi i medicinali salvavita, ma ha anche privato migliaia di persone del lavoro e dei mezzi di sussistenza.
Allo stesso tempo, oltre al blocco terrestre dell’Artsakh [e ricordiamo che l’Azerbajgian impedisce l’atterraggio di aerei all’aeroporto di Stepanakert. V.v.B.], l’Azerbajgian ha imposto un blocco energetico per aggravare ulteriormente la situazione umanitaria. L’Azerbajgian continua a ostacolare deliberatamente la fornitura di gas naturale all’Artsakh, così come la riparazione dell’unica linea ad alta tensione Goris-Stepanakert proveniente dall’Armenia, danneggiata il 9 gennaio, in un’area sotto il controllo azero.
L’affermazione dell’Azerbajgian di avere il diritto di fermare i veicoli che attraversano il Corridoio di Lachin e di condurre ispezioni del carico è assolutamente infondata. La Dichiarazione trilaterale non prevede alcuna restrizione al trasporto di merci per quanto riguarda la loro natura, scopo o utilizzo. Per quanto riguarda il Corridoio di Lachin, l’unico obbligo dell’Azerbajgian è quello di non ostacolare in alcun modo la circolazione, la sicurezza del movimento di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni.
I tentativi di Baku di rivedere unilateralmente le disposizioni della Dichiarazione trilaterale e di trasformare il Corridoio di Lachin, che ha uno status riconosciuto a livello internazionale, in una strada controllata dall’Azerbajgian esclusivamente per il trasporto di merci umanitarie sono illegittimi e devono essere respinti.
La firma del Presidente dell’Azerbajgian sotto la Dichiarazione trilaterale rappresenta l’esplicito consenso dell’Azerbajgian al riconoscimento del controllo esclusivo del contingente di mantenimento della pace russo sul Corridoio di Lachin».

All’APCE, Arusyak Julhakyan solleva la questione della tortura delle donne militari armene da parte delle forze armate azere

Dopo la recente aggressione nel settembre 2022 da parte dell’Azerbajgian contro il territorio sovrano dell’Armenia, non solo la comunità armena ma anche quella internazionale è rimasta scioccata da un orribile video diffuso nei media azeri, ha detto il deputato armeno Arusyak Julhakyan alla sessione plenaria dell’Assemblea parlamentare del Consiglio di Europa (APCE).
“Le donne armene cadute nelle mani delle forze armate azere sono state vittime del trattamento più degradante e disumano. Tutte le prigioniere sono state spogliate fino al seno e lasciate sul campo di combattimento con il petto nudo”, ha detto.
“In uno dei video il corpo di una donna completamente nuda è stato posto come un trofeo sopra il resto dei cadaveri vicini. I suoi seni e genitali sono stati portati nudi come spettacolo per i testimoni. Gli autori hanno lasciato un messaggio “YAŞMA” sul suo petto, che è un nome in codice per le forze azere appositamente addestrate, e salterò tutti gli altri dettagli orribili”, ha aggiunto il parlamentare.
“Le riprese e la diffusione di tali operazioni sui media sono fatte per la valutazione pubblica e l’orgoglio. Gli autori avevano evidentemente intenzione di lasciarlo come messaggio agli osservatori, poiché questi video sono stati visti non solo dal popolo armeno in generale, ma anche dai tre figli di questa soldatessa, causando loro inutili sofferenze e dolore. E vale la pena ricordare che il corpo di questa donna soldato non viene consegnato alla parte armena da molto tempo”, ha aggiunto Julhakyan.
“Il video di cui parlo è una prova concreta di un grave crimine di guerra crudelmente commesso dalle forze armate azere e attribuibile all’Azerbajgian. La grave violenza degli autori è oltre ogni immaginazione. Inoltre, questi raccapriccianti crimini sono seguiti da azioni che dimostrano un estremo cinismo basato sull’odio contro l’etnia armena. Questa violenza non è solo basata sul genere, ma anche su base razziale”, ha affermato il deputato.
Julhakyan ha sottolineato che l’oltraggio alla dignità personale costituisce un crimine di guerra ai sensi del diritto penale internazionale e gli autori devono essere puniti, poiché l’impunità provoca nuovi crimini. “Quindi è necessario che l’Assemblea affronti la questione della violenza sessuale durante i conflitti armati”, ha affermato.

Quanti giorni devono ancora passare prima che gli USA. l’Unione Europea, la Gran Bretagna e altri Paesi decideranno di fermare gli aiuti militari e non all’Azerbajgian, di inviare aiuti umanitari all’Artsakh attraverso l’aeroporto di Stepanakert, di sanzionare i criminali di guerra dell’Azerbajgian?

BP ha un crescente problema con l’Azerbaigian
di Michael Rubin [*]
Washington Examiner, 23 gennaio 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Proprio l’anno scorso, British Petroleum, o BP, l’ottava compagnia petrolifera e del gas più grande del mondo per fatturato, ha celebrato con orgoglio 30 anni di partnership con l’Azerbajgian. Rimane il più grande investitore straniero di quel Paese.

Mentre la società britannica si vanta del suo “investimento sociale” nel Paese, il vero beneficiario della partnership è stata la famiglia regnante dell’Azerbajgian. Heydar Aliyev, un ex ufficiale del KGB sovietico, era presidente quando la BP e l’Azerbajgian firmarono un accordo di condivisione della produzione per un importante giacimento petrolifero del Caspio. Suo figlio Ilham ha rilevato sia la relazione con BP che il Paese alla morte di suo padre due decenni fa. Per gli Aliyev, è stata una relazione redditizia. A partire dal 2021, il giacimento BP rappresentava il 95% delle esportazioni di petrolio dell’Azerbajgian. Ciò si traduce in ben oltre 10 miliardi di dollari all’anno, molti dei quali sembrano confluire nei conti privati o nella rete di imprese degli Aliyev piuttosto che nel bilancio pubblico. Per molti nell’industria petrolifera, questo è normale. Molti membri dell’OPEC sono antidemocratici. Le compagnie petrolifere fanno affari, non danno giudizi di valori.

Prove circostanziali suggeriscono che accanto alla partnership BP c’è stato un tacito accordo con il governo britannico per proteggere gli Aliyev. La famiglia Aliyev possiede proprietà per un valore di forse 700 milioni di dollari a Londra e ha speso decine di milioni in più per sostenere organizzazioni “culturali”. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il Regno Unito vota spesso a fianco della Russia e contro gli Stati Uniti per proteggere l’Azerbajgian dalla condanna della sua aggressione e delle violazioni dei diritti umani. Durante una riunione del Consiglio di Sicurezza il mese scorso per discutere del blocco dell’Azerbajgian delle forniture di cibo e medicine alla popolazione armena nel Nagorno-Karabakh, per esempio, un diplomatico azero si è vantato che la Gran Bretagna e la Russia hanno bloccato l’azione. La BBC, nel frattempo, ha fornito una copertura controfattuale per la propaganda azera nei documentari, alcuni dei quali prodotti con il supporto della BP e dell’Azerbajgian.

Quando si tratta dell’Azerbajgian, tuttavia, la protezione fornita dalla partnership BP potrebbe presto cambiare. Freedom House classifica l’Azerbajgian come uno degli Stati più repressivi del mondo e Transparency International lo classifica tra i più corrotti del mondo. La “diplomazia del caviale” che una volta ha acquistato i favori dei politici su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico porta sempre più a questioni di credibilità se non a rischi legali.

Il vero problema è che Aliyev agisce sempre più in modo irregolare. Segue un percorso tracciato da Saddam Hussein. A causa di un pio desiderio, dell’avidità o del desiderio geopolitico, i diplomatici sia a Washington che a Londra una volta descrissero Saddam come un moderato e trovarono delle scuse man mano che si distaccava maggiormente dalla realtà. Questo è venuto al culmine, ovviamente, quando non solo ha negato il diritto di esistere del Kuwait (come fa oggi Aliyev con l’Armenia), ma poi ha inviato i suoi militari ad agire secondo le sue ambizioni (come ora Aliyev minaccia di fare). Mentre Aliyev cerca di ripulire le notizie, la fame di 120.000 Armeni da parte di un importante cliente non è qualcosa che nessuna società britannica può ignorare. Il danno alla reputazione sarebbe semplicemente troppo grande. Anche se gli uomini d’affari fossero inclini a guardare dall’altra parte, i diplomatici britannici del XXI secolo non possono farlo.

In effetti, i diplomatici britannici coinvolti con l’Azerbajgian si comportano sempre più a disagio dietro le quinte e non fingono più di credere nei propri argomenti di discussione. Le posizioni sul Caspio di BP potrebbero aver portato grandi profitti, ma potrebbero presto dimostrare il motivo per cui i dittatori viziati possono essere una proposta perdente.

[*] Michael Rubin è un collaboratore del Washington Examiner’s  Beltway Confidential. È senior fellow presso l’American Enterprise Institute.

«Heydar Aliyev ha avviato trattative con compagnie occidentali sullo sviluppo dei giacimenti petroliferi in Azerbajgian. Il 20 settembre 1994, il governo dell’Azerbajgian ha firmato il Contratto del Secolo con le maggiori società petrolifere e del gas: BP (Regno Unito), Amoco, Unocal, Exxon, McDermott e Pennzoil (USA), Lukoil (Russia), Statoil (Norvegia) e Società Petrolifera Statale della Repubblica di Azerbaigian (SOCAR), TPAO (Turchia), Delta Nimir (Arabia Saudita) e Ramco (Scozia) per lo sviluppo su larga scala dei giacimenti Azeri-Chirag-Gunashli nel settore azerbaigiano del Mar Caspio. Questo accordo ha avuto un ruolo eccezionale nell’attrarre investimenti e nello sviluppo dell’industria del Paese. Il professore dell’Università di Harvard, David King, nota anche che Heydar Aliyev ha contribuito al miglioramento dell’economia dell’Azerbajgian. Tuttavia Aliyev ottenne considerevoli risultati nella sua politica volta ad attirare investitori internazionali soprattutto nell’industria petrolifera azera che deteneva il controllo della maggior parte delle risorse di gas e petrolio del Mar Caspio. Nel 1997 Aliyev firmò un contratto milionario con il consorzio internazionale petrolifero Azerbaijan International Operating Company (AIOC). Fu anche promotore del controverso progetto di due miliardi di dollari dell’Oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan per il trasporto di petrolio greggio da Baku a Ceyhan in Turchia, attraversando la vicina Georgia e aggirando l’Iran settentrionale e la Russia» (Wikipedia).

Ombre scure sul futuro del Caucaso
di Andrea Gaspardo
Difesa Online, 23 gennaio 2023

Mentre l’attenzione del mondo intero è concentrata sull’evolvere della Guerra Russo-Ucraina, nelle lande del Caucaso si sta consumando una crisi finora bellamente ignorata che, se dovesse concludersi nel peggiore dei modi, rischierebbe di mettere a nudo una volta per tutte tanto il pressapochismo dell’Occidente nell’affrontare questo tipo di conflitti quanto la plasticità dei sovente strombazzati a vanvera “valori universali” del medesimo; specialmente in questo caso in cui uno dei contendenti è fiancheggiato (utilizzo deliberatamente questo termine di allusione “mafiosa” perché di questo si tratta) da un Paese che formalmente fa parte della NATO ma che da anni lavora per crearsi un’area di egemonia che è completamente in antitesi con i più basilari interessi nazionali dell’Italia.

L’ho scritto un’infinità di volte e non smetterò mai di farlo: stiamo parlando della Turchia. Come dicevo poc’anzi, ci troviamo nel Caucaso e lo scenario è quello dell’ancora irrisolto conflitto del Nagorno-Karabakh, nel frattempo estesosi di fatto all’intero territorio della Repubblica di Armenia che, sotto la pressione congiunta turco-azera, rischia di scomparire dalla mappa geografica (e visti i trascorsi storici di poco più di un secolo fa, ciò ha l’alta probabilità di trasformarsi in un secondo Genocidio per il popolo armeno).

A partire dal 12 di dicembre del 2022, la parte residuale del territorio del Nagorno-Karabakh (anche noto come “Repubblica di Artsakh”) non ancora rioccupata dall’Azerbajgian a seguito della guerra del 2020 e dei successivi accordi di armistizio sponsorizzati dalla Russia, è sottoposta ad una sorta di “assedio” da parte di masse di manifestanti azeri che hanno bloccato l’unica strada di collegamento esistente tra essa e l’Armenia propriamente detta.

Ufficialmente le manifestazioni sono state descritte dalla stampa di regime azera come “ecologiste”, tuttavia è assai curioso che gli organizzatori abbiano scelto come palcoscenico per inscenare le loro proteste proprio il Corridoio di Lachin e non la penisola di Absheron che, dopo oltre un secolo di Storia dell’industria petrolifera locale è stata profondamente segnata dall’inquinamento chimico.

Inutile a dirlo, hanno ragione i maligni a ritenere che dietro a questa manovra di “guerra ibrida” ci siano le autorità di Baku che, con sapiente furbizia, utilizzano i cosiddetti “manifestanti” per mantenere alta la pressione sia nei confronti degli Armeni nagornini (circa 120.000 anime rimaste nei loro territori ancestrali nonostante la minaccia di annichilimento da parte delle autorità azere).

Singolare il fatto che la Turchia non abbia perso tempo a manifestare la sua totale vicinanza ai manifestanti ed allo stato azero. Scelta singolare per una “manifestazione ecologista” che non fa che accreditare ulteriormente i sospetti di quanti ritengono che il tutto non rappresenti altro che l’ennesima manfrina pilotata dal “satrapo” dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev.

Ancora una volta, l’autocrate di Baku si sta dimostrando un eccellente opportunista nell’organizzare crisi geopolitiche pilotate a suo esclusivo uso e consumo nel mentre il mondo è distratto da altre emergenze più o meno gravi e può destinare all’area caucasica solamente il “residuo” delle energie. È così in particolar modo per la Russia, de facto l’unico “protettore militare” dell’Armenia, la quale è attualmente impossibilitata ad intervenire nell’area caucasica perché costretta a concentrare tutti i suoi sforzi in Ucraina. Per non parlare dei vari Paesi occidentali (Italia tristemente inclusa) che hanno tutti preferito prendere una posizione sostanzialmente filo-azera sacrificando quei “valori occidentali irrinunciabili” che tanto vengono sbandierati quando si tratta di parlare di Ucraina e poi bellamente ignorati quando fa comodo.

La sfrontatezza degli Azeri e dei loro fiancheggiatori Turchi è poi tristemente agevolata anche dal fatto che, ancora scioccato dalla sconfitta militare del 2020, lo stato armeno fatichi ancora a formulare una nuova strategia di contenimento degna di questo nome mentre qualsiasi tentativo di riforma (a questo punto disperatamente necessaria!) delle Forze Armate Armene è stato sistematicamente silurato dallo stesso Primo Ministro Nikol Pashinyan che da anni sembra più impegnato a preservare pervicacemente il suo potere che non a proteggere il suo Paese ed il suo popolo dalle nubi scure che si stanno stagliano sopra le vette del Caucaso e non lasciano intravvedere nulla di buono per i prossimi anni.

Segnaliamo che, dopo 44 giorni, anche la Repubblica parla del #ArtsakhBlockade:

Nagorno Karabach, migliaia di armeni vivono una grave crisi umanitaria per il blocco del Corridoio di Lachin
La denuncia delle Organizzazione per i diritti umani. Manifestanti azeri bloccano una strada che collega l’Armenia con il Nagorno-Karabakh, regione contesa. Il passaggio interrotto impedisce l’ingresso di cibo e medicinali
la Repubblica, 24 gennaio 2023

Jean-Christophe Buisson, Vice Direttore Figaro Magazine, da sempre in prima linea alla difesa di Armenia, di Artsakh e degli Armeni, 24 gennaio 2023: «Ieri all’Eliseo, con in particolare Sylvain Tesson, Pascal Bruckner, Olivier Weber e Yourid Jorkaeff, ricevuti da Emanuel Macron, per chiedere alla Francia di venire in aiuto degli Armeni dell’Artsakh in pericolo dal blocco del Corridoio di Lachin da parte degli Azeri (44° giorno di blocco)».

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Nagorno Karabach, migliaia di armeni vivono una grave crisi umanitaria per il blocco del corridoio di Lachin (Repubblica 24.01.23)

ROMA – Dal 12 dicembre i manifestanti azeri bloccano il corridoio di Lachin, una strada montuosa di 32 chilometri che collega l’Armenia con il Nagorno-Karabakh, una regione contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian, nel Caucaso meridionale. Secondo il governo di Baku, si tratta di ambientalisti che chiedono le autorizzazioni per ispezionare le numerose miniere armene, considerate illegali, nella zona. Con il blocco del passaggio, però, i manifestanti stanno impedendo anche l’ingresso delle forniture di cibo e medicinali, causando una grave crisi umanitaria per gli oltre 120 mila residenti nella zona.

La storia del conflitto. La minuscola enclave montuosa del Nagorno-Karabakh ha proclamato la propria indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991. A livello internazionale è riconosciuta come parte dell’Azerbaigian, ma la sua popolazione è prevalentemente armena. Considerato fino a qualche anno fa come un “conflitto congelato”, oggi il processo di pace tra Azerbaigian e Armenia è sempre più complicato.

La posizione dei due paesi. Baku sostiene che il Nagorno è parte integrante dell’Azerbaigian e i diritti degli armeni che vivono in questa area sono garantiti in base a quanto stabilisce la Costituzione azera. Per l’Armenia il blocco del corridoio di Lachin costituisce una grave violazione dell’accordo raggiunto nel novembre 2020 con la mediazione della Russia, dopo un mese di combattimenti sanguinosi.

La guerra del 2020. Con il cessate il fuoco del novembre 2020 si stabilì che la zona del Nagorno dovesse essere controllata da duemila peacekeepers russi insieme al monitoraggio della Turchia, alleata storica dell’Azerbaigian. Baku è tenuta invece a consentire il passaggio di persone e merci in entrambe le direzioni. La guerra del 2020 ha causato la morte di oltre settemila persone e si è risolta con la ripresa, da parte di Baku, del controllo di gran parte della regione.

La crisi umanitaria. Da più di un mese i rifornimenti di cibo non riescono a entrare nel Nagorno-Karabakh. La connessione a Internet è sempre più lenta e l’elettricità va a singhiozzo, raccontano gli abitanti di Stepanakert al corrispondente di France24. Ruben Vardanyan, capo del governo di questa piccola enclave separatista, ha istituito una unità di crisi per fronteggiare la situazione. La corrente viene tagliata quotidianamente per almeno quattro ore, la maggior parte delle scuole ha chiuso e così molte imprese, perché non possono lavorare senza energia. Sono più di 700 le aziende che hanno dovuto sospendere le attività e più di 3400 le persone che hanno già perso il lavoro.

La questione del gas. L’accesso all’approvvigionamento del gas è diventato un percorso a ostacoli, in una regione dove le temperature scendono anche di dieci gradi sotto lo zero. Il gasdotto che fornisce il Nagorno è controllato da Baku e le autorità di Stepanakert hanno accusato l’Azerbaigian di avere interrotto le forniture il 13 dicembre. Forniture che però sono state ripristinate dopo tre giorni grazie alle pressioni internazionali.

La denuncia delle Organizzazioni per i diritti. Tra le organizzazioni internazionali solo la Croce Rossa è riuscita a entrare nel Nagorno-Karabakh per soccorrere una quarantina di cittadini che sono stati trasferiti negli ospedali di Erevan in gravi condizioni. In una nota scritta a dicembre Human Rights Watch avvisava che il blocco prolungato del corridoio di Lachin avrebbe potuto causare una crisi umanitaria disastrosa. Amnesty International invece chiede la piena libertà di movimento. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha lanciato un appello in cui chiede la riapertura del corridoio e così anche l’Istituto per la Prevenzione del Genocidio, che mette in guardia sul rischio di pulizia etnica nella regione.

Il mondo della Politica. Il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione in cui ha chiesto all’Azerbaigian di riaprire immediatamente il corridoio e di consentire l’ingresso nella zona sia alle organizzazioni umanitarie che a una missione conoscitiva delle Nazioni Unite e dell’OSCE. L’altra richiesta è che il corridoio venga controllato da forze di pace internazionali. L’intervento dell’UE è stato sollecitato dall’Armenia, ma non è andato giù al governo azero, per il quale un monitoraggio europeo sul lato armeno e senza il consenso di Baku non solo non migliorerà le condizioni di sicurezza ma complicherà ulteriormente il processo di pace.

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