“Armenia cristiana e fiera”: il saggio di Dell’Orco sul paese delle pietre urlanti (Barbadillo 10.12.20)

Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Idrovolante un estratto del libro “Armenia cristiana e fiera” di Daniele Dell’Orco (pp.175, euro 20), edizioni Idrovolante (qui il link per acquistarlo).

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Il viaggio alla scoperta degli angoli più remoti dell’Armenia non è solo storico, politico e sociale.
Finisce per diventare, volenti o nolenti, un pellegrinaggio.
Vallata dopo vallata, canyon dopo canyon, specchio d’acqua dopo specchio d’acqua ci si avvicina sempre di più alle radici della cristianità. L’Armenia, come detto, è stato il primo paese al mondo ad adottare il cristianesimo (nel 301, basti pensare che il famoso Editto di Costantino che faceva cessare le persecuzioni dei cristiani è del 313, anche se studi più recenti ritengono che fosse una specie di attuazione di misure contenute nel precedente editto di Galerio del 311, mentre l’adozione del Cristianesimo come religione di stato nell’Impero Romano avvenne quasi un secolo più tardi, nel 391 durante il regno di Teodosio I), e alla spiritualità questo fiero popolo caucasico, che ha conosciuto nella storia la grandezza di un impero che si estendeva fino a Gerusalemme, non ha mai rinunciato.
Nel corso dei secoli l’Armenia è stata dominata, conquistata, distrutta, messa in ginocchio in tutti i modi possibili.
Ma ovunque si guardi capita ancora oggi di posare gli occhi su di un qualche khatchkar, una croce scolpita nel tufo discendente dai menhir (monoliti verticali).
In tutto il paese se ne contano almeno 30mila.
Il khatchkar più antico di cui si ha notizia risale al IX secolo, periodo in cui il paese visse un ritorno della propria fede dopo la liberazione dal dominio arabo, ma il periodo il cui l’arte di scolpire i khatchkar ha raggiunto il suo apice è quello che va dal XII al XIV secolo, fino all’invasione dei Mongoli.
Più tardi, tra il XVI e il XVII secolo questa forma d’arte ha vissuto una seconda primavera, senza però mai raggiungere le vette artistiche toccate in precedenza.
Normalmente raffigurano, al centro, la “croce fiorita” armena. Ma le varianti sono infinite.
I khatchkar, immancabili in quasi tutti gli edifici religiosi, potevano essere offerte votive, monumenti funerari o commemorativi. L’unico obbligo era, come per i monasteri, di essere orientati ad Occidente. Poi per il resto la fantasia faceva e ha sempre fatto il suo corso.
Ma c’è anche un significato più “civile”: i khatchkar sono stati intagliati nel corso dei secoli certamente da fini scultori, ma anche da persone semplici, contadini, artigiani, pastori.
Nella tradizione armena ogni padre, a cui era nato un figlio maschio, scavava dalla montagna un blocco di tufo alto anche più di due metri e lo scolpiva con cura e pazienza per lungo tempo per poi collocarlo in un punto visibile, come messaggio di concretizzazione della preghiera e soprattutto a dimostrazione che l’uomo quando non può pensare o pregare, lavora.
In tempi anche piuttosto recenti può capitare che, in occasione dell’inaugurazione di un nuovo ponte che evita ore o giornate di viaggio per raggiungere la riva di un fiume o la pendice di una vallata c’è sempre qualcuno che infigge un nuovo khatchkar nel terreno.
I khatchkar portano incise croci nude, senza il Cristo, a testimonianza che il figlio di Dio non è morto ma è salito al cielo
Attorno alla croce sono intagliate allegorie di foglie o frutti a rappresentare la continuità della vita anche dopo la morte.
Come detto, in Armenia i khatchkar sono dappertutto, ma i più belli si trovano in prossimità delle centinaia di monasteri posti un po’ ovunque, fin negli angoli più remoti della natura più selvaggia.
C’è un luogo speciale, però, che vale la pena di essere raccontato. A Noratus si trova un cimitero medievale nascosto tra vie sconnesse e abitazioni fatiscenti. Dopo la conquista, e conseguente distruzione, di Julfa ad opera degli azeri
Sono almeno 1000, sorvegliati a vista dall’anziana che mentre rende omaggio ai cari mi spiega che il corpo dei defunti, posto con i piedi alla base della croce, dovrà vedere il sole che sorge non appena si risveglierà dalle tenebre.
Tutt’intorno, diversi khatchkar sono circondati da pezzi di vetro. Non per incuria, ma per tradizione. Una storia molto popolare a Noratus narra di un monaco del XIX secolo di nome Ter Karapet Hovhanesi-Hovakimyan.
Viveva nel Monastero vicino al villaggio e conduceva le cerimonie di sepoltura proprio nel cimitero. La distanza da colmare, tuttavia, era considerevole.
E, stanco di ripetere il tragitto, fece costruire una cella scavata a Noratus per poterci rimanere.
Quando ebbe ormai 90 anni, chiese agli altri monaci del suo Monastero di essere seppellito vivo nella sua cella. Le sue ultime parole furono: “Non temo la morte. Vorrei che anche voi non ne aveste paura. Non temete mai nulla, ma solo Dio. Che chiunque abbia paura venga da me. Versi acqua sulla pietra della sepoltura, ne bevva, se ne versi sul viso, sul petto, sulle braccia e sulle gambe. Infine, rompa pure il vaso con l’acqua e la paura lo abbandonerà”.
Queste lapidi intagliate, che dicono molto del censo, dell’età e della storia di vita dei proprietari, fanno impressione se viste da lontano perché sono così fitte, così imponenti pur nella loro irregolarità, così ordinate come fossero dei ranghi serrati, da sembrare un esercito di pietra.
Fu questa la visione che si parò di fronte agli occhi del grande condottiero turco-mongolo Tamerlano, il Conquistatore, considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia.
Era considerato il leader più potente del mondo islamico dopo la sconfitta dei Mamelucchi egiziani e siriani e del primo Impero ottomano.
Si riteneva l’erede di Gengis Khan (com’è scritto sulla sua tomba nel mausoleo di Samarcanda) e credeva di poter riportare in vita l’impero mongolo.
Tamerlano segnò al tempo stesso il culmine e il declino delle grandi invasioni dei cavalieri nomadi in Asia e in Europa.
Condusse campagne in tutta l’Asia occidentale, meridionale e centrale, nel Caucaso e nelle regioni meridionali della Russia.
Quando il suo esercito si avvicinò a Noratus, gli abitanti del villaggio erano sensibilmente inferiori come numero ed equipaggiati in larga parte solo di forche e bastoni. Ma non erano ancora pronti ad accettare la sconfitta. Così, secondo la leggenda, decisero di ricoprire di lenzuola tutti i khatchkar e di “armarli” con elmetti, asce e spade.
Quell’inaspettato mare di soldati pronti ad affrontare i mongoli spada sguainata colse di sorpresa Tamerlano, che pure era un implacabile distruttore di eserciti nemici e delle città che gli si opponevano, a ritirarsi senza indugio.
Tornò settimane dopo, meglio equipaggiato e deciso stavolta a saccheggiare la città ad ogni costo.
Ovviamente ci riuscì in pochi minuti.
Ma gli abitanti di Noratus, ancora oggi, raccontano questa leggenda per far capire cosa rappresentano per loro le sacre pietre del cimitero: l’atto di rimanere in piedi, persino contro un nemico imbattibile, che li ha temuti foss’anche solo per un giorno.

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Armenia, il nunzio Bettencourt: “Ho portato il saluto e la solidarietà dal Papa” (Acistampa 10.12.20)

EREVAN , 10 dicembre, 2020 / 6:00 PM (ACI Stampa).-
Quattro giorni in Armenia per il nunzio Bettencourt, per visitare le attività cristiane, parlare con il Catholicos della Chiesa Apostolica Armena, ma anche con il presidente e il ministro degli Esteri, e dare speranza ai profughi del Nagorno Karabakh. All’indomani del conflitto con l’Azerbaijan, concluso con un doloroso accordo che cede molti territori a Baku e mette a rischio lo storico patrimonio culturale cristiano nella regione che in armeno è chiamata Artsakh, l’arcivescovo José Bettencourt, nunzio in Georgia e Armenia, con sede a Tbilisi, ha portato il saluto e la solidarietà del Papa ad una popolazione ancora scioccata.

E, in fondo, la Santa Sede è sempre stata vicina al popolo armeno. Proprio durante i cinque giorni di viaggio del nunzio, l’arcivescovo Khajag Barsamian, delegato della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, ha incontrato il Pontificio Consiglio della Cultura la scorsa settimana, e con il Cardinale Ravasi e l’arcivescovo Tighe ha parlato proprio della preservazione del patrimonio cristiano in Artsakh.

Ma quali sono state, nel dettaglio, le tappe del nunzio? ACI Stampa ne ha parlato direttamente con l’arcivescovo Bettencourt.

Perché era importante che il nunzio fosse presente in Armenia?

È dovere di ogni Nunzio visitare le Chiese particolari e i Paesi che gli sono affidati. Solitamente visitavo l’Armenia una o due volte al mese. Ma in questo ultimo periodo, ed esattamente dal marzo passato, non ho potuto recarmi nel Paese a causa delle frontiere chiuse tra la Georgia e l’Armenia per l’emergenza sanitaria. L’Armenia è uno dei Paesi che più sono stati colpiti dalla pandemia. Per me è stato un grande sacrificio non potermi incontrare con questi fratelli durante i mesi passati, ma ne ero totalmente impossibilitato. Alla prima occasione che ho avuto, pertanto, mi sono recato in Armenia, soprattutto all’indomani della fine delle ostilità armate, per portare il saluto e la solidarietà del Santo Padre.

Durante la sua visita, ha anche incontrato i rifugiati dal Nagorno Karabakh. Quale è la situazione attuale?

Sin dal primo giorno, arrivando all’ospedale cattolico di Ashtots e a Spitak presso le Suore di Madre Teresa, mi sono imbattuto in questa triste realtà dei rifugiati, dei feriti e dei caduti nella recente guerra. Molte famiglie vivano profondi drammi legati alla morte dei giovani figli o a irreversibili danni danni alla salute dei soldati divenuti disabili. È forza lavoro che viene a mancare nella già fragile e precaria situazione economica armena e tante famiglie non hanno i mezzi per accedere a cure mediche adeguate. Ho ascoltato dai religiosi storie cruente e crudeli di violenza e di odio.

Quando c’è stato l’incontro con i rifugiati?

Domenica, dopo la Santa Messa celebrata nella cattedrale armeno cattolica di Gyumri ho avuto la possibilità di incontrare alcune famiglie profughe dalle regioni di guerra. Ho visto sui loro volti il dolore di padri e di madri che ogni giorno lottano per dare un futuro di speranza ai loro figli. Erano presenti anziani e neonati, diverse generazioni accomunate da una tragedia. Il numero dei profughi è incerto, ma si tratta di migliaia di persone. A quanto mi dice l’Arcivescovo Minassian, al momento ci sarebbero almeno 6000 orfani, bambini che hanno perso uno dei due genitori durante il conflitto. La sola comunità cattolica di Gyumri e le Suore Armene dell’Immacolata Concezione hanno accolto un gran numero di famiglie, garantendo loro un tetto e il necessario per la vita quotidiana. Il tutto, ovviamente, si rende possibile grazie all’aiuto fraterno proveniente dalla Caritas Internationalis, da altre Caritas nazionali e da varie Organizzazioni umanitarie cattoliche.

Quale è il ruolo che la Chiesa cattolica sta avendo in questo periodo di crisi in Armenia?

Oltre il servizio di carità, la Chiesa cattolica vuole innanzitutto veicolare la speranza verso questi Popoli. Il Santo Padre, in prima persona, durante i 44 giorni di conflitto per ben 4 volte ha elevato un accorato appello per la pace nel Caucaso e ha invitato la Chiesa universale a chiedere dal Signore il sospirato dono della fine dei conflitti. Molte Conferenze Episcopali ed altre Associazioni ed Agenzie umanitarie cattoliche, accogliendo l’invito del Pontefice, hanno promosso una serie di iniziative a benefico di queste popolazioni, così come hanno riportato i media cattolici di tutto il mondo.

Nell’agenda dei suoi quattro giorni in Armenia c’era anche un incontro con il Catholicos Karekin II, patriarca della Chiesa Apostolica Armena. Cosa sta facendo oggi la Chiesa Apostolica Armena e in che modo può collaborare con la Chiesa Cattolica?

Ho incontrato il Patriarca ed ho subito avvertito la sofferenza del Pastore, che “con-patisce” con il suo popolo. Si tratta di una sofferenza profonda, palpabile anche nei tratti fisici del Patriarca, che difficilmente un non-armeno potrà comprendere fino in fondo. La prima “collaborazione”, ovviamente, è quella della preghiera e della mobilitazione delle coscienze di ogni uomo di buona volontà, ad iniziare da coloro che la Provvidenza ha messo a capo di popoli e nazioni, perché vengano promossi percorsi di pace.

Durante il suo viaggio, ha avuto diversi incontri istituzionali, e in particolare con il presidente Sarkissian e con il vice ministro degli Esteri. Quale pensa potrà essere la via di uscita alla crisi?

Ho avuto modi di incontrare il Presidente della Repubblica, per quasi un’ora, ed il Vice Ministro degli Affari Esteri, dato che il nuovo titolare del Dicastero si trovava all’estero per incontri istituzionali. Da ambedue le Autorità è emersa la difficoltà del momento presente, una difficoltà a lungo raggio che investe sia il mondo politico che quello sociale. Il “cessate il fuoco”, siglato il 10 novembre, è soltanto l’inizio per un accordo di pace, che risulta essere difficile e precario per tutto quanto ancora irrisolto resta sul terreno delle trattative. Certamente la Comunità Internazionale è chiamata a svolgere un ruolo protagonista. Nei prossimi giorni si riunirà il “Gruppo di Minsk” (composto dai rappresentanti degli USA, Francia e Russia) che dovrà mediare tra le Parti belligeranti per cercare di trovare, per quanto possibile, dei “compromessi” atti ad abbassare la tensione. L’unica uscita è quella diplomatica con il pieno sostegno della Comunità Internazionale.

Cosa si sta facendo per salvaguardare il patrimonio culturale del Nagorno Karabakh?
Certamente tutti, ad iniziare dalla Santa Sede, sono coscienti dell’ineguagliabile patrimonio artistico e culturale che i millenari monumenti del Nagorno Karabakh testimoniano. Le loro pietre sono “vive” e ci parlano di storia, di civiltà e di fede presenti in quei territori, che hanno avuto stretti legami con la Terra Santa. Siamo speranzosi che tutte le Parti coinvolte faranno tutto il possibile per custodire e salvaguardare detto patrimonio, che appartiene non solo ad una nazione, bensì’ all’intera umanità, tanto da essere sotto la tutela dell’UNESCO.

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Comunicato stampa: Nagorno-Karabak e offensiva contro gli Armeni abitanti nella regione (Padovanews 10.12.20)

Approvata all’unanimità nell’ultimo Consiglio Comunale del 30 novembre una mozione “bipartisan” sulla questione del Nagorno-Karabak e per la pace e l’autodeterminazione dei popoli firmata dai due vicepresidenti del Consiglio comunale Roberto Bettella e Ubaldo Lonardi.

La pandemia che da quasi un anno monopolizza l’attenzione generale e dei media in particolare rischia di far dimenticare che, in molte parti del mondo, la popolazione è afflitta non solo dall’emergenza sanitaria ma anche da guerre e violazioni dei diritti umani.

La mozione vuole riportare l’attenzione sui diritti di queste popolazioni e impegna il Sindaco a intervenire presso il Ministero degli Esteri perché l’Italia, di concerto con l’Europa, si attivi in particolare per porre fine al conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia che ha per oggetto il territorio autonomo del Nagorno-Karabak, abitato in prevalenza da Armeni.

E’ vero, ricorda la mozione, che il “cessate il fuoco” dello scorso 10 novembre, raggiunto con la mediazione della Russia, ha sospeso le reciproche ostilità sul terreno – che sono già costate numerose vittime anche civili – ma non si è fermata purtroppo l’offensiva contro l’identità culturale armena nella regione contesa.

La mozione chiede anche che il Sindaco si attivi con il Ministero degli Esteri affinché l’Italia applichi, nei confronti della Turchia (che sostiene militarmente l’Arzebaijan), quanto previsto dalla legge 185 del 1990 che vieta l’esportazione e il transito delle armi verso Paesi in conflitto armato.

La mozione è stata approvata all’unanimità dal Consiglio comunale, a conferma del particolare impegno che Padova ha sempre espresso a sostegno della pace e dei diritti degli uomini e dei popoli.

(Padovanet – rete civica del Comune di Padova)

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Mondo / Nogorno Karabakh : l’esodo degli armeni (Popolis 10.12.20)

La guerra in Nogorno Karabakh si è conclusa con una tregua firmata da Armenia e Azerbaijan e definita dal premier armeno, Nikol Pashinyan, “indicibilmente dolorosa per me e per il nostro popolo”.

Una decisione presa il 9 novembre, quando ormai non restava altra scelta: l’esercito azero era alle porte di Stepanakert, la capitale della regione. Da un punto di vista geopolitico il conflitto è stato vinto dall’Azerbaijan, che ha costretto gli armeni a lasciare i sette distretti del Karabakh per cui si combatteva e la storica città di Shushi. Gli accordi, inoltre, prevedono la costruzione di una via che collegherà l’Azerbaijan con l’enclave del Nakhchivan e la Turchia.

Paesaggio armeno
Paesaggio armeno

Le conseguenze. In questi giorni è in corso un grande esodo di armeni dalle aree che passeranno agli azeri. E non solo. Stanno circolando immagini che mostrano case in fiamme, bestie uccise e alberi tagliati dagli armeni, che non sono intenzionati a lasciare le proprie ricchezze agli azeri. Questo nonostante le rassicurazioni date dall’esecutivo di Ilham Aliyev, che ha escluso ritorsioni verso la popolazione che continuerà a vivere in quelle terre o che vi farà ritorno.

Monastero in pericolo. I simboli religiosi, come spesso accade nei conflitti, contano. E in questo caso ad essere a rischio è l’abbazia di Dadivank, costruita a partire dall’XI secolo e di grande importanza per la chiesa apostolica armena.

La struttura si trova nel territorio che passerà agli azeri e gli armeni si sono preparati facendo un ultimo pellegrinaggio e celebrando là dodici battesimi. Anche in questo caso il governo azero ha dichiarato che il sito sarà protetto, ma la paura è palpabile e la Russia ha già schiarato suoi uomini per evitare la distruzione del monastero.

La comunità internazionale. Resta ora da vedere come reagiranno gli altri paesi di fronte agli ultimi eventi. La Turchia aveva sostenuto l’Azerbaijan durante la guerra, ma è presto per capire tutti i dettagli: il parlamento di Ankara ha deciso che le sue forze si uniranno nella regione a quelle russe, ma Mosca sostiene che resteranno nei confini azeri. Nel frattempo la Francia si prepara a votare il riconoscimento del Karabakh (la votazione è prevista per il 25 novembre).

E in territorio europeo si sono registrati atti di razzismo, come attività vandaliche nel memoriale del genocidio armeno a Lione e minacce alla comunità armena in Germania.

L’articolo integrale di Daniele Bellocchio, “Nagorno Karabakh: la fine della guerra non è l’inizio della pace, può essere letto su Osservatorio Diritti.

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Armenia: Catholicos Karekin II chiede dimissioni premier Pashinyan, “per evitare ulteriori disagi, possibili scontri e tragiche conseguenze nella vita pubblica” (SIR 09.12.20)

Anche il Catholicos Karekin II, capo e patriarca supremo della Chiesa apostolica armena, chiede le dimissioni del premier Nikol Pashinyan. Lo ha annunciato il Catholicos stesso in un messaggio rivolto ieri a tutti gli Armeni in Patria e in diaspora e diffuso anche in lingua inglese. “Stiamo vivendo giorni duri di dolore, angoscia e ansia dopo aver sperimentato gli orrori della guerra. Abbiamo subito il martirio di migliaia di nostri figli; abbiamo subito la perdita di una parte significativa dello storico territorio dell’Artsakh; e abbiamo assistito alla più grande delle minacce esterne alla nostra esistenza”. “Una profonda crisi politica interna”, scrive il Catholicos, attraversa ora il Paese ponendo “nuovi pericoli” e “sfide serie” alle quali “è assolutamente necessario trovare una soluzione urgente”. Per questo motivo, il Catholicos ha incontrato personalmente il presidente della Repubblica, il presidente dell’Assemblea nazionale armena e rappresentanti di varie organizzazioni politiche e nazionali nella “convinzione condivisa da tutti” che la situazione di crisi debba essere “risolta in modo esclusivamente costituzionale, in condizioni di solidarietà nazionale e buon senso”. In questa prospettiva, Karekin II ha incontrato il primo ministro della Repubblica di Armenia, Nikol Pashinyan, invitandolo a dimettersi alla luce delle “crescenti tensioni interne, gravi sfide esterne e una minore fiducia dell’opinione pubblica”. “Chiediamo ora all’Assemblea nazionale dell’Armenia – scrive il Catholicos – di agire in modo responsabile in questo momento critico per la nostra patria: ascoltare gli appelli del popolo; eleggere un nuovo primo ministro in consultazione con i partiti politici; e formare un governo provvisorio di unità nazionale”. “Solo un governo del genere, composto da professionisti esperti che detengono la fiducia del pubblico, sarà in grado di risolvere i problemi che il nostro popolo deve affrontare, ripristinare la solidarietà e l’unità nazionali e organizzare elezioni parlamentari straordinarie che sono indiscutibilmente necessarie”. Il messaggio rivolge poi un invito a tutto il popolo armeno, alle autorità e ai partiti politici di “astenersi da parole e azioni che possono provocare violenza e seminare odio in questi giorni difficili. Come nazione, dobbiamo essere uniti per superare la crisi attuale”.

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Erdogan condanna il razzismo: un perbenismo a giorni alterni (Ilfattoquotidiano 09.12.20)

Il razzismo a giorni alterni e la grande contraddizione del sultano Erdogan. Dopo la partita di Champions’s League interrotta tra Psg e Basaksehir, il Presidente turco ha tuonato: “No a qualsiasi forma di razzismo, l’Uefa intervenga”.

Condivisibile il richiamo, visto l’episodio che ha coinvolto le parole offensive del quarto uomo, ma fa specie ad esempio il silenzio turco su altro razzismo che c’è stato in passato nei confronti dei curdi, o dei greci del Ponto, o degli armeni o dei ciprioti sulla cui isola, stato membro Ue, ci sono ancora 50mila militari turchi che occupano il lato settentrionale.

Si tratta di una sorta di perbenismo a giorni alterni, o meglio detto di convenienza, che viene brandito come una clava dal governo di Ankara solo per un proprio tornaconto elettorale e anche geopolitico. Il perché è presto detto e può essere spiegato con il metro della secca cronaca.

Le difficoltà economiche del sistema turco, con la lira che ha perso il 24% in un anno rispetto al dollaro, si sono sommate alle tesi della profondità strategica perseguite da Erdogan, che dopo aver ottenuto successi in Siria e in Libia punta ad allargare il proprio bacino di influenza nel dossier energetico pur in contrasto con leggi e trattati. Il Mediterraneo orientale è ricco di giacimenti di gas: Erdogan sta andando contro tutto e tutti pur di non restarne tagliato fuori.

Cosa c’entra allora il razzismo e il suo passato? I casi citati si intrecciano pericolosamente sull’asse economia-politica-società. Un rapido ripasso di storia recente può essere di aiuto in questa analisi.

Erdogan ha avviato una campagna contro i curdi per imporsi nel nord della Siria, a mio avviso utilizzando lo stesso metro di pulizia etnica usato contro armeni, greci del Ponto e ciprioti. Ma questa volta il silenzio della comunità internazionale è stato ancora più stridente: in Siria lo scorso anno è andato in scena uno spettacolo drammatico, con i curdi, già grandi alleati dell’Occidente nella lotta contro l’Isis, che sono stati attaccati da Erdogan con il consenso Usa.

Risalgono al 2015 le accuse della milizia curda siriana (Ypg) e del principale partito filo-curdo della Turchia (Hdp) contro la Turchia di aver permesso ai soldati dello Stato Islamico di attraversare il confine per attaccare Kobane. Secondo un rapporto pubblicato da Human Rights Watch nel 1993, “i curdi in Turchia sono stati uccisi, torturati e scomparsi a un ritmo spaventoso da quando il governo di coalizione del primo ministro Suleyman Demirel è entrato in carica nel novembre 1991”.

Stesso cliché contro Cipro, invasa nel luglio del 1974 in risposta ad un tentato colpo di Stato greco e da allora militarizzata e vandalizzata: tutte le chiese di culto diverso dal musulmano (ebraiche, ortodosse, maronite) sono state devastate o trasformate in stalle, bordelli o resort, come dimostra il volume fotografico “Monumenti religiosi nella parte di Cipro occupata dalla Turchia”, scritto da Charalampos Chotzakoglou, professore di Arte bizantina presso la Libera Università Ellenica.

Degli armeni si sa qualcosa di più anche grazie ad alcuni pregevoli libri che sono stati pubblicati anche in lingua italiana: il genocidio fa riferimento alle deportazioni ed eliminazioni di 1,5 milioni di armeni perpetrate dall’Impero ottomano. Il governo turco non ha mai riconosciuto il genocidio, anzi è punito con il carcere fino a tre anni chi in Turchia osi nominare in pubblico l’esistenza del genocidio, mentre una legge francese punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno.

Dopo la clava religiosa ecco quella del gas, che di fatto è diventato il nuovo metro della politica erdoganiana: Ankara contesta la Convenzione di Montego Bay sull’uso delle piattaforme marittime e il Trattato di Lisbona che delimitò le acque internazionali nell’Egeo dopo la prima guerra mondiale.

E’ alla luce di questo quadro storico che fa specie se non orrore sentire il Presidente turco dolersi giustamente per un episodio di razzismo nel pallone, ma non dire una parola su condotte di ieri e di oggi perpetrate dalla Turchia. E’ questo il razzismo a giorni alterni di Erdogan, e la sua grande contraddizione di cui l’Europa e le intellighenzie non intendono purtroppo occuparsi.

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Armeni in piazza contro il primo ministro: “Traditore” (Euronews 09.12.20)

L’opposizione ancora in piazza a Yerevan in Armenia per chiedere le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan. Quindicimila persone si sono radunate nella capitale, nei pressi del parlamento, al grido di “traditore”. Il primo ministro è colpevole di aver firmato una tregua svantaggiosa per l’Armenia alla fine di sei settimane di scontri con l’Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh, alla fine diversi distretti della regione sono stati ceduti a Baku; dal 10 novembre, da quando l’accordo è diventato operativo, la collera è montata e il popolo armeno l’ha espressa più volte, fino all’ultima manifestazione.

Anche la chiesa apostolica armena e tutti e tre gli ex presidenti del Paese si sono uniti alla richiesta di dimissioni di Pashinyan ma il primo ministro, imperterrito, mercoledì scorso ha detto in parlamento che la Nazione in questo difficile periodo ha bisogno di stabilità. Nel clima di generale tensione che regna in Armenia, anche il ministro della Difesa David Tonoyan ha rassegnato le dimissioni il mese scorso.

Gli scontri con l’Azerbaigian

Il territorio Nagorno-Karabakh si trova all’interno dello Stato dell’Azerbaigian ma è controllato dalla minoranza armena dal 1994. I nuovi combattimenti, iniziati lo scorso 27 settembre, segnano la ripresa peggiore delle ostilità dalla fine della guerra negli anni 90. Dopo settimane di scontri con centinaia di morti, anche con la mediazione della Russia, si è giunti a un accordo che è diventato operativo il 10 novembre. Diversi distretti della regione tornano sotto il controllo di Baku. In queste zone migliaia di armeni hanno abbandonato le loro case, a volte distruggendole prima della fuga. Gli azeri, che prima della guerra degli anni 90 vi abitavano, in molti casi sono tornati. Una forza di pace russa è presente sul territorio.

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Crisi politica dopo il conflitto in Karabakh. Anche il Patriarca Karekin chiede le dimissioni del governo (Fides 09.12.20)

Erevan (Agenzia Fides) – E’ meglio che l’attuale premier armeno Nikol Pashinyan abbandoni il suo incarico e il governo da lui guidato si dimetta, se si vogliono “evitare sviluppi traumatici nella vita pubblica e possibili conflitti con conseguenze tragiche”. E’ questo il consiglio rivolto allo stesso Primo Ministro armeno dal Patriarca Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni apostolici, davanti alla grave crisi socio-politica che sta travolgendo l’ex Repubblica sovietica. Nel Paese, disordini e proteste sociali e politiche contro l’attuale esecutivo sono dilagati dopo l’accordo siglato dal governo di Erevan che il 10 novembre ha posto fine all’ultimo conflitto nel Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena oggi inclusa nei confini dell’Azerbaigian. La firma del cessate il fuoco, avvenuta con la mediazione della Russia, è stata percepita da buona parte della popolazione e dei settori politici nazionali come una disfatta, destinata a rafforzare il controllo del governo azero sull’enclave armena (dove nel 1991 i leader locali avevano proclamato l’istituzione della Repubblica indipendente dell’Artsakh, non riconosciuta dalla comunità internazionale).
L’accordo raggiunto la tarda sera del 9 novembre ha posto fine a sei settimane di feroci combattimenti tra le truppe azere e quelle armene inviate da Erevan. Esso prevedeva il ritiro delle forze militari armene dal territorio azero, il ritorno degli sfollati alle rispettive aree di residenza e la dislocazione di truppe russe con funzione di “peacekeeper” in Nagorno Karabakh per i prossimi 5 anni. In Armenia, le manifestazioni contro il governo, alimentate dalle forze d’opposizione, sono iniziate la sera stessa della firma dell’accordo, presentato anche dal Presidente azero Ilham Aliyev come una vera e propria “capitolazione” di Erevan. “Adesso” riconosce il Patriarca Karekin nel suo pronunciamento, “l’opinione generale è che questa situazione delicata dovrebbe trovare la sua soluzione solo attraverso mezzi costituzionali, facendo prevalere la solidarietà nazionale e il buon senso”. Nel suo messaggio, Karekin ha chiesto all’Assemblea Nazionale “di agire in modo responsabile per la nostra patria in questo momento critico, di ascoltare le richieste del popolo, di eleggere un nuovo Primo Ministro in consultazione con le forze politiche, e di formare un governo ad interim”.
Nikol Pashinyan era a sua volta arrivato al potere sull’onda di proteste popolari che avevano portato alle dimissioni di Serž Sargsyan, il leader politico che aveva guidato il Paese prima come Presidente e poi (per pochi mesi) come Premier fin dal 2008, ora impegnato anche lui a richiedere a gran voce le dimissioni del suo successore. (GV) (Agenzia Fides 9/12/2020).

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Gli affari in Svizzera che hanno finanziato la guerra del regime azero (Repubblica 09.12.20)

È una delle società petrolifere più visibili e meglio posizionate in Svizzera. Nelle sue 200 stazioni di servizio, decorate dal suo logo con i colori della bandiera azera, Socar vende benzina, cioccolata e croissant. Dalla sua filiale commerciale di Ginevra, la società petrolifera di proprietà dello Stato azero vende sui mercati mondiali il greggio dell’Azerbaijan. Si tratta di attività pacifiche – solo che da più di due di mesi Socar è in guerra.

Una stazione di servizio della Socar© Fornito da La Repubblica Una stazione di servizio della Socar

Dall’Azerbaijan, la pagina Facebook della società riversa un fiume di propaganda e di messaggi ostili contro l’Armenia al riguardo del territorio conteso del Nagorno Karabakh: “Basta con il fascismo armeno! Stop all’aggressione armena! Il Karabakh appartiene all’Azerbaijan!”. Il tutto è integrato da fotografie di militari e carri armati, e corredato dei discorsi bellici dell’autocrate al potere a Baku, il presidente Ilham Aliev.

Che una società commerciale si trasformi in modo così radicale in uno strumento bellico è raro, come è raro che un’azienda statale straniera allacci rapporti così stretti con la Svizzera. In territorio elvetico Socar guadagna i tre quarti delle sue entrate, più che nello stesso Azerbaijan.

 

Due filiali determinanti in territorio elvetico

Nel 2019, Socar ha realizzato il 76 per cento del suo giro d’affari annuo di 44,5 miliardi di euro in territorio elvetico. Nel 2018 si era superata, arrivando all’84 per cento, secondo il bilancio contabile di fine anno dell’azienda. Il grosso di tali entrate proviene da due filiali. La prima è Socar Energy Switzerland GmbH: si trova a Zurigo, ha rilevato le stazioni di servizio Esso e dà lavoro a circa 800 dipendenti. Con la cooperativa Migros fa lavorare a pieno regime anche 56 negozi Migrolino di generi alimentari.

Più defilata, la filiale commerciale Socar Trading ha sede a Ginevra dal 2007: dà lavoro a un centinaio di dipendenti e si definisce la più grande società di petrolio azero nel mondo. Il suo giro d’affari nel 2019 è stato di 33,3 miliardi di euro. Secondo gli addetti ai lavori, è Socar Trading a realizzare il 95 per cento delle entrate complessive di Socar in territorio elvetico.

Tutto questo denaro finisce nelle casse dello stato a Baku. Le due filiali appartengono a una società madre controllata interamente dal governo dell’Azerbaijan. Il presidente di Socar e di Socar Trading a Ginevra, Rovnag Adullayev, per altro è un parlamentare. Il suo posto alla testa della società è più che strategico, tenuto conto che lo Stato azero ricava il 57 per cento di tutte le sue entrate dal petrolio, una vera e propria manna che gli ha permesso di investire in un esercito moderno, equipaggiato di droni turchi e missili iraniani. Dopo 45 giorni di guerra, sono queste le armi che hanno permesso all’Azerbaijan di riportare la vittoria contro gli armeni e di riconquistare buona parte del Nagorno Karabakh e dei territori adiacenti.

In che misura Socar contribuisce allo sforzo bellico azero? Circa il sei per cento del budget dell’Azerbaijan arriva direttamente da Socar e dalle sue filiali in Svizzera. Oltre a ciò, il 47 per cento delle entrate dello Stato arriva dal fondo petrolifero pubblico Sofaz. Lo spiega l’economista Gubad Ibadoghlu, che a Baku anima un think tank critico nei confronti del regime e che insegna all’Università Rutgers negli Stati Uniti.

 

Una società poco trasparente

Dei rapporti che intercorrono tra Socar Trading e il fondo Sofaz si conosce davvero poco. La filiale ginevrina vende il petrolio a beneficio del fondo? La società si è rifiutata di rispondere. Questa mancanza di trasparenza è tipica del settore petrolifero azero: così ha scritto Gubad Ibadoghlu in suo recente articolo, e questa opacità si traduce in un rischio elevato di corruzione. L’Azerbaijan, del resto, si colloca al 126esimo posto nella graduatoria di 198 Paesi analizzati per la loro corruzione da Transparency International. Nel 2017, Baku si è ritirata da EITI (Iniziativa per la trasparenza delle industrie estrattive), un’iniziativa che obbliga a rendere noti i guadagni che i Paesi realizzano grazie alle materie prime come il petrolio.

Secondo Gubad Ibadoghlu, questa stessa mancanza di trasparenza caratterizza anche Socar. Nel 2019, il gruppo ha dichiarato entrate per soli 650 milioni di dollari – “davvero troppo poco” dice l’economista, rispetto a un giro d’affari di 48 miliardi di dollari. Tra le altre cose, si ignora per esempio a quale prezzo la società madre a Baku venda il suo petrolio alla sua filiale commerciale a Ginevra.

La Svizzera, un mercato sperimentale

In confronto, gli utili delle 200 stazioni di servizio svizzere che portano il logo Socar sono indubbiamente modesti, ma Socar Energy Switzerland non rende noti nemmeno quelli. La filiale di Zurigo è in ogni caso tutt’altro che poco importante, perché è in Svizzera che Socar ha aperto le sue prime stazioni di servizio nel 2012. Il Paese, in pratica, le è servito da mercato sperimentale e l’azienda continua a diversificare le sue attività: ora vi sta installando, per esempio, le sue prime colonnine di ricarica per le automobili elettriche.  Il suo amministratore delegato, Edgar Bachmann, la descrive come una “società tipicamente svizzera” che “non si interessa di politica”.

Presso Socar, a Baku, al contrario si festeggiano i dipendenti dell’azienda reclutati dalle forze armate alla stregua di “eroi”. Alcuni collaboratori arruolati sotto bandiera azera hanno perfino scritto il nome Socar con le bombolette spray lungo le strade delle località riconquistate agli armeni. Si tratta di un gesto di sfida bellica, che contrasta con l’immagine di “società tipicamente svizzera” che Socar continua a coltivare dalla sua roccaforte elvetica.

(Copyright Tribune de Genève/Lena-Leading Eurpean Newspaper Alliance. Traduzione di Anna Bissanti)

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Akram Aylisli rompe il silenzio dopo cinque anni: «La mia voce libera» (Corriere della sera 08.12.20)

Oggi, in questi mesi di angosce, va oltre. «Ogni governo dice che tiene ai propri interessi nazionali. Non ci può essere niente di più dannoso. Ma quali interessi nazionali? Con questa pandemia poi non sappiamo dove sbattere la testa. E questo eccesso di amor proprio sta distruggendo l’umanità: l’idea che “il mio Paese è il più importante di tutti, il mio popolo è più grande degli altri”. Ecco, il vuoto genera pensieri del genere. Di quali interessi stiamo parlando? È tutto uno slogan, tutto un proclama: “Difendo l’interesse nazionale!”. A me pare una parodia, un’offesa in faccia a Dio, alla natura, all’umanità».

La copertina del romanzo di Akram Aylisli «Sogni di pietra» tradotto in italiano nel 2015 da Bianca Maria  Balestra per Guerini e Associati, con prefazione di Gian Antonio Stella
La copertina del romanzo di Akram Aylisli «Sogni di pietra» tradotto in italiano nel 2015 da Bianca Maria Balestra per Guerini e Associati, con prefazione di Gian Antonio Stella

Sta pagando cara questa sfida ai nazionalisti, l’autore di Sogni di pietra, dove narrava dei massacri contro gli armeni commessi nel paese degli avi (Aylis, nell’attuale exclave azera di Naxcivan) e più di recente in Azerbaijan. E lo racconta, sia pure in remoto, alla presentazione di Farewell, Aylis, «Addio Aylis», la trilogia uscita oltre due anni fa negli Usa e tradotta dalla poetessa Katherine E. Young. Trilogia che raccoglie appunto, con Yemen e Un fantastico ingorgo, quel magnifico libro mai tradotto in azero e edito la prima volta in Occidente nel 2015 da Angelo Guerini.

La copertina di «Addio, Aylis», la trilogia uscita negli Stati Uniti nel 2018 tradotta dalla poetessa Katherine E. Young per Academic Studies Press. Comprende «Sogni di pietra»,  «Yemen» e «Un fantastico ingorgo»
La copertina di «Addio, Aylis», la trilogia uscita negli Stati Uniti nel 2018 tradotta dalla poetessa Katherine E. Young per Academic Studies Press. Comprende «Sogni di pietra», «Yemen» e «Un fantastico ingorgo»

Di fatto è un prigioniero senza sbarre: «Nei miei confronti è stato disposto il divieto di espatrio. Non ho il diritto di lasciare Baku. La Procura mi ha ritirato la carta di identità e senza quella una persona è privata di tutti i diritti civili: non può partecipare alle elezioni, non può partecipare a un bel niente… Per legge aveva un anno di tempo, la Procura, per esaminare il mio caso. Ma pur essendo iniziato nel marzo 2016 il mio caso non è ancora stato esaminato». Di più: «Mi hanno tolto la sovvenzione presidenziale, la borsa assegnata dal presidente, il titolo di “scrittore del popolo”, tutti i riconoscimenti che avevo. Non poter uscire da Baku, privato dei documenti, mi fa male, malissimo… Anche sotto il profilo psicologico».

Cocciutamente inseguita dall’Harriman Institute della Columbia University (mai scoraggiata dalla cancellazione di altri appuntamenti online al punto di apparire ormai impossibile), lo sfogo è di fatto un’intervista collettiva in remoto con la traduttrice («Sono racconti pieni di realismo magico con un pizzico di folklore popolare, di “saggezza da villaggio”, moltissima ironia…»), il giornalista azero di Amnesty International a Washington Alex Raufoglu e il coordinatore del dibattito e delle domande dei lettori Mark Lipovetsky, docente negli atenei americani e autore di molti libri sulla cultura russa.

La libertà in questi tempi di clausure? «Non ho percepito queste privazioni perché di fatto non ricordo un momento in cui sono stato una persona libera, non mi sono mai sentito così: né a scuola, né all’università, né al lavoro. Un minimo di libertà l’ho sentita soltanto quando stavo alla scrivania. Quella libertà no, non me l’hanno tolta. Non possono toglierla a nessuno scrittore. Lo sapete bene quanto hanno terrorizzato gli scrittori sovietici, io me lo ricordo eccome, ma lo accetto, lo prendo come il mio destino, non certo come qualcosa di accidentale».

La letteratura? «Vivo di letteratura, perché in effetti di letteratura si può vivere. Dentro la letteratura c’è molto ossigeno, moltissimo. Forse più che là fuori, soprattutto in questo periodo di pandemia». Le accuse d’aver tradito la patria? «Vivo qui da sempre, e già dai tempi dell’Urss si diceva che tutti i miei libri, o molti, facevano danni all’Azerbaijan, al mio paese. Ma ci si abitua. Se per un solo secondo avessi creduto di aver davvero offeso con Sogni di pietra il popolo azerbaigiano, non avrei retto un giorno. Ma ero sicuro che non stavo offendendo il mio popolo: lo stavo aiutando. Se non ci credono cosa posso farci? Urlare a destra e a manca, come hanno fatto loro, di tagliarmi un orecchio? Sogni di pietra non l’ho scritto per gli armeni, ma per gli azeri. È nato dal desiderio che non crollassero tutti i ponti tra i nostri due popoli. È vero, siamo un popolo di origine turca però siamo un popolo caucasico, la nostra mentalità è caucasica. Non è turca né mediorientale: è caucasica. E la distruzione di queste radici dei popoli è peggio di una bomba atomica».

Chi ha preso le sue difese in Azerbaijan? «In generale gli intellettuali russi… Andrej Bitov, Viktor Erofeev…». Ma in Azerbaigian? «Soprattutto giovani letterati. C’è gente che capisce. Gli azeri sono un popolo tollerante, non cattivo. Non penso in realtà che nessun popolo possa essere cattivo o buono, gli azeri sono come tutti gli altri. Ci sono i buoni, i cattivi, quelli legati al potere. L’Unione degli scrittori per esempio… Ecco, loro no, non mi hanno ovviamente difeso».

Si aspettava più aiuti dall’estero? «E come potreste aiutarmi? Lo state già facendo, sono qui seduto e vi guardo nello schermo, vedo persone luminose e questa gioia mi basta, almeno per qualche giorno. Concretamente non saprei, molte organizzazioni volevano aiutarmi. La Norvegia mi ha offerto buone condizioni per trasferirmi lì, ma ho detto no perché qui prima o poi capiranno che io sono molto più azero di loro».

La sconfitta armena nel Nagorno- Karabakh? «Vede com’è finita. Il popolo armeno è traumatizzato. Vorrei che questo trauma scomparisse il più in fretta possibile, perché il popolo armeno resista con orgoglio e non si disperi. Ora, non voglio usare le parole del potere, ma anche gli azeri erano in grande disagio quando zone intere, grandi zone, erano sotto il controllo degli armeni. Vede, una cosa chiama l’altra, dal male si genera male…».

Com’è cresciuto tanto odio? «Odio… conosco pochi armeni che nutrano odio nei confronti degli azeri e neanche i miei migliori amici azeri odiano gli armeni. Ci sono momenti in cui è come se tutto ciò che c’è di positivo si ammutolisse e vengono in superficie persone la cui l’anima è intrisa d’odio. Ma la cultura ci ha uniti e continuerà a farlo, spero. Speranze nei politici non ce ne sono, la sola speranza è riposta nei valori eterni: la cultura, i nostri canti, le nostre danze… Del resto la cultura è fatta di una materia ben più solida della politica. La politica è transitoria, la cultura no».

Gli errori degli armeni? «Penso che non avrebbero dovuto seguire i politici in questo fanatismo patriottico che, in alcuni armeni non è certo da meno rispetto al fanatismo dei nostri leader azeri. Questo è un grande ostacolo alla risoluzione dei conflitti… In Armenia tantissime persone vorrebbero che l’Azerbaijan fosse un Paese meraviglioso culturalmente avanzato e dall’altra parte non credo che ci siano azeri che non vorrebbero veder l’Armenia risollevarsi e risolvere i suoi problemi. Ma non so, parlo in modo confuso… Sono sopraffatto dalle emozioni… Queste fratture, per me, sono personali».

Ragioni, torti, anime caucasiche: «Nei nostri modi di vivere c’è tantissimo in comune. Arrivo a dire che non esiste un popolo più simile e vicino a noi azeri di quello armeno. Azeri e armeni erano vicini, vicinissimi. Se un armeno incontra un azero gli chiede “sei turco o armeno?” e un azero chiederebbe a un armeno: “Sei turco o armeno?”. Voglio dire, anche fisicamente è difficile distinguerci».

Ma come dimenticare, in questa terra impastata nei secoli da popoli così prossimi e così lontani, certi silenzi? «Non so se uno scrittore armeno abbia scritto, per esempio, del massacro di Khojaly (contro gli azeri, ndr). Alcuni eventi, come appunto quella strage o il pogrom di Sumgait (contro gli armeni), non sono mai stati chiariti e qualcuno non vuole che sia fatta chiarezza una volta per tutte. Credo non ci sia una persona al mondo che abbia veramente capito che cosa è successo là. A Sumgait e a Khojaly che cosa accadde?».

C’è forse un po’ di rimpianto per i tempi in cui il Caucaso, («quel minuscolo pezzetto di terra sul pianeta») era una parte dell’impero sovietico multinazionale? «C’erano molte cose positive, per me, in Urss. Sono cresciuto in un villaggio, mio padre è morto al fronte. Mia madre, una giovane donna, era sola, con tre figli. Tutti e tre abbiamo potuto studiare, io sono andato a Mosca. Provi a pensare se adesso, da qui, qualcuno può andare da qualche parte a ricevere un’istruzione superiore: ora è impossibile. Ci aspetta un’ondata di analfabetismo, qui in Azerbaijan. Certo, forse i figli di qualche oligarca o funzionario studiano a Londra, o New York, ma non è gente del popolo. Ai tempi dell’Urss invece una persona comune poteva emergere. Ora no. È un mondo di trafficoni…».

Del resto, da quando il fanatismo nazionalista di Satana ha infettato tante parti del mondo… Eppure, dalla sua prigione senza sbarre nel Caucaso, Akram Aylisli manda via web parole di speranza: «Vi auguro la felicità e la salute, non ammalatevi in questa pandemia e state lontani dal male, in ogni sua forma. Tenete duro».

Bibliografia: le tragedie che il Caucaso ha vissuto nel Novecento

Un testo importante sulle tragedie vissute dal Caucaso, per via dei nazionalismi esasperati contro i quali si è battuto Akram Aylisli, è il saggio di Taner Akçam Killing Orders, appena edito da Guerini e Associati a cura di Antonia Arslan (traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e Alice Zanzottera, pagine 288, e 25). Il libro analizza una serie di documenti per dimostrare che non è possibile negare i propositi omicidi del governo turco verso gli armeni nel 1915, quando cominciò lo sterminio di un milione di persone. Sul conflitto tra armeni e azeri: Paolo Bergamaschi, Nagorno-Karabakh, la tregua fragile(Infinito Edizioni, 2018); Natalino Ronzitti, Il conflitto del Nagorno-Karabakh e il diritto internazionale (Giappichelli, 2014).

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