Daron Malakian è stanco di aspettare i System of a Down (Rollingstone.it 24.04.18)

Daron Malakian ha un disco nel cassetto da sei anni. E non aveva nessuna intenzione di pubblicarlo. L’ha registrato tutto da solo, l’idea era di farlo uscire con il monicker Scars on Broadway, il progetto parallelo che ha fondato durante l’hiatus dei System of a Down di inizio millennio; poi l’ha messo via quando la band ha deciso di tornare a suonare dal vivo, non si sa mai che quei pezzi potessero servire per una nuova uscita. Quando ha capito che non sarebbe successo, o almeno non a breve termine, allora ha deciso di pubblicarlo. La prossima estate

Devo essere sincero, è stato difficile», dice. «Essere paziente, è difficile». Dictator arriverà il 20 luglio, e Malakian è impegnato nella promozione del primo singolo Lives, dedicato ai sopravvissuti al genocidio armeno. “All of our lives we’ve put up a fight, all heroes have died”, canta nel suo stile vagamente operistico. “All of our lives we’ve known wrong from right, our people survived”.

«Sono armeno, e volevo fare qualcosa per il mio popolo – soprattutto perché il 24 aprile è il giorno in cui ricordiamo quegli eventi», dice del genocidio del 1915. «Si tratta di essere orgogliosi di chi è sopravvissuto, e non solo degli armeni. Vale lo stesso per tutti i popoli che hanno avuto una simile sorte, come i Nativi Americani».

La metà dei guadagni verranno devoluti per inviare kit di pronto soccorso ad Artsakh, una repubblica ai confini di Iran e Azerbaijan popolata principalmente da armeni. «Dovevano cessare il fuoco, ma il governo di Azeri non rispetta le regole, quindi molte donne e molti bambini soffrono nel mezzo del conflitto. Volevo fare qualcosa di utile per gli armeni che vivono lì», dice parlando della guerra tra Artsakh e l’Azerbaijan. «Un altro genocidio è più che probabile, e voglio accendere una luce su quello che sta accadendo, così che la storia non si ripeta».

Di cosa parla Lives?
Per me degli armeni che sono sopravvissuti al genocidio. Ho sempre sentito parlare delle vittime, visto foto di nonni e antenati con le teste mozzate. Volevo scrivere un brano che fosse una botta positiva al nostro morale, qualcosa di positivo per chi invece è sopravvissuto. Si tratta di un tributo alla strada che abbiamo percorso insieme, e credo che il video lo racconti molto bene.

Come l’avete girato?
Abbiamo inserito un sacco di balli tradizionali, a tempo con la canzone. Mio padre, oltre ad essere un artista – le cover di Mezmerize e Hypnotize sono sue – è stato anche un coreografo molto conosciuto, quando la mia famiglia viveva ancora in Iraq. La danza ha sempre fatto parte della mia vita, e mentre scrivevo il brano pensavo proprio a un video del genere, con quei costumi. Anche in questo caso è un modo per sentirci orgogliosi della nostra cultura. Quando la gente pensa agli armeni si ricorda solo del genocidio. Non voglio essere considerato una vittima per sempre, voglio che si vedano tutte le sfaccettature della nostra cultura. Il video serve a questo.

Avete suonato nella piazza di Yerevan, in Armenia, nel 100esimo anniversario del genocidio. Come ti sei sentito?
Come quando raggiungi il punto più alto della tua carriera di musicista. E sono sicuro che tutti gli altri ragazzi dei System la pensano allo stesso modo. Quello è stato un concerto incredibile e molto emozionante.

Torni spesso in Armenia?
No, ci sono stato solo una volta per quattro o cinque giorni. Ma è stato abbastanza per vedere i monumenti fondamentali, diciamo così. Devo dire che è stata un’esperienza particolarmente emozionante per me, i miei nonni sono nati lì ma sono fuggiti in Iraq per il genocidio. Ora sono morti, ma sentivo il loro spirito sul palco. Un momento molto emozionante.

Credi che Trump possa riconoscere il genocidio armeno?
No, non credo proprio. Gli Stati Uniti hanno una relazione molto forte con la Turchia. Una relazione politica, e quindi non possono permettersi di offendersi. Certo, ultimamente è venuta fuori qualche crepa: alcuni politici hanno riconosciuto il genocidio, ma non mi aspetto di più. Abbiamo bisogno di un alleato come la Turchia in quella zona.

Obama ha detto di riconoscerlo personalmente, ma non ha fatto molto di più.
Sì, e non è stato facile accettarlo, da armeno. Nel brano c’è un verso che dice “We are the people that were kicked out of history”. Parlo proprio di questo. Il genocidio non era su nessuno dei libri di storia che ho studiato da ragazzo, come se avessero cancellato un pezzo della mia storia. Per gli armeni è frustrante, ed è per questo che non riusciamo a guarire. Per questo ho scritto Lives.

Dictator. Ne parlavi già nel 2012.
L’ho registrato più o meno mentre i System ricominciavano a suonare dal vivo. Tutte le volte che scendevamo dal palco ci dicevamo: “Mah, forse è il momento di fare un altro disco”. E io aspettavo succedesse qualcosa: sono il principale autore della band, quindi non volevo buttar via tutta questa musica. A un certo punto ho capito che la confusione nei System mi impediva di esprimermi. Devo dire che è passato troppo tempo, e sono molto eccitato all’idea di far uscire roba nuova.

Ci sono brani più recenti del 2012?
No, risale tutto a quel periodo. Ho registrato il disco in circa 10 giorni, suonando tutti gli strumenti. Poi l’ho messo in un cassetto per sei anni (ride).

Come mai hai fatto tutto da solo? Nel precedente alla batteria c’era John Dolmayan alla batteria (dai System, nda).
La cosa migliore per me era fare le cose da solo. Mi sembrava più semplice, più comodo che assumere nuovi musicisti e spiegare a tutti le parti.

Non è strano far uscire il disco con sei anni di ritardo? Sarai cambiato molto in questo periodo.
Non ti nascondo che sono un po’ pentito dell’attesa. Uno dei miei rimpianti è proprio questo: non aver pubblicato niente per anni. Ma non è strano, è sempre la mia musica e non è così diversa da quella che sto scrivendo adesso. Ho già pronte alcune delle canzoni del prossimo album degli Scars, e stiamo facendo le prove. L’idea è di tornare in studio tra 4 mesi.

I System non registreranno più nulla in studio?
No, non abbiamo abbandonato l’idea. Semplicemente ora non siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Fidati, io sono il più grande fan dei System del mondo. Insomma, ho dato il nome al gruppo! (ride) Non vedo l’ora che succeda.

Siamo tutti amici, usciamo spesso insieme, suoniamo insieme dal vivo. Ci divertiamo. Fare un disco, però, è qualcosa di molto diverso. Serve uno spirito particolare, un impegno totale da parte di tutti, e al momento qualcuno non è pronto. E questa è la verità. Non posso costringere nessuno a fare qualcosa che non ha voglia di fare. Detto questo, il nostro rapporto è sano, rispettoso. Non c’è sangue amaro, non c’è nessuna faida interna. Siamo a punti diversi delle nostre vite e non tutti sono disponibili a dedicarsi alla band al 100%.

Si tratta di impegno o di divergenze creative?
Tutte e due le cose. Io non ho figli, gli altri sì, per fare un esempio. Non ci siamo mai detti: “Non succederà mai”, ma adesso è difficile.

I SOAD torneranno in tour quest’anno. Gli Scars on Broadway faranno lo stesso?
Al momento non è nei nostri piani, ma se dovessero venir fuori opportunità interessanti, come aprire per band importanti, coglieremo l’occasione. Sono molto aperto all’idea di un tour, ma per il momento non c’è niente in programma.

Sei un tipo discreto. Come passi il tuo tempo libero?
Scrivo. Ho tantissimo materiale. E una fidanzata con una famiglia. Negli ultimi anni mi sono dedicato completamente alla musica. Semplicemente non ho pubblicato niente, perché non sapevo cosa sarebbe successo con i System. Ho sempre esitato. Ma mi tengo impegnato con la scrittura. Sono il tipo di persona che continua a suonare anche senza far ascoltare niente a nessuno. Mi piace lo stesso, quindi lo faccio.

Hai suonato al concerto tributo per Chester Bennington dei Linkin Park. Non dev’essere stato facile…
Strano, direi che è stato strano, perché la sua voce veniva fuori dai monitor. Il resto della band era ancora molto provato. Mi è piaciuto molto collaborare con loro. Quello che è successo a Chester è stato uno shock, non me lo sarei mai aspettato da un tipo come lui. Era una persona che ti faceva sentire bene, che tirava su il morale. Anche Rebellion, che abbiamo scritto insieme, mi emoziona molto. E credo che anche lì ci siano sfumature dei System.

Come è cambiato il tuo stile di scrittura?
Nei primi anni dei System io e Serj Tankian eravamo in un’altra band, i Soil, ed è in quel periodo che è nato il nostro sound. I Soil, però, volevano suite di 7 minuti. Non erano nemmeno canzoni, erano liste di riff. Poi, a un certo punto, mi sono messo ad ascoltare i Beatles e Bowie, e ho capito che volevo comprimere quelle idee in canzoni, con ritornelli e tutto il resto. E così sono nati i System of a Down.

Volevo solo scrivere la musica che non trovavo nei negozi di dischi. Volevo una band perfetta, che facesse tutto. Puoi vedere i System come un gruppo metal, ma stilisticamente ci sono tante sfumature che non c’entrano niente, e non ho mai avuto paura di colorare il rock in modo assurdo. E c’è tanto umorismo, una cosa che non si fa quasi più. Non è facile, ma noi ci siamo riusciti. Non c’era musica come la nostra in giro, non ce n’era negli scaffali dei negozi di dischi. Ora, quando scrivo, mi viene così naturale…

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CALUSO. Dall’Armenia al Canavese, l’incredibile storia della famiglia Abagian (Giornalelavoe.it 24.04.18)

Giorgio Abagian, 74 anni, è un vivaista e floricoltore di Caluso. Il suo cognome è conosciuto in tutto il Canavese grazie alla solida reputazione dell’azienda da lui amministrata, i “Vivai Abagian”. Giorgio ha una storia familiare incredibile: sia il padre Ruben, fondatore dell’azienda, sia la madre Margherita erano armeni, e la loro vita, come scopriamo dal racconto di Giorgio, è strettamente legata al dramma del genocidio armeno, in cui persero la vita 1 milione e mezzo di armeni e che viene ricordato il 24 aprile.

Nonostante fossero entrambi armeni, i genitori di Giorgio si conobbero in Italia. Essi arrivavano da due regioni geografiche diverse: il padre Ruben era un armeno russo, mentre la madre Margherita era un’armena turca. Margherita visse in prima persona, quando era molto piccola, il genocidio e le lunghe “marce della morte” che lo caratterizzarono. Fortunatamente si salvò, e, grazie all’intervento di alcuni soldati statunitensi, poté rifugiarsi prima a Beirut, in Libano, e poi ad Alessandria d’Egitto. Qui rimase in un orfanotrofio fino al 1936, anno in cui emigrò in Italia per sposare il padre di Giorgio Ruben. Ciò avvenne grazie all’intermediazione dello zio di Ruben, un religioso che era a capo dell’orfanotrofio stesso. Questo zio era un prete che, dopo la rivoluzione bolscevica, aveva espresso delle critiche nei confronti del regime, inimicandosi così il governo sovietico. Si trovò costretto a fuggire, e riuscì a farlo grazie all’intermediazione di suo fratello, padre di Ruben e nonno di Giorgio. Come segno di riconoscenza per l’aiuto ricevuto, il prete diede la possibilità a uno dei figli del fratello di andare a studiare all’estero. Fu così che Ruben poté andare a studiare prima dai salesiani a Istanbul, dove rimase fino ai 17 anni, e poi in un seminario a Roma. Nonostante il percorso di studi religioso Ruben non sentiva però una vocazione per diventare prete; abbandonò dunque il seminario, e decise di andare a Torino, città in cui c’era una comunità di orfani armeni. Nel 1929 si spostò da Torino a Caluso, dove cominciò a lavorare duramente con un socio armeno. Nel 1936 venne raggiunto da Margherita: da quel momento i destini della famiglia Abagian rimasero intrecciati a quelli di Caluso. Nessuno in famiglia dimenticò tuttavia le radici armene: Giorgio stesso mostra di essere molto legato alle sue origini, al punto che nel corso della sua vita ha fatto numerosi viaggi fatti in Georgia, Siria e Armenia per andare a trovare i parenti sia paterni sia materni che sono stati rintracciati. Concluso il racconto di Giorgio è inevitabile pensare che la vicenda della sua famiglia sia straordinaria e unica nel nostro territorio. Essa merita di essere raccontata perché ci permette di conoscere più da vicino la storia del genocidio, tragedia di grande importanza storica che tuttavia è ancora poco conosciuta.

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Cremlino spera che in Armenia “rimarranno ordine e stabilità” (Askanews 24.04.18)

A Erevan prova di unità nell’anniversario del genocidio armeno

Mosca, 24 apr. (askanews) – Il Cremlino spera che in Armenia rimarranno l’ordine e la stabilità. Lo ha detto il segretario stampa presidenziale russo Dmitrij Peskov. “Ci auguriamo che nel paese sarà mantenuto l’ordine, la stabilità, e che al più presto possibile nel prossimo futuro ci sarà una configurazione politica, che sarà il consenso di tutte le forze che rappresentano il popolo armeno”, ha detto Peskov, commentando situazione a Erevan.

All’indomani delle dimissioni di Serzh Sargsyan il Paese ha dato prova di unità nell’anniversario del genocidio armeno: il massacro di 1,5 milioni di armeni sotto l’impero ottomano nel 1915.

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Armenia, dopo giorni di proteste si dimette il primo ministro (Tgcom24.it 24.04.18)

Dopo giorni di proteste, si è dimesso il primo ministro armeno Serzh Sargsyan. I manifestanti lo accusano di aver dato al governo del Paese una svolta autoritaria. Sargsyan è stato presidente per due mandati consecutivi e la legge gli imponeva di ritirarsi, ma era riuscito a farsi rieleggere grazie un referendum promosso da lui stesso. Ora l’Armenia ha detto basta e potrebbero esserci conseguenze nei rapporti con la Russia.

Il referendum Serzh Sargsyan è un volto più che noto agli elettori armeni. E’ ai vertici della politica fin da quando il Paese faceva ancora parte dell’Unione Sovietica. Il suo partito è quello Repubblicano, erede di fatto dell’ex partito comunista. Nel 2008 è stato eletto presidente per la prima volta, quando l’Armenia era ancora una repubblica semi-presidenziale. E’ stato riconfermato 5 anni dopo, raggiungendo così il limite dei due mandati. Ma quando Sargsyan ha sentito odore di ritiro, ha indetto un referendum per trasformare l’Armenia in una repubblica parlamentare e farsi eleggere primo ministro. Ha fatto in modo in sostanza di mantenere nelle sue mani la gran parte del potere politico. Ma i suoi piani non sono stati chiari fin da subito. Aveva promosso le riforme proposte come necessarie a rendere più democratico il Paese e soprattutto aveva assicurato che non si sarebbe candidato di nuovo. Con il 66% dei voti a favore, il partito Repubblicano vinse. Da Aprile sono ufficialmente entrate in vigore le nuove disposizioni, fra cui quella che l’elezione del nuovo presidente spetti al Parlamento, istituzione controllata dai repubblicani. Armen Sarkissian, uomo fedele a Sargsyan, occupa così la poltrona dal 2 marzo. Un mese dopo, Sargsyan si è fatto eleggere primo ministro, tornando al potere fino al 2022.

Le proteste Ma l’Armenia era stanca. Nella capitale, Yerevan, e in altre città importanti del Paese migliaia di persone si sono riversate in strada per dire no a un nuovo mandato di Sargsyan. Le proteste sono state organizzate dal partito di opposizione, che però, va ricordato, aveva in parte votato per l’elezione del leader repubblicano come primo ministro. Chi guida le proteste è invece da Nikol Pashinyan, membro di spicco del Congresso Nazionale Armeno, che già una volta si era opposto allo strapotere di Sargsyan e aveva dovuto scontare due anni di carcere.

Una “rivoluzione di velluto”Pacifiche, organizzate dal basso e che piano piano hanno coinvolto sempre più persone, fino a raggiungere circa 200 soldati appartenenti all’esercito armeno. “Rivoluzione di velluto”, l’ha ribattezzata Pashinyan, anche se i feriti sono stati 46. In questo modo hanno ottenuto il loro scopo. “Mi rivolgo ai cittadini armeni. Nikol Pashinyan aveva ragione. Io avevo torto“,ha detto infine Sargsyan in un comunicato. “Questa situazione richiede soluzioni, ma io non parteciperò. Lascerò l’incarico di primo ministro. Il movimento sceso per le strade è contro di me. Soddisferò le vostre richieste”. I manifestanti hanno accolto l’annuncio con applausi e balli.

I rapporti con la Russia La crisi armena, al di là di una vittoria per la democrazia, rappresenta anche un simbolico allontanamento dalla Russia, alla quale è sempre stata vicina anche dopo la fine dell’Urss. Proprio Sargsyan, ricorda il Post, nel 2013 aveva rifiutato di firmare un accordo di integrazione economica con l’Unione Europea, preferendo rimanere nell’orbita di Vladimir Putin. Ora bisognerà capire come il Paese deciderà di muoversi nei confronti delle due fazioni.


Anche gli Armeni si arrabbiano (il Foglio 24.04.18)

 


Armenia: il futuro dopo le dimissioni del premier (Blastingnews 24.04.18)

Una bella lavata di capo spetta agli osservatori pessimisti del Medio Oriente: il primo ministro Sergh Sargsyan [VIDEO] si è spontaneamente dimesso in seguito alle proteste che lo hanno coinvolto in tutto il paese. Il motivo? Aver ottenuto un secondo mandato, grazie all’approvazione di un referendum, proposto da lui stesso. Scelta politica, questa, che gli ha conferito un’aura di autoritarismo tale da vederlo criticato da tutti gli abitanti armeni.

Una rivoluzione di velluto

L’#Armenia ha dato prova di spirito democratico forte e veloce, in seguito alle concessioni che il premier attribuiva da tempo a sé stesso. A Yerevan, la capitale del paese, sono stati migliaia i cittadini a riunirsi in protesta contro l’eventualità di un secondo mandato.

Le manifestazioni, organizzate perlopiù dal principale partito d’opposizione e sostenute dai più influenti membri del Congresso Nazionale dell’Armenia, sono state un vero e proprio fulmine a ciel sereno per Sargsyan.

Fulmine che, va ricordato, è stato successivamente colto con saggezza. E se è vero che ai giorni nostri sia ancora la prassi vedere la conquista – o riconquista – di un sistema democratico tramite lo spargimento di sangue, esistono sempre eccezioni che, si spera, confermino la regola.

Non è un caso che i media abbiano nominato la situazione armena “rivoluzione di velluto”. Senza alcun tipo di scontro armato, il premier ha annunciato le proprie dimissioni lasciando spazio alle acclamazioni della folla: “Per risolvere la situazione sono necessarie soluzioni. Soluzioni alle quali io non prenderò parte.

Cosa accadrà ora?

Così come ogni rivoluzione – pacifica o meno -, la transizione di governo che segue lo stallo iniziale sarà una fase delicata per il popolo e per la stessa nazione. Non serve certo citare esempi di stati abbandonati a sé stessi in seguito al rovesciamento di un regime. Va inoltre tenuto da conto che l’Armenia, schiacciata tra Turchia, Iran e Russia, assume attualmente la forma di uno stato-cuscinetto, che potrebbe rischiare di essere oggetto di mire espansionistiche.

L’interrogativo principale risiede proprio con i rapporti con la Russia, alleata dello stato sin dal crollo del muro di Berlino. Del 2013 è, per esempio, la notizia secondo cui l’ormai ex premier armeno avesse rifiutato di firmare accordi economici con l’Unione Europea, col fine di rimanere sotto l’ala di Putin. I pareri, in una situazione simile, restano in ogni caso poco precisi. Mentre la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova esordisce con: ”Armenia, la Russia è sempre con te [VIDEO]!”, Leonid Kalashnikov del comitato della Duma sostiene di essere “ottimista e fiducioso circa le dimissioni di Sargsyan”.

In ogni caso, la cerchia politica russa si dichiara unanime nel sostenere che non ci saranno interventi interni all’Armenia: la scelta di un nuovo premier dovrà dipendere solo ed unicamente dal popolo. Una scelta saggia, che si spera venire messa realmente in atto da parte di tutte le grandi potenze. #ilSuperuovo

Armenia: soldi Ue alla discarica che sostituirà una foresta (Osservatoriodiritti.it 24.04.18)

Tre istituzioni legate all’Unione europea finanzieranno con 24 milioni di euro una nuova discarica in Armenia. Il progetto sembra nascere con tutte le attenzioni sanitarie necessarie, ma andrà a sostituire un programma di riforestazione messo in cantiere una decina d’anni fa e mai realizzato.

La situazione preoccupa gli attivisti armeni, che intravedono pericoli di corruzione e malagestione. Oltre a quello di un indebitamento eccessivo da parte delle casse pubbliche armene, che per restituire i soldi alle istituzioni europee potrebbero chiedere nuovi sacrifici alla popolazione.

Il terreno contestato: 30 ettari vicini alla capitale Erevan

La nuova discarica nascerà su un terreno di 30 ettari vicino all’attuale deposito che raccoglie i rifiuti di Erevan, la capitale armena. L’area si trova 12 chilometri a sud della città, vicino a Nubarashen.

Sin dagli anni ’60 la zona è diventata una grande discarica a cielo aperto che oggi, secondo i documenti ufficiali, raccoglie dai 6 agli 8 milioni di tonnellate di rifiuti, raggiungendo il massimo della sua capacità.

Nel corso del 2018 dovrebbe partire dunque la realizzazione di una nuova discarica, rispettosa delle norme sanitarie. Si tratta dello Yerevan Solid Waste Project (Progetto per i rifiuti solidi di Erevan), in cantiere dal 2011 ma mai realizzato fino ad ora, come denunciano gli ambientalisti armeni.

I prestiti delle istituzioni europee all’Armenia

Serviranno quasi 26 milioni di euro per realizzare la nuova discarica della città. Il progetto ha ricevuto nel 2015 un prestito da 8 milioni dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e la stessa quantità di soldi arriverà dalla Banca europea degli investimenti. Cifre a cui vanno aggiunti altri 8 milioni, una concessione della Neighbourhood Investment Facility che finanzia opere infrastrutturali nei paesi partner dell’Unione europea. A questi finanziamenti si aggiungono i costi di assistenza tecnica e implementazione dell’opera.

Un impianto che la Banca europea degli investimenti definisce ecologico ed efficiente dal punto di vista energetico, in grado di migliorare la salubrità dell’odierna raccolta dei rifiuti.

La discarica oggi: liquami e terreni inquinati

L’attuale discarica è uno spazio aperto, non controllato, esposto alle intemperie. Lo racconta a Osservatorio Diritti Sofia Manukyan, ambientalista specializzata nella violazione dei diritti umani in campo ambientale, che sta conducendo una battaglia di sensibilizzazione sul progetto di nuova discarica, che dovrebbe partire in questi mesi.

«L’acqua sporca e i liquami penetrano nel terreno perché l’area che raccoglie i rifiuti non è stata isolata dal suolo».

Sofia Manukyan si riferisce a una zona attualmente coperta di rifiuti. La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo definisce le attuali condizioni del sito di Nubarashen come pericolose, sia dal punto di vista sanitario sia ambientale.

La nuova discarica, almeno sulla carta, dovrebbe rispettare le regole di salubrità previste da questi impianti: isolamento dal suolo, recinzioni e una copertura in grado di intrappolare i gas emessi dai rifiuti solidi. «In questo senso sarebbe un miglioramento rispetto alla situazione attuale», sostiene l’ambientalista, che sottolinea come dovrebbe migliorare anche la condizione dell’area che oggi è sepolta dai rifiuti.

Il nuovo progetto, secondo le carte ufficiali, punta a ridurre la presenza degli animali portatori di malattie, come topi e insetti, e alleviare i rumori e gli odori provenienti dai rifiuti. Il progetto dovrebbe trovare soluzioni anche per le aree già inquinate, in particolare acque superficiali e terreno.

Malattie respiratorie e allergie: i danni alla salute

Nelle vicinanze della discarica sorgono alcuni centri abitati. La popolazione si lamenta del forte odore che arriva, portato dal vento. Alcuni abitanti hanno raccontato di soffrire di mal di testa e di altre malattie legate alla presenza dei rifiuti.

Nel documento di impatto sociale e ambientale per la realizzazione del nuovo impianto, si legge che il tasso di allergie tra i bambini e gli adulti è in aumento. In alcuni casi sono state riscontrate malattie respiratorie e asma.

Baracche e lavoratori della discarica

Attualmente ci sono persone che vivono del lavoro nella discarica di Erevan. Secondo le stime raccolte dai finanziatori si tratterebbe di circa 200 persone. Fanno il lavoro di smistamento dei rifiuti a mano e in alcuni casi guadagnano anche raccogliendo immondizia e rivendendola a piccole compagnie che si occupano del riciclo dei materiali.

Si tratta di famiglie che vivono in accampamenti di fortuna vicino alla discarica e che soffrono di malattie serie dovute alle precarie condizioni abitative. Il nuovo progetto prevede un programma di sfratti e di ricollocamenti, oltre alla garanzia di sicurezza per chi lavorerà nel nuovo sito.

Esiste una vera e propria economia intorno al sito di stoccaggio e la sua chiusura avrà conseguenze dirette anche sulle piccole aziende che vivono dell’indotto legato al riciclo di alcune materie prime.

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Che cos’è il genocidio armeno: le testimonianze (Notizie.it 24.04.18)

Il genocidio armeno, talvolta meglio conosciuto come l’olocausto degli armeni, rappresenta una delle pagine più tristi della storia mondiale. Con questo termine si fa riferimento al massacro della popolazione armena avvenuto per mano dell’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Questo massacrò causò ben 1,5 milioni di morti.

Il genocidio armeno

L’Impero Ottomano, negli anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale, era governato dai Giovani Turchi. Questi, per il diffuso timore che gli armeni potessero allearsi con i russi, decisero di organizzare delle vere e proprie marce della morte. Durante queste marce migliaia di armeni morirono di fame, malattie o addirittura sfinimento. Secondo molti storici queste marce rappresentarono una vera e propria anticipazione delle marce della morte che fecero i nazisti nei confronti degli ebrei deportati nei propri campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il pensiero di Gramsci

Anche Gramsci intervenne, nel lontano 11 marzo 1916, in merito a questo drammatico massacro.

Lo fece attraverso un articolo sul quotidiano “Il Grido del popolo” dove rivendicò la fondamentale importanza del giornalismo nel diffondere ogni storia per evitare che essa possa cadere nel dimenticatoio e per evitare una possibile ripetizione di questi drammatici massacri.

La situazione attuale

Questa situazione difficile non si è ancora risolta, anzi. Purtroppo ancora al giorno d’oggi la Turchia rifiuta totalmente di riconoscere la responsabilità del genocidio armeno. Ma non solo, è previsto anche il carcere per tutte le persone che lo nominano senza un giusto motivo. Questa posizione ha chiaramente avuto anche dei risvolti internazionali, sopratutto visto il possibile ingresso della Turchia nell’Unione europea. Uno dei paesi più importanti dell’Unione infatti, la Francia, ha una posizione diametralmente opposta a quella turca. I francesi infatti considerano reato punibile con il carcera la negazione di questo massacro. Anche il Parlamento italiano nel 1998 si occupò di questa drammatica situazione. Lo fece attraverso una mozione parlamentare sottoscritta da 165 parlamentare di vari partiti e che aveva come primo firmatario l’onorevole Giancarlo Pagliarini.

La posizione della comunità internazionale

A partire dal 1965 ben 29 Paesi di tutto il mondo hanno ufficialmente riconosciuto, attraverso delle mozioni parlamentare il genocidio degli armeni.

Molti di questi inoltre considerano reato la sua negazione. Ecco chi sono:

  • Argentina
  • Armenia
  • Venezuela
  • Stato del Vaticano
  • Austria
  • Brasile
  • Bolivia
  • Belgio
  • Svizzera
  • Svezia
  • Slovacchia
  • Italia
  • Germania
  • Lituania
  • Grecia
  • Canada
  • Bulgaria
  • Cipro
  • Cile
  • Siria
  • Russia
  • Paesi Bassi
  • Libano
  • Lussemburgo
  • Paraguay
  • Unione Europea
  • Francia

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Genocidio degli Armeni a Sant’Osvaldo (Ilfriuli 23.04.18)

La tragedia di un popolo, dai massacri hamidiani al genocidio degli armeni del 1915-1922 ai pogrom azeri del 1994. Ne parlerà domani, 24 aprile, alle 18 nella Casa delle Associazioni “Franca Venturini” in via San Pietro 72, il professor Claudio Giachin, docente di filosofia e storia, nel corso di una conferenza storica, promossa dal circolo culturale Sant’Osvaldo in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune di Udine.
Il genocidio degli armeni ha inaugurato un secolo di stermini di massa, ma l’opinione pubblica mondiale ha ignorato a lungo quel crimine. Gli armeni, un popolo di profonda fede e di straordinario amore per la cultura, hanno superato altre terribili prove nel corso della propria storia.
L’appuntamento è ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili. Per informazioni: PuntoInforma tel.0432 1273717, Riva Bartolini 5 o www.agenda.udine.it

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Armenia, il premier Sarkisian si dimette dopo ondata di proteste (Askanews 23.04.18)

Roma, 23 apr. – Il neoeletto primo ministro dell’Armenia, Serzh Sarkisian, già presidente del Paese, ha rassegnato le dimissioni dopo sei giorni di mandato. La sua nomina aveva scatenato proteste di piazza. Anche oggi studenti di medicina in camice bianco e militari erano scesi in strada per manifestare contro il premier e il governo.

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Roma, 23 apr. – “Lascio la carica di leader del Paese”, ha detto Sarkisian, secondo il servizio stampa citato dall’agenzia ufficiale armena Armenpress.

Il leader della protesta e deputato “Nikol Pashinyan aveva ragione, e io mi sono sbagliato”, ha aggiunto il primo ministro, recentemente nominato dopo dieci anni da presidente dell’Armenia.


Armenia, liberato leader opposizione, in migliaia di nuovo in piazza (Askanews 23.04.18)

Erevan, 23 apr. – Il leader delle proteste anti-governative in corso da giorni in Armenia è stato rilasciato oggi, stando alle immagini trasmesse in diretta dalla tv. Nikol Pashinyan era stato arrestato ieri subito dopo il fallito incontro con il premier Serzh Sarkisian.

Le immagini televisive hanno mostrato Pashinyan circondato dai suoi sostenitori, muniti di bandiere armene. Il leader dell’opposizione si è quindi unito alle migliaia di persone scese di nuovo in piazza oggi a Erevan per protestare contro l’ex presidente Sarkisian, eletto la scorsa settimana premier dal parlamento.

Oggi sono scesi in strada anche studenti di medicina in camice bianco e dei militari, contro cui il ministero della Difesa ha già annunciato provvedimenti per “aver violato la legge” partecipando a una manifestazione contro il governo.


Dopo giorni di proteste in Armenia, si dimette premier Sargsyan (Il Giornale 23.04.18)

È arrivato dopo undici giorni di proteste nelle piazze dell’Armenia l’annuncio delle dimissioni di Serzh Sargsyan, l’ex presidente ora presidente del Consiglio dopo che il Paese è passato da un sistema presidenziale a uno parlamentare, modifica che gli ha permesso di mantenere il potere.

“Lascio il ruolo di dirigente del Paese”, ha dichiarato l’ex presidente, citato dall’agenzia ufficiale Armenpress, aggiungendo che “aveva ragione Nikol Pachinian”, il parlamentare che ha guidato quella che a Yerevan è stata ribattezzata una rivoluzione di velluto e che puntava a un cambio al vertice e a un passo indietro da parte dell’uomo del Partito repubblicano.

Sargsyan è diventato premier al termine dei due mandati presidenziali, quando il parlamento controllato dal suo partito ha trasferito sulla carica di capo del governo la maggior parte dei poteri..

Pachinian, deputato e leader di Partito civile, è stato rilasciato questa mattina, dopo essere stato arrestato ieri quando un tentativo di mediazione con il premier era fallito nel giro di pochi minuti. Il leader della protesta aveva detto con chiarezza a Sargsyan che era pronto a discutere soltanto delle sue dimissioni e di nessun’altra concessione.

Non è ancora chiaro che cosa succederà ora e se il Paese vada verso nuovo elezioni. Oggi, dopo giorni di proteste, anche uomini in divisa militare si erano uniti alla protesta dei civili. In questi giorni sono migliaia i manifestanti che sono scesi in strada e almeno 46 le persone rimaste ferite.


Armenia, la rivoluzione di velluto ha avuto la meglio: si dimette il premier (Ilmessaggero 23.04.18)

Yerevan  – Alla vigilia della giornata nazionale del 24 aprile in cui viene commemorato il genocidio armeno, il neoeletto primo ministro dell’Armenia, Serzh Sarkisian, già presidente del Paese, ha rassegnato le dimissioni dopo soli sei giorni di mandato e altrettanti di feroci proteste di piazza per la sua elezione parlamentare. Il malcontento pian piano si era allargato al resto del Paese. Alla fine la rivoluzione di velluto – promessa da Nikol Pashinyan, leader dell’opposizione, che aveva dato il via alla disobbedienza civile ed era stato arrestato ieri –  ha avuto la meglio. Il passo indietro del Premier è stato accolto da un clima di festa in tutta la nazione. Fino a stamattina centinaia di studenti di medicina in camice bianco assieme ai militari erano scesi in strada per manifestare contro il premier e il governo. Il leader delle proteste anti-governative nel frattempo veniva rilasciato (era stato trattenuto a seguito del fallito incontro con il premier Serzh Sarkisian).

Le immagini televisive hanno mostrato Pashinyan circondato dai suoi sostenitori, muniti di bandiere armene. Il leader dell’opposizione si è quindi unito alle migliaia di persone scese di nuovo in piazza a festeggiare il nuovo capitolo repubblicano. Il presidente armeno ha apprezzato il gesto del premier di farsi da parte nel giorno in cui si commemorano le vittime del genocidio armeno (avvenuto nel 1915 per mano dei turchi e costato la vita a 1 milione e mezzo di persone), sottolineando che il 24 aprile non può essere segnato da divisioni tra armeni.
La Russia ha fatto sapere attraverso canali ufficiali  di seguire con attenzione l’evolversi degli eventi. Nonostante che l’Armenia sia uno «stretto alleato»  non ha alcuna intenzione di interferire nella situazione: si tratta di un «affare interno».

Nei giorni scorsi la polizia aveva arrestato decine di manifestanti che contestavano l’elezione a premier dell’ex presidente Serzh Sarkisian anche se avvenuta in modo regolare e con la maggioranza dei voti. Il malumore serpeggiava da tre anni, da quando aveva fatto approvare, da presidente della nazione, un emendamento costituzionale che trasferiva i poteri della presidenza al premier. I manifestanti hanno denunciato il tentativo di Sarkisian di restare al comando con il nuovo sistema parlamentare, dopo oltre un decennio alla presidenza.

 


Armenia: premier lascia dopo proteste (Ansa 23.04.18)

Il premier Serzh Sargsyan, già presidente dell’Armenia per 10 anni, ha rassegnato le dimissioni. Lo riporta la Tass. La sua nomina a primo ministro, vero detentore dei poteri esecutivi in seguito alla riforma costituzionale, ha scatenato proteste in tutto il paese.
Decine di migliaia di persone si sono date appuntamento a piazza della Repubblica, nel centro della capitale armena Yerevan, per festeggiare. “Nikol Pashinyan – capo della sigla di opposizione Elk e principale sponsor delle proteste, ndr – aveva ragione ed io avevo torto: la situazione creatasi ha alcune soluzioni ma io non ne scelgo nessuna. Non è per me, io lascio l’incarico da leader e da primo ministro”. Lo si legge nella nota diffusa dall’ufficio stampa di Serzh Sargsyan. “I movimenti in piazza sono contro la mia premiership: eseguo la vostra richiesta ed auguro la pace e l’armonia al nostro paese


L’Armenia in festa per le dimissioni del Premier. Celebrano anche le comunità estere (Euronews 23.04.18)

Il premier armeno Serzh Sargsyan, già Presidente del Paese per 10 anni, ha rassegnato le dimissioni. La sua nomina a primo ministro, vero detentore dei poteri esecutivi in seguito alla riforma costituzionale, ha scatenato proteste in tutto il Paese.

“Nikol Pashinyan – capo della sigla di opposizione Elk e principale sponsor delle proteste, n.d.R – aveva ragione ed io avevo torto: la situazione creatasi ha alcune soluzioni ma io non ne scelgo nessuna. Non è per me, io lascio l’incarico da leader e da Primo ministro.” Queste le parole dell’ormai ex Primo ministro Serzh Sargsyan.

Il primo vice-premier armeno Karen Karapetyan ha assunto la carica di primo ministro ad interim. Una decisione cosi come riporta l’agenzia interfax presa nel corso della seduta straordinaria del Consiglio dei ministri.

In contemporanea alla notizia delle dimissioni del premier, una rappresentanza della comunità armena di Lione ha protestato presso la nostra sede di euronews chiedendo a gran voce l’attenzione dei media internazionali sui problemi che da anni opprimono l’Armenia.

“Quando sei il presidente di un paese devi saperti sacrificare ma lui Serge Sarkissian si comportava esattamente all’opposto. Stava utilizzando tutte le sue risorse e l’energia del popolo armeno solo per i suoi interessi”, ha dichiarato una manifestante.

La notizia delle dimissioni dell’ormai ex premier sono infatti avvenute in diretta e la comunità da noi informata ha iniziato a festeggiare con danze e canti.

“La gioventù armena ha portato avanti la rivoluzione di velluto senza che la polizia sia poi intervenuta. Ogni volta che si palesavano dei poliziotti i ragazzi alzavano solo le mani in alto. L’Armenia non è l’Ucraina o un altro Paese. La nostra è stata una rivoluzione di velluto”, le fa eco un’altra dimostrante.

L’ondata di proteste che aveva invaso tutto il paese è finita cosi in una esplosione di gioia che ha anche travalicato le frontiere


In Armenia è successa una cosa grossa (Ilpost 23.04.18)

Il primo ministro armeno Serzh Sargsyan si è dimesso, dopo che per giorni era stato contestato in una serie di grandi proteste organizzate nella capitale Yerevan e in altre città del paese. Alle proteste, che sono continuate fino a lunedì mattina, hanno partecipato decine di migliaia di persone, che chiedevano proprio le dimissioni di Sargsyan. Il primo ministro era infatti accusato di aver trasformato il paese in uno stato autoritario, con una manovra politica che gli aveva permesso di prolungare il suo potere per un nuovo mandato: dopo aver raggiunto il limite di due mandati da presidente, aveva promosso un referendum per trasformare il paese da repubblica presidenziale a parlamentare, e si era fatto nominare primo ministro.

Soltanto ieri Sargsyan aveva fatto arrestare tre importanti leader dell’opposizione, tra cui il capo delle proteste Nikol Pashinyan, con l’accusa di aver commesso «atti socialmente pericolosi». Pashinyan è stato liberato lunedì e ha detto: «Non aspetterò a dirlo, è già chiaro no? Abbiamo vinto».

Negli scorsi giorni, diversi analisti e osservatori internazionali avevano sottolineato l’importanza delle manifestazioni in Armenia, che sono state pacifiche e organizzate prevalentemente dal basso, grazie a una capillare ed efficiente rete messa in piedi da Pashinyan. Dopo le dimissioni di Sargsyan le proteste sono diventate ancora più rilevanti, visto che hanno apparentemente ottenuto il loro obiettivo, raro caso di manifestazioni di massa di successo nelle ex repubbliche sovietiche. Non è comunque ancora chiaro cosa succederà ora, chi prenderà il potere e che ruolo e che influenza manterrà Sargsyan nella politica del paese.

Il bersaglio delle proteste: Serzh Sargsyan
Sargsyan ha 63 anni ed è stato ai vertici della politica armena fin da quando il paese era ancora una repubblica dell’Unione Sovietica. Negli anni Novanta fu uno dei principali dirigenti del Partito Repubblicano, il primo partito autonomo formato dopo l’indipendenza, di orientamento nazionalista e conservatore, e sostanzialmente erede del Partito Comunista. Dopo essere stato più volte ministro, Sargsyan fu eletto presidente dell’Armenia per un primo mandato nel 2008, e una seconda volta nel 2013. Allora l’Armenia era una repubblica semi-presidenziale, che aveva il limite costituzionale di due mandati per il presidente.

Nel 2015, però, Sargsyan promosse un referendum per trasformare il paese in una repubblica parlamentare, trasformando il presidente in una figura principalmente cerimoniale, e assegnando i poteri principali al primo ministro. Sargsyan presentò la riforma come necessaria per rendere più democratico il sistema politico del paese, e assicurò che non si sarebbe candidato di nuovo: il referendum fu approvato con il 66 per cento dei voti a favore. Gli effetti di quel referendum sono entrati in vigore soltanto questo aprile, e prevedevano anche che il nuovo presidente fosse eletto dal parlamento, ampiamente controllato dal Partito Repubblicano e dai suoi alleati.

Lo scorso 2 marzo il parlamento ha eletto presidente Armen Sarkissian, un ex primo ministro e ambasciatore armeno nel Regno Unito fedele a Sargsyan. Seguendo la costituzione armena, il primo ministro Karen Karapetyan ha dato le sue dimissioni prima dell’insediamento di Sarkissian, all’inizio di aprile. A quel punto, contrariamente a quanto aveva assicurato, Sargsyan si è fatto eleggere dal parlamento nuovo primo ministro – diventato il ruolo più importante della politica armena – con 77 voti a favore e 17 contrari. Il controllo di Sargsyan sul parlamento è tale che hanno votato per lui anche la maggior parte dei membri dell’opposizione. Con questa manovra si era assicurato il potere fino a un’eventuale sfiducia dall’attuale parlamento, o fino alle nuove elezioni previste per il 2022.

Chi c’è dall’altra parte
Dal 13 aprile, pochi giorni dopo l’annuncio della candidatura di Sargsyan, migliaia di persone hanno manifestato per le strade della capitale Yerevan e di altre città. Le proteste sono state organizzate da Pashinyan, 42enne tra i leader del Congresso Nazionale Armeno, partito liberale di opposizione fondato nel 2008 dal primo presidente del paese, Levon Ter-Petrosyan. Pashinyan è da almeno un decennio tra i più attivi oppositori politici di Sargsyan, prima come giornalista e poi come politico. Dopo le violente proteste del 2008, quando Ter-Petrosyan perse le elezioni contro Sargsyan, Pashinyan dovette nascondersi dalla polizia. Decise poi di costituirsi, e dopo due anni di carcere fu liberato per un’amnistia politica.

Attualmente Pashinyan è a capo di Yelk, una nuova formazione politica considerata erede del Congresso Nazionale Armeno, che alle ultime elezioni ha preso meno dell’8 per cento e ha 9 seggi in parlamento. Il principale gruppo di opposizione, Armenia Prosperosa, che è a sua volta di orientamento liberale e ha 31 seggi in parlamento, ha invece mantenuto a lungo una posizione ambigua sulle proteste. Alcuni suoi parlamentari avevano votato per la nomina di Sargsyan, e il partito ha accolto l’invito di Pashinyan a unirsi alle proteste soltanto lunedì, poco prima che Sargsyan annunciasse le dimissioni.

Nonostante le grandi manifestazioni, le opposizioni non erano riuscite a impedire l’elezione di Sargsyan. Erano comunque continuate nei giorni successivi alla sua nomina – avvenuta martedì 17 aprile – per chiedere più genericamente maggiore democrazia e per resistere a quello che è stato visto come un tentativo di trasformare il paese in un regime autoritario. Su Al Jazeera, la docente di scienze internazionali Anna Ohanyan ha scritto che le recenti proteste armene non hanno precedenti nel paese, per come sono state organizzate dal basso, per la loro disciplina, per la loro natura pacifica e per le loro dimensioni. Pashinyan stesso le ha definite «una rivoluzione di velluto». Lunedì si sono uniti alle proteste circa 200 soldati armeni.

Le due culle dell’identità armena (Lastampa.it 23.04.18)

Due fatti marcano la storia contemporanea degli armeni. Il Genocidio del 1915-22 e il Nagorno-Karabakh. Il genocidio è commemorato in un grande monumento che si erge al centro della capitale Yerevan, meta dei pellegrinaggi della diaspora. Tutto iniziò il 24 aprile 1915, con la decimazione dell’intellighenzia armena. Ho scritto una frase nel libro d’onore posto sui bordi, in ricordo di mio padre che si salvò dai massacri gettandosi, giovanissimo, nelle acque gelide del golfo di Smirne. Era il novembre del 1922. Ho sperato nella normalizzazione dei rapporti Armenia-Turchia che Erdogan aveva abbozzato negli ultimi anni 2000 all’insegna del proposito «zero problems with neighbourhood». Perché, a prescindere dal retro-pensiero turco che probabilmente ispirava questo approccio, la riscoperta di una «identità ottomana», solo quella normalizzazione potrebbe portare al riconoscimento di una verità storica troppo dolorosa per entrambe le parti. Non è stato così, il processo si è interrotto. Le condizioni sono cambiate.

Il Nagorno-Karabakh è una splendida terra verde che farebbe invidia a molti ecologisti. Montagne innevate, foreste percorse da acque purissime, valli boscose. Una terra remota in un angolo di Caucaso, pressoché sconosciuta al largo pubblico europeo. «Capitale», Stepanakert. Le virgolette sono d’obbligo perché il Nagorno Karabakh – Artsakh in armeno – non è uno Stato, è una regione contesa dell’Azerbaigian, da quando l’Unione Sovietica si dissolse lasciando intatti i confini delle ex Repubbliche caucasiche. Includendovi un territorio di tradizionale insediamento armeno, abitato per oltre il 90% da armeni. Quasi subito, nel settembre 1991, essi votano la secessione e si dichiarano indipendenti.

L’immediata repressione azera chiama in causa l’Armenia ed inizia una sanguinosa guerra tra Yerevan e Baku che dura fino al cessate-il-fuoco firmato a Biskek (Kirghizistan) nel 1994. Una Risoluzione dell’Onu investe l’Osce, organizzazione regionale di riferimento, della gestione del conflitto. L’italiano Raffaelli, allora sottosegretario agli Esteri, assume la prima presidenza del cosiddetto Gruppo di Minsk, cui partecipano fra gli altri Russia e Turchia. Negli anni, subentra una presidenza tripartita, Russia, Stati Uniti, Francia. E lo scenario diventa quello che in gergo diplomatico si chiama «conflitto congelato», ma che congelato non è. Perché episodi di scontro armato si ripetono lungo le linee di contatto (i 4 giorni di guerra del 2016), così come gli atti di violenza, e l’occupazione armena nei sette distretti azeri circostanti. A guardar bene, il conflitto esiste da secoli. I sovietici attribuirono al territorio lo status di «oblast autonomo» e a più riprese dovettero intervenire per dividere i contendenti. Il contrasto si fece più aspro a misura dell’indebolimento dell’Unione Sovietica, nel 1988 Mosca impose a Baku scuole e stampa in lingua armena, e nel 1990 assunse il controllo diretto della regione.

In una recente intervista su queste pagine, il presidente armeno Serzh Sarghsyan definisce il Nagorno Karabakh una questione «imprescindibile». Perché così imprescindibile? Non solo, o non tanto, per la presenza decisamente maggioritaria di armeni, ma perché essi sono i testimoni di un passato orgogliosamente vissuto, fino ad oggi. Il Nagorno Karabakh è considerato la culla dell’identità armeno-cristiana. Il cristianesimo armeno risale al primo secolo dell’era moderna e diventa religione di Stato nel terzo secolo, la prima chiesa nazionale al mondo. Sappiamo quanto lunga possa essere la memoria dei popoli. E quanto difficile sia individuare soluzioni eque quando sia in questione l’identità di una nazione. Abbiamo un altro caso nelle vicinanze, il Kosovo. Anche qui, sebbene la maggioranza degli abitanti sia diventata nei secoli albanese, la regione è stata consegnata alla storia come centro originario dell’identità serbo-ortodossa, splendidi antichi monasteri lo ricordano.

La battaglia di Kosovo Polje, una clamorosa sconfitta serba che aprì la strada all’avanzata ottomana verso Vienna, risale al 1389 ma è piantata come un pilastro nella memoria serba. Riemersa in tutta drammaticità durante l’ultima fase delle guerre balcaniche che portò al bombardamento Nato della Serbia, ne registriamo gli echi ancor oggi. L’identità non si può evidentemente sradicare dai popoli, che hanno tutto il diritto di preservarla, ma occorrerebbe governarla. Per farne ragione di incontro e non di contrapposizione, in nome di valori altrettanto sacrosanti, il rispetto reciproco e la civile convivenza. Più oltre, occorrerebbe riscoprire il valore della diversità. Non solo nel Caucaso, in qualsiasi altro luogo del mondo. Mille sono gli esempi nella storia dei benefici della cross-fertilization per tutti i popoli coinvolti. Tanto più che, come per «la Nave di Teseo», nulla rimane immutato nel tempo, e ogni identità acquista pezzi di altre identità, nella vicenda umana dei contatti tra le genti.

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Accadde Oggi: inizia il genocidio armeno (L’indro 23.04.18)

Il riconoscimento delle pagine più tristi della propria storia non è mai un processo semplice e lineare: fare i conti con il proprio passato richiede un profondissimo esame di coscienza e una grandissima capacità di analizzare le cause dei propri sbagli. Ci si scontra con se stessi, con il giudizio di coloro che hanno sofferto per i propri errori e con quello di chi sta a guardare. Tuttavia, fare quest’operazione è necessario per chiudere capitoli del proprio passato e ricostruire se stessi per il futuro. Soprattutto se si è responsabili della morte di un milione e duecentomila persone e ci si vuole presentare al mondo come un Paese moderno. Stiamo parlando della Turchia e del genocidio armeno, mai riconosciuto da Ankara.

Nel corso della Prima Guerra Mondiale, la Turchia (allora Impero Ottomano) combatteva a fianco degli Imperi Centrali contro Russia, Francia e Gran Bretagna. Era uno Stato multietnico, composto da varie minoranze, fra cui quella armena. Vi erano timori che la popolazione armena disertasse l’esercito ottomano per unirsi a quello russo, come, in effetti, accadeva sempre più spesso. La popolazione armena veniva inoltre finanziata dai francesi, per indebolire dall’interno il grande Impero Ottomano. Nella notte fra il 23 e il 24 aprile del 1915 vennero arrestati intellettuali, scrittori, pensatori di etnia armena: era l’inizio del genocidio armeno. Vennero raccolti, negli anni, oltre un milione di armeni, costretti a lunghe marce che portarono alla loro morte, per fame, fatica e percosse. In queste marce, l’esercito ottomano venne sostenuto dall’alleato tedesco: secondo alcuni studiosi, il futuro regime nazista si ispirò a queste deportazioni per organizzare quelle degli ebrei.

Il dibattito è aperto: alcuni studiosi non riconoscono questo massacro come un genocidio perché non ritengono che dietro ciò ci fosse un preciso piano di eliminazione dell’etnia armena, intenzione che è invece confermata da altri studiosi, sottolineando il carattere nazionalista del partito dei Giovani Turchi, considerato responsabile di tale eccidio. Quel che è certo è che quasi un milione e mezzo di persone persero la vita: una cifra mostruosa, che meriterebbe più spazio nella memoria di tutti, Turchia compresa.

Commemorazione annuale a Napoli dell’inizio del Genocidio Armeno (Tricolore 23.04.18)

In occasione del 103° anniversario dell’inizio del Genocidio Armeno, ieri l’Associazione Internazionale Regina Elena Onlus, il Gruppo Armeni di Napoli ed il Circolo “Beata Maria Cristina di Savoia” di Tricolore hanno organizzato un solenne “Atto di commemorazione nella giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno”, presso la chiesa di S. Gregorio Armeno.
Alle ore 11 i partecipanti sono stati accolti da Gevorg Tovmasyan, responsabile del Gruppo Armeni Napoli, Rodolfo Armenio, Presidente del “Comitato per il riconoscimento del Genocidio Armeno” e l’Uff. Mario Franco, dirigente napoletano dell’Associazione Internazionale Regina Elena Onlus, accom-
pagnato da una delegazione.
Il 24 aprile del 1915 a Costantinopoli cominciava il genocidio armeno. Parlamentari, giornalisti ed altri esponenti della comunità armena venivano arrestati o uccisi. Il “triumvirato” – Talaat, Djemal e Enver – si preparava a mettere in atto quello che sarebbe stato il primo genocidio del secolo, il modello degli altri genocidi che si sarebbero succeduti in forme diverse nel corso del sanguinoso XX secolo.
Il governo turco da sempre e ancora oggi conduce una politica negazionista totale.
Dalla sua fondazione, nel 1985 in Francia, l’Associazione Internazionale Regina Elena non ha mai fatto mancare la sua solidarietà concreta a favore del riconoscimento del Genocidio Armeno iniziato il 24 aprile 1915, anche attraverso il suo “Comitato per il riconoscimento del Genocidio Armeno” da anni presieduto dal Comm. Rodolfo Armenio.

Tra le diverse delegazioni in Italia quella di Napoli è attivissima e, ancora una volta, il Sodalizio intitolato ad Elena del Montenegro è stato all’origine di una solenne commemorazione nella chiesa dedicata a San Gregorio Armeno nella città partenopea.
La situazione attuale in certe zone del mondo ci fa pensare, che il tempo sia passato invano, che le atrocità del XX secolo non  abbiano insegnato nulla all’umanità: le barbarie del Genocidio Armeno si ripetono in Medio Oriente con la stessa ferocia, con spietate esecuzioni, decapitazioni, violenze sulle donne, le bambine..; le foto delle donne Yezide sembrano quelle delle donne  Armene di cent’anni fa…
Il Genocidio Armeno viene a tutt’oggi negato dai turchi, dai  discendenti dei perpetratori, e dallo stato turco. Dal 1923, il negazionismo di stato turco è riuscito a insabbiare il Genocidio degli Armeni.

Benché negli ultimi anni e durante tutto il 2015 se ne sia parlato molto e con importanti riconoscimenti, -dall’enunciazione del   Papa in San Pietro (12 aprile 2015) e durante il Suo viaggio in Armenia (24-27 giugno 2016), al riconoscimento di vari Parlamenti e sopratutto del Parlamento Tedesco (2 giugno 2016), che ha votato sì, malgrado le minacce di morte da parte dei turchi e il ricatto di far saltare l’accordo sui migranti-, il Genocidio Armeno
è relativamente poco conosciuto.

E’ nostro dovere portare a conoscenza l’ingiustizia di ieri per denunciare l’impunità per convenienza di cui continua a godere la Turchia oggi.
E’ l’impunità che rende estremamente facile il ripetersi delle barbarie.
Ed è la mancanza di memoria che rende ignoranti, indifferenti, e di conseguenza deboli, le genti davanti alle nuove barbarie.
E’ necessario ricordare per prevenire.
E’ necessario non chiudere gli occhi per convenienza, davanti ai misfatti.
E’ necessario esigere giustizia, poiché, non può esserci civiltà e pace senza giustizia.

La cerimonia si è conclusa come ogni anno con la deposizione di una corona.

 

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