Condannare con fermezza la distruzione in Siria da parte dell’ISIS della Chiesa Armena innalzata nel luogo del martirio delle vittime del genocidio

La chiesa armena di Deir el-Zor, eretta nel 1990 a ricordo delle centinaia di migliaia di armeni che in tale località trovarono la morte al termine della marcia di deportazione imposta dal governo turco nell’ambito del piano genocidiario del 1915, è stata fatta saltare in aria dai miliziani dell’Isis. Il crimine è stato perpetrato il giorno 21 settembre, anniversario della indipendenza della repubblica di Armenia.

Ne ha dato notizia il ministro degli Affari Esteri dell’Armenia, Edward Nalbandian che ha definito tale azione una “orribile barbarie”.

Il crimine commesso da miliziani fondamentalisti dell’Isis è ancor più grave giacché avviene proprio alla vigilia dell’anniversario del centenario del genocidio.
A Deir el-Zor (anche Deir ez-Zor, Dayr az-Zawr, Deir al-Zur), in pieno deserto siriano, terminavano le carovane della morte del 1915; i sopravvissuti o furono gettati vivi nelle cavità carsiche del luogo o vennero lasciati morire di fame e di malattie nel deserto.

L’opinione pubblica armena ha chiesto alla Turchia, recentemente accusata di “sostenere” l’Isis, di condannare la devastazione della chiesa, ma ad oggi nessun comunicato ufficiale è pervenuto da Ankara.

Il Consiglio per la comunità armena di Roma nel denunciare l’ennesimo atto di violenza contro il popolo armeno, chiede ai media ed alle istituzioni italiane di condannare con fermezza la distruzione della chiesa (dedicata ai “Santi Martiri”) edificata in quella che è stata definita la “Auschwitz degli armeni”, meta di pellegrinaggio ogni anno, il 24 aprile, in occasione della commemorazione del Metz Yeghern (il “Grande Male”).

FONTI

http://www.armradio.am/en/2014/09/22/armenia-condemns-the-destruction-of-the-saint-martyrs-church-in-deir-el-zor/

http://www.tempi.it/siria-stato-islamico-distrugge-la-chiesa-che-commemorava-il-genocidio-a-deir-ezzor-auschwitz-degli-armeni#.VCF_dBZ0YxI

http://it.radiovaticana.va/news/2014/09/22/siria_lis_distrugge_chiesa-memoriale_delleccidio_armeno/1107052

http://armenpress.am/eng/news/777252/if-turkey-is-not-behind-deir-ez-zor-church-explosion-it-should-condemn-terrorism-vigen-sargsyan.html

Pressalert: L’ennesimo articolo filo Azero

La testata “L’Opinione” ha pubblicato un articoletto a firma Martelloni nel quale si dà spazio al consueto nazionalismo antiarmeno dell’Azerbaigian. Evidentemente la visita del presidente Aliyev in Italia nei giorni scorsi ha dato i suoi frutti…

“Iniziativa italiana per il Karabakh” ha già provveduto ad inviare una nota di protesta per il contenuto dell’articolo. 

Invitiamo i nostri lettori a fare altrettanto ed a far arrivare al direttore Diaconale  la civile ma ferma condanna per articoli che sembrano scritti su commissione.

Testo della lettera da trasmettere al direttore di l’Opinione:

diaconale@opinione.itredazione@opinione.it

egr. direttore,

l’articolo di Romolo Martelloni sul Nagorno Karabakh (19 luglio) non affronta in alcun modo la questione ma si limita a riportare false affermazioni di fonte azera.

E’ inaccettabile che un argomento così delicato venga affrontato in modo tanto superficiale quanto antistorico. Gli armeni del Nagorno Karabakh-Artsakh hanno liberamente scelto di vivere nel loro stato libero ed indipendente votando il referendum del 1991 mentre dal cielo cadevano i missili azeri Grad.

Ospitare le tesi azere senza alcun riguardo ad una verifica dei fatti o a un diritto di replica squalifica il suo giornale, alimenta sospetti ed offende profondamente le comunità armene in Italia e nel mondo.

Firma e data

Lettera di protesta trasmessa a firma del Consiglio per la comunità armena di Roma al direttore della testata. 

Egr. Direttore,

l’articolo di Romolo Martelloni sul Nagorno Karabakh (19 luglio) non affronta in alcun modo la questione ma si limita a riportare false affermazioni di fonte azera.

E’ inaccettabile che un argomento così delicato venga affrontato in modo tanto superficiale quanto antistorico. Gli armeni del Nagorno Karabakh-Artsakh hanno liberamente scelto di vivere nel loro stato libero ed indipendente votando il referendum del 1991 mentre dal cielo cadevano i missili azeri Grad.

Ospitare le tesi azere senza alcun riguardo ad una verifica dei fatti o a un diritto di replica squalifica il suo giornale, alimenta sospetti ed offende profondamente le comunità armene in Italia e nel mondo.

Non sappiamo quali siano stati i motivi che hanno spinto Martelloni a sostenere la tesi insostenibile della propaganda Azera e non è nostra intenzione controbattere le falsità riportate nel pezzo, che possono comunque  essere smentite usando le stesse fonti azere. Ma un domanda ci viene spontanea: Perchè il presidente Aliyev, al posto di elargire ingenti somme di denaro a degli estranei, non si preoccupa del destino del suo popolo e dei profughi che da più di 25 anni vivono in condizioni disumane? 

La verità si trova sempre dietro l’angolo. C’è chi la cerca e la trova e c’è chi sceglie l’opportunità di guardare e di cercare sempre laddove gli è più comodo.

Distinti saluti

Consiglio per la comunità armena di Roma

REPLICA DI INIZITIVA ITALIANA PER IL KARABAKH

Caro Diaconale,

fa bene il Suo opinionista Romolo Martelloni a lamentarsi del silenzio sul contenzioso relativo al Nagorno Karabakh. Ma la sua superficiale, approssimativa ed impropria analisi sulla materia rischia di apparire solo come vuota cassa di risonanza del nazionalismo dell’Azerbaigian.

Già dovrebbe essere imbarazzante per un giornalista occidentale dare credito alle tesi di uno stato che “Reporter Senza frontiere” colloca agli ultimissimi posti nella classifica mondiale di “Freedom world press index”, uno stato antidemocratico, che incarcera oppositori politici ed attivisti dei diritti umani e che solo i soldi del petrolio riescono a rendere “presentabile” al mondo.

Martelloni non è nuovo alle sviolinate azere e leggere certe affermazioni sulla Sua testata potrebbe indurre qualche superficiale analista a ritenere che la cosiddetta “politica del caviale” abbia purtroppo di nuovo colpito in Italia.

Siamo certi che vorrà correggere le argomentazioni di Martelloni e, se lo riterrà opportuno, affrontare la vicenda da un punto di vista oggettivo dando corretto rilievo alle argomentazioni storiche, politiche e giuridiche che stanno alla base del diritto all’autodeterminazione del popolo armeno del Nagorno Karabakh; chiedendo a Martelloni, magari, di approfondire le proprie conoscenze sui pogrom antiarmeni in Azerbaigian alla fine degli anni Ottanta e sul citato massacro di Khojaly che fu attuato dagli stessi azeri del Fronte Popolare nel tentativo di rovesciare, con quei morti, il governo di allora. Ma questa è tutta un’altra storia.

Cordiali saluti

INIZIATIVA ITALIANA PER IL KARABAKH

www.karabakh.it

 

ll “silenzio stampa”  sul Nagorno Karabakh di Romolo Martelloni

19 luglio 2014

 

http://www.opinione.it/esteri/2014/07/19/martelloni_esteri-19-07.aspx

 

Della visita del presidente Aliyev, conclusasi il 15 luglio, si è parlato molto nei media italiani in questi giorni. La questione della Trans Adriatic Pipeline e la donazione che l’Azerbaigian ha voluto devolvere al Comune di Roma a supporto dell’opera di restauro dei Fori Imperiali sono stati gli argomenti maggiormente trattati. E certamente, la definitiva approvazione del Governo italiano alla realizzazione della parte finale del gasdotto che dovrebbe portare in Italia e in Europa il gas azerbaigiano – liberandoci così dalla dipendenza da paesi come Russia, Algeria e Libia – non è cosa di poco conto.

Così come non si può non apprezzare il virtuoso gesto compiuto dal ministro della Cultura della Repubblica dell’Azerbaigian, Abulfaz Garayev, che sottoscrivendo una donazione di un milione di euro ribadisce il rispetto che l’Azerbaigian e il suo popolo nutrono nei confronti della cultura e nella tutela di patrimoni che non appartengono solo al Paese che li ospita, ma che sono patrimoni dell’umanità intera. Ed è apprezzabile che questi importanti traguardi vengano raccontati e pubblicizzati.

Al contrario, non è apprezzabile che argomenti meno “glamour”, ma con una priorità che dovrebbe essere massima rispetto a tutto il resto, vengano raccontati a bassa voce, se non del tutto omessi, soprattutto in queste importanti occasioni.

Sì, perché parlare di Nagorno Karabakh è ancora un tabù in Italia, come in molti altri Paesi europei. Probabilmente la maggior parte della popolazione italiana non sa neanche cosa sia il Nagorno Karabakh. E se forse può percepire che si tratta di un luogo, probabilmente non lo saprebbe collocare.

Parlare di occupazioni, di conflitti, di genocidi non è certamente “glamour”, ne tanto meno “conveniente”. Ma la gente vuole sapere, la gente deve sapere. Spesso ho sentito parlare del conflitto del Nagorno Karabakh come di un “conflitto dimenticato”, ma la verità è un’altra; la verità è che questo è un conflitto “censurato”, che solo a parlarne bisogna avere paura perché potresti esser definito una persona non obiettiva o ancor peggio manipolata.

Il fatto agghiacciante è che oggi in Azerbaigian vivono quasi un milione di persone tra rifugiati e sfollati interni, come risultato del conflitto tra Armenia e Azerbaigian. E questo è sicuramente un dato certo.

Così come è un dato certo che il 26 febbraio 1992 le bande armate e l’esercito armeno hanno sterminato quasi interamente la popolazione della città di Khojaly, facendo strage di civili con un pesantissimo bilancio: 613 vittime, tra cui 106 donne e 83 bambini. Questi sono tutti dati certi, ma di cui non si può parlare.

La questione del Nagorno Karabakh è molto più ampia, e certo non si può raccontare in queste poche righe. Ma parlarne non dovrebbe far paura. Dovrebbe far più paura il silenzio che si cela dietro questa enorme tragedia della nostra storia contemporanea. Il silenzio è l’arma più pericolosa, dietro il quale ci si nasconde per cercare di lasciare tutto immutato fino a che arrivi l’oblio. Ma come si può pensare che un popolo, una nazione possano dimenticare questa ferita aperta nella loro storia, nella vita dei loro fratelli che in un attimo hanno perso tutto: i propri cari, la propria casa, la propria dignità.

Nelle scorse settimane il presidente Aliyev, parlando alle comunità internazionali in due importanti occasioni – l’assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo e l’assemblea parlamentare dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) tenutasi a Baku – ha voluto ricordare la sofferenza del suo popolo e il dramma dei profughi del Nagorno Karabakh; ma soprattutto ha voluto ricordare che nonostante le quattro risoluzioni Onu, le decisioni dell’Osce, del Parlamento europeo, dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, dell’Organizzazione islamica per la cooperazione e perfino del gruppo di Minsk – copresieduto da Francia, Russia e Stati Uniti – gli armeni continuano a violare le leggi internazionali, infliggendo ancor più dolore di quanto ne abbiano già inflitto dall’inizio del conflitto del Nagorno Karabakh.

E vorrei aggiungere che il “silenzio stampa” posto sull’argomento, diventa anch’esso involontariamente complice di questa grande ingiustizia.

Pressalert II: Il Giornalista Martelloni ribadisce le sue tesi di matrice Azera sul Nagorno Karabakh. La disinformazione continua….

n data 19 luglio 2014 La testata “L’Opinione” ha pubblicato un articoletto fazioso a firma del giornalista Martelloni dal titolo ll “silenzio stampa”  sul Nagorno Karabakh. >> http://www.opinione.it/esteri/2014/07/19/martelloni_esteri-19-07.aspx

Ci siamo immediatamente attivati inviando una nota di protesta alla testata ed invitando i nostro lettori a fare altrettanto. Ed in effetti alla redazione di L’Opinione ne sono giunte delle lettere di cui alcune sono state pubblicate. Ecco i relativi link: 

 

In data 26 luglio 2014 il giornalista Martelloni ha voluto controreplicare alle repliche di cui sopra ed ha pubblicato un nuovo articolo  col titolo Il Nagorno Karabakh e la verità dei fatti” continuando a sostenere le tesi di matrice Azera.http://www.opinione.it/esteri/2014/07/26/martelloni_esteri-26-07.aspx

Abbiamo ritenuto opportuno riformulare, in data odierna (27/7), una lettera di protesta al direttore della testata che riportiamo di seguito:

Egr. dott. Diaconale,

abbiamo letto la replica, a dire il vero piuttosto stizzita…,  del giornalista Romolo Martelloni pubblicata il 26 luglio 2014 col titolo “Il Nagorno Karabakh e la verità dei fatti” e non possiamo nascondere il nostro stupore di fronte a certe categoriche esternazioni che non fanno altro che consolidare l’idea che le tesi sostenute dal giornalista non possono ambire a rappresentare la verità dei fatti. Si limitano, invece, a sostenere sic et simpliciter le tesi del regime azero che in questi ultimi tempi sta investendo ingenti somme di denaro nel tentativo di presentare uno dei paesi agli ultimi posti della classifica della libertà di informazione e di rispetto dei diritti umani, come un modello da seguire.

 

Siamo invero pienamente concordi con il giornalista che “nel nostro paese (l’Italia) è in atto una campagna contro coloro che vogliono scoprire la verità su questo conflitto”. Ma dobbiamo rilevare che la verità non si scopre riportando le sole ragioni di una delle parti in conflitto, semmai vanno approfondite le ricerche e le informazioni e vanno messe a confronto le ragioni degli uni e degli altri. In caso contrario, e come afferma lo stesso Martelloni in un passaggio “per quanto ne so io”, i fatti riportati si riducono a idee e convinzioni personali, lontani da una seria ricerca giornalistica sulla verità.

A questo punto sorvoliamo volutamente dall’entrare in merito alle “idee chiare e oggettive sul conflitto”che il Martelloni sostiene di aver basato su “documenti e fatti inconfutabili adottati dalle organizzazioni internazionali”, poiché potremmo citarne altrettanti che sostengono l’esatto contrario di quanto riportato nell’articolo pubblicato.

Anche noi siamo ferventi sostenitori della pace, e non solo per la regione caucasica, visto che il popolo armeno è sparso in ogni angolo della terra, avendo già subito nel 1915 il primo genocidio del XX secolo ad opera del governo turco di allora (i cugini degli azeri di oggi peraltro convinti negazionisti). 

Sosteniamo la pace e siamo consapevoli che per il suo raggiungimento non ci sia bisogno di persone e di mezzi che fomentano odio, rabbia e inimicizia. Una pace che deve essere basata sul rispetto dell’altro e dei suoi diritti. Pace che deve essere raggiunta con la strada del dialogo; non quella percorsa da Martelloni che prima lamenta il silenzio sull’argomento, poi lo tratta a senso unico appoggiando il nazionalismo guerrafondaio della dittatura azera.

Con i migliori saluti.

Consiglio per la comunità armena di Roma

Anche “Iniziativa Italiana per il Karabakh”, ch è stata chiamata in causa da Martelloni, ha ribadito in una nuova lettera la propria posizione sementendo le tesi sostenute dal giornalista. Di seguito il testo:

ANCORA SUL NAGORNO KARABAKH: DOVEROSE PRECISAZIONI SULLA “VERITA’ DEI FATTI”

Leggiamo la replica del sig. Martelloni e ci paiono doverose alcune precisazioni. Non per mero spirito polemico, ma perché i lettori di questa testata abbiano contezza del problema.

Certo l’uso parziale delle fonti non giova alla comprensione dei fatti.

Su quanto accaduto a Khojaly sarebbe stato allora opportuno citarne anche altre, alcune delle quali di stessa provenienza azera.

È ampiamente noto agli esperti del conflitto (fra i quali non ci pare figuri il sig. Martelloni) che il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che bombardavano la popolazione civile armena. Alcune settimane prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azera sull’imminenza di un’azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili. Come riportato da fonti azere (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 31), Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dice: «Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono». Nella stessa fonte (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 16), Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dichiara: «Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…». Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: «Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly». Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Inoltre, nella sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov affermò: «Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili». Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero. Sempre Mutalibov, in un’intervista alla rivista «Novoye Vremia» del 6 marzo 2001 ribadisce: «Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan», alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly, quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku. E dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti. Alcuni dei quali sono stati incarcerati o sono morti in circostanze sospette.

Insomma perché gli armeni, dopo aver ripetutamente lanciato appelli affinché la popolazione civile abbandonasse la cittadina, avrebbero dovuto inseguire i fuggiaschi fino quasi a fronteggiare le linee nemiche per poi ucciderli? Perché i cadaveri (numero assolutamente imprecisato, non è mai esistita una contabilità precisa, il numero è andato aumentando mese dopo mese…) furono trovati in territorio controllato dagli azeri ad una manciata di chilometri da Agdam dove erano radunate migliaia di soldati dell’Azerbaigian? Perché alcuni cadaveri furono mostrati ai giornalisti a più riprese e uno dei corrispondenti, invitato per errore una seconda volta, notò che molti corpi erano stati nel frattempo “arrangiati” (scalpati, mutilati…) dagli stessi azeri? Perché le foto su internet dei corpi di Khojaly si riferiscono a cadaveri di terremoti o altri massacri?

Legga per favore i documenti sul nostro sito (“Dossier Khojaly” e “Undici domande su Khojaly”)

Egr. sig. Martelloni, su temi così delicati un serio giornalista non si limita a ricercare alcune fonti, ma le esamina tutte. Le risoluzioni ONU da Lei citate sono state votate (su iniziativa di Turchia e Pakistan…) nel pieno del conflitto nel tentativo di far cessare l’avanzata armena sull’esercito azero in rotta; avrebbe potuto anche citare la risoluzione del nostro Parlamento Europeo del 1988 contro i pogrom antiarmeni di Sumgait;  i riconoscimenti da Lei citati di alcuni stati fanno il paio con le altrettante risoluzioni a favore del diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno Karabakh, che è uno stato distinto dall’Armenia e formatosi in modo assolutamente legale e democratico.

La legge sovietica del 7 aprile 1990 prevedeva infatti che in caso di fuoriuscita di una repubblica socialista dall’Unione eventuali entità regionali autonome (come all’epoca era il NK, una oblast) avrebbero potuto liberamente scegliere se seguire la repubblica secessionista o rimanere nell’Urss.

Quando a fine agosto 1991 l’Azerbaigian fece la sua scelta gli armeni del NK si ritrovarono su un piatto di argento la possibilità di autodeterminarsi e tre giorni dopo costituirono la nuova entità statale; la Corte Costituzionale dell’Urss (26 novembre 1991), un referendum popolare (10 diembre 1991) ed elezioni politiche democratiche (26 dicembre 1991) sancirono il diritto di questo piccolo stato a vivere libero ed indipendente. Il 6 gennaio 1992 fu ufficialemnete dichiarata la nascita del nuovo stato, il 30 gennaio i carri armati azeri cominciarono ad avanzare nel suo territorio.

I rifugiati non furono un milione come gli azeri vanno reclamando ancora venti anni dopo: la città più popolosa fuori dall’Oblast Autonomo del Nagorno Karabakh era Agdam e contava sessantamila abitanti, in tutto l’oblast gli azeri erano non più di trentamila e nei territori circostanti (quasi disabitati) poche altre decine di migliaia. Uno stato che vive di petrolio e spende tre miliardi di dollari (sic!) all’anno per comprare armi può avere dei profughi venti anni dopo la fine del conflitto?

Nel 1988 un violento terremoto causo decine di migliaia di vittime nell’Armenia settentrionale. Il mondo si mobilitò in una gara di solidarietà senza precedenti e quella della Protezione Civile italiana fu la prima missione ufficiale all’estero. Si era ancora in regime di cortina di ferro. Anche l’Azerbaigian volle aiutare i fratelli armeni sovietici ed un carro merci di aiuti giunse nella capitale Yerevan; quando l’aprirono scoprirono al suo interno decine di cadaveri di armeni trucidati in Azerbaigian…

Lei, caro Martelloni, è ovviamente libero di scrivere tutto quello che ritiene opportuno e che il Suo direttore Le permette di pubblicare: ma non confonda un articolo come il Suo con un reportage storico e politico sulla questione.

Non venda come “verità dei fatti” solo una versione di parte, non si limiti a scopiazzare dati da Wikipedia, ma esamini cause e circostanze, cerchi di capire il problema e di analizzare tutti i fatti.

Perché ci domandiamo, un giornalista deve all’improvviso (in concomitanza con la visita del presidente azero a Roma…) prendere una posizione così netta (e ci consenta anche superficiale) su un tema come questo a favore di un regime come quello dell’Azerbaigian? Che, lo dice Reporter Senza Frontiere non gli armeni, è al 160° posto su 180 paesi nella classifica sulla libertà di informazione (l’Armenia con tutti i suoi problemi è 78a, l’Italia 49a).

Forse la democrazia e la libertà di Opinione non conteranno molto parlando di storia e politica, ma prima di schierarsi decisamente a favore di una parte qualche riflessione a 360° sarebbe pure necessaria.

Distinti saluti

INIZIATIVA ITALIANA PER IL NAGORNO KARABAKH

www.karabakh.it

Visita di Aliyev in Italia

COMUNICATO STAMPA

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO MATTEO RENZI IN OCCASIONE DELLA VISITA IN ITALIA DEL PRESIDENTE AZERO ILHAM ALIYEV

 

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” ha inviato al presidente del consiglio Matteo Renzi il seguente messaggio in occasione della prossima visita in Italia del presidente della repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev.

 

 

Signor Presidente del Consiglio,

tra pochi giorni sarà in Italia per una visita ufficiale di stato il Presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. Leggiamo dalle anticipazioni di stampa che giungerà nel nostro Paese per firmare importanti contratti economici. Quello del petrolio e del denaro è d’altronde l’unico strumento a disposizione dell’Azerbaigian per ottenere una ribalta internazionale. Da sempre, infatti, “pecunia non olet”.

E noi non ci permettiamo certo di discutere le opportunità economiche dell’Italia, anche se riguardano il controverso progetto TAP.

Ricordiamo però a noi stessi che l’Azerbaigian è agli ultimissimi posti nelle classifiche mondiali sulla libertà di informazione, che decine di giornalisti ed intellettuali azeri sono rinchiusi nelle carceri, che la tutela dei diritti umani è costantemente in peggioramento come evidenziato dagli ultimi drammatici rapporti delle organizzazioni internazionali, che l’Azerbaigian è indicato tra i paesi più corrotti e corruttori al mondo (al punto che il suo presidente è stato insignito nel 2013 dalla Organized crime and corruption reporting Project del titolo di “corrotto dell’anno”).

Non dimentichiamo come la cosiddetta “Politica del caviale” (sinonimo di corruzione e malaffare azero) si sia introdotta purtroppo, in maniera spesso subdola, anche in Italia.

E non dimentichiamo soprattutto come l’Azerbaigian continui ad infiammare il Caucaso meridionale cercando una soluzione bellica al problema del Nagorno Karabakh, spendendo miliardi di dollari per acquistare armi, continuando ad uccidere ragazzi armeni lungo il confine con l’Armenia e con la repubblica del Nagorno Karabakh contro la quale, a venti anni di distanza dalla firma del cessate il fuoco (dopo la guerra scatenata  e persa dagli azeri stessi) non cessa l’azione violenta per annullare il suo democratico diritto di avere un futuro di pace e libertà.

E, soprattutto, signor Presidente del Consiglio, non possiamo dimenticare come il Suo prossimo interlocutore abbia ripetutamente additato gli armeni, in ogni parte del mondo, come “un nemico principale da abbattere”.

Ecco, come italiani di origine armena, chiediamo che le nostre istituzioni ci siano vicine e non facciano da cassa di risonanza al nazionalismo guerrafondaio, razzista, armenofobo ed antidemocratico del dittatore Aliyev.

Gli affari sono affari, ma libertà, democrazia e diritti umani sono ben altro. E l’Italia non può dimenticarlo.

Grazie per la Sua attenzione e buon lavoro.

Con i migliori saluti

 

Consiglio per la comunità armena di Roma

Sergio Romano nega il genocidio armeno. Corriere della Sera

Ancora un volta ed a differenza della stragrande maggioranza dei suoi colleghi, l’editorialista del Corriere della Sera Sergio Romano, nega la realtà del genocidio armeno e sposa le tesi turche e quelle dello storico  Bernard Lewis che, negli anni novanta, fu addirittura condannato per la sua visione negazionista della storia.

Sul CDS del 08 maggio u.s. ad un replica dell’Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia Sergio Romano risponde che i fatti del 1915 non possono essere definite “genocidio”, ignorando che il termine stesso di “genocidio” fu coniato dal giurista ebreo – polacco Raphael Lemkin in chiaro riferimento al crimine commesso contro gli armeni da parte dell’allora governo turco. 

A meno di un anno dal centenario del genocidio armeno la Turchia sta predisponendo enormi somme di denaro per contrastare lo “tsunami” che la travolgerà. Chissà se parte di quel denaro sarà investito anche in italia? 

Noi sicuramente vigileremo.

Di seguito il testo della replica dell’Ambasciatore armeno e la risposta di Sergio Romano. Cds 08.05.2014

MASSACRI DEL POPOLO ARMENO LE RESPONSABILITÀ TURCHE OGGI

Replica dell’Ambasciatore

Nella sua rubrica del 1° maggio lei ascrive alla Armenia posizioni agli antipodi rispetto alla realtà documentata. Il mio non è un j’accuse all’onestà intellettuale dell’autore, né alla sua buona fede. D’altronde il Corriere è stato testimone eloquente del genocidio armeno. Sui protocolli armeno-turchi, la visita in Armenia del presidente turco Gul, del 6 settembre 2008 e non del 2007, fu iniziativa armena. Dopo un anno di mediazione elvetica, il 10 ottobre 2009, e non 2008, a Zurigo furono firmati due protocolli sull’istituzione di rapporti diplomatici e la normalizzazione dei rapporti bilaterali, inclusa l’apertura da parte turca del confine con l’Armenia. Presenti i ministri degli esteri francese, statunitense, russo, svizzero e l’Alto rappresentante Ue che chiesero alle parti (e tuttora chiedono alla Turchia) di ratificare i due protocolli senza precondizioni e in tempi ragionevoli. L’11 ottobre 2009, Erdogan precondizionò la ratifica dei protocolli a una soluzione pro-azera del conflitto del Nagorno- Karabach. Fu l’inizio del siluramento dei protocolli firmati il giorno prima. Contrariamente a quanto sostenuto da lei , i protocolli di Zurigo, i cui testi sono pubblici, non legavano la normalizzazione dei rapporti armeno turchi ai negoziati per il Nagorno-Karabach, ancora in corso sotto l’egida Osce. Invece, le dichiarazioni di Erdogan del 23 aprile scorso ai discendenti degli armeni sono state sorprendenti, anzi di un cinismo sorprendente. Erdogan ha parlato delle sofferenze di tutti i sudditi ottomani, mettendo sullo stesso piano vittime e carnefici. Fino a quando il premier turco definirà il genocidio armeno come un mero incidente della Prima guerra mondiale, con i bonari commenti di alcune voci della stampa internazionale, riuscirà nella sofisticazione del negazionismo di Stato turco. Io non reputo la sua dichiarazione del 23 aprile nient’altro che questo. Altri reputano le dichiarazioni di Erdogan troppo poco e troppo tardi. Bene, il 29 aprile Erdogan ha cinicamente chiesto: se ci fosse stato un genocidio, ci sarebbero ancora degli armeni in questo Paese (Turchia)? Che dire allora degli ebrei in Germania o dei tutsi in Ruanda? Dove lei ritiene non promettente la richiesta del presidente armeno alla Turchia di riconoscere il genocidio e liberarsi dal fardello della Storia, vorrei ricordare che tutti gli armeni attendono questo atto da 99 anni, ora insieme alla società civile turca e a quella parte di comunità internazionale che con atti di verità e libertà hanno riconosciuto il genocidio e invitato la Turchia a seguirli.

Sargis Ghazaryan, Ambasciatore Repubblica d’Armenia in Italia

Risposta negazionista si Sergio Romano

Caro Ambasciatore,
Il nodo della questione resta quindi, per l’Armenia, il riconoscimento del genocidio. Spero che non le spiaccia se la definizione è sempre parsa a me e a altri osservatori o studiosi (fra cui il noto storico anglo- americano Bernard Lewis) storicamente scorretta. È genocida la politica di un governo che si propone la totale eliminazione di un gruppo etnicoreligioso, come accadde per le comunità ebraiche durante il regime nazista. Ma nel caso degli armeni la situazione mi sembra diversa per almeno due ragioni.
In primo luogo la spietata repressione del 1915 colpì gli armeni della Turchia orientale, ma non fu estesa con le stesse modalità alle comunità di Istanbul e Smirne. In secondo luogo, la definizione non tiene conto del momento storico. La guerra era scoppiata da pochi mesi, l’esercito turco si era duramente scontrato con quello russo a Tabriz. Vi erano formazioni armene fra le forze zariste e gli insorti armeni, dopo essersi impadroniti della città di Van, ne avevano proclamato l’autonomia. Non è sorprendente, in tali circostanze, che gli armeni apparissero a Mosca come una pericolosa quinta colonna del nemico.
È molto probabile che al vertice del nazionalismo turco vi fosse il desiderio di cogliere l’occasione per liquidare la questione armena una volta per tutte; e i massacri durante la lunga marcia della morte verso Aleppo sono una delle pagine più sanguinose della storia ottomana. Ma non mi sembra che questo basti per definirli un genocidio e per attribuirne implicitamente la responsabilità morale dei turchi di oggi.

La Turchia continua nella Politica di aggressione contro gli armeni in Siria. FERMIAMOLA!

Con il pretesto della guerra civile in Siria il governo turco (peraltro alle prese con gli scandali ed una crisi politica senza precedenti) prosegue, ora come cento anni fa, la politica di aggressione contro le locali comunità armene.

E’ notizia di questi giorni attacchi e bombardamenti turchi nei confronti della cittadina armena di Kessab (Siria nord orientale) che si trova prossima al confine con la Turchia stessa nella zona del Mussa Dagh, il massiccio reso celebre dal capolavoro letterario di Franz Werfel. Gruppi paramilitari turchi hanno attaccato la zona popolata quasi esclusivamente dai discendenti di quegli armeni che sfuggirono all’orrore del genocidio del 1915.

Un sacerdote armeno, parroco in Kessab, attraverso la sua pagina Facebook ha postato oggi la notizia che due giorni fa, alle 6 del mattino, la città è stata bombardata da parte di gruppi paramilitari turchi e la popolazione del paese (1500 anime) è fuggita verso Latakia (a circa 60 km da Kessab). Mentre scriviamo Kessab è nelle mani delle milizie turche.

A quasi un secolo di distanza i turchi non perdono il vizio di considerare gli armeni il loro nemico principale e non hanno alcuna remora ad attaccare i pacifici residenti di questi villaggi di confine.

Le comunità armene di tutto il mondo si stanno muovendo per denunciare questa ennesima aggressione che risulta essere oltretutto alquanto pericolosa alla luce della grave situazione siriana.

L’abbattimento dell’aereo siriano avvenuto oggi  può essere collegato a queste azioni turche di aggressione dal momento che, stando a fonti ufficiali, il velivolo dell’aviazione siriana si sarebbe spinto fino alla zona prossima al confine con la Turchia proprio per cercare di contrastare le attività paramilitari turche di infiltrazione nel territorio della Siria.

Il Consiglio per la comunità armena di Roma nell’esprimere la sua enorme preoccupazione per l’accaduto, vuole unirsi agli armeni di altri paesi denunciando con fermezza la politica turca di aggressione e chiedendo anche alla stampa italiana di dare risalto a quanto sta accadendo nella regione, al fine di scongiurare lo sterminio dell’inerme popolazione armena della zona

Si allega a riguardo anche l’appello della “Kessab Educational Association of Los Angeles” rivolta al Segretario Generale dell’ONU.

Consiglio per la comunità armena di Roma

ALLEGATI:

APPELLO AL SEGRETARIO GENERALE DELL’ONU, BAN KI-MON

March 22, 2014

Mr. Ban Ki-Moon,

Secretary General of the United Nations

UN Headquarters

New York, NY 10017

Dear Mr. Secretary General:

The Kessab Educational Association of Los Angeles is seeking United Nations immediate intervention in Syria to protect the Christian Armenian minority living in their ancestral homeland in Kessab, Syria.

At the present time, there is a battle in northwestern Syria, at the border of Turkey. The ancient Christian-Armenian town of Kessab and its surrounding villages (population of 3,500) came under attack on Friday, March 21, as sniper gunfire and bombs from the hilltops surrounding Kessab hailed down on Kessab and its environs, damaging buildings, destroying streets and shattering windows. The Kessab Armenians were forced to flee from their ancestral homes and lands in the morning hours of March 21 and sought refuge in the nearby port city of Lattakia.

We are told from eyewitnesses in northern Syria that Turkey gave right of passage through their mountainous border with Syria to rebel forces that are battling the Syrian government troops. We also were told by eyewitnesses that external Turkish border troops have joined in the attack against the Syrian army.

Christian Armenians have lived peacefully in the northern Syrian region of Kessab for over four centuries, creating a beautiful agricultural eden in the foothills of the mountains that divide Syria and Turkey. During and after the Genocide of Armenians by the Turks in 1915, Syria took in tens of thousands of Armenian refugees, and Armenians have been law-abiding and productive citizens in Syria with no incident until today. It is a tragedy to see Armenians victimized yet again because of the indiscriminate violence and humanitarian calamity in Syria.

Various relief organizations in Lattakia are assisting the Armenians of Kessab, providing those with no family or friends in Lattakia with shelter and food at the Armenian Church and school facilities and Greek Orthodox Church. Many of the refugees were forced to flee with nothing more than their night clothes, unable to take with them official identification papers such as passports.

The principles of international humanitarian law require that all parties to the conflict, including opposition forces, promote conditions that would allow civilian populations to remain in their homes. All parties to an armed conflict must refrain from deliberate and indiscriminate attacks or strikes against civilians, should protect all civilians living in areas under their authority, including members of religious minorities, and facilitate the delivery of humanitarian assistance to them.

International humanitarian law also prescribes that all sides to an armed conflict have a responsibility not to intentionally attack, seize or cause damage to religious buildings, institutions or cultural property that are not being used for military purposes.

In the spirit of peace, international humanitarian law and respect for human rights, including those of religious minorities, we respectfully request:

  • That the United Nations call for the immediate cessation of the bombardment of the Kessab region and the indiscriminate attack on its peaceful civilian population by rebels and Turkish border troops, which is in blatant violation of international human rights and humanitarian law;
  • That the United Nations and its affiliated agencies intervene or otherwise ensure the physical safety and legal protection of the Kessab Armenians and of all Armenians and other religious minorities in Syria caught in the crossfire of this humanitarian calamity;
  • That the United Nations provide humanitarian assistance to the displaced persons of Kessab and its surrounding villages (Karadouran, Sev Aghpiur, Baghjaghas, Eckez-Oloukh, Eskiuran, Dooz Aghach, and Chinarjek) who have been forcibly displaced from their ancestral homes, lands and livelihoods as a result of these bombardments and armed attacks;
  • That the United Nations assist in the peaceful return and resettlement of Kessab Armenians to their ancestral homes, lands and livelihoods.

Respectfully,

Board of Directors

Kessab Educational Association of Los Angeles

Esther Tognozzi, chairperson

Vartan Poladian

Haig Chelebian

Anahit Yaralian

Hrach Marjanian

Soghomon Poladian

Krikor Terterian

Su Khojaly la versione armena. Agccomunication.eu

ITALIA – Roma. 28/02/14. Riceviamo e pubblichaimo.

«In riferimento all’articolo “Khojaly: 39 alla sbarra pe genocidio” apparso su AGC Communication  il 24 febbraio 2014 a nome di Graziella Giangiulio,  a norma della Legge 416/1981, l’Ambasciata della Repubblica d’Armenia con la presente chiede gentilmente la pubblicazione della seguente rettifica».
«Gentile Redazione, prendo atto che nel vostro articolo “Khojaly: 39 alla sbarra pe(!) genocidio” di Graziella Giangiulio del 24 febbraio, oggi è stata aggiunta la fonte, cioè il portale azero www.trend.az (fonte del regime azero) che, sempre il 24, pubblicava un articolo identico in lingua inglese ( http://en.trend.az/news/karabakh/2245424.html). Il lettore può considerare attendibili informazioni veicolate da un regime agli ultimi posti di indici internazionali per libertà politiche e di espressione e il cui presidente, nel 2012, è stato nominato “Uomo dell’anno per la corruzione” dall’OCCRP?

Ed è inaccettabile che nell’articolo gli armeni, vittime del primo genocidio del ‘900, siano accusati essi stessi di genocidio. Da fonti esclusivamente azere emergono le responsabilità criminali delle autorità azere a Khojaly, sia in termini di violazione del diritto umanitario internazionale (shield policy Ginevra 1977, Art. 51) che per quel che riguarda la fucilazione di centinaia di civili azeri da parte delle formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero.

All’inizio dell’invasione azera del Nagorno-Karabakh, Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad dell’esercito azero puntati contro la popolazione civile armena. Le forze di autodifesa del Nagorno-Karabakh avevano lo scopo di neutralizzare i lanciarazzi e da settimane informavano sia le autorità azere che la popolazione civile dell’imminenza di un attacco e dell’esistenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili. Nel volume “Khojaly: chronicle of genocide” (Baku, 1993), a pagina 31, Salman Abbasov, abitante di Khojaly, dice: ”Gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono”. Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly (fonte  http://www.azadliq.org/content/article/1818751.html) dichiara: “Il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (azera) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly”. E ancora, in un’intervista alla Nezavisimaya Gazeta dell’aprile 1992, il deposto presidente azero Mutalibov afferma: “Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili”. Sempre Mutalibov, in un’intervista alla rivista “Novoye Vremia” del marzo 2001 ribadisce: “Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan”, alludendo così al Fronte Popolare Azero, che nei giorni successivi alla tragedia di Khojaly aveva condotto un golpe a Baku. Il regime Aliyev ha confezionato una “verità” armenofoba e finora i dissidenti azeri che hanno contestato tale “verità” sui fatti di Khojaly sono stati arrestati o uccisi.

Solidalmente con la comunità internazionale, l’Armenia è determinata, a differenza del governo azero, ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto che escluda l’utilizzo dello strumento militare. Concludo dichiarando il mio più profondo disgusto, da discendente di sopravvissuti al genocidio armeno, per la manipolazione dei fatti architettata a Baku – di tragedie umanitarie ed esprimendo il mio cordoglio per tutte le 35 mila vittime civili della guerra imposta dall’Azerbaijan».

Khojaly, 22 anni dopo 26Feb2014 

AZERBAIJAN – Baku 26/02/2014. Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio è ricorso il XXII anniversario del massacro di Khojaly. Fonte ambasciata Azera. 

 

Piccola città nel Nagorno-Karabakh, a 14 km a nordest dal capoluogo Khankendi, con una superfice totale di 94 kmq, Khojaly aveva una popolazione di 6.300 abitanti.

Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1992, le forze militari armene attaccarono la città. La popolazione cercò la fuga tra la neve, costretta ad abbandonare ciò che gli apparteneva. Nessuno fu risparmiato dalla milizia, o dal ghiaccio. Khojaly venne saccheggiata e poi rasa al suolo. Il resoconto delle vittime del massacro è di 613 persone, tra cui 106 donne, 83 bambini e 70 anziani; 56 persone vennero uccise con particolare crudeltà. Otto famiglie totalmente sterminate. 25 bambini persero entrambi i genitori e 130 bambini un genitore. Come conseguenza di questa tragedia, 487 persone furono rese invalide. 1.275 civili, incluse donne e bambini, vennero catturati e subirono violenze, umiliazioni, gravi ferite fisiche, durante la loro prigionia. Tra questi, 150 prigionieri sparirono senza lasciare traccia.

Human Rights Watch ha descritto il massacro di Khojaly come «il più grande e orribile massacro del conflitto» del Nagorno Karabakh tra Armenia ed Azerbaigian.

Di grande attualità, oggi, ricordare le radici del conflitto del Nagorno-Karabakh, che risale agli inizi del XIX secolo. Nel 1828, dopo una lunga guerra tra la Russia e la Persia, l’Azerbaigian venne diviso in due parti. La parte settentrionale divenne parte della Russia, la parte meridionale territorio persiano. Secondo un trattato firmato da Russia, Turchia e Persia, la Russia trasferì da questi paesi al territorio del Nagorno-Karabakh 120.000 armeni, al fine di creare una roccaforte nei territori dell’Azerbaigian appena occupati.

Dopo la rivoluzione russa, il 28 maggio 1918, l’Azerbaigian del Nord ottenne l’indipendenza dalla Russia, e, con la denominazione di Repubblica Democratica dell’Azerbaigian, venne riconosciuto da molti paesi dell’Europa. L’indipendenza durò solo quasi 2 anni a causa di una nuova invasione sovietica.

Dopo la riconquista dell’Azerbaigian da parte dell’Armata Rossa e la sua incorporazione nell’Unione Sovietica, al Nagorno-Karabakh venne concesso un elevato grado di autonomia all’interno dell’Azerbaigian. Il popolo armeno nel Nagorno-Karabakh  godeva di tutti i diritti delle minoranze, che potevano coltivare  la loro lingua e cultura attraverso numerose scuole, teatri, università, chiese ecc.

Nel 1988, con l’Urss in declino, diversi movimenti ultra nazionalisti armeni promuovevano pretese territoriali contro l’Azerbaigian, chiedendo l’annessione del Nagorno-Karabakh all’Armenia.

Da qui l’inizio di una guerra non dichiarata dell’Armenia contro il paese confinante. Da oltre 20 anni, con l’occupazione militare da parte dell’Armenia del Nagorno Karabakh, regione dell’Azerbaigian, e delle sette regioni azerbaigiane circostanti, l’Armenia ha invaso, in cifre, il 20% del territorio dell’Azerbaigian, causando distruzioni e rovina.

Tale occupazione ha causato la morte di 30 mila cittadini dell’Azerbaigian e ha costretto la comunità azerbaigiana del Nagorno Karabakh, regione dell’Azerbaigian, e delle 7 regioni circostanti,  ad abbandonare le proprie case.

Oggi in Azerbaigian vive oltre un milione di rifugiati e di profughi interni: 250 mila azerbaigiani che vivevano in Armenia prima del 1988 (ora rifugiati), quando sono stati oggetto di una vera pulizia etnica da parte dell’Armenia, e oltre 750 mila provenienti dai territori dell’Azerbaigian occupati dall’Armenia (ora profughi interni), di cui 50.000 dallo stesso Nagorno Karabakh, dove risiedevano fino al 1992, e 700 mila provenienti dai territori circostanti. Quando si parla del conflitto del Nagorno Karabakh tra Armenia ed Azerbaigian è importante ricordare che ci sono quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, n.822, 853, 874 e 884 del 1993, che invocano il ritiro delle forze armate armene dai territori dell’Azerbaigian occupati, che sono state ripetutamente ignorate, così come altri documenti dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa, dell’Unione Europea, del Parlamento Europeo, di Osce, della Nato, etc. Ultima in ordine temporale la Risoluzione del Parlamento Europeo del 23 ottobre 2013, in cui nel paragrafo 16 si dice che la risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh tra Armenia ed Azerbaigian dovrebbe essere conforme alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e ai principi fondamentali del Gruppo di Minsk dell’Osce sanciti nella dichiarazione comune del G8 dell’Aquila del 10 luglio 2009.

Il massacro di Khojaly è stato riconosciuto e commemorato a vari livelli in Honduras, Messico, Colombia, Repubblica Ceca, Turchia, Bosnia Erzegovina, Pakistan, Perù e 15 stati americani.

http://www.agccommunication.eu/component/content/article/89-regoledingaggio/6630-khojaly-massacro-azerbaijan-armenia

Khojaly: 39 alla sbarra pe genocidio  24Feb2014 By Graziella Giangiulio

 

AZERBAIJAN – Baku. 24/02/14. La procura militare dell’Azerbaigian ha adottato la decisione di avviare un procedimento penale contro i 39 autori del genocidio Khojaly. Fonte: vice procuratore generale, Khanlar Veliyev, in una conferenza stampa durante la 22esima giornata internazionale dedicata all’anniversario del genocidio Khojaly.

«Non sono solo gli armeni, tra gli imputati, ma anche militari della fanteria del 366 ° reggimento delle truppe sovietiche» ha riferito Veliyev. Il vice procuratore Veliyev ha aggiunto che l’ufficio del procuratore aveva condotto un’indagine, seguendo tre filoni a partire dal 1988, connessa con i genocidi, crimini e deportazioni per mano  dalle forze armate armene contro l’Azerbaijan. Il primo filone d’indagine è riguardato i crimini commessi contro la nazione azera a Khojaly, Meshali, Garadagli e altri insediamenti. La seconda direzione ha seguito le indagini sui crimini commessi da armeni in veicoli, anche in metropolitana e in altri luoghi e la terza direzione è quella seguita per i reati in materia di prigionieri e ostaggi.

Ad oggi sono state identificate 2089 persone colpevoli di questi crimini. Il 25 e il 26 febbraio del 1992, le forze di occupazione armene insieme alla fanteria del 366 ° reggimento delle truppe sovietiche di stanza in Khankendi hanno commesso un atto di genocidio contro la popolazione della città azera di Khojaly.

613 persone sono state uccise, di questi 63 erano bambini, 106 donne e 70 anziani. Otto famiglie sono state completamente sterminate, 130 bambini hanno perso uno dei genitori e 25 bambini hanno perso entrambi. 1.275 abitanti innocenti sono stati presi in ostaggio, mentre il destino di 150 rimane sconosciuto.

Il conflitto tra i due paesi del Caucaso meridionale ha avuto inizio nel 1988, quando l’Armenia ha rivendicato alcune aree territoriali nei confronti Azerbaijan. Le forze armate armene hanno occupato il 20 per cento del territorio azero dal 1992, compresa la regione del Nagorno- Karabakh e sette distretti circostanti.

Azerbaigian e Armenia hanno firmato un accordo di cessate il fuoco nel 1994. Attualmente sono in corso i negoziati di pace con i co – presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, Russia , Francia e Stati Uniti. L’Armenia non ha ancora attuato quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla liberazione del Nagorno- Karabakh e le regioni circostanti.

Azerbaijan: La politica del “caviale” colpisce ancora….

La “diplomazia del caviale” contagia il Parlamento europeo?

Perché Pino Arlacchi ha visto la democrazia laddove, secondo autorevoli indici internazionali – Human Rights Watch, Freedom House – la democrazia è invece la grande assente?

La “diplomazia del caviale” contagia il Parlamento europeo?

Gli aerei che lanciano le bombe a grappolo volano alti e silenziosi. Gli ordigni esplodono a pochi metri da terra sparando pezzi di acciaio che amputano, accecano, feriscono. Questo succedeva nel Nagorno Karabah nel 1992, gli aerei erano azeri, la popolazione armeno-cristiana.
Quando raccontai di quel conflitto pochi sapevano dell’esistenza di una minuscola enclave che si era appena dichiarata indipendente. Un’alzata di testa che l’Azerbaijan non aveva gradito, e continua a mal tollerare visto che dopo 20 anni di negoziati non ha intenzione di firmare un accordo di pace.

Ma questi sono dettagli ignorati dai media internazionali, quello che oggi appare è un Azerbaijan ricco di caviale, gas e petrolio, con cui l’11 agosto scorso abbiamo siglato un accordo per l’esportazione del gas in Puglia. Faremo affari con questo Stato che possiede enormi giacimenti petroliferi, ed ha aumentato la sua spesa militare del 2.300% in pochi anni. Certamente ci conviene avere buone relazioni, senza però ignorare che è governato da due decenni dal regime autoritario della famiglia Aliyev, la quale controlla interamente l’informazione.

Il 9 ottobre 2013 ci sono state le elezioni e il Presidente uscente viene riconfermato con l’85% dei voti e per il terzo mandato consecutivo. Il 10 ottobre Pino Arlacchi, eurodeputato e capo missione di 7 osservatori ufficiali del Parlamento europeo, dichiara che le elezioni sono state “libere, eque e trasparenti.”
Lo stesso giorno il capo della missione Osce/Odihr in Azerbaijan dal 28 agosto, composta da 388 osservatori, dichiara che «queste elezioni non si sono minimamente avvicinate agli standard Osce».
Perché Pino Arlacchi ha visto la democrazia laddove, secondo autorevoli indici internazionali – Human Rights Watch, Freedom House – la democrazia è invece la grande assente? È un mistero.

In Europa le reazioni non si fanno attendere: il 16 ottobre, dopo la discussione preliminare sul Rapporto Arlacchi al Parlamento europeo, Ulrike Lunacek, portavoce affari esteri dei Verdi Europei, parla di elezioni caratterizzate da «ben documentate violazioni dei diritti umani, intimidazione dell’opposizione e restrizione dei fondamentali principi democratici». Werner Schulze, portavoce affari esteri dei Verdi/Alleanza Libera Europea aggiunge che «un piccolo numero di membri del Parlamento Europeo sta minando la reputazione dell’intero Parlamento nella sua lotta per i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto».

Il 18 ottobre Hannes Swoboda, presidente dello stesso gruppo di cui fa parte Pino Arlacchi, dichiara che «il gruppo dei Socialisti e Democratici prende le distanze dai risultati della missione elettorale per le recenti elezioni presidenziali», e aggiunge «in Azerbaijan decine di attivisti e giornalisti, incluso un candidato presidenziale, sono ingiustamente imprigionati per le loro attività politiche».

Il 22 ottobre è la volta di Sir Graham Watson, presidente dei Liberali e Democratici Europei che «sgomento» per le conclusioni della missione Arlacchi dichiara che «il Rapporto degli osservatori del Parlamento Europeo sarebbe ridicolo se non avesse implicazioni così serie, e che la pubblicazione dei risultati elettorali prima della chiusura delle urne dimostra come le elezioni fossero truccate». Il riferimento è a quello che la stampa internazionale ha battezzato come “app-gate”, e cioè al fatto che una app ufficiale per smartphone della Commissione Centrale Elettorale azera ha pubblicato i risultati del voto dando il presidente uscente Alyev per vincente il giorno prima delle elezioni. Infine, il 23 ottobre, è lo stesso Parlamento Europeo ad aprire il dibattito sul rapporto Arlacchi.

Oggi (7 novembre) la capo missione Osce spiegherà le ragioni delle sue critiche al processo elettorale in Azerbaijan. Resta aperta la domanda: perché Arlacchi ha giudicato le elezioni “libere, eque e trasparenti” in un paese che figura al 139° posto (su 167) del Democracy index 2012 dell’Economist Intelligence Unit? Magari la sua è una convinzione genuina, anche perché il regime azero, per sdoganarsi, non risparmia risorse ed energie in grandi campagne d’immagine in Europa finalizzate ad ingraziarsi parlamentari, giornalisti, intellettuali.

Un metodo che a Bruxelles e a Strasburgo chiamano “diplomazia del caviale”, denunciato lo scorso anno da 2 rapporti dell’Esi (European Stability Initiative). Non vorremmo sempre pensare male ma ricordiamo che nel 2001 l’operato di Pino Arlacchi all’Onu come capo dell’agenzia antidroga venne duramente contestato dall’organo di controllo interno delle Nazioni Unite: considerato accentratore di potere e con una gestione poco trasparente, Kofi Annan gli sospende l’incarico.

07 novembre 2013

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http://www.corriere.it/inchieste/reportime/societa/diplomazia-caviale-baku-bruxelles/1ce1fdf4-470b-11e3-a177-8913f7fc280b.shtml

 


 

 Azerbaijan: Pino Arlacchi imbarazza l’Europa. Panorama.it 28.10.2013

L’eurodeputato del Pd dichiara che il regime di Baku è “libero, giusto e trasparente” e i Socialisti di Bruxelles lo scomunicano chiedendo un’azione disciplinare nei suoi confronti

di Anna Mazzone 

Regime o democrazia “libera, giusta e trasparente”? Le ultime elezioni in Azerbaijan hanno travolto come uno tsunami i piani alti di Bruxelles, mettendo in imbarazzo la Commissione Esteri del Parlamento europeo che si occupa di monitorare i processi elettorali nei Paesi extra-europei. Secondo Pino Arlacchi (europarlamentare eletto in quota Di Pietro e attualmente tra i banchi dei Socialisti), le elezioni presidenziali in Azerbaijan che hanno riconfermato per la terza volta (e senza alcuna sorpresa) il presidente Ilham Alijev con l’85% dei voti, sono state “free, fair and transparent”.

Ma la delegazione “ufficiale” di osservatori OSCE/ODIHR, capeggiata da Tana De Zulueta, ha fornito un rapporto diametralmente opposto , evidenziando pesanti brogli e azioni tipiche di un regime che da diversi anni è nel mirino delle organizzazioni mondiali perché calpesta in modo sistematico i diritti dell’uomo e i più elementari diritti civili.

Il Parlamento europeo ha ascoltato a porte chiuse Pino Arlacchi, chiedendogli il perché di un giudizio così diverso rispetto ai dati forniti dall’OSCE, e l’eurodeputato avrebbe risposto di averlo fatto per “difendere” gli interessi italiani nell’area. L’Azerbaijan siede su un mare di gas e petrolio ed è uno dei principali crocevia del mercato internazionale dell’energia.

L’Italia è presente con L’ENI che detiene il 5% del consorzio dell’oleodotto BTC (Baku-Tbilisi-Ceyhan), inaugurato nel 2006 e che permette di trasportare il petrolio dall’area del Mar Caspio al Mediterraneo, senza interferire con le petroliere che attraversano il Bosforo. A pieno regime l’oleodotto può trasportare fino a un milione di barili al giorno, dei quali 50 mila sono targati ENI.

Inoltre, Saipem ha completato nel 2007 la costruzione di sei piattaforme per l’estrazione di greggio e due per la produzione, siglando nel 2008 un contratto a lungo termine con BP per la fornitura di servizi sottomarini di manutenzione degli impianti, mentre nel 2011 sono stati siglati dall’azienda italiana altri due contratti in Azerbaijan, per la costruzione e l’installazione di un modello che si affianca a operazioni ingegneristiche già cominciate nell’area.

Ma tutti questi interessi italiani in Azerbaijan al momento non sono affatto minacciati, tanto che durante la sua recente visita a Baku l’11 agosto 2013, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha sottolineato i buoni rapporti con il governo azero, basati su “interessi reciproci” come il gasdotto TAP (Trans Adriatic Pipeline, considerato dal premier “strategicamente importante” per l’Italia, ma anche altrettanto importante per l’Azerbaijan, che con questo progetto potrà consolidare i rapporti con l’Unione europea anche in vista del vertice di novembre tra i paesi del partenariato orientale.

Insomma, non si capisce perché Arlacchi abbia voluto difendere degli “interessi reciproci” che al momento godono di ottima salute e, soprattutto, in quale modo una simile difesa possa passare attraverso il riconoscimento di una democrazia che di fatto non c’è, come dimostrano i dati forniti dal Democracy Index 2012 stilato dalla rivista The Economist, che classifica l’Azerbaijan come “regime autoritario”,  al 139esimo posto nel mondo per libertà economiche e politiche e ben al di sotto degli standard di altri Paesi considerati in deficit di democrazia, come Angola, Swaziland, Burkina Faso e Cuba.

La posizione del capo delegazione degli osservatori del Parlamento di Bruxelles ha creato un forte imbarazzo non solo tra i colleghi italiani, ma anche – e soprattutto – tra i vertici dell’istituzione comunitaria che si sono sempre espressi in modo “trasparente” (loro per davvero) sul regime degli Alijev che ormai da decenni domina l’Azerbaijan, passando lo scettro da padre in figlio. Tanto che a giugno di quest’anno l’Europarlamento ha votato una risoluzione con la quale esprime una “seria preoccupazione” per i rapporti sull’Azerbaijan diffusi dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, che evidenziano l’incarcerazione di giornalisti e attivisti politici.

Con la medesima risoluzione, l’Europarlamento ha condannato le intimidazioni e le violenze contro i leader dell’opposizione azera che hanno espresso critiche al regime di Baku e ha chiesto all’Azerbaijan di rispettare gli standard internazionali di libertà di stampa e di espressione.

I Verdi europei sono partiti lancia in resta e la loro leader, Ulrike Lunacek, ha usatoparole al vetriolo contro il gruppetto capeggiato da Arlacchi: “I risultati e il rapporto della missione dell’Europarlamento in Azerbaijan sono un inganno e contrastano nettamente con i risultati della missione OSCE/ODIHR e con quelli di numerosi altri osservatori, presenti nel Paese dal 28 agosto scorso”.  “Il rapporto degli Europarlamentari – continua Lunacek – ha totalmente mancato di evidenziare il clima soffocante di queste elezioni, incluse le violazioni ben documentate dei diritti umani, le molestie e le minacce nei confronti dei gruppi di opposizione e le restrizioni ai più elementari principi democratici”.

Il gruppo dei Verdi al Parlamento europeo ha rigettato il rapporto della delegazione di Pino Arlacchi e ha chiesto alla Commissione di fare chiarezza, perché un fatto del genere non era mai successo a Bruxelles e getta un’ombra pesante anche sul premio Sacharov, che ogni anno viene assegnato a una personalità che si è distinta nella lotta per i diritti civili e umani nel mondo.

Il Sacharov è l’unico riconoscimento mondiale per i Diritti dell’uomo (il Nobel è per la Pace) e il Parlamento europeo non può certo permettersi di sdoganare un regime autoritario come quello azero e poi assegnare un premio magari proprio a chi quel regime lo combatte sacrificando la vita e la libertà.

Ma perché Pino Arlacchi ha visto la democrazia laddove è davvero impossibile trovarla, almeno stando ai numerosi rapporti diffusi da Reporter senza frontiere (che nel 2013 mette l’Azerbijan al quintultimo posto della classifica sulla libertà di stampa nel mondo), da Human Rights Watch e da Amnesty International ? La domanda per ora rimane senza risposta, ma non è la prima volta che l’eurodeputato si ritrova in una situazione “chiacchierata”.

Già nel 2001 non fu riconfermato alla guida dell’UNODC (l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite con sede a Vienna) in seguito alle accuse rivoltegli da Maurizio Turco (allora presidente del gruppo dei Radicali italiani al Parlamento europeo) e da Daniele Capezzone, di “sostenere e legittimare il regime dei talebani in Afghanistan, presso cui ha trovato rifugio e ospitalità Osama bin Laden”.

Vengono sollevati numerosi sospetti anche sulla decisione dell’agenzia diretta da Pino Arlacchi di elargire 15 milioni di dollari al Laos, più altri 35 milioni di dollari nei cinque anni a venire. La Repubblica popolare del Laos è uno dei tre maggiori produttori di oppio nel mondo, oltre a essere un regime comunista dove i diritti civili e le libertà individuali sono ridotte al lumicino.

Arlacchi viene “elegantemente” messo alla porta dall’ONU. La decisione dell’allora segretario generale Kofi Annan arriva subito dopo la diffusione di un rapporto dell’OIOS (l’ufficio per il controllo delle pratiche interne dell’ONU) nel quale si esprime “una forte preoccupazione per il modo centralizzato e arbitrario” utilizzato da Arlacchi nella conduzione dell’agenzia antidroga di Vienna.

Secondo l’indagine interna dell’OIOS la direzione Arlacchi “non garantisce il funzionamento di meccanismi di decisione collettivi” e manca di “un sistema di monitoraggio dei programmi nel mondo”, con tutte le decisioni amministrative accentrate unicamente nelle mani del direttore. Inoltre, “il morale dello staff” dell’UNODC all’epoca di Arlacchi risulta “molto basso”, una frustrazione – sostiene l’ufficio di controllo interno – dovuta alla “mancanza di trasparenza nelle decisioni della direzione, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni e la carriera del personale”.

Alla fine del rapporto OIOS si pronuncia in maniera netta, dicendo che “la situazione del vertice dell’UNODC non può più essere permessa e non può continuare”. Ma Kofi Annan vuole evitare uno scandalo e così preferisce non licenziare Arlacchi, che intanto è quasi arrivato a fine mandato, bensì “sospenderlo” dalle sue funzioni fino al termine dell’incarico, garantendogli così una pensione d’oro.

L’esperienza all’ONU si conclude male, ma Pino Arlacchi rientra nel consesso internazionale dalla finestra del Parlamento europeo, candidandosi nel 2009 per le liste dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Poi, un anno dopo decide di passare al Partito democratico e si unisce al gruppo dei Socialisti di Bruxelles, che però oggi, dopo le dichiarazioni “ingannevoli” sulla bontà del regime azero, gli voltano le spalle.

La dichiarazione rilasciata da Hannes Swoboda, presidente del gruppo dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo, suona come una scomunica per Arlacchi. “Il gruppo dei Socialisti al Parlamento europeo – dice Swoboda – prende le distanze dalle parole della missione di osservatori EP/PACE (quella guidata da Arlacchi ndr) sulle recenti elezioni in Azerbaijan. Il gruppo – continua Swoboda – crede che le differenze tra le conclusioni della delegazione di parlamentari e quelle dell’OSCE siano così lontane da non poter essere minimamente sostenute”.

“Siamo arrivati a questa decisione basandoci sui fatti: in Azerbaijan ci sono pesanti restrizioni alla libertà di espressione. Decine di giornalisti e attivisti – incluso un candidato nella corsa per le presidenziali – sono detenuti illegalmente solo sulla base delle loro attività politiche”. E la conclusione del presidente dei Socialisti è senza appello per Arlacchi e  gli Arlacchi boys: “E’ deplorevole il fatto che alcuni membri del Parlamento europeo abbiano deciso di condurre una missione parallela a quella istituita per mandato”. Swoboda ricorda poi che “A giugno di quest’anno Bruxelles ha adottato una risoluzione molto dura sulla situazione dei diritti umani in Azerbaijan e il gruppo Socialista crede che questa risoluzione rifletta accuratamente la posizione ufficiale dell’istituzione”.

Prima l’ONU e poi il Parlamento europeo. Pino Arlacchi viene lasciato per la seconda volta a piedi, ma questa volta in molti vogliono andare a fondo e capire il perché di una presa di posizione così  incomprensibile.

A spiegare l’arcano ci pensa European Voice, il giornale fondato dal gruppo dell’Economist nel 1995 che segue tutte le attività delle principali istituzioni europee. In un editoriale velenosissimo  European Voice chiede conto ai parlamentari della delegazione Arlacchi (Filip Kacmarek, Polonia EPP, Joachim Zeller, Germanyia EPP, Evgeni Kirilov, Bulgaria S&D, Norica Nicolai, Romania ALDE, Milan Cabrnoch, Repubblica Ceca, Conservatori e Riformisti europei, e Fiorello Provera, Italia, Europa della Libertà e della Democrazia) della loro missione in Azerbaijan e sostiene che “come tanti altri regimi autoritari della regione anche quello del presidente Ilham Alijev cerca la legittimazione internazionale e invita come osservatori per le sue pseudo-elezioni persone che sono vicine al regime, in modo tale che possano parlarne positivamente”.

“Tali osservatori – prosegue European Voice – possono essere motivati da vari interessi, politici o economici, o persino omaggiati con regali come il famoso caviale azero”, che sembra che a Bruxelles venga distribuito in grande quantità. Insomma, la rivista non va tanto per il sottile e lancia apertamente accuse di corruzione, pur non fornendo una pistola fumante. Il Parlamento europeo assiste imbarazzato e per la prima volta nella sua storia nei prossimi giorni sarà chiamato a decidere per un’azione disciplinare nei confronti di Arlacchi e degli altri sei parlamentari.

Intanto, l’OSCE continua a diffondere i dati sulle elezioni azere: 1 milione e ottocentomila votanti in più rispetto ai registrati e una “curiosa” applicazione per i cellulari che ha inviato i risultati elettorali a giornalisti e osservatori il giorno prima dell’apertura delle urne. E questo è niente rispetto a tutto il resto. Certo che per definirle elezioni “fair, free and transparent” ci vuole davvero una gran bella fantasia

http://news.panorama.it/esteri/Azerbaijan-elezioni-Arlacchi-regime-parlamento-europeo-ONU-scandalo

Turchia: nuove rivolte e irrisolte questioni.

Le vicende di piazza Taksim impongono alla stampa ed all’opinione pubblica italiana valutazioni che rifuggano dalla mera cronaca di quanto sta accadendo.

Infatti, così come è necessario ascoltare la voce della gente, le istanze di un popolo che si ribella ad un regime, alla stessa maniera la rivolta di piazza Taksim impone una riflessione approfondita sul ruolo della Turchia e sulle sue irrisolte questioni.

E noi armeni chiediamo, allora, che si rifletta sul fatto che ogni qualvolta si parla del processo di democratizzazione della Turchia si tace del genocidio armeno pianificato dai “ Giovani Turchi” nel 1915.

Dunque, a proposito di quanto sta accadendo in Turchia in questi giorni, noi riteniamo che:

1) L’autoritarismo (e l’esclusione dei diritti) è ed è stata una caratteristica di tutti i governi turchi: da quello del partito “Unione e Progresso” di Enver e Talaat ed i loro sanguinari Giovani Turchi a Kemal Ataturk (che in Occidente è considerato persino più di quanto venga idolatrato in Turchia ma il cui regime, la storiografia ce lo insegna, non è stato certamente da meno di tanti altri che tra gli anni Venti e gli anni Trenta hanno caratterizzato la storia d’Europa), ai governi repubblicani successivi fino ai giorni nostri.

2) È la struttura stessa dello stato turco, per come fino ad oggi è stato organizzato e manipolato, ad essere l’origine dell’autoritarismo e della esclusione degli Altri siano essi armeni, curdi, arabi, sindacalisti, libertari o il popolo che chiede di salvare un parco pubblico dalla speculazione immobiliare.

3) Dietro il sistema turco ci sono le Forze Armate ed un apparato che sorregge i governi, mette in atto colpi di stato, pianifica l’occupazione di Cipro, la repressione dei Curdi e l’annientamento degli armeni.

4) La contrapposizione tra il nuovo islamismo di Erdogan e l’opposizione kemalista è di facciata: l’apparato controlla le regole dello stato, si muove nell’ombra, fa e disfa; reprime ogni tentativo del popolo turco di uscire dal medioevo del proprio nazionalismo ottomano.

5) Dobbiamo essere solidali con il popolo turco (o meglio quella parte del popolo turco) che vuole uscire dall’isolamento, che si batte per i diritti umani, che non accetta più passivamente di finire sotto processo solo perché cinguetta su Twitter, che non tollera più di vivere in uno stato che fa della negazione sistematica del Genocidio armeno del 1915 la sua primaria attività all’interno e fuori dai confini; quel popolo che scende in piazza per ricordare il giornalista armeno Hrant Dink che si batteva per il dialogo e la tolleranza e che fa dire a centomila turchi “siamo tutti armeni!”.

6) Aiutare la nuova Turchia a crescere democraticamente ed a consolidarsi come stato solido da un punto di vista politico ed economico significa liberarla, in una sorta di processo catartico, dai fantasmi del passato; ogni regime turco, da quello dei colpi di stato agli apparenti governi democratici degli ultimi anni, si regge sulla forza nazionalista ed autoritaria che si base sull’odio verso l’Altro, sulla negazione del passato, sul dna della conquista del territorio altrui.

7) Gli armeni chiedono all’opinione pubblica italiana di spezzare le catene che legano il popolo turco; senza nascondere la testa sotto la sabbia per paura di pronunciare le parole “genocidio armeno”, senza paura delle isteriche reazioni dei governi turchi, senza timore di denunciare la politica di odio verso gli armeni che ancora oggi anima la Turchia, che fa pronunciare ad Erdogan frasi di minaccia che suonano terribilmente simili a quelle che ripeteva il feroce Talaat pascia (“Noi non siamo crudeli ma soltanto energici”, L’Idea Nazionale 24 agosto 1915).

8) I giornali dovrebbero aiutare il popolo turco: non solo solidarizzando con la gente di piazza Taksim, non solo denunciando la campagna di repressione, ma anche parlando di tutto il resto a cominciare dal genocidio armeno; uno stato nel quale il ministero della pubblica istruzione fa circolare nelle scuole elementari libelli dove si racconta “che gli armeni cucinavano e mangiavano i bambini (sic…)” è uno stato nel quale il cammino della democrazia è ancora lungo. Uno stato che di fronte alle parole di papa Francesco sul genocidio del 1915 convoca il Nunzio Apostolico ad Ankara è uno stato che non riesce a maturare e a crescere.

Il Ministro Carrozza chieda scusa agli Armeni

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” esprime il proprio profondo sgomento di fronte a talune affermazioni rilasciate a mezzo stampa da un alto funzionario del MIUR, il prof. Luciano Favini, che nel commentare le possibili tracce dei temi della maturità ha testualmente affermato l’impossibilità di proporre “un tema storico sul genocidio degli armeni che va a colpire la particolare sensibilità della Turchia”.

Si tratta di affermazioni sconcertanti, pronunciate, forse inconsapevolmente, da un alto esponente del Ministero della Pubblica Istruzione che alla fine sono risultate gravemente lesive del sentimento di milioni di armeni nel mondo e della comunità in Italia.

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” si unisce ad altre associazioni armene nella ferma condanna delle parole del prof. Favini

È assolutamente inconcepibile che per salvaguardare la sensibilità del negazionismo del regime turco si offenda la memoria di un milione e mezzo di armeni. È vergognoso dover leggere a pochi mesi dal centenario del Genocidio armeno del 1915 parole come quelle riportate dalla stampa italiana.

Forse che per non urtare la sensibilità dei tedeschi dobbiamo tacere sull’Olocausto? Per non ferire gli hutu dobbiamo forse nascondere il milione di vittime tutsi? I morti di Srebrenica devono essere dimenticati per non urtare la sensibilità dei loro massacratori?

Come è possibile pronunciare queste parole proprio mentre sotto gli occhi del mondo il regime turco mostra i segni del più violento autoritarismo?

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” chiede:

 

–        che il ministro Maria Chiara Carrozza pronunci parole di scuse rivolte non solo alla comunità armena italiana ma anche ai milioni di studenti che frequentano le scuole italiane;

        che il prof. Favini corregga il senso delle sue affermazioni.

        che deputati e senatori del parlamento italiano rivolgano al riguardo una interpellanza al titolare del Dicastero ed al governo

        che l’argomento del Genocidio armeno sia stabilmente inserito nel piano formativo delle ultime classi della scuola media inferiore e superiore.

 

Nel ricordare che il Parlamento italiano nel 2000 ha votato, al pari di numerose altre istituzioni internazionali, una risoluzione di riconoscimento del genocidio armeno, il “Consiglio per la comunità armena di Roma” si augura che l’incresciosa vicenda di cui sopra trovi immediata e soddisfacente soluzione.

 

Consiglio per la Comunità Armena di Roma 

www.comunitaarmena.it

Akhtamar on line

 

 

>> Interrogazione parlamentare

>> Articolo del quotidiano il mattino del 17.06.2013

>> www.lastampa.it/25.06.2013 l’Autocensura della P.I. 

>> Comunicato Stampa Unione degli Armeni d’Italia di Milano

>> Lettera al Direttore di una professoressa rappresentante della comunità armena. Gliscomunicati.com 27.06.2013