Armenia, storia di un popola e del primo genocidio del ‘900 (Varesenews 03.02.17)

Parlerà il professor Aldo Ferrari, docente di Armenistica e Caucasologia e di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università Cà Foscari di Venezia

L’Associazione Amici del Liceo di Luino, la Parrocchia Prepositurale SS. Pietro e Paolo di Luino, il Liceo “Sereni”, in collaborazione con l’ AISU e col patrocinio della Banca Popolare di Bergamo-UBI Banca e della Città di Luino, hanno organizzato un’interessante conferenza dedicata all’Armenia.

L’incontro pubblico aperto a tutti si terrà questa sera venerdì 3 febbraio alle 18 presso la sala conferenze della Banca Popolare di Bergamo-UBI Banca (Viale Piero Chiara 9 a Luino).

Il titolo del convegno è “Armenia, storia di un popolo e del primo genocidio del ‘900” e vedrà come relatore il prof. Aldo Ferrari, docente di Armenistica e Caucasologia e di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università Cà Foscari di Venezia.
Moderatore sarà il dott. Alessandro Franzetti, cultore della materia di Linguistica e Semiotica e dottorando di ricerca in Diritto e Scienze Umane presso l’Università degli Studi dell’Insubria.
L’area di ricerca del prof. Ferrari riguarda gli studi storici e le relazioni internazionali dell’Europa orientale, del Caucaso, dei paesi islamici e dell’Asia Centrale.

«L’Armenia è stato il primo paese, nel XXX secolo, a convertirsi al cristianesimo e ha una storia millenaria, fatta di una cultura straordinaria, di monasteri su alture stupende e costituisce un vero ponte tra Oriente e Occidente- dichiara il portavoce degli Amici del Liceo Alessandro Franzetti- nel 1915 l’Impero Ottomano allora in dissoluzione commise un orribile crimine contro l’umanità portando a compimento il genocidio del popolo armeno, causando circa 1,5 milioni di vittime innocenti».

«Purtroppo per troppi anni non si è parlato di questo primo genocidio del ‘900, che fu un terribile prologo dei tanti genocidi del ‘900, tra cui la Shoa. Alcune fonti storiche affermano che Hitler ai suoi gerarchi disse “come nessuno ha saputo dell’eliminazione del popolo armeno, nessuno saprà di quella degli ebrei”. Fortunatamente si sbagliava e oggi tutti sanno della Shoa e ricordiamo ogni anno la Giornata della Memoria. Ancora troppo pochi sanno del genocidio armeno perpetrato dai Turchi e quindi occasioni come questa sono utilissime per far conoscere la verità storica», conclude Franzetti.

Il convegno vedrà al mattino un’assemblea al Teatro Sociale per le classi quarte e quinte del Liceo “Sereni”.
All’iniziativa ha partecipato fin da subito il prevosto e decano di Luino, don Sergio Zambenetti, che plaude all’iniziativa e da sempre crede al lavoro di squadra tra realtà religiose, culturali e sociali della Città.
“Mentre molti cercano vie per il dialogo e la pace, fermarsi a conoscere la storia del popolo armeno e il genocidio subìto all’inizio del ‘900 può aiutarci a riflettere sulla nostra capacità di costruire la civiltà dell’amore”, commenta don Sergio.
L’invito è dunque a tutti di partecipare per conoscere questa pagina triste del ‘900.

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I piloti russi volano sui MiG-29 in Armenia (Sputnik 03.02.17)

I piloti della base aerea di Erebun, in Armenia, hanno preso il volo in condizioni meteorologiche normali su caccia di quarta generazione, i MiG-29, ha riferito venerdì a Ria Novosti il servizio stampa del distretto militare meridionale.

“Nelle prime lezioni i piloti dei caccia MiG-29 eseguono i compiti essenziali di pilotaggio lungo i percorsi assegnati, voli diurni, di esplorazione, decollo e atterraggio in zone montuose”, ha dichiarato il servizio stampa che ha riferito, inoltre, che nel 2017 i piloti militari del distretto meridionale svolgeranno più di 100 diverse attività, come congiunzione in volo, collaborazione con l’artiglieria, carri armati, unità dei poligoni di montagna Kamut e Alagas, addestrandosi in condizioni critiche, nel volo tattico, nella tattica e tattiche speciali.

Il distretto militare Sud è dislocato nel campo d’aviazione di Erebun a Erevan, costituito nel 1995. Nel novembre 1998 alla base sono stati assegnati i caccia MiG-29. Nel luglio 2001 ad Erebun è stata costituita la base aerea, che è diventata parte della 102° base militare di stanza a Gyumri. Alla fine del 2013 nella composizione della base aerea è entrata una squadra di elicotteri. Nel mese di dicembre 2015 e febbraio 2016 dalla Federazione Russa sono stati assegnati al campo d’aviazione di Erebun gli elicotteri d’attacco Mi-24P e da trasporto Mi-8MT.

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Il potere di Vladimir Putin ha l’odore del gas

-di MAGDA LEKIASHVILI-

Gazprom – una delle più grandi aziende del mondo dell’energia. La Russia con il 50,002% possiede la quota di controllo di Gazprom. L’azienda nasce nel 1989, quando il Presidente di quel periodo Mikheil Gorbachev unisce i ministeri del petrolio e del gas e nomina Gazprom come ente responsabile per la produzione/distribuzione e la vendita di gas. Da allora in poi, l’azienda non lascia più lo spazio occupato nel mercato.

La compagnia statale russa Gazprom è uno dei simboli del potere di Vladimir Putin. Grazie alle enormi risorse di gas naturale presenti sul territorio russo e al vertiginoso aumento del prezzo del gas nello scorso decennio, le esportazioni di Gazprom hanno garantito un enorme afflusso di valuta pregiata nelle casse del Cremlino. Dal 2000 a oggi Putin ha fatto in modo che il controllo della società restasse saldamente in mano ai suoi uomini. Boris Nemtsov, oppositore di Putin, che muore nel febbraio 2015 in un attentato con armi da fuoco per le strade di Mosca (1), nel suo libro Disastro Putin. Libertà e Democrazia in Russia scrive che Gazprom è in mano allo stato e viene manipolata politicamente dal presidente Putin e dal primo ministro Dmitri Medvedev. Sottolinea che undici dei diciotto membri del consiglio di amministrazione sono agenti dei servizi segreti, senza alcuna competenza in materia di gas. “Eppure la dirigono, e gestiscono il 40% del gas fornito all’Europa. I beni della società sono stati ceduti con transazioni dubbie e semicriminali, e i processi di nazionalizzazione e privatizzazione di Gazprom sono stati portati avanti con modalità criminali”- continua Nemtsov.

I punti di vista non cambiano la realtà e Gazprom rimane “una speranza” per i paesi dell’Est Europa. Per esempio l’Armenia è totalmente dipendente dal gas russo. Nel 1997 ArmRosGazprom è stata fondata come progetto di un gasdotto comune russo-armeno, dentro il quale Gazprom, russa, possedeva il 45% delle azioni e un altro 45% apparteneva al Ministero dell’Energia armeno. Nel 2014, Gazprom è diventata l’unica proprietaria della società, ribattezzata come Gazprom Armenia.

Il gas russo in Armenia viene trasportato attraverso il territorio Georgiano. Anche la Georgia portava avanti i rapporti economici con Gazprom. Dopo il 2006 Gazprom dichiara di aver raddoppiato il prezzo del gas che vende alla Georgia, portandolo da 110 a 230 dollari ogni mille metri cubi. Per questo motivo, subito dal 2006, la Georgia ha provato a diminuire la dipendenza energetica dalla Russia sostituendo il gas russo con quello dell’Azerbaigian. Essendo la Georgia un paese di transito, Gazprom le cedeva il 10% del gas naturale trasportato attraverso il paese caucasico verso l’Armenia, come contropartita. Il contratto fra la Georgia e la Russia viene aggiornato ogni anno. Fino adesso la Georgia è riuscita a mantenere il 10% del gas a sua disposizione. Mentre, secondo un nuovo accordo, dal 2018, la Georgia riceverà una compensazione monetaria direttamente proporzionale alla quantità di gas russo che transiterà nel proprio territorio. Avrà anche il diritto di richiedere forniture aggiuntive di gas a un prezzo ribassato, a 185 dollari ogni 1.000 m³ invece di 215 dollari ogni 1.000 m³. Detta cosi sembra davvero un favore da parte di Gazprom. Però in Georgia gli esperti temono che il nuovo accordo porterà come risultato un’ulteriore dipendenza sulla Russia. Come in Armenia, anche in Georgia la vicina Russia riuscirà a imporre le sue regole, non solo in campo di energetico, ma soprattutto in campo politico.

Anche l’Ucraina dipendeva dalla Russia per coprire il fabbisogno nazionale di gas, ma ha sospeso l’acquisizione di gas russo nel novembre 2015. Attualmente Kiev si rifornisce dall’Ue, convinta che il gas sia più economico di quello di Gazprom. A giugno 2016 la Naftogaz Ucraina (2) ha però proposto a Gazprom di riprendere le forniture. Il prezzo medio delle esportazioni Gazprom in Ucraina sarà più alto nel primo trimestre 2017 rispetto all’ultimo trimestre del’2016.

Tutto tornato a favore dell’azienda Russa, che continua a tormentare i paesi vicini e, soprattutto, mantiene l’influenza su di loro grazie alla ricchezza naturale che possiede.

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Cronistoria del conflitto nel Nagorno Karabakh

Non si può comprendere il conflitto nell’Artsakh (Karabakh in lingua turca) prescindendo dal contesto dello scontro geopolitico in atto nel Levante e nella stessa area caucasica. Il Caucaso rappresenta uno snodo di interessi geostrategici cruciali. Ponte tra l’Europa e l’Asia, la Russia e il Medio-Oriente, quest’area geografica connette complessivamente il 70% della popolazione mondiale con il 75% delle risorse energetiche mondiali.
di Daniele Perra – 1 febbraio 2017

 

L’accurata descrizione che Marco Polo fece dell’area caucasica, identificata nella Grande Armenia storica, libera dai paraocchi della modernità e dell’ancora peggiore post-modernismo, e ricca di rimandi alla tradizione ed alla fede religiosa, ci mostra ancora una volta come esista una segreta influenza, sconosciuta agli analisti geopolitici e geoeconomici odierni, esercitata dalle scienze tradizionali sull’immaginario collettivo. Di fatto, come afferma il filosofo russo Aleksandr Dugin, esiste innegabilmente un «profondo impatto residuale degli archetipi della geografia sacra sedimentato nell’immaginario collettivo che determina la struttura stessa del pensiero geopolitico».

«Ancor vi dico che in questa Grande Erminia è l’Arca di Noè in su una grande montagna, ne le confine di mezzodie in verso il levante, presso al reame che si chiama Mosul, che sono cristiani, che sono iacopini e nestorini, delli quali diremo innanzi. Di verso tramontana confina con Giorgens, e in queste confine è una fontana ove surge tanto olio e in tanta abbondanza che cento navi se ne caricherebbero a la volta. Ma egli non è buono a mangiare, ma sì da ardere, e buono da rogna e d’altre cose; e vegnoro gli uomini molto da lunga per quest’olio; e per tutta quella contrada non s’arde altr’olio.» (Marco Polo, Il Milione)

Il Caucaso ha per millenni rappresentato una terra di confine; limite ultimo impossibile o quantomeno pericoloso da valicare. L’Arca di Noè, dopo quaranta giorni e quaranta notti, si incaglio sul Monte Ararat, dove si ritiene sia ancora oggi. Credenza religiosa, quella del diluvio e dell’arca, comune a quasi tutte le tradizioni religiose, e che mostra evidenti similitudini con l’Epopea di Gilgamesh: soggetto divino o divinizzato della tradizione sumera e di cui l’attuale popolazione curda dell’area del Vicino Oriente ritiene essere diretta erede. Si veda a tal proposito lo scritto del leader del PKK Abdullah Ocalan Gli Eredi di Gilgamesh. A dimostrare che neanche il pensiero marxista-leninista, seppur più tendente all’anarchismo, del leader curdo, è estraneo a rimandi alla tradizione religiosa dell’area. Ma il Caucaso è anche il luogo in cui Zeus incatenò e condannò ad atroci sofferenze Prometeo, creatore dell’uomo e colui che, rubandolo agli dei, fornì il fuoco all’uomo stesso, condannandolo però alla mortalità ed alla perdita del paradiso, della visione e della condivisione del divino. E proprio alle porte del Caspio, secondo la tradizione islamica, Alessandro Magno, il Bicorne, colui il cui potere si estendeva da Occidente ad Oriente, fece costruire una “sacra muraglia” (costruire confini e muri non è evidentemente prerogativa della sola modernità) contro le demoniache tribù del nord; le genti di Gog e Magog, identificate con gli abitanti delle steppe eurasiatiche. Queste stesse regioni, per lunghi anni, vennero considerate dai teologi cattolici medievali, come un’area geografica abitata dalle altrettanto demoniache tribù israelite disperse dopo la caduta di Babilonia.

Ancora oggi i processi di etnogenesi che hanno portato all’origine delle attuali popolazioni caucasiche rimangono in larga parte oscuri. Si è parlato di una sorta di “memoria indoeuropea” del Caucaso, osservando come queste popolazioni abbiano comunque vissuto a stretto contatto con quelle indoeuropee nel corso dei loro rispettivi processi di formazione etnoculturale. Ed alcuni storici ed antropologi come Thomas Gamkhelidze e Vjaceslav Ivanov hanno avanzato l’ipotesi che proprio l’area compresa tra l’Alta Mesopotamia e l’Anatolia sia stata in realtà la zona principale di irradiamento delle popolazioni indoeuropee. Tuttavia, il Caucaso, nonostante la sua posizione centrale, è sempre stato considerato una zona di confine dalle potenze imperiali che si sono succedute nell’area. E proprio la sua complessità geografica ha in qualche modo favorito l’isolamento dei suoi abitanti. Infatti, terra di confine dai contorni mitici ed allo stesso tempo snodo geostrategico cruciale, il Caucaso, per la sua intrinseca complessità etnica, geografica e culturale, ha sempre rappresentato una sorta di enigma per tutte quelle entità imperiali che nel corso della storia hanno cercato di dominarlo senza tuttavia mai comprenderlo del tutto. I geografi arabi lo definirono Djabal al-Alsun, ovvero “la montagna delle lingue”, sottolineando ancora una volta la molteplicità culturale che colpiva tutti i viaggiatori che percorrevano l’antica via della seta. La stessa conquista zarista, la cui dimensione imperiale, soprattutto nell’Ottocento, ebbe un inusitato afflato mistico, messianico e civilizzatore, concentrandosi essenzialmente sulla difesa della cristianità nell’area e sulle tre etnie principali (armeni, azeri e georgiani), e nonostante il suo intrinseco carattere multietnico e multi-religioso, non riuscì nel proposito di soggiogare totalmente ai proprio interessi le bellicose popolazioni dell’area. Obiettivo che solo l’Unione Sovietica, a seguito di grandi sacrifici e di una pesante repressione, riuscì a portare a compimento definitivo.

Tuttavia, la violenza e le rivendicazioni territoriali, riemerse una volta crollato l’URSS, hanno dimostrato ancora una volta l’artificiosità di confini disegnati senza tenere conto dei processi evolutivi storici e geografici che le popolazioni dell’area caucasica, tanto nella parte settentrionale (di fatto la più complessa dal punto di vista della diversità etnico-religiosa) quanto nella parte meridionale, hanno affrontato nel corso dei secoli. E, di fatto, hanno dimostrato, ancora una volta, come l’adulteramento culturale imposto dalla modernità occidentale, e con precisi scopi geopolitici, risulti intrinsecamente pernicioso in aree geografiche che hanno vissuto larga parte della propria storia all’interno di contesti imperiali che contribuivano, in nome della stabilità, a non fomentare l’odio etnico e religioso. A titolo esplicativo si può prendere in considerazione la storia dell’Armenia: “il paese delle pietre urlanti” come lo definì il poeta Osip Mandel’stam. Il Regno di Armenia, sotto Tiridate III e grazie all’influsso del santo e teologo Gregorio l’Illuminatore, fu la prima entità statuale, seppur tributaria dell’Impero romano, a fare del cristianesimo la religione di Stato nel 301 dopo Cristo. E la stessa Chiesa apostolica armena sancì la sua separazione sia dall’Occidente che dall’Oriente bizantino non riconoscendo l’esito del Concilio di Calcedonia le cui tesi vennero rigettate dal Concilio di Dvin del 455 nel quale la posizione armena si allineò al miafisismo professato da Cirillo di Alessandria. I territori allora occupati dal Regno, orientato soprattutto sull’Anatolia e sull’area costiera del Caucaso nel Mar Nero, come quelli del Tema armeno sotto i bizantini, non corrispondevano in toto con gli attuali confini dello Stato armeno che solo in minima parte occupa i territori ancestralmente popolati dagli armeni. E paradossalmente, più dell’attuale Armenia, è proprio la regione contesa dell’Artsakh (nota con il nome turco di Karabakh – l’odierna enclave armena interna all’Azerbaigian), ad essere storicamente un’area geografica propriamente a maggioranza armena.

Questo fattore spiega in parte la difesa ad oltranza, quasi religiosa, che la popolazione armena dell’Artsakh, nel momento dell’implosione sovietica, ha opposto di fronte alla possibilità della sua assimilazione all’interno del territorio dello storicamente ostile Azerbaigian. E dimostra l’ancestrale attaccamento di un popolo, che si identifica in un comune destino storico, alla propria terra di origine: un sentimento difficilmente spiegabile in prosa ma ben narrato dalla poeticità della lingua armena e dai suoi meravigliosi letterati come Gregorio di Narek e Sayat Nova. Ed un sentimento che in epoca sovietica il regista Sergej Paradzanov fu abile a tradurre in immagini.

La lunga pax mongolica, oltre ad aver dato forma allo sviluppo commerciale dell’area, ebbe altresì il merito di limitare l’inevitabile scontro etnico e religioso tra le popolazioni autoctone della regione e la sempre più cospicua presenza turca e musulmana che raggiunse il suo apice intorno al XIV secolo con le invasioni delle confederazioni tribali turcomanne dei Kara Koyunlu (Montoni Neri) e soprattutto degli Ak Koyunlu (Montoni Bianchi); turchi Oghuz di cui gli odierni azeri si ritengono diretti discendenti. Tuttavia, da questo momento in poi, gli armeni, con l’esclusione proprio dell’Artsakh, che solo nel 1750 divenne a tutti gli effetti parte integrante di un khanato turco, iniziarono a vivere in condizione di sudditanza politica, nonostante le loro innate capacità commerciali favorirono lo sviluppo di una fiorente borghesia mercantile che, alla pari dei Fanarioti greci di Costantinopoli, costituì l’asse portante dell’economia ottomana.

E proprio la rivalità socio-economica, tanto all’interno dell’Anatolia quanto nel Caucaso, alla pari dell’antagonismo religioso e dei sentimenti nazionalistici, scatenò le violenze etniche e settarie che si risolsero nel progressivo sradicamento e sterminio della popolazione armena entro i confini dell’Impero ottomano, prima e durante la Prima Guerra Mondiale, e nella guerra armeno-tatara del 1905 all’interno della Russia zarista che dalla seconda metà dell’Ottocento divenne potenza egemone nel Caucaso a discapito tanto degli ottomani quanto della Persia. Un processo intrinsecamente legato alla colonizzazione turca e curda (proprio i gruppi paramilitari curdi, noti come basi bozuk, ebbero un ruolo primario, su spinta del potere ottomano centrale, nel genocidio armeno) dei territori storicamente popolati dagli armeni ma che solo nell’Ottocento, con l’irresponsabile diffusione da parte delle potenze europee di materiale propagandistico nazionalista, e col malcelato gioco geopolitico volto a sfaldare il “non civilizzato” Impero ottomano con la scusa della difesa della cristianità oppressa, raggiunse i suoi picchi di odio: un odio essenzialmente di classe ma ben mascherato da odio etnico e religioso, visto che la popolazione armena dell’Impero ottomano, nel momento dello scoppio del conflitto mondiale, ma anche nel corso delle precedenti guerre russo – turche, rimase in larga maggioranza fedele al Sultano.

L’odierna situazione di estrema instabilità che contraddistingue la regione caucasica è eredità e risultato di alcune infauste politiche attribuibili in larga parte alla Russia zarista più che alla politica delle nazionalità attuata dai bolscevichi che ha almeno avuto il merito di congelare la conflittualità latente. Si legga a tal proposito lo scritto di Stalin del 1913 Il marxismo e la questione nazionale; uno scritto utile per capire le prospettive ideologiche entro le quali il Vozd (capo supremo) operò le sue scelte politiche nei confronti non solo della regione caucasica ma anche dell’Asia Centrale. Di fatto, la politica staliniana delle nazionalità, volta alla precisa definizione del concetto di nazione come comunità storica e culturale, seppur responsabile dell’artificiosità dei confini delle odierne entità statuali dell’area, ebbe il merito di attenuare quelle tensioni etniche che il regime zarista, solitamente estraneo a tali subdole pratiche, nel momento della sua irreversibile decadenza, aveva invece esacerbato e fomentato pur di infrangere quelle forme di solidarietà di classe che si vennero a creare a causa dell’inusitato sviluppo industriale dovuto essenzialmente alla ricchezza della regione in termini di risorse naturali. Lo scontro violento e brutale tra armeni ed azeri del 1905, non a caso esploso in concomitanza con i moti rivoluzionari nella Russia interna, di fatto, rappresenta il preludio dell’odierno scenario conflittuale che contraddistingue i due paesi dal crollo dell’URSS in poi.

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Distribuzione delle etnie caucasiche

Nel momento unipolare successivo all’implosione dell’Unione Sovietica, il Caucaso è tornato prepotentemente protagonista della scena politica internazionale in quanto zona di frontiera in cui giganteschi interessi geostrategici contrastanti si intersecano con la latente conflittualità interna. La politica statunitense nell’area, da leggere all’interno del progetto di costruzione del “Grande Medio Oriente”, ovvero di un’area geografica totalmente subordinata all’interesse imperialistico nordamericano, era volta essenzialmente alla diversificazione dei fornitori di materie prime ed alla costruzione di infrastrutture che escludessero dal gioco geopolitico tanto l’indebolita Russia quanto l’Iran. Di fatto, l’evoluzione dello scontro geopolitico nel Caucaso, come afferma lo storico Aldo Ferrari, ha portato alla formazione di due assi di alleanze divergenti: l’asse “verticale” composto da Russia, Armenia ed Iran (estremamente ostile nonostante la comune fede sciita proprio al filo-occidentale Azerbaigian); e l’asse “orizzontale”, sostenuto dagli Stati Uniti e costituito da Azerbaigian, Georgia e Turchia. La mai del tutto debellata presenza gihadista nel Caucaso russo e l’attuale recrudescenza della crisi nel Nagorno Karabakh sono entrambi sintomi dell’inasprirsi dello scontro geopolitico nell’area del Levante che al momento vede soccombere la progettualità imperialistica nordamericana ed il progressivo deterioramento di quell’asse orizzontale di alleanza costituito essenzialmente sul mero interesse politico ed economico dei suoi diversi componenti.

Gli scontri tra armeni ed azeri iniziarono, tuttavia, ben prima del definitivo crollo dell’URSS. Già sul finire degli anni Ottanta, Baku lanciò dei veri e propri pogrom anti-armeni per contrastare le rivendicazioni dell’Alto Karabakh ad unirsi alla Repubblica Armena. Pogrom che solo una altrettanto brutale repressione delle truppe sovietiche riuscì a placare. Il plebiscito che sancì l’indipendenza armena nel settembre 1991 e l’elezione a presidente della Repubblica di Levon Ter Petrosian, già leader del Comitato Karabakh, ridiedero vigore alle rivendicazione degli armeni in territorio azero che, attraverso un altro plebiscito, sancirono l’indipendenza della regione col nome di Repubblica armena dell’Artsakh. Tale decisione trasformò lo scontro etnico in una guerra aperta che vide prevalere nettamente gli armeni, grazie all’appoggio russo e iraniano, che non solo hanno espulso gli azeri dell’enclave ma hanno addirittura conquistato diverse posizioni in territori a maggioranza azera occupando militarmente ben sette province/distretti nel territorio dell’Azerbaigian. Questa posizione, di fatto, dal momento del cessate il fuoco del 1994, e nonostante gli scontri a fuoco e le vittime dell’aprile 2016, è rimasta sostanzialmente invariata. E risulta abbastanza facile leggere la recrudescenza di tale conflitto come un tentativo per destabilizzare ulteriormente i rapporti e le posizioni russe e turche nel Caucaso nel momento in cui il conflitto siriano e l’abbattimento, proprio per mano turca, del caccia russo SU-24 stavano conducendo alla definitiva rottura diplomatica tra i due paesi. L’Armenia, una delle più sviluppate repubbliche in epoca sovietica, ha sofferto particolarmente della rottura delle relazioni economiche legate all’esistenza stessa dell’URSS.

La difficile situazione economica venutasi a creare nel momento dell’indipendenza è stata ulteriormente aggravata da una posizione geopolitica non proprio vantaggiosa. Priva di sbocchi al mare e con le sue frontiere bloccate nella doppia morsa turca di Azerbaigian e Turchia, che la esclude da diverse prospettive di sviluppo economico e dal potenziale transito delle risorse energetiche dell’Asia Centrale (è in fase di ultimazione, ad esempio, la linea ferroviaria BTK – Baku, Tbilisi, Kars), la piccola Repubblica armena ha scelto di condurre una politica del “doppio binario”, ben consapevole dell’intrinseco legame culturale che la lega alla Russia, garante della sua sicurezza, senza però tralasciare una sostanziale apertura anche nei confronti dell’Occidente. La diaspora armena è in particolar modo molto attiva tanto negli USA quanto in Francia. Tuttavia, proprio questa apertura verso l’Occidente e la massiccia presenza di ONG occidentali sul territorio armeno, nel momento dell’adesione del paese all’Unione Economica Eurasiatica nel gennaio del 2015, ha indotto al quasi automatico tentativo di rivoluzione colorata, in puro stile Gene Sharp e George Soros, palesatosi col nome di Electric Yerevan: una protesta “popolare” (l’1% della popolazione che pretende di rappresentarne la maggioranza) scaturita dall’aumento della bolletta della corrente elettrica ma che in realtà mirava al ben più aggressivo obiettivo del cambio di regime. Ovviamente le accuse di dittatura nei confronti del “corrotto regime” del presidente Serz Sargsyan non si sono fatte attendere. Paradossalmente anche da parte della dinastia presidenziale azera degli Aliyev; già al centro di un caso che nel 2013 fece giurisprudenza nel campo dell’osservazione elettorale internazionale in quanto venne smascherato l’approccio politico e partigiano con il quale diverse organizzazioni internazionali ed ONG agirono in modo da presentare come libero e corretto un processo elettorale di fatto ampiamente caratterizzato da intimidazioni e violenze.

Non ottenuto l’obiettivo del cambio di regime con la protesta “pacifica” del movimento Electric Yerevan ovviamente hanno fatto la loro comparsa i gruppi paramilitari nazionalisti che accusano il governo armeno di un atteggiamento troppo morbido nei confronti della questione dell’Artsakh. Uno in particolare, il gruppo Parlamento Costituente, nel luglio 2016 ha assediato una stazione di polizia a Yerevan richiedendo il rilascio del suo leader, Jirair Seiflian; militante ultranazionalista, veterano del conflitto nel Karabakh, unitosi nel 2015 al gruppo di opposizione Nuova Armenia di Raffi Hovanisian, strettamente connesso con l’ambasciata statunitense e la Fondazione Soros. È chiaro che una nuova escalation dello scontro nell’Artsakh (l’Azerbaigian ha accusato gli armeni di aver violato il cessate il fuoco per ben trentacinque volte nel solo giorno del 25 gennaio), così come il favorire lo sviluppo di forme di “guerra ibrida” sul territorio armeno, rappresenti un preciso obiettivo geopolitico occidentale, e nordamericano in particolare, mirante a destabilizzare i recenti e notevoli passi in avanti della diplomazia russa che, oltre ad avere ristabilito normali relazioni diplomatiche con la Turchia, hanno favorito il riavvicinamento con l’Azerbaigian (è in fase di studio, ad esempio, un possibile corridoio energetico che colleghi il colosso energetico russo Gazprom al gasdotto turco-azero TAP, oltre al già famoso Turckish Stream).

Nonostante le reciproche accuse, i negoziati per una definitiva risoluzione del conflitto stanno conoscendo una rinnovata attività che non ha avuto precedenti in passato. E soprattutto il presidente azero Ilham Aliyev si è mostrato disponibile ad un compromesso purché la Repubblica dell’Artsakh restituisca almeno le regioni “occupate” a maggioranza azera. Appare evidente che la Russia dovrà giocare un ruolo estremamente cauto se vorrà mantenere buoni rapporti tanto con lo storico alleato armeno quanto con l’Azerbaigian. L’eventuale successo di un nuovo negoziato sancirebbe la rottura definitiva dell’asse orizzontale di alleanza il cui ultimo componente apertamente filo-occidentale e pro-NATO rimane la Georgia. La situazione resta comunque estremamente difficile da sbloccare in quanto si contrappongono due differenti principi giuridici internazionali: l’intangibilità delle frontiere (a favore dell’Azerbaigian) e il diritto all’autodeterminazione dei popoli (a favore degli armeni dell’Artsakh).

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Armenia e possibilità di investimento nel fotovoltaico: incentivi e fondi (Etribuna.com 01.02.17)

Si è svolta nella capitale armena una conferenza rivolta a potenziali investitori nel settore fotovoltaico: l’iniziativa, volta a presentare le opportunita’ di investimento in Armenia per lo sviluppo dell’energia solare, e’ stata organizzata dal locale Fondo per le risorse rinnovabili e l’efficienza energetica (R2E2) e

patrocinata dal Ministero dell’Energia, dalla Banca Mondiale e dai Fondi per gli Investimenti per il Clima-CIFs. Aprendo i lavori, il presidente armeno Serzh Sargsyan ha evidenziato l’impegno del proprio Paese in campo energetico. La strategia governativa prevede lo sviluppo delle fonti rinnovabili a prezzi sostenibili, lo sviluppo dell’efficienza energetica, l’integrazione regionale e la diversificazione delle fonti nonche’ l’aggiornamento della produzione di energia atomica attraverso il temporaneo prolungamento della vita del vetusto impianto di Metsamor (programma cui contribuisce anche la Ue) e, successivamente, la realizzazione di una nuova centrale di tipo moderno e con potenza inferiore a 600MW.

La produzione da fonti rinnovabili beneficia di incentivi: la normativa garantisce per 20 anni l’acquisto dell’energia prodotta tramite fonte solare, eolica o biogas, assicurando pagamenti tempestivi ai produttori con la formula “Take or Pay”. Un particolare accento e’ stato posto sullo sviluppo delle minicentrali idroelettriche (Shpp), in gran parte realizzate da privati. La produzione di energia da Shpp e’ infatti decuplicata nel corso dell’ultimo decennio, grazie anche ad investimenti diretti esteri per circa 300 milioni di dollari; vi sarebbe spazio per realizzare ulteriori centrali.

Il potenziale del fotovoltaico viene stimato in circa 6.000 MW, con  opportunita’ di investimento pari a 8 miliardi di dollari. Una prima gara internazionale rivolta a produttori indipendenti verra’ indetta quest’anno per la realizzazione e la gestione di sei impianti (da 9 a 55 MW). L’energia eolica avrebbe un potenziale complessivo di 800 MW. Le opportunita’ di investimento in tale settore ammonterebbero a circa 1,2 miliardi di dollari. E’ inoltre in corso un progetto pilota nel settore dell’energia geotermica con attivita’ di perforazione per la realizzazione di una centrale da 30 MW. Si prevede che una prima gara internazionale verra’ indetta nel 2018. Le autorita’ ritengono possibile realizzare circa 30 centrali, e le opportunita’ di investimento in tale campo sarebbero pari a 100 milioni di dollari.  (Farnesina)

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Azerbaijan e diritti umani: tempesta sul Consiglio d’Europa (Osservatorio Balcani e Caucaso 31.01.17)

La credibilità dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è ai minimi termini. E si tentenna sull’avviare un’indagine indipendente sulle gravi accuse di corruzione che la riguardano

31/01/2017 –  Gerald Knaus

Quella pubblicata di seguito è una lettera pubblica inviata da Gerald Knaus, direttore del think tank ESI , che fornisce un approfondito quadro sulla cosiddetta vicenda della “Diplomazia del caviale” in seno al Consiglio d’Europa.

La prima sessione annuale dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE) ha preso il via, lo scorso 23 gennaio, in un clima di gravi accuse relative a fenomeni corruttivi che avrebbero influenzato le dinamiche di voto su questioni relative ai diritti umani.

Il 21 novembre 2016, la principale trasmissione di giornalismo investigativo in Italia, Report, in onda su Rai3, ha trasmesso un servizio sulla corruzione nel Consiglio d’Europa. Si concentrava in particolare sull’ex leader del Partito popolare europeo in seno al PACE, l’italiano Luca Volontè e vi si affermava:

“Cos’è il Consiglio d’Europa? E’ un’organizzazione internazionale fondata nel 1949 per proteggere e difendere i pilastri della democrazia: libertà d’espressione, diritti umani e il succedersi di governi democraticamente eletti…. Strasburgo una città al cuore della nostra storia, nella quale il Consiglio d’Europa ha sede. Qui è in atto un tipo molto particolare di diplomazia, che ha un nome curioso, la ‘Diplomazia del caviale’. Il 17 dicembre 2016 l’ESI ha pubblicato il suo secondo report sulla “Diplomazia del caviale” titolato “The European Swamp (Caviar Diplomacy Part 2) – Prosecutors, corruption and the Council of Europe. Nel report si sottolinea: “Luca Volontè ha pubblicamente ammesso di aver ricevuto 2.3 milioni di euro da Suleymanov, un altro membro del PACE, rappresentante dell’Azerbaijan. I trasferimenti di denaro iniziarono alla vigilia di un voto importante sui diritti umani in Azerbaijan. Se tutto questo non è in violazione del Codice di condotta dei membri del PACE, allora il Codice non ha alcun senso”.

L’ESI ha inoltre messo in guardia sul fatto che “qualsiasi riforma seria in seno alla PACE incontrerà senza dubbio la strenua resistenza di chi sta beneficiando dello status quo”. Il 18 gennaio 2017 ESI ha inoltre pubblicato un’altra newsletter, titolata “The FIFA of human rights – beyond lip-service on anti-corruption”. Vi si trova un altro avvertimento:

“Attualmente la PACE ha un sistema corruttivo peggiore della FIFA. E la PACE non se la passa meglio in comparazione con la maggior parte dei parlamenti nazionali che rappresenta… il Consiglio d’Europa non può rimanere la FIFA dei diritti umani”. A tutto questo è seguito, il 20 gennaio, un appello redatto da Transparency International (TI), l’Ong leader al mondo in tema di anti-corruzione:

“Transparency International e sei delle sue sedi europee hanno oggi richiesto a tre dei principali funzionari del Consiglio d’Europa di avviare delle indagini sulle accuse di corruzione emerse nei confronti dell’organizzazione ed esprimono il loro disappunto sull’apparente mancanza di meccanismi interni anti-corruzione in una della più importanti istituzioni europee relative ai diritti umani”.TI ha chiesto al Consiglio d’Europa di avviare “strutture in grado di garantire l’integrità in linea con i migliori standard internazionali” e di: “promuovere un’indagine indipendente, guidata da un esperto in materia, sui fatti relativi al voto in seno alla PACE sui prigionieri politici del gennaio 2013, e sui comportamenti dei membri della delegazione dell’Azerbaijan”.

Amnesty International ha, lo stesso giorno, anch’essa inviato una lettera ai principali funzionari a Strasburgo, lettera poi resa pubblica il 24 gennaio:

“Le accuse relative alla condotta impropria di alcuni membri dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa per influenzare i contenuti e le votazioni relative alle risoluzioni dell’Assemblea sono serie, credibili e rischiano di nuocere gravemente la credibilità e l’integrità dell’Assemblea come istituzione dedita nel difendere e promuovere i diritti umani”.

La sessione invernale: la denuncia della corruzione in seno alla PACE

All’apertura della sessione invernale, il 23 gennaio scorso, la prima a parlare, la socialista francese Josette Durrieu, decana alla PACE, ha dettato i toni:

“Denunciamo ogni forma di corruzione: il male profondo che rende fragili gli stati, le istituzioni, gli individui. Più che altrove è proprio qui al Consiglio d’Europa che dovremmo essere vigili”.

“Alcuni parlamentari membri della nostra assemblea pare siano stati coinvolti in questioni relative alla loro missione e alle loro funzioni. Sembrano coinvolti in questioni che sono solitamente competenza della magistratura e che avrebbero coinvolto poi altri parlamentari e quindi il cerchio si sarebbe ampliato. Il Consiglio d’Europa deve affrontare questa questione. Questi dubbi e questi sospetti sono intollerabili per l’immagine del Consiglio d’Europa. La nostra forza non è finanziaria e non è militare. Non abbiamo alcun esercito e nemmeno un grande budget. La forza del Consiglio d’Europa è la morale. Siamo veicoli e garanti di valori universali”.

La Durrieu si è poi rivolta direttamente al presidente della PACE, lo spagnolo Pedro Agramunt:

“Occorre avviare un’indagine indipendente e occorre farlo in tempi rapidi. Parlo direttamente al Presidente dell’Assemblea, che deve essere a breve nominato”.

Al suo intervento è seguito quello di Mogens Jensen, ex ministro della Danimarca ed a capo della delegazione danese:

“E’ molto importante che la nostra Assemblea ed il presidente fughino al più presto i dubbi e chiariscano in modo netto due elementi: innanzitutto che l’Assemblea non accetta e non tollera la corruzione e che la combatterà in tutte le sue forme; in secondo luogo che in merito alle accuse rivolte ad alcuni dei suoi membri verranno avviate delle indagini. E’ un segnale molto importante da mandare ai cittadini, che si fidano dell’Assemblea”.

Il leader del gruppo della Sinistra europea unita, il parlamentare olandese Tiny Kox, ha sottolineato che la corruzione è “una minaccia orribile per tutti noi qui. Dobbiamo essere consapevoli che qualsiasi accusa di corruzione è un’accusa contro tutti noi… Se non ci comportiamo bene, non saremo nella posizione di dire agli altri come ci si dovrebbe comportare”.

Il conservatore britannico Ian Liddell-Grainger, a capo dei Conservatori europei e discendente della Regina Vittoria ha sottolineato che “quest’organizzazione è stata creata da molte persone, tra le quali Winston Churchill, per essere il faro della democrazia in nazioni disgregate dalla guerra… ma la corruzione s’insinua in ogni parte della vita. Ognuno di noi, nel proprio parlamento, ha un modo per affrontarla e lo stesso avviene qui. Ora basta con la retorica e basta dirsi “Va bene, daremo un’occhiata”.

La liberale Anne Brasseur, già presidentessa della PACE, si è indirizzata all’Assemblea dicendo:

“La nostra credibilità viene messa in dubbio, ma è a rischio anche il rispetto dei diritti umani nei 47 paesi membri. Non possiamo spazzare tutto sotto il tappeto e chiudere gli occhi… Non sarebbe una sorpresa se qualcuno dicesse che il Consiglio d’Europa è una perdita di tempo ed è inutile. Credo ancora in quest’organizzazione. Dobbiamo essere sicuri di fare tutto il possibile per difendere i nostri valori, lo stato di diritto e i diritti umani in tutti i paesi membri”.

Svizzeri, paesi nordici, baltici e Benelux

Il giorno successivo la delegazione svizzera ha mandato una dura lettera a Pedro Agramunt:

“La delegazione svizzera presso la PACE è profondamente preoccupata dalle accuse che emergono da reportage e da varie voci che mettono in dubbio i principi cardine della nostra assemblea, la sua integrità e la sua credibilità. Di fronte a queste accuse ed al dibattito che hanno sollevato siamo convinti che la PACE non vuole e non può permettersi di attendere che le vicende giudiziarie avviate a Milano diano luogo o meno ad una condanna, visto che il caso a cui si riferiscono non è il solo ad aver sollevato sospetti. La delegazione svizzera ritiene sia indispensabile che la PACE prenda in mano la questione e faccia luce su quanto accaduto”.

E’ seguita una seconda lettera, da parte di otto delegazioni baltiche e del nord Europa:

“Le recenti accuse contro l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e contro i suoi membri in merito a fatti di corruzione e conflitto di interessi stanno danneggiando l’integrità e la credibilità dell’Assemblea. Le accuse non si riferiscono ad un unico caso. E’ perciò di massima importanza che la PACE avvii azioni concrete che portino ad indagini trasparenti ed indipendenti… Per queste ragioni le delegazioni nordiche e baltiche chiedono al Bureau di avviare immediatamente un’indagine indipendente ed esterna sulle accuse mosse”. Subito hanno fatto seguito altre delegazioni (quella del Belgio, dell’Olanda e altre).

L’iniziativa Omtzigt – Schwabe per l’integrità

Mercoledì 25 gennaio un gruppo di parlamentari guidati dal parlamentare olandese Pieter Omtzig (EPP) e dal tedesco Frank Schwabe (SPD) hanno presentato una dura dichiarazione che ha sparigliato le carte. Da una parte nella dichiarazione si chiede alla PACE di far due cose concrete; dall’altra si chiede a tutti i membri dell’Assemblea, a prescindere dall’appartenenza politica, di sostenere la dichiarazione:

“Noi, sottoscritti membri dell’Assemblea parlamentare riteniamo che l’Assemblea debba:

1. Stabilire senza ritardi un’indagine esterna, pienamente indipendente e imparziale sulle accuse di comportamento improprio e di corruzione che potrebbero aver condizionato il lavoro dell’Assemblea negli anni recenti, concentrandosi in particolare sulle accuse relative al voto sui prigionieri politici in Azerbaijan avvenuto nel gennaio 2013; le conclusioni dell’indagine e i suoi risultati dovrebbero essere resi noti direttamente all’Assemblea ed al pubblico in generale.

2. Assicurarsi che il Codice di condotta dell’Assemblea venga rafforzato in linea con le migliori pratiche internazionali e le raccomandazioni poste dal GRECO [Gruppo di Stati contro la Corruzione]; e che venga monitorata un’osservanza rigida di questi standard implementati da un meccanismo permanente indipendente istituito in seno all’Assemblea”.

In poche ore la dichiarazione ha raccolto 64 firme in rappresentanza di 25 paesi tra le quali anche quella di un altro ex presidente dell’Assemblea, il francese Jean Claude Mignon (EPP) è i leader di conservatori, socialisti e gruppi di sinistra: 7 parlamentari della Gran Bretagna, 5 di Lussemburgo, Svezia e Olanda, 4 di Svizzera, Francia e Germania, 3 di Finlandia, Grecia e Norvegia.

La dichiarazione ha ricevuto anche un sostegno che attraversa i vari gruppi politici: 29 socialisti (e verdi), 15 dell’EEP, 10 della Sinistra europea unita, 9 dei liberali dell’ALDE e 1 dei Conservatori europei. E’ sorprendente però che nessun delegato spagnolo, polacco o turco e solo un italiano l’abbiano ad oggi sottoscritta. Quante altre firme raccoglierà sino ad aprile? E chi invece vi si opporrà?

La risposta di Agramun: è colpa delle Ong

Di fronte alle domande che giungevano da ogni dove e che chiedevano una sua replica il presidente della PACE Pedro Agramunt, da più di un decennio uno tra i principali apologi del regime azero, ha deciso di continuare a fare quello che ha fatto per anni: chiedere alla PACE di serrare i ranghi. Già al primo giorno d’assemblea ha definito il dibattito sulla corruzione come una “questione d’onore”: “Come presidente dell’Assemblea non permetterò che il suo onore e quello di un qualsiasi suo membro venga diffamato. Non posso permettere che quest’Assemblea venga utilizzata come un luogo dove condurre battaglie contro paesi percepiti come rivali e nemici. Non posso permettere campagne di odio, minacce o pressioni orchestrati da chi non è contento del risultato delle votazioni… E’ importante comprendere che gli attacchi illeciti all’onore e alla reputazione di un individuo potrebbero richiedere una difesa nei tribunali”.

Jordi Xuclà, altro apologo di lungo periodo dell’Azerbaijan, anche lui spagnolo, oggi a capo del gruppo ALDE, ha utilizzato un’argomentazione simile:

“Siamo politici. Non dobbiamo guardare a questa questione solo dall’angolazione legale; dobbiamo parlare della reputazione e dell’immagine di quest’organizzazione e quindi combattiamo la diffamazione”.

Il 25 gennaio i due spagnoli sono stati affiancati da Axel Fischer, successore di Luca Volontè e Pedro Agramunt come leader dell’EPP alla PACE. Parlamentare della tedesca CDU Fischer ha anche scritto una lettera ad Agramunt, chiedendogli di avviare indagini, ma non sul comportamento dei parlamentari, ma sulle Ong che hanno sollevato la questione:

“Ci aspettiamo che tutti gli attuali membri e quelli del passato dell’Assemblea parlamentare… rispettino le regole dell’Assemblea e, prima di collaborare con delle Ong, si accertino del lavoro, degli obiettivi e dei finanziamenti di tali Ong… Richiediamo che le attuali regole e procedure dell’Assemblea e tutti gli altri codici di condotta vengano verificati in modo da adattarli in tal senso e in modo si possa reagire in maniera efficace. Stia sicuro signor Presidente che la nostra posizione in merito alla corruzione è quella della tolleranza zero”.

E’ una risposta degna di Donald Trump: il problema della PACE non sarebbe quindi il comportamento di Luca Volontè, che ha ammesso in TV di aver ricevuto il denaro mentre faceva parte della PACE, né l’assenza di meccanismi credibili anti-corruzione; il problema sarebbe il lavoro di Ong come ESI, Amnesty International e Transparency International.

La scelta della PACE: showdown in aprile?

In conclusione, a seguito dei giorni di dibattito intenso in plenaria e nei corridoi di Strasburgo, i membri della PACE ora debbono affrontare una scelta. Un’opzione è di sottoscrivere la dichiarazione di integrità : sostenendo così la richiesta di un’indagine seria ed esterna sulle accuse sollevate e di riformare un codice di condotta attualmente debole in modo imbarazzante. Questa strada porta alla redenzione morale e ridà credibilità ad un’istituzione che rimane di importanza vitale.

L’altra opzione è di seguire Agramunt affermando, senza alcuna prova a riguardo, che chi chiede che si affronti la corruzione “è finanziato dagli armeni” e di ignorare le richieste di avviare un’indagine seria.

Quale sarà la scelta della maggioranza della PACE? Ce lo diranno le settimane che ci dividono dalla sessione di aprile.

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«Mia nonna è arrivata in America scappando da Aleppo» (Corriere della Sera 30.01.17)

NEW YORK «La forza dell’America, il suo successo, lo straordinario fascino dell’ American dream : il sogno che si realizza. Tutto questo è stato costruito sulle spalle degli immigrati che abbiamo sempre accolto: gente di ogni religione e origine etnica che ha lavorato duro per la grandezza di questo Paese. Gente che fuggiva dalle persecuzioni o voleva solo offrire un avvenire migliore alla sua famiglia. Non possiamo rinnegare tutto questo: è contro i nostri interessi e la nostra storia».

Quella di Ian Bremmer è una delle tante voci di condanna del decreto presidenziale di Donald Trump che ha bloccato l’ingresso dei cittadini di sette Paesi musulmani negli Usa. Il politologo e fondatore di Eurasia usa argomenti economici («Il 40 per cento delle grandi imprese americane, quelle dell’indice Fortune 500, è stato fondato da immigrati o dai loro figli») e politici («negli Stati Uniti siamo riusciti a integrare gli islamici nella società molto meglio che altrove: un patrimonio da non dissipare») per spiegare la sua avversione alle barriere volute dal nuovo presidente.

Ma Bremmer ha anche un motivo personale più profondo per lanciarsi in questa battaglia civile: la sua famiglia ha origini armene e la nonna è arrivata negli Stati Uniti, all’inizio del Novecento, proprio da quella Siria che oggi è uno dei Paesi messi al bando dalla Casa Bianca. «Mio padre», racconta il politologo nato e cresciuto a Boston, «è morto quando io avevo quattro anni. Ho scarse memorie di lui e ho sempre avuto pochi contatti coi miei parenti dal lato paterno, tutti residenti nel West». Quella di Bremmer ricorda un po’ la storia di Barack Obama, cresciuto senza padre, allevato anche lui dalla madre e dai nonni materni.

Pure per Ian la figura-chiave dell’adolescenza diventa la nonna, Maria Orfaly (al centro nella foto): «Una donna arrivata qui da bambina, sbarcata a Ellis Island nel 1923, col padre Simon e la madre Tourfanda: erano sopravvissuti al genocidio degli armeni e venivano a cercare il loro spicchio di sogno americano. Maria era una donna dura, orgogliosa, impegnatissima nel sociale: in Massachusetts ha proposto leggi per la tutela degli anziani. È stata lei a trasmettermi la passione per la politica».

Senza i suoi parenti armeni e l’aiuto di quella comunità, per Bremmer, forse, la storia sarebbe stata diversa. Quando morì il padre, infatti, la madre dovette trasferirsi coi figli nelle case popolari di Boston dove vivevano i nonni. Anni di grandi ristrettezze economiche, di sacrifici per far studiare i figli. Ian aveva scoperto la sua vocazione quando era ancora uno studente delle medie: la nonna portò a scuola il vicegovernatore del Massachusetts, Tom O’Neill, e lui lo intervistò per un giornale locale, il Chelsea Record .

Studente brillante, Bremmer ha potuto frequentare le migliori università, fino al dottorato di ricerca a Stanford, grazie al sostegno dell’Agbu, l’Associazione degli armeni in America, che gli ha offerto una borsa di studio. È riuscito, così, a coronare un sogno filtrato attraverso le soffrenze di un popolo perseguitato: un bisnonno, Simon Ourfalian (in America cambierà il cognome in Orfaly), che sposò Tourfanda Kassabian nella città turca di Adana, in Turchia. Poi l’emigrazione per sfuggire alle persecuzioni. Prima ad Aleppo, in Siria, dove Simon ha un certo successo come mercante. Poi, nel 1923, la partenza dal porto del Pireo, in Grecia, su una nave americana, la SS King Alexander, e la nuova vita negli Usa.

Passando attraverso Ellis Island: isola della speranza ma anche del dolore, perché anche allora, pur senza la minaccia del terrorismo islamico, l’America non accoglieva tutti. «Certo», ammette Bremmer, «i massicci flussi d’immigrazione erano una sfida per quel giovane Paese. Ma il numero di quelli che sono stati accolti è enorme. E la ricchezza e le capacità che hanno portato negli Stati Uniti è ugualmente incredibile: comunità dinamiche come quella armena, rifugiati rapidamente diventati motori della prosperità americana. Capisco che oggi chi arriva da Paesi islamici può essere percepito da una parte dei nostri concittadini come una minaccia, ma l’America ha sempre saputo gestire e riassorbire questi timori, ha integrato i nuovi arrivati nelle comunità locali. Se smettiamo di essere un faro e cominciamo a discriminare e a respingere alimenteremo risentimenti ed estremismo. Rendendo l’America un luogo non solo meno civile, ma anche meno sicuro».

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Il Consiglio d’Europa e il caso Azerbaijan tra regali e milioni (Corriere della Sera 30.01.17)

La storia si svolge dentro al Consiglio d’Europa, che è il presidio nato nel 49 per difendere i pilastri della democrazia: libertà d’espressione, diritti umani, successione di governi democraticamente eletti. Tutti i paesi che nel corso degli anni hanno chiesto di aderire (come le ex repubbliche sovietiche), hanno firmato la convenzione che li obbliga a rispettare questi principi non negoziabili. Se un Paese li viola, il Consiglio deve condannare, sanzionare, o sospendere; la patente di paese democratico non si compra. Dentro al Consiglio d’Europa l’Azerbaijan da una decina d’anni ha attivato la nota «caviar diplomacy» : nessun parlamentare nega di aver ricevuto dai colleghi azeri almeno una scatoletta del pregiato caviale del Caspio. Che sarà mai! Luca Volontè quando dentro l’Assemblea era presidente del più numeroso gruppo politico europeo, il PPE, accetta dal deputato e lobbista azero Suleymanov, qualcosa in più in più: una «donazione» di 10 milioni di euro, ripartita in pagamenti da 100mila euro al mese. Alla base c’è una convenzione fra la ONG azera di Suleymanov e la Fondazione di Volontè che sta a Saronno; entrambe dichiarano di occuparsi di diritti umani. I versamenti iniziano nel 2013, arrivano da 4 società diverse, controllate da anonime collocate in Belize, Seychelles e British Virgin Island. Un anno dopo la BCC di Barlassina, dove Volontè ha i suoi conti, si allerta. Volontè spiega che si tratta di una consulenza sull’agroalimentare e presenta una fattura praticamente vuota. La Banca segnala l’operazione sospetta, si attiva la procura di Milano e il flusso di interrompe nel 2014 a quota 2 milioni e 390.000 euro. Prima domanda: perché una Ong che si occupa diritti umani, per versare dei soldi a una fondazione italiana triangola dai paesi più opachi del pianeta? Risposta di Volontè (che un po’ di paradisi se ne intende, avendo seguito corsi di filosofia in Liechtenstein): «Non vedo dov’è il problema».

I fondi per le consulenze

I soldi invece come sono stati usati? Volontè li motiva come consulenze personali al lobbista azero, ricerche, petizioni, iniziative non meglio precisate, in concreto la stampa di 2 brochures. Dopo due anni di indagine i magistrati milanesi chiedono il rinvio a giudizio per riciclaggio e corruzione: quei soldi sarebbero una tangente pagata dal governo dell’azerbaijan in cambio di appoggio politico nel Consiglio d’Europa. Proprio in quel periodo (gennaio 2013) si vota il rapporto sugli 85 prigionieri politici in Azerbaijan, e Volontè avrebbe orientato la votazione del gruppo popolare di cui era presidente. A supporto le dichiarazioni del deputato tedesco Strasser (autore del rapporto) e i corposi scambi di email fra Volontè e i politici azeri, come quella del deputato Muslum Mammadov che chiede di ritirare una risoluzione presentata al Consiglio d’Europa, e Volontè risponde: «Ogni Tuo desiderio è un ordine». Con 79 voti favorevoli e i 125 contrari la risoluzione di condanna viene bocciata. E’ importante evitare una risoluzione di condanna perché sporca la reputazione, e rende più difficili anche gli accordi commerciali. Proprio in quel periodo era in corso con il presidente Alyev quello molto travagliato sul Tap, il gasdotto che sbarcherà in Puglia. Ma forse è solo una coincidenza.

A processo a Milano

Venerdì scorso il gup del tribunale di Milano ha deciso di mandare a processo Volontè per il reato di riciclaggio (non riesce a spiegare da dove vengono quei soldi e a cosa servono), mentre per la corruzione «non luogo a procedere» perché coperto da immunità. La Procura ricorrerà in Cassazione poiché non viene contestata l’insindacabile decisione del singolo voto dell’ex parlamentare, ma la sua intera attività all’interno del Consiglio. Se quei soldi sono stati incassati per orientare i voti degli altri parlamentari o meno lo si può chiarire solo in un processo. Ancor più importante chiarirlo per la credibilità stessa dell’intero Consiglio d’Europa, e dei valori che rappresenta, per i quali abbiamo versato lacrime e sangue. Intanto in Azerbaijan la repressione interna contro gli oppositori politici e organi di stampa va avanti. In carcere sono un centinaio. In occasione delle ultime elezioni politiche del 2015 il parlamento europeo non ha inviato i suoi osservatori perché non esistevano le condizioni, e il governo ha chiuso gli uffici dell’Osce.

Paradiso fiscale

Il Presidente Alyev, che ha «ereditato» il paese dal padre nel 2003, sceglie i parlamentari e i giudici; ha appena prolungato la durata dei mandati, ha abolito il limite minimo di età per la candidatura a presidente (basta avere 18 anni, forse sta preparando la successione per il giovane figlio). Le banche piu importanti, le holding, i settori piu produttivi, sono tutti in mano sua. Dei 135 miliardi di dollari di entrate statali provenienti dal petrolio, 48 li ha portati nei paradisi fiscali. Le figlie Arzu e Leyla, usano società panamensi per controllare le compagnie di telefonia mobile, la banca azera Atabank e sei miniere d’oro in Azerbaigian. È la giornalista azera Khadija Ismaylova ad aver scoperto i Panama Papers della famiglia Aliyev. Lei sulla base di un’accusa inventata si è presa sette anni e mezzo di carcere. Dopo le pressioni internazionali la pena è stata sospesa. Le accuse si inventano anche nei confronti di cronisti stranieri.

Confronti

A fine novembre scorso, la sottoscritta, dopo aver dedicato una puntata di Report all’intera vicenda, curata da Paolo Mondani, ha avuto l’onore di vedersi dedicate ben 8 pagine sul più diffuso sito on line del paese «Day.Az» molto vicino al governo. L’articolo, a firma di Elchin Alyoglu, mi discrive cosi: «Milena Gabanelli è definita dai media italiani la Dino Alfieri in gonna (Alfieri fu sottosegretario alla stampa e propaganda di Mussolini, nda). I politici italiani sanno della coincidenza fra la data del ritorno della Gabanelli dall’Armenia e dal Karabah, dove ha incontrato i leader separatisti, e l’inizio della pseudo indagine» (in Armenia e Karabah ci sono stata come inviata all’inizio del conflitto, nel 1992 nda). Prosegue:« Ha partecipato all’audizione anti-azera nella Commissione dei Diritti Umani del Congresso degli Stati Uniti, dove su 23 presone presenti in sala c’erano 12 rappresentanti dell’Armenia e Milena Gabanelli»(non sono mai entrata nella sala del Congresso Usa in vita mia, nda). Aggiunge: «E’ possibile che abbia ricevuto aiuto materiale e tangibile dalla stessa lobby armena. Infatti i giornalisti italiani scrivono sui social media della natura avara, avida e insaziabile della loro collega». Infine: «Ha contatti frequenti con i capi delle organizzazioni della diaspora armena in Francia, Italia, Germania, Spagna, Grecia». In effetti ho incontrato un famoso artista di origine armena che ha aiutato i suoi connazionali in difficoltà, e lo ho intervistato 2 anni fa in Francia, si chiama Charles Aznavour.

Milena Gabanelli

La ricerca di nuovi Giusti continua. Di Victoria Baghdassarian (Gariwo 30.01.17)

Pubblichiamo di seguito il discorso di Victoria Bagdassarian, Ambasciatrice della Repubblica d’Armenia, al convegno “Dalla memoria della Shoah ai Giusti del nostro tempo” tenutosi alla Camera dei deputati il 26 gennaio 2017

Cari amici, sono lieta di essere qui, alla vigilia delle commemorazioni per la Giornata della Memoria, e di condividere con tutti voi l’importanza dei Giusti. Ringrazio la Vice Presidente della Camera Marina Sereni per l’ospitalità. Ringrazio gli organizzatori dell’evento, l’Onorevole Milena Santerini e Gabriele Nissim per Gariwo. Saluto la Presidente Noemi Di Segni dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane e tutti gli altri relatori.

Oggi siamo qui per ricordare e siamo qui per tramandare. Non è facile né l’una né l’altra cosa. Ci affidiamo perciò a quegli uomini di buona volontà che hanno fatto delle scelte “nonostante tutto”, i Giusti, coloro che nel corso della storia, di fronte a genocidi e omicidi di massa hanno difeso la dignità umana e salvato vite a rischio della propria.

Dal 1962, anno in cui fu istituita in Israele la Commissione per il conferimento dell’onorificenza di Giusto tra le Nazioni, sono più di 26.000 i Giusti tra le Nazioni onorati dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah.

E questo vuol dire che sono più di 26.000 le storie che dobbiamo preservare e raccontare. Come quella di Giorgio Perlasca che a Budapest si finse un diplomatico spagnolo riuscendo così a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica. O quella di Gino Bartali che trasportò, all’interno della sua bicicletta, dei documenti falsi per aiutare gli ebrei ad avere una nuova identità. Altre storie possiamo trovare a Gerusalemme: qui, tra gli alberi del Monte della Rimembranza e il Muro d’Onore del Memoriale, ci sono i nomi di quegli armeni che durante l’Olocausto salvarono ebrei, meritando così il titolo di “giusti tra le nazioni”.

Il Parlamento Europeo già nel 2012, con il suo sostegno all’istituzione della Giornata europea in memoria dei Giusti, prendeva l’impegno solenne di ricordare il 6 marzo di ogni anno quanti si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l’umanità e contro i totalitarismi.

La proposta di legge dell’Onorevole Santerini, dell’Onorevole Fiano e di altri ancora, per l’Istituzione della Giornata in memoria dei Giusti dell’umanità, è il prosieguo dell’impegno europeo. Non è un semplice atto amministrativo ma – come ha scritto Gabriele Nissim in un bellissimo articolo – una libera scelta. Ogni singolo può, attuando una libera scelta, opporsi alla barbarie collettiva.

Abbiamo bisogno dei Giusti per imparare dal loro esempio, dalle loro azioni ad affrontare temi come l’immigrazione, i terrorismi, le guerre, le derive estremiste, i nazionalismi. Abbiamo bisogno dei Giusti per evitare che si ripetano i crimini contro l’umanità.
Credo, e da armena lo credo ancora di più, che questo sia lo scopo di tutti i nostri sforzi.

Della Presidente Di Segni che domenica ha organizzato la RUN FOR MEM – la maratona attraverso i luoghi della memoria; dell’Onorevole Santerini che sostiene lo strumento legislativo come mezzo di sensibilizzazione; di Gabriele Nissim e di Pietro Kuciukian che con Gariwo fanno in modo che nei giardini non crescano solo alberi ma esseri umani coscienti; di Françoise Kankindi che non è mai stanca di raccontare dei tragici fatti del Rwanda.

Dalla sua indipendenza l’Armenia si impegna strenuamente in una politica di prevenzione dei genocidi, di lotta contro i crimini contro l’umanità, promuove mozioni e organizza forum a livello internazionale. Lo ha fatto nel 2013 alla sua prima presidenza del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, dichiarando tra le sue priorità la lotta al razzismo e alla xenofobia.

È su iniziativa armena che nel Marzo del 2015 a Ginevra il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, ha adottato la risoluzione sulla Prevenzione del genocidio. È grazie a questa risoluzione che la proposta di istituire il 9 dicembre (data dell’adozione della Convenzione della “Prevenzione del crimine del genocidio”) come il giorno della commemorazione delle vittime del genocidio è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Lo fa quotidianamente nelle scuole: come riporta l’UNESCO, l’Armenia è infatti l’unico Paese dell’area in cui i programmi scolastici prevedono l’insegnamento dell’Olocausto.

Lo ha fatto ancora nel 2015 quando l’Armenian Genocide Centennial – che ha coordinato gli eventi commemorativi del centenario del genocidio degli armeni in tutto il mondo – ha sottolineato l’importanza della gratitudine, del riconoscere il profondo valore morale di chi ha salvato una, decine, centinaia o migliaia di vite umane. Perché, voglio ribadirlo con forza, ricordare il bene ricevuto, è un atto di prevenzione.

L’Armenia è grata a tutti i curdi e i turchi che segretamente salvarono i loro vicini armeni. È grata agli arabi e agli ebrei che diedero rifugio a coloro che riuscirono a sopravvivere alle marce della morte verso la Mesopotamia, così come ai russi, agli americani e agli europei che accolsero e si presero cura degli orfani armeni. È grata ai religiosi, ai missionari, ai diplomatici, alle personalità pubbliche e a quelle nazioni che hanno partecipato agli sforzi umanitari. È grata agli studiosi, ai ricercatori, agli intellettuali in genere che hanno impiegato – e proseguono a farlo – le loro forze per fare luce su un crimine commesso più di cento anni fa.

E sulla gratitudine di tutti gli armeni – in patria come in diaspora – si basa anche l’azione dell’Aurora Humanitarian Initiative – l’iniziativa umanitaria nata nel 2015 e ispirata ad Aurora Mardiganian sopravvissuta al genocido armeno – il cui board è costantemente impegnato a condividere le storie dei sopravvissuti e dei salvatori e di celebrare la forza dello spirito umano. Tra le loro attività vorrei ricordare l’Aurora Prize for Awakening Humanity che premia quell’individuo le cui azioni hanno avuto un impatto eccezionale nel preservare la vita umana e nel promuovere cause umanitarie.

Ogni anno viene assegnata – tra centinaia di candidature presentate – una donazione di 100.000 dollari a nome dei sopravvissuti del genocidio armeno. Il premiato ha a sua volta l’opportunità di nominare un’organizzazione che possa beneficiare di un ulteriore premio di 1.000.000 di dollari. Nell’aprile 2016 a Yerevan, alla presenza di George Clooney – che, con i premi nobel Oscar Arias, Shirin Ebadi, Leymah Gbowee, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’attivista per i diritti umani Hina Jilani, l’ex primo ministro australiano e presidente emerito dell’International Crisis Group Gareth Evans, l’ex presidente del Messico Ernesto Zedillo, il presidente della Carnegie Corporation of New York Vartan Gregorian e il compianto Elie Wiesel, fa parte del comitato di selezione – c’è stata la prima vera cerimonia ufficiale di assegnazione dell’Aurora Prize a Marguerite Barankitse “per aver salvato migliaia di vite ed essersi presa cura di orfani e rifugiati durante la guerra civile in Burundi”.

Per il 2017 sono state presentate 558 candidature da 66 diverse nazioni.

La ricerca di nuovi salvatori, di nuovi Giusti da ricordare, continua.

Abbiamo bisogno di altri Fridtjof Nansen e Henry Morgenthau come durante il genocidio degli armeni. O di altri Irena Sendler e Raoul Wallenberg come durante la Shoah. O di un nuovo Paul Rusesabagina come durante il genocidio ruandese. O di un nuovo Van Chhuon durante il geocidio cambogiano.

E che dire di un altro Ambasciatore Barbarani – qui presente e che saluto – che tanto fece durante la dittatura in Cile?

Grazie a tutti e buon lavoro.

Analisi di Victoria Bagdassarian – Ambasciatrice della Repubblica d’Armenia

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Paolo Kessisoglu: una nuova immagine degli armeni (Discover-armenia 29.01.17)

Scommetto che conoscete il duo comico Luca e Paolo, ma forse non sapete che Paolo di cognome fa Kessisoglu e ha origini armene. Io lo sapevo dal 2007, quando iniziai a frequentare l’Armenia per lavoro e un giornalista me ne parlò. Tuttavia, fino all’anno scorso tutto quello che sapevo di lui, era quello che riporta Wikipedia alla voce Paolo Kessisoglu. Poi il 12 aprile 2016 finalmente incontrai Paolo al concerto per il centenario del genocidio armeno al Teatro La Fenice a Venezia. Gli chiesi se potevo intervistarlo: ci è voluto un po’ di tempo, ma quelle che seguono sono le sue risposte.

Raccontaci delle tue origini armene. Da dove proviene la parte armena della tua famiglia e com’è giunta in Italia?
Molto in sintesi, le origini arrivano da mio nonno paterno Kaloust (Callisto) che nel ’22 scappa da Akhisar con padre, madre, sorella più piccola e nonna per salvarsi dall’esercito ottomano. Si salvano imbarcandosi su una nave italiana che li sbarca in Grecia dove, ironia della sorte, la sorellina muore cadendo dalle scale. Nel gennaio del ’23 mio nonno Callisto arriva in Italia a Trieste.

Come hai scoperto le tue origini armene?
Le mie origini sono state chiare da subito in quanto mio nonno veniva da là, scriveva, parlava in armeno ed era orgoglioso di esserlo.
Purtroppo non parlava molto della sua terra, molto pochi i racconti e le esperienze di vita. Mi avrebbe entusiasmato conoscere anche particolari della sua vita d’infanzia oltre che le barbarie dei turchi e quanto incivile fosse il loro odio.

Quali sono i tuoi sentimenti riguardo al tuo essere di origini armene e come sono eventualmente cambiati nel tempo?
Con il tempo ho preso coscienza di molte cose e, occupandomi di comunicazione (che è parte del mio lavoro), mi sono interessato alle mie origini da un punto di vista più ampio e meno ego-referenziato. Sono entrato in contatto con alcuni armeni attivi e dal pensiero moderno, come l’ex ambasciatore Sargis Ghazarian col quale siamo diventati amici e con il quale ho spesso parlato dell’Armenia e dell’immagine che, a mio avviso, il mondo ha degli armeni. Spesso gli ho confidato che avremmo dovuto fare in modo che ciò cambiasse.

In che modo la tua appartenenza armena ha influenzato il tuo modo di essere?
Ho compreso con il tempo che il mio essere armeno può e deve essere un viatico per comunicare una nuova immagine di questo popolo affascinante per genialità, brillantezza intellettuale ed estro artistico. Nessuno, o pochi, lo sanno e troppo spesso il popolo armeno viene percepito unicamente come strana gente sofferente. Agli armeni viene solitamente abbinata l’idea della sconfitta, della desolazione legata al genocidio e questo perché in fondo scegliamo arbitrariamente ciò che vogliamo vedere. Se mi è concesso, il sentimento di compassione verso qualcuno o un popolo intero che riteniamo “looser” è più appagante del rispetto per chi si rialza con fierezza.
Gli armeni l’hanno fatto ogni giorno da sempre, ma nessuno ha la curiosità di andare oltre la superficialità.

In famiglia si parlava armeno? Tu lo parli? 
Ho imparato solo qualche lettera dell’alfabeto, perché serviva a mio nonno, commerciante, per codificare la merce, ma non mi sono mai spinto più in là. Chissà, non è mai troppo tardi.

Sei mai stato in Armenia? 
Da molti anni progetto di percorrerla in bici e sono certo che prima o poi lo farò. Sarebbe la mia prima volta e amo pensare di avvicinarla gradualmente, come piace a me.

Che cosa apprezzi di più della civiltà, della cultura e della tradizione armena?
Ciò che più apprezzo dell’Armenia e del suo popolo è che è stato in grado di rialzarsi e di combattere sempre con coraggio e determinazione guardando sempre avanti.

Ci consigli un libro, un film, un brano o un’opera d’arte armena?
Consiglio di cercare gli scritti di William Saroyan e di ascoltare la musica di Aram Khachaturian.

Che rapporti hai con la comunità degli armeni in Italia?
Stretto anche se non quotidiano. Mi chiamano, mi propongono cose spesso e sono contento di questo. Nel mio lavoro i miei collaboratori cercano di mettere qualche filtro per non ingolfare i vari impegni, ma per gli armeni ci sono sempre, nei limiti degli impegni ovviamente. Diciamo che sanno come raggiungermi.

Partecipi mai a incontri e iniziative dedicati a far conoscere la storia e la cultura dell’Armenia?
In questi ultimi anni ho spesso partecipato ad eventi e manifestazioni legate ad anniversari e ricorrenze importanti per la comunità armena e sono stato orgoglioso di prestare la mia voce recitando poesie o solo leggendo racconti di pensatori e poeti armeni. Ho dato la mia disponibilità per grandi eventi anche solo pensati in embrione, che mai hanno raggiunto la realizzazione e lo farò ancora.
Insomma, l’Armenia chiama e Kessisoglu risponde… si diceva così più o meno, no?

Non so a voi, ma a me la storia del nonno paterno di Paolo Kessisoglu, sembra uscita dal romanzo La strada di Smirne di Antonia Arslan. Come la famiglia del nonno di Antonia, anche quella del nonno di Paolo nel 1922 si trova a Smirne, città cosmopolita, dove migliaia di armeni trovano riparo dai massacri e dalle deportazioni iniziate il 24 aprile 1915. Il 13 settembre 1922 le forze ottomane incendiano Smirne: è l’ultimo atto dello sterminio pianificato dai Giovani Turchi per eliminare gli armeni e le altre minoranze cristiane dal territorio dell’Impero Ottomano. Riesce a salvarsi solo chi, come Callisto, il nonno di Paolo, riesce a imbarcarsi su una delle navi straniere ancorate nel porto della città. Anche nel loro caso, il cognome della famiglia viene modificato. Infatti, il cognome armeno Keshishian, durante la fuga viene turchizzato in Keşişoğlu (con l’aggiunta della desinenza patronimica -oğlu) per non attirare l’attenzione.

A distanza di oltre un secolo, un’altra storia di quegli armeni che sono riusciti a sfuggire al genocidio e a rifarsi una nuova vita in Italia. Quante storie rimangono ancora da raccontare?

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Letture e canti per gli Armeni Serata di memoria (Il Giornale di Vicenza 27.01.17)

Questa sera, 27 gennaio 2017, alle 20.30 nella sala Soster di palazzo Festari di corso Italia a Valdagno è in programma un appuntamento inserito nel calendario di eventi che ruotano attorno al Giorno della memoria che ricorre oggi. Con un concerto accompagnato da letture di Giuseppe Dal Bianco, Giuseppe Laudanna e Mauro Lazzaretti, “In memoria di Padre Komitas” vuole ricordare il genocidio armeno, il cui centenario è stato celebrato nel 2015. Protagoniste della serata le musiche eseguite con il Duduk, strumento tradizionale armeno, intervallate da alcune letture che raccontano le drammatiche vicende di Padre Komitas, causate dai tragici fatti del Genocidio, e brani tratti dai libri di Antonia Arslan e dal romanzo “Raccontami dei fiori di gelso” di Aline Ohanesian.

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