Armenia: violenza domestica e pandemia, le case sono una prigione (Osservatorio Balcani e Caucaso 28.01.21)

L’Armenia non fa purtroppo eccezione. Anche lì, come in molti altri paesi al mondo, il lockdown ha portato ad un incremento di casi di violenza domestica. La storia di Anna

28/01/2021 –  Armine Avetysian Yerevan

“Paradossalmente consideravo le ore sul lavoro come ore in cui potevo finalmente riposarmi. C’è stata una fase in cui vivevo in continuo allarme”, racconta Anna (il nome è stato cambiato su sua richiesta), 35 anni.

Da marzo 2020, a causa della pandemia di coronavirus, in Armenia come in molti altri paesi è stato dichiarato lo stato di emergenza e molti si sono trovati a lavorare da remoto. Tra loro anche Anna, che lavorava in un call center.

“Data la tipologia del mio lavoro abbiamo iniziato a lavorare da casa. Dovevo rispondere al telefono, registrare l’ordine e poi supervisionarne la consegna. Parlo costantemente al telefono e immaginate di farlo davanti ad un marito ubriaco che non aspetta che l’occasione per insultarmi e picchiarmi”.

Anna si è sposata sette anni fa. Da subito sono accaduti episodi con il marito ubriaco che rompeva piatti e la picchiava. Se in passato questo accadeva una o due volte al mese, durante l’isolamento è avvenuto più volte a settimana.

“Non passava settimana senza litigi in casa nostra. Ci sono stati casi in cui lui mi tirava per i capelli e mi schiaffeggiava mentre io parlavo al telefono. Alla fine ho dovuto chiedere le ferie. Mi vergognavo e rischiavo il licenziamento”. Il marito di Anna non ha un lavoro fisso. È muratore e lavora saltuariamente. Giustificando il marito, Anna sottolinea che a causa del coronavirus la vita nel mondo si è fermata e così è venuto a mancare anche il lavoro di suo marito. Così è finito in depressione e ha iniziato a ubriacarsi quasi ogni giorno, diventando più aggressivo.

Aumentati i casi di violenza domestica

A causa della pandemia in molti paesi del mondo sono state introdotte rigide restrizioni alla circolazione, con numerosi inviti a rimanere a casa. In molti paesi sono state introdotte quarantene obbligatorie. Poco dopo sono arrivate le prime segnalazioni di un aumento dei casi di violenza domestica. L’Osce ha invitato i governi ad adottare misure per proteggere donne e bambini, poiché non sempre la casa è per loro un rifugio sicuro.

“Nel combattere l’emergenza sanitaria gli stati non debbono dimenticarsi di proteggere il diritto ad una vita senza violenza per donne e bambini. È quanto mai necessario adottare immediatamente misure adeguate per salvaguardarne la sicurezza mentre le famiglie sono in isolamento”, ha dichiarato Thomas Greminger, segretario generale dell’Osce.

La problematica si è acuita anche in Armenia. Come emerso da vari studi, i casi sono aumentati dal 15 marzo scorso, quando quasi tutti sono rimasti a casa per circa un mese dopo la dichiarazione dello stato di emergenza. Tra il 16 marzo e il 20 aprile 2020, le organizzazioni parte della “Coalizione per fermare la violenza sulle donne” hanno registrato 803 segnalazioni di casi di violenza domestica, circa il 30% in più rispetto allo stesso periodo del 2019.

L’ONG “Women’s Support Center” ha ricevuto 79 chiamate in aprile, il 50% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Il 50% delle chiamate ricevute da questa ONG sono correlate alla richiesta di assistenza sociale per le vittime di violenza domestica.

Nei primi giorni della dichiarazione dello stato di emergenza, anche l’Ufficio del Difensore dei Diritti Umani ha registrato un aumento dei casi di violenza domestica: in particolare, nel periodo dal 15 marzo al 20 aprile, sono state 15 le segnalazioni di violenze domestiche (a fronte di 5 casi registrati nel marzo 2019).

“I violenti sono divenuti ancor più aggressivi durante il lockdown. È anche un problema psicologico. Erano a casa, rinchiusi, col rischio di perdere il lavoro, tutti fattori che aumentano il nervosismo. Anche le donne non andavano a lavorare e rimanevano vittime, a casa”, sottolinea Hasmik Gevorgyan, responsabile del Women’s Support Center.

Il coronavirus e il conflitto

In autunno, poi, la situazione in Armenia è cambiata. A piccoli passi la vita sembrava tornare alla normalità. A partire da settembre 2020 la pandemia sembrava in recessione e i nuovi casi diminuivano di giorno in giorno. Molti stavano già tornando a lavorare in presenza, anche le scuole riaprivano, ma il tutto è durato poco. E il conflitto per il Nagorno Kharabakh avviato dall’Azerbaijan non ha certo migliorato le cose.

Insieme ai combattimenti, il coronavirus è tornato ad imperversare in Armenia. In termini di tassi di infezione, l’Armenia è tornata ai drammatici livelli di giugno, quando è stato registrato il maggior numero di infezioni e il sistema sanitario era completamente impegnato a gestire la pandemia. Gli specialisti hanno spiegato l’aumento dell’infezione principalmente con la situazione al confine: la tensione in prima linea e le notizie delle vittime e dei feriti avevano reso la malattia una preoccupazione secondaria per molti e la vigilanza della gente si è indebolita.

A novembre le azioni militari sono terminate. Parallelamente, il numero di nuovi casi di coronavirus ha iniziato a diminuire. Il sistema sanitario ha cominciato a respirare. Nonostante i numeri siano sotto controllo anche in queste prime settimane dell’anno, il ministero della Salute ha recentemente annunciato un prolungamento delle misure emergenziali sino all’undici luglio 2021.

Allo stesso tempo, tenendo conto dell’attuale situazione pandemica in Armenia, sono state attuate alcune mitigazioni delle restrizioni. Ad esempio gli stranieri possono fare ingresso nel paese attraverso i valichi di frontiera terrestre, ma solo con un esito negativo al tampone non più vecchio di 72 ore. È anche possibile fare un test al confine e auto-isolarsi fino all’esito. Tuttavia altre restrizioni continuano a rimanere in vigore, come indossare la mascherina.

“L’Armenia è aperta, ma il mondo si chiude”, commenta Anna, il cui marito solitamente all’estero per lavoro è ancora in Armenia. “Non può andare all’estero perché la Russia non lo accetta. La Russia ha annunciato alcune aperture, ma mio marito non vi rientra, non sono ancora accettati i lavoratori del suo settore”.

In questi giorni il marito di Anna sta lavorando per un privato. Anna racconta che ha anche preso parte alle azioni militari durante il recente conflitto. Sebbene gli episodi di violenza siano ora diminuiti, non esclude che si ripetano.

“Conto i giorni in cui si apriranno i confini del mondo. Sento che la pace nella nostra famiglia non durerà a lungo. Se mio marito resta a casa ancora un po’ finiremo con il lasciarci. Il nostro stile di vita è organizzato in modo tale che di tanto in tanto dobbiamo vivere lontano l’uno dall’altro. Forse il coronavirus finirà per distruggere la nostra famiglia”, dichiara questa donna che, come molte altre, purtroppo non ha ancora trovato l’aiuto necessario per uscire dal suo incubo.

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In Armenia cittadini e attivisti contro la miniera d’oro di Amulsar (Nuova ecologia 28.01.21)

Da anni intorno al sito minerario centinaia di persone si oppongono a uno scempio annunciato. In un clima di tensione lontano anni luce dalla rivolta di velluto del 2018

Dal mensile di dicembre 2020 – È il 27 agosto 2020. Nei giorni del controesodo estivo e delle prime avvisaglie della risalita dei contagi da Covid-19, arriva in redazione una segnalazione che a un primo sguardo potrebbe passare inosservata. L’email parla dell’aumento delle tensioni attorno alla miniera d’oro di Amulsar, situata in Armenia, circa 170 km a sud rispetto alla capitale Yerevan, nella regione di Vayots Dzor. Il mittente è Francesco Cara, rappresentante in Italia del Climate reality project, la rete di attivisti guidata da Al Gore. Intuiamo che c’è una storia su cui indagare, passata sottotraccia in Italia.

Francesco Cara conosce bene i contorni di questa annosa vertenza ambientalista e, soprattutto, può metterci in contatto con chi, sul posto, si batte per impedire la costruzione di una nuova miniera in Armenia. L’ennesima, considerato che nel Paese del Caucaso meridionale a oggi ve ne sono 630, altamente inquinanti, con emissioni nell’aria, nel suolo e nelle acque di enormi quantità di sostanze tossiche (metalli pesanti, gas nocivi e polveri sottili), i cui effetti sono devastanti per l’ambiente e per la salute delle comunità che lo abitano.

Gli affari sporchi nella miniera d’oro di Amulsar, in Armenia

Grazie a Francesco iniziamo uno scambio di comunicazioni, documenti e foto con Vahram Ayvazyan, attivista armeno per i diritti umani, anche lui membro del Climate reality project. Vahram ci permette di ricostruire, pezzo dopo pezzo, la tribolata storia del sito di Amulsar e di quantificare la rilevanza degli affari che gravitano attorno alla Lydian international, la società anglo-canadese che nel 2016 ha iniziato a esplorare il sottosuolo di quest’area in cerca di oro. Un’impresa che la multinazionale ha inizialmente potuto portare avanti forte di importanti appoggi economici, come quelli della International financial corporation, organizzazione che fa parte di Banca Mondiale, e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), nonché delle coperture politiche garantite dall’establishment dell’ex presidente e primo ministro Serž Sargsyan, costretto a fare un passo indietro in seguito alla rivoluzione di velluto del 2018.

La nomina a premier di Nikol Pashinyan e il cambio di proprietà non hanno scalfito il piano di sfruttamento dell’area

Con la nomina a premier di Nikol Pashinyan, in prima linea nelle manifestazioni popolari, il progetto della miniera ha iniziato a vacillare. Nel dicembre del 2019 Lydian international ha dichiarato fallimento, poi lo scorso giugno il sito di Amulsar è passato sotto la gestione della Lydian Canada ventures corporation. Il cambio di proprietà non ha smussato di una virgola il piano di sfruttamento dell’area, che una volta messo a regime dovrebbe dare occupazione a 750 persone, creare altri tremila posti di lavoro grazie all’indotto e, nell’arco di dieci anni, garantire entrate per lo Stato armeno pari a circa 430 milioni di euro.

Attivisti ambientali e cittadini si oppongono alla miniera di Amulsar

Le cordate che vogliono a tutti i costi questa miniera non hanno però fatto i conti con la resistenza a oltranza opposta al progetto dalle comunità locali e da diverse reti di attivisti ambientali. Fra questi c’è anche Vahram. «Il progetto della miniera è stato di fatto congelato da quando, nel maggio 2018, Pashinyan è salito al potere», conferma Vahram proprie nelle ore in cui il suo Paese sta vivendo una delle pagine più buie della sua storia recente, con i combattimenti incessanti nella regione del Nagorno Karabakh fra truppe armene e azere (vedi intervista a pag. 49). «La popolazione del posto e gli attivisti hanno bloccato la strada che consente l’accesso al sito. Gli effetti di questa miniera sull’ambiente saranno devastanti. Jermuk, la città termale turistica situata vicino alla miniera, sarà gravemente colpita da tutto ciò. Ci sono già arrivate segnalazioni di gravi problemi di salute per la gente che vive lì».

Miniera di Amulsar, Armenia
Una veduta dall’alto della miniera d’oro di Amulsar, in Armenia

L’impatto della miniera di Amulsar su aria, acqua e suolo

I timori sull’impatto ambientale pesantissimo che il sito di Amulsar avrà su tutto il territorio circostante sono ampiamente fondati, come ha certificato una perizia indipendente chiesta dal nuovo governo di Pashinyan e redatta dalla società di audit libanese Elard. In questa miniera a cielo aperto, l’oro estratto viene prima trasferito a un impianto di frantumazione e successivamente caricato su dei nastri trasportatori che lo versano in vasche di lisciviazione, dove viene separato per mezzo di solventi, una soluzione di cianuro altamente tossica. Gli effetti sull’inquinamento dell’aria, del suolo e soprattutto della rete idrica che attraversa l’intera area sono facilmente immaginabili. La miniera è situata infatti dove scorrono i fiumi Arpa e Vorotan e nei pressi dei bacini idrici Spandaryan e Kechut, con quest’ultimo che alimenta il grande lago Sevan, considerato una risorsa fondamentale per l’economia e la conservazione della biodiversità dell’intera Armenia. Parte della miniera sorge inoltre all’interno di un sito classificato nella Rete Smeraldo dalla Convenzione di Berna, poiché ospita habitat naturali da preservare e specie protette in via d’estinzione. A dimostrare quanto potrà essere elevata la carica nociva della miniera anche sulla salute una volta che l’ultimo 25% dei lavori di realizzazione sarà terminato, sono le tante segnalazioni di cui ha parlato Vahram: attacchi d’asma, malattie polmonari, problemi dermatologici, emicranie, insonnia, causati soprattutto dalle operazioni di scavo e movimento terra e dalla conseguente emissione di polveri nell’area. Disagi a cui si sono aggiunte pressioni e minacce sugli abitanti del posto, costretti in molti casi a svendere i propri terreni agricoli per far largo alla miniera.

Uno degli accessi alla miniera. Foto Peter Liakhov

La lotta pacifica dei “difensori di Amulsar”  

Di fronte a questi soprusi migliaia di abitanti di Jermuk, Kechut e Gndevaz hanno deciso di non restare a guardare e, nell’estate 2018, hanno bloccato pacificamente l’accesso al sito, impedendo così che potesse entrare in funzione. Un’azione forte che presto ha contagiato l’intero Paese, portando la causa dei “difensori di Amulsar” fino alla capitale Yerevan, con sit in di protesta di fronte alla sede del Parlamento.

Dall’estate 2018 cittadini e attivisti bloccano l’accesso al sito. Sono state raccolte 26mila firme per spingere i finanziatori a ritirarsi dal progetto

Con il cambio di proprietà i rischi per gli attivisti sono però aumentati. La scorsa estate i guardiani armati dell’agenzia privata a cui Lydian Armenia, succursale locale di Lydian Canada ventures corporation, ha delegato la sicurezza dei cantieri, hanno forzato a più riprese i picchetti predisposti dai manifestanti agli ingressi al sito, venendo più volte allo scontro fisico con loro. I tafferugli hanno portato all’arresto di decine di attivisti ma anche di alcuni agenti privati. Il movimento civico Armenian environmental front ha inoltre denunciato l’uso di violenza da parte della polizia durante le repressioni delle manifestazioni. Negli ultimi mesi diverse iniziative di protesta, organizzate sia nei pressi di Amulsar che a Yerevan, non sono state autorizzate dalle autorità armene per il rischio di disordini. «Le pressioni sugli attivisti ambientali sono sotto gli occhi di tutti, alcuni sono stati persino picchiati dalle guardie di sicurezza di Lydian finendo in ospedale – riprende Vahram – Si parla molto della prosperità che questa miniera porterà alla regione di Vayots Dzor e all’Armenia. Io penso che ciò non accadrà: la ricchezza uscirà presto fuori dai confini del nostro Paese. Per non parlare dei gravi danni ambientali a lungo termine con cui dovremo fare i conti per decine, se non centinaia, di anni».

Manifestante attorniata dalla polizia di fronte a uno degli ingressi alla miniera di Amulsar. Foto di Narek Aleksanyan

La guerra nel Nagorno Karabakh e le indecisioni del premier armeno Nikol Pashinyan

Nonostante il clima di tensione palpabile attorno alla miniera, e il rischio concreto che la guerra nel Nagorno Karabakh finisca per relegare questa crisi a emergenza di secondo piano, i “difensori di Amulsar” non hanno alcuna intenzione di indietreggiare. Sul web la protesta non si placa, con l’hashtag #SaveAmulsar che ha preso d’assalto le bacheche di Facebook, Instagram, TikTok e Twitter di decine di migliaia di utenti armeni e non solo. Inoltre, una petizione che ha raccolto finora 26.000 firme promette di spingere sempre più finanziatori internazionali a tirarsi indietro dal progetto della miniera. Un appello recepito ad agosto anche dalla Bers, dopo le ultime violenze sui manifestanti, come segnalato da Open Democracy.

Gli occhi sono ora puntati sul primo ministro Nikol Pashinyan. Nei mesi caldi della rivoluzione di velluto Pashinyan aveva promesso che, qualora fosse salito al potere, si sarebbe opposto al piano di Lydian. Una volta eletto ha ordinato un’ispezione indipendente nel sito per verificarne i reali livelli di inquinamento. Ma nell’ultimo anno i suoi passi indietro sulla questione sono apparsi a molti evidenti. Lasciare soli in questa battaglia cittadini e attivisti significherebbe tradire proprio quegli ideali che hanno spinto in avanti la “sua” rivolta del 2018. Sarebbe un passo indietro che dopo decenni di dittatura prima e di governi corrotti poi, l’Armenia non può permettersi. Neanche per tutto l’oro del mondo.

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ASIA/TURCHIA – Rasa al suolo antica chiesa armena di Kütahya (Agenzia Fides 27.01.21)

Kütahya (Agenzia Fides) – L’antica chiesa armena di Surp Toros (San Toros) Kütahya, risalente a prima del XVII secolo e sconsacrata da tempo, è stata rasa al suolo dopo essere entrata in possesso di proprietari privati. Lo riferisce il giornale bilingue armeno-turco Agos, con sede a Istanbul, citando fonti locali. La chiesa, secondo le indagini storiche del ricercatore armeno Arshag Alboyaciyan, era stata ricostruita agli inizi del XVII secolo, dopo essere stata distrutta da un incendio. Era nota per custodire una roccia che, secondo tradizioni locali, portava impressa l’impronta del cavallo di San Toros. Le donne turche colpite da malattie – riferiscono studi sulle usanze locali – erano solite sedersi su quella pietra (che ritenevano dotata di proprietà taumaturgiche) e chiedere ai sacerdoti armeni di leggere loro passi della Bibbia, per invocare la guarigione.
Prima del 1915, circa 4mila armeni risiedevano nella città turca di Kütahya e nell’omonima provincia. A Kütahya (vedi foto storica) si contavano ben tre chiese armene. Dopo la tragedia del Genocidio armeno, gli abitanti armeni di quella regione registrati dal censimento del 1931 erano solo 65. Nei decenni successivi i pochi armeni di Kütahya si sono trasferiti a Istanbul o sono emigrati all’estero. La chiesa di San Torus, prima di essere demolita è stata a lungo utilizzata come sala per la proiezione di film o per la celebrazione di banchetti nuziali, e doveva essere preservata dalla demolizione in base a una disposizione del Consiglio per la protezione dei beni culturali della regione di Kütahya. (GV) (Agenzia Fides 27/1/2021)

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Giorno della Memoria: “Ricordiamo anche lo sterminio degli armeni e la tratta degli schiavi” (Ravenna Today 27.01.21)

Giorno della Memoria: “Ricordiamo anche lo sterminio degli armeni e la tratta degli schiavi” :: Segnalazione a Ravenna

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005. Quel giorno rappresenta il simbolo vero della “cicatrice incancellabile del periodo disumano” durato ben 12 anni (1933-1945), che il popolo degli ebrei ha dovuto subire, con un bilancio stimato a circa 6 milioni di morti; forse anche molti di più.

Per non dimenticare questo unico giorno internazionale dedicato alla memoria, credo sia opportuno collegare a questo giorno anche tutti gli altri stermini. Ad esempio quello degli armeni (1915-1916) per i quali si contano circa 2 milioni di morti, forse anche di più. Lo sterminio delle popolazioni dell’Africa nel periodo coloniale, dove solo in Congo ha causato più di 10 milioni di morti negli anni in cui il paese fu sottoposto al dominio personale di Leopoldo II, Re del Belgio. Quello della tratta atlantica degli schiavi africani durata circa 300 anni (XVI – XIX secolo), dove si parla di un numero fra 10 e 50 milioni di morti, forse anche molto di più. Per compiere tutti questi crimini contro l’umanità, fu creata la più grande ed immaginabile fabbrica della morte che l’uomo non abbia mai costruito.

Charles Tchameni Tchienga – Presidente de Il Terzo Mondo

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Giornata della Memoria tra cinema e arte al Volta di Pavia (Laprovinciapavese 27.01.21)

Tutte le classi vedranno il documentario “Il mondo non ci crederà mai”, verrà allestita anche una mostra nello spazio espositivo “Gallerie del Volta” e ci sarà un piccolo concerto

Il termine Olocausto indica il genocidio di cui furono responsabili la Germania Nazista e i suoi alleati nei confronti degli ebrei d’Europa e, per estensione, lo sterminio di tutte le categorie di persone dai nazisti ritenute “indesiderabili” o “inferiori” per motivi politici o razziali. Tra il 1933 e il 1945, furono circa 15-17 milioni le vittime dell’Olocausto, tra cui 5-6 milioni di ebrei.

Pur trovandoci in una situazione di emergenza a causa della pandemia in corso, la dirigente scolastica e i docenti dell’Istituto Volta ritengono fondamentale continuare la tradizione che prosegue ormai da anni e che vede il nostro Istituto impegnato nella commemorazione del Giorno della Memoria. L’iniziativa didattica è volta a creare un momento di riflessione sul genocidio degli ebrei e sui terribili eventi storici che hanno funestato la nostra nazione, tutta l’Europa e il mondo intero, per non dimenticare, per mantenere sempre viva nelle nuove generazioni la memoria di ciò che è stato e per aiutarci a non ripetere gli errori del passato.

L’altro compito educativo della scuola è quello di recuperare quei fatti storici per trasformarli in occasioni di riflessione e di studio, per combattere l’indifferenza e l’oblio, per promuovere e creare nei giovani un nuovo spirito di confronto, solidarietà e collaborazione con i popoli di diverse culture, stimolando una coscienza civile e morale attiva e consapevole che rifiuti ogni forma di discriminazione ed intolleranza.Mercoledì 27 Gennaio tutte le classi di tutti i plessi dell’Istituto, alle ore 11 visioneranno il documentario “Il mondo non ci crederà mai”. Lo stesso giorno verrà allestita anche una mostra nello spazio espositivo “Gallerie del Volta”. Il programma per la giornata della memoria prevede anche che Claudio Sala, docente di Storia dell’arte della nostra scuola, suoni alcuni dei suoi testi e musiche. Suonare per lui non è un fine ma un mezzo per comunicare con il mondo, per lanciare messaggi.

Tra le tante canzoni che ci propone c’è “Binario 21”, ispirata all’esperienza di Liliana Segre nei campi di sterminio nazisti, tratta di uno dei ventitré treni che tra il 1943 e il 1945 partirono dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano diretti ad Auschwitz. Questi convogli ferroviari che, partiti una mattina d’inverno da una Milano fredda e indifferente, a un certo punto del viaggio invertono la marcia dirigendosi a nord, verso la Polonia, soffocando così nei deportati la segreta speranza di una destinazione che non fosse quella tragicamente “ignota” di Auschwitz.

“Binario 21” è una canzone nata “come debito doveroso verso chi non è più tornato dai viaggi verso lo sterminio” e che vuole contribuire alla riflessione sull’indifferenza che, come afferma la Segre, “è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza”.

Facciamo un piccolo viaggio nel tempo ritornando ad alcuni episodi di genocidio, come:

  • Il genocidio dei nativi americani
  • Il genocidio dei nativi australiani
  • Il genocidio degli armeni
  • L’Holodomor – il genocidio degli Ucraini

Prendiamo in considerazione gli ultimi due solo per farvi capire meglio di cosa stiamo parlando. Nel genocidio degli Armeni, lo sterminio e la deportazione di massa della popolazione cristiana dell’Armenia occidentale erano stati decisi dall’impero Ottomano a causa delle sconfitte subite all’inizio della prima guerra mondiale per opera dell’esercito russo, in cui militavano anche battaglioni di volontari armeni. Per quanto riguarda L’ Holodomor, lo sterminio degli Ucraini, avvenne quando il governo sovietico decise che la popolazione ucraina era diventata sovversiva e ingestibile quindi per punirla l’accusò di minaccia al regime: per due anni chiusero i confini, requisirono il cibo e sanzionarono pesantemente chiunque tentasse di procurarsi provviste illegalmente, il numero di morti causato da questi provvedimenti oscilla tra i 5 e gli 8 milioni di persone.

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Un concerto dei System Of A Down in streaming per beneficenza: tutti i dettagli (Optimagazine 26.01.21)

Ci sarà un concerto dei System Of A Down in streaming per raccogliere fondi, questo l’annuncio della band di Serj Tankian postato sui social. L’intento è quello di raccogliere fondi per i soldati armeni feriti. Tra il settembre 2020 e il 10 novembre la Repubblica dell’Artsakh è stata il teatro di un sanguinoso conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaijan, noto anche come il secondo conflitto del territorio conteso del Nagorno-Karabakh.

I System Of A Down e l’Armenia

I System Of A Down, naturalizzati americani, non hanno mai dimenticato la loro Terra e per questo hanno scelto di mettersi in prima linea con la loro musica per raccogliere fondi destinati alle cure dei soldati armeni feriti. Il loro impegno è collimato anche nella pubblicazione dei primi due inediti dopo tanti anni di silenzio, Protect The Land e Genocidal Humanoidz.

Un concerto dei System Of A Down in streaming

Il concerto dei System Of A Down con raccolta fondi avrà luogo il 30 gennaio 2021 alle ore 18, ora italiana, sul canale YouTube ufficiale della band. I SOAD hanno anche annunciato la presenza di ospiti speciali di cui presto verrà rivelato il nome. Al termine dello show, inoltre, verrà trasmesso per la prima volta il video ufficiale del singolo Genocidal Humanoidz, secondo e ultimo singolo lanciato a fine 2020 e che ha siglato il ritorno della band in studio.

Di un ritorno discografico ufficiale della band di Serj Tankian non si è ancora parlato, anche se l’uscita dei due singoli ha fatto sperare i fan. Il loro ultimo album è Hypnotize, uscito nel 2005 e forte di singoli come la title-track e Lonely Day.

In particolare, i fondi raccolti dal concerto dei System Of A Down serviranno ad acquistare protesi destinate ai militi mutilati dal conflitto con l’Azerbaijan ma anche a sostenere una terapia laser in grado di ridurre le cicatrici e alleviare il dolore delle ferite.

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I SYSTEM OF A DOWN ANNUNCIANO UN CONCERTO BENEFICO IN STREAMING PER AIUTARE I SOLDATI ARMENI FERITI. TUTTI I DETTAGLI

La Giornata della memoria e i genocidi di oggi (Tempi.it 26.01.21)

Appello al presidente Mattarella perché l’anniversario serva a ricordare la Shoah, ma anche l’odierna sorte di Israele, degli armeni, degli uiguri

Caro Presidente Mattarella, ci rivolgiamo a Lei alla vigilia della Giornata della Memoria, in giorni bui e calamitosi.

Ormai da anni sperimentiamo un senso di crescente disagio ed esasperazione rispetto alla celebrazione di questo anniversario, tanto prezioso e importante, purtroppo sempre più ostaggio di cattive retoriche. I “mai più”, i “noi ricordiamo”, il focus sull’“indifferenza” sono stati con forza e più volte contraddetti erga omnes, nonostante troppe parole, da fatti tremendi ed eloquenti, che ci obbligano oggi a rivolgerci a Lei, in virtù dell’alta e nobile carica che Ella ricopre. Non si tratta di fatti accessori, bensì di eccezionale importanza e urgenza, ancorché troppo spesso scelleratamente tacitati o comunque messi in sordina: fatti che, negli ultimi anni, anche contestualmente alla pandemia, hanno subito una spaventevole accelerazione e radicalizzazione.

Anche Hitler ricordava, ed ebbe buona memoria. Al momento di avviare la soluzione finale, i nazisti si ricordarono del genocidio perpetrato pochi lustri prima dal governo dei Giovani Turchi, con ampie corresponsabilità tedesche, contro armeni, assiri e greci del Ponto. E, se fu possibile pianificarlo e attuarlo, orchestrandone sin da subito la negazione, il genocidio, allora, risultava reiterabile e “perfezionabile”, complici anche le politiche dell’oblio. Non fu affatto casuale che Rudolf Höβ, il carnefice di Auschwitz, in gioventù avesse servito nelle truppe tedesche di stanza in Turchia e nel deserto siro-iracheno a fianco delle milizie ottomane impegnate nell’opera genocidaria contro gli armeni!

La Giornata della Memoria – di fondamentale importanza etica e politica assieme a quella del 24 aprile commemorante il Genocidio Armeno – serve, come Ella ben sa, in particolare, su due fronti, diversi e correlati, non disgiungibili e altrettanto urgenti, che devono procedere paralleli e specifici: la lotta senza confine a ogni forma di antisemitismo, passato e presente, e l’opposizione fattiva e tempestiva a qualsivoglia politica genocidaria, in nuce o manifestamente dispiegata.

Nello specifico della lotta contro l’antisemitismo, preoccupano e lasciano esterrefatti i ritardi del Parlamento ad adottare, come hanno già fatto altri Paesi dell’Unione Europea, la definizione IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), specie a fronte del crescente antisemitismo e della crisi economico-sociale a cui stiamo andando incontro, con tensioni che probabilmente andranno accrescendosi, terreno inquietantemente fertile per il rinvigorirsi di propaganda e azioni antisemite, come già accade. Ci appelliamo a Lei, Signor Presidente, perché l’adozione della vigente definizione IHRA, nella sua integrità, possa avanzare e trovare sostegno condiviso. Parimenti, sempre in relazione alle scelte politiche nella Nazione di cui siamo orgogliosamente cittadini, lascia interdetti una contraddizione macroscopica e vergognosa: anche se molti politici, con una certa facilità e superficialità, proclamano di piangere le sorti degli ebrei d’Italia e d’Europa nel periodo nazifascista, recentemente l’Italia ha più volte votato in varie sedi internazionali contro il legame fondativo tra gli ebrei, il Monte del Tempio e, persino, lo stesso Muro Occidentale, tradendo così non solo l’ebraismo, ma anche il cristianesimo, la Storia e finanche l’arte, la musica e la letteratura italiane: dai Salmi a Verdi, da Dante a Vivaldi. Si tratta di una nuova, subdola e virulenta modalità di negazione e di sostituzione, in altre parole di una forma, solo apparentemente morbida, di antisemitismo di Stato (purtroppo, il nostro Stato!). Chiaramente le politiche dello Stato di Israele possono essere legittimamente, anche duramente, criticate. Tuttavia, questa specifica negazione è indicativa e presaga di ben altro, come, già intuito e denunziato, anni fa, in Italia, dal rabbino e intellettuale Giuseppe Laras.

Come anticipato, Signor Presidente, la Giornata della Memoria, perché abbia senso, deve servire anche come monito attuale per riconoscere, smascherare, denunziare e combattere ogni forma di politica e connivenza genocidaria.

Lo scorso 10 dicembre 2020 il Presidente della Repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdogan, ha affermato dinanzi al mondo che “le anime di Nuri Pasha, di Enver Pasha e dei coraggiosi soldati dell’Esercito Islamico del Caucaso si rallegreranno” per la nuova conquista turco-islamica dei territori aviti degli armeni, con elogiativi e chiari riferimenti ai fautori del genocidio patito dagli armeni tra il 1915 e il 1922. Addolora e sconvolge il silenzio, Signor Presidente, della nostra Nazione, dell’Europa e dell’infinito coro dei “mai più” di fronte a parole che, se dette, per ipotesi, dalle massime cariche dei governi tedesco e italiano suonerebbero all’incirca così: “le anime di Hitler e di Mussolini, dei gerarchi e dei boia dei lager oggi esultano…”. Questa profanazione, Signor Presidente, è stata compiuta nel silenzio e nell’indifferenza del mondo, incluso il nostro Parlamento, con buona pace delle opprimenti retoriche sulla Giornata della Memoria e sui “mai più”. Non solo: ci sono state e ci sono connivenze economiche e politiche e acquiescenze che fanno rabbrividire, tra cui, persino, il commercio di armi contro gli armeni negli scorsi anni e mesi da parte di aziende italiane (con grave onta e responsabilità per il nostro Paese, che sa per esperienza diretta e attiva, anche sul proprio territorio – come alla Risiera di S. Sabba -, che cosa significhi essere carnefici genocidari), israeliane (fatto che i sottoscriventi firmatari – molti dei quali sono e restano convinti sionisti – non possono però non denunciare, sapendo, tuttavia, che tale situazione in Israele sta almeno avviando serie e scomode riflessioni in seno alla società civile e che, differentemente dall’Italia, Israele è costretto a un’ardua geopolitica tra confinanti ostili, con minacce terribili da parte di Paesi come l’Iran) e non soltanto. In quanto cittadini italiani ci vergogniamo dei troppi silenzi del nostro Parlamento e delle nostre Istituzioni ed esecriamo tali comportamenti, ragioni di inquietudini fin troppo concrete.

Le aggressive politiche dell’attuale Repubblica di Turchia, anche nel Mediterraneo e con pressioni sui nostri confini marittimi meridionali, coronate da queste entusiastiche rivendicazioni genocidarie, ci obbligano a denunce e moniti, Signor Presidente, sapendo che oltre alla sopravvivenza di piccoli popoli superstiti, come quello armeno e quello ebraico, è in gioco il futuro delle nostre prossime generazioni anche in Italia, con ricadute sensibili sulla loro qualità di vita e sul senso del loro essere cittadini. Come è risaputo, il presidente Erdogan è assurto a leader della Fratellanza Islamica, nota organizzazione terroristica, genocidaria sin dalla sua fondazione, come è ampiamente provato sia dalla vicinanza e piena collaborazione di costoro ai regimi fascista e nazista sia dalla presenza del cofondatore (il muftì Amin al-Husseyni) nelle truppe ottomane durante il genocidio armeno. Non è un caso che, oltre a foraggiare a più livelli l’antisemitismo internazionale, costoro siano responsabili tanto oggi, con Erdogan, delle azioni contro gli armeni, quanto, sino a ieri dei massacri dei cristiani copti e assiri, come pure delle persecuzioni inflitte a migliaia di vittime musulmane. Per non parlare delle violenze di stato messe in atto contro i curdi e del genocidio patito dagli yazidi. Signor Presidente, l’incalzare pressante della Storia obbliga tutte le persone di buona volontà – credenti e non credenti, ebree, musulmane e cristiane, di destra e di sinistra, progressiste o conservatrici -, e in primo luogo la politica, a conoscere questo male, a comprenderne le modalità di azione e comunicazione e a opporvisi. I silenzi e le esitazioni al riguardo stanno minando da più fronti e già da tempo, per lo più sottotraccia, la politica e talvolta persino l’uso della memoria, a detrimento della vita delle democrazie liberali, sempre più sotto assedio.

Infine, signor Presidente, anche durante il recentissimo voto di fiducia, il Presidente del Consiglio ha rivendicato con orgoglio le intese strette con il governo della Repubblica Popolare Cinese. Indipendentemente dalla preferenza di voto espressa dai singoli parlamentari circa la questione della fiducia, lascia atterriti e attoniti il fatto che nessun deputato o senatore abbia con giusta veemenza ricordato che l’attuale regime totalitario in Cina, candidata all’egemonia mondiale, sia un governo genocidario. La Cina ha perpetrato per anni, senza che vi sia stato nessun Processo di Norimberga – risultando così impunita e, ancor più, senza speranza di comprensione dei propri crimini e rigenerazione da essi – una sorta di strage di Stato della propria popolazione, a osceno detrimento del genere femminile. Oggi questo stesso regime – che ha inflitto e infligge infiniti orrori in Tibet e che nega i diritti ai suoi lavoratori, con tutte le violenze del caso a detrimento di milioni di persone colà e con una diversamente violenta concorrenza qui ai nostri lavoratori, alle nostre imprese, alle nostre economie e dunque al nostro stile di vita e stato di diritto – perpetra una feroce pulizia etnica contro la minoranza musulmana uygura, come denunziato chiaramente e con coraggio, tra gli altri, dal defunto emerito Rabbino Capo del Commonwealth Sir Jonathan Sacks. Se si condannano, a distanza di ottant’anni, come è doveroso, gli accordi commerciali con la Germania nazista, specie laddove alcune imprese tedesche furono direttamente invischiate negli orrori della Shoah, ci domandiamo come sia possibile, oggi, per un governo democratico e libero, che rivendica e coltiva la Memoria, pur con tutto il cinismo che la politica e l’economia possono talora richiedere, essere così servilmente prono a siffatta macropotenza? E, se lo è, quanto è credibile, allora, Signor Presidente, il suo fare Memoria?

Signor Presidente, tutte le questioni qui sollevate sono le sfide tremende del nostro presente, dove la memoria della Shoah (ma anche del Genocidio Armeno) può essere una guida. Ci rimettiamo, nell’incalzare della Storia, per non lasciare nulla di intentato circa il futuro che i giovani avranno a vivere, alle Sue parole e alla forza simbolica e morale che dal Suo seggio potrà riverberarsi sull’Italia e, con essa, sull’Europa.

Aldo Canovari
Angelo Guerini
Angelo Pezzana
Antonia Arslan
Antonietta Potente
Claudia Sonino
Corrado Ocone
Davide Riccardo Romano
Elio Cabib
Emanuele Boffi
Ezio Quarantelli
Federico Maria Sardelli

Franco Modigliani
Giulio Sapelli
Giuseppe Reguzzoni
Guido Guastalla
Lodovico Festa
Lucetta Scaraffia
Luciano Bassani
Luigi Amicone
Marco Alberto Quiroz Vitale
Martina Corgnati
Micheli Silenzi
Ugo Volli
Vittorio Robiati Bendaud
Vittorio Sgarbi

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Repubblica di Artsakh. A rischio i monumenti armeni per mano azera. Il Parlamento europeo condanna aggressione azera e ingerenza turca (Korazym 26.01.21)

È stato pubblicato oggi, 26 gennaio 2021 a Stepanakert dall’ufficio dell’Ombudsman per i diritti umani della Repubblica di Artsakh un rapporto sul patrimonio culturale e architettonico, che si trova ora in territori occupati dall’Azerbajgian: Rapporto pubblico ad hoc. Il patrimonio culturale armeno nell’Artsakh (Nagorno-Karabakh): Casi di vandalismo e a rischio di distruzione da parte dell’Azerbajgian. Segue la sintesi del Rapporto, con una tabella riepilogativa e il link al documento.
Alcuni giorni fa il Parlamento europeo ha condanna l’aggressione delle forze armate dell’Azerbajgian contro la Repubblica di Artsakh e l’ingerenza turca, iniziata il 27 settembre 2020 e terminata con l’accordo del cessato il fuoco tra la Repubblica dell’Armenia, la Repubblica dell’Azerbajgian e la Federazione Russa il 9 novembre 2020. Anche in questa risoluzione si “sottolinea l’urgente necessità che sia assicurata la sicurezza della popolazione armena e del suo patrimonio culturale in Nagorno Karabakh”. Riportiamo queste due notizie al sito dell’Iniziativa Italiana per il Kharabakh.
Nel frattempo ci sono notizie che nei territori occupati dagli azeri, delle fattorie vengono assegnati ai mercenari jihadisti della Siria trasportati dalla Turchia e i Lupi Grigi annunciano la costruzione di una scuola a Shushi in Artsakh occupata dalle forze armate azere, già approvata da Erdogan e Aliyev. Il silenzio dell’Europa sulla guerra ha alimentato i fanatici turchi. E prima o poi ne pagherà le conseguenze… Non abbandoniamo gli Armeni!

A rischio i monumenti armeni in Artsakh. Il rapporto dell’Ombudsman

Ci sono circa 4.000 siti culturali armeni, tra cui 370 chiese, 119 fortezze e altri monumenti storici e culturali nella Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh). Le chiese risalgono dal IV al XXI secolo. I suoi preziosi siti archeologici, in particolare l’antica città di Tigranakert, hanno una datazione che va dal I sec. A.C. al XIII sec. d.C.

In base alla dichiarazione trilaterale sul cessato il fuoco del 9 novembre 2020 tra la Repubblica di Armenia, la Repubblica dell’Azerbajgian e la Federazione Russa, almeno 1.456 monumenti di spicco storici e culturali inamovibili sono caduti sotto il controllo azero, comprese 161 chiese armene, il sito archeologico di Tigranakert, la grotta paleolitica di Azokh, le tombe di Nor Karmiravan, Mirik, Keren e monumenti architettonici come palazzi, ponti e quartieri storici. Inoltre, nei territori che passarono sotto il controllo azero, c’erano 8 musei e gallerie statali con 19.311 reperti, così come il Museo dei tapeti di Shushi e il Museo delle monete armeno di Shushi, che operavano su base privata.

Ci sono serie preoccupazioni per la conservazione di questi siti storici sotto il controllo azero. Data la pratica dell’Azerbaigian di distruzione sistematica del patrimonio culturale armeno nei suoi territori negli ultimi decenni, queste preoccupazioni non sono fuori luogo. Due esempi flagranti sono la distruzione totale dell’antico cimitero armeno di Julfa a Nakhichevan tra il 1997-2006, in cui un totale di 28.000 monumenti (comprese 89 chiese medievali; 5.840 khachkar unici intagliati a mano (pietre incrociate) e 22.000 antiche lapidi furono distrutte e la distruzione di monumenti armeni del villaggio Tsar nella regione di Karvachar (Kelbajar). Inoltre, nonostante il breve periodo di controllo, vi sono già una serie di casi noti di vandalismo contro il patrimonio culturale armeno in Artsakh nei luoghi occupati dall’AzerbaJgian durante la guerra del 27 settembre-9 novembre 2020.

Il revisionismo storico dell’Azerbajgian è dilagante nella regione ed è stato attuato attraverso la sistematica “albanizzazione” dei beni culturali armeni sin dagli anni ’50. Nel tentativo di rafforzare i suoi legami con queste terre, l’Azerbajgian rivede e riscrive la storia affermando che le chiese armene e le pietre della croce appartengono agli albanesi caucasici e che gli albanesi caucasici sono gli antenati dei popoli azeri. L’obiettivo è sradicare le radici storiche dei popoli armeni nella regione e quindi diminuire il loro diritto a vivere e governare queste aree mentre si fabbrica una presenza storica azerbajgiana.

Il rapporto pubblicato oggi mira a evidenziare l’urgente richiesta nell’adozione di misure per proteggere il patrimonio culturale armeno nella Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh) e prevenirne la distruzione una volta sotto il controllo dell’Azerbajgian.

Dopo che il 9 novembre 2020 è stato concordato un cessato il fuoco, l’UNESCO ha proposto sia all’Armenia che all’Azerbajgian di inviare una missione indipendente di esperti per redigere un inventario preliminare di importanti siti del patrimonio storico e culturale in e intorno al Nagorno-Karabakh come primo passo verso l’efficace salvaguardia del patrimonio della regione. Allo stesso scopo, i membri del Comitato intergovernativo della Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e il suo secondo protocollo (1999), hanno adottato una dichiarazione l’11 dicembre 2020 e hanno accolto con favore l’iniziativa dell’UNESCO e ha confermato la necessità di una missione per fare il punto della situazione sui beni culturali nel Nagorno-Karabakh e nei dintorni. Il Comitato ha chiesto a ciascuna delle parti di rendere possibile la missione.

Nonostante l’urgenza della questione riconosciuta dall’UNESCO, il governo dell’Azerbajgian crea un ostacolo all’arrivo della missione non rispondendo alla richiesta.

La prima parte del rapporto stabilisce il deliberato targeting del patrimonio culturale armeno durante la recente guerra, in violazione della Convenzione dell’Aia del 1954, di cui sono parti sia la Repubblica dell’Azerbajgian che la Repubblica di Armenia, e la seconda parte esamina la politica dell’Azerbajgian. La propaganda sponsorizzata dallo stato mirava ad appropriarsi del patrimonio culturale armeno come proprio e/o a ripulire ogni traccia di armenità nelle regioni sotto il controllo azerbaigiano.

Il Parlamento europeo condanna l’aggressione azera contro l’Artsakh e l’ingerenza turca

Il Parlamento europeo, nell’ambito della relazione annuale 2020 e sull’attuazione della politica estera e di sicurezza comune, ha prestato particolare attenzione alla questione del Nagorno Karabakh e ha espresso una netta condanna per l’interferenza della Turchia nella recente guerra.

Nello specifico, l’articolo 24 della risoluzione afferma che il Parlamento europeo:
– prende atto dell’accordo su un cessato il fuoco completo nel Nagorno-Karabakh e nei dintorni firmato da Armenia, Azerbajgian e Russia il 9 novembre 2020;
– spera che questo accordo salverà la vita sia dei civili che del personale militare e aprirà prospettive più rosee per una soluzione pacifica di questo conflitto mortale;
– deplora che le modifiche allo status quo siano state apportate attraverso la forza militare, piuttosto che tramite negoziati pacifici;
– condanna fermamente l’uccisione di civili e la distruzione di strutture civili e luoghi di culto;
– condanna l’uso riferito di munizioni a grappolo nel conflitto;
– esorta sia l’Armenia che l’Azerbajgian a ratificare la Convenzione sulle munizioni a grappolo, che ne vieta completamente l’uso, senza ulteriori indugi;
– sottolinea che resta ancora da trovare una soluzione duratura e che il processo per raggiungere la pace e determinare il futuro status giuridico della regione dovrebbe essere guidato dai Copresidenti del gruppo di Minsk e fondato sui principi fondamentali del gruppo;
– sottolinea l’urgente necessità di garantire che l’assistenza umanitaria possa raggiungere coloro che ne hanno bisogno, che sia assicurata la sicurezza della popolazione armena e del suo patrimonio culturale in Nagorno Karabakh e che agli sfollati interni e ai rifugiati sia permesso di tornare ai loro precedenti luoghi di residenza;
– chiede che tutte le accuse di crimini di guerra siano debitamente indagate e che i responsabili siano assicurati alla giustizia;
– chiede all’Unione Europea di essere coinvolta in modo più significativo nella soluzione del conflitto e di non lasciare il destino della regione nelle mani di altre potenze”.

All’articolo 38, il Parlamento europeo:
– condanna fermamente il ruolo destabilizzante della Turchia, che mina ulteriormente la fragile stabilità in tutta la regione del Caucaso meridionale;
– invita la Turchia ad astenersi da qualsiasi interferenza nel conflitto del Nagorno-Karabakh, compresa l’offerta di sostegno militare all’Azerbaigian, e a desistere dalle sue azioni destabilizzanti e promuovere attivamente la pace;
– condanna inoltre il trasferimento di combattenti terroristi stranieri da parte della Turchia dalla Siria e altrove al Nagorno-Karabakh, come confermato da attori internazionali, compresi i Paesi Copresidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE;
– deplora la sua disponibilità a destabilizzare il Gruppo OSCE di Minsk poiché persegue l’ambizione di svolgere un ruolo più decisivo nel conflitto.

Positivo commento del Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh alla votazione del Parlamento europeo

Il Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh ha commentato le Risoluzioni del Parlamento Europeo – Rapporti annuali sull’attuazione della Politica estera e di sicurezza comune e della Politica di sicurezza e difesa comune –  esprimendo soddisfazione per la posizione del Parlamento europeo sulla guerra Azerbaigian-Karabakh.

Nel Comunicato si legge:
”Prendiamo atto con soddisfazione della posizione del Parlamento europeo sul conflitto Azerbaigian-Karabakh, espressa nelle risoluzioni sull’attuazione della politica estera e di sicurezza comune nonché sulla politica di sicurezza e difesa comune del 20 gennaio 2021 per i rapporti annuali 2020.
Condividiamo le valutazioni del Parlamento europeo relative agli eventi causati dall’uso della forza militare da parte dell’Azerbaigian, nonché le vie d’uscita da questa situazione. In particolare, riteniamo importante sottolineare il punto di vista del Parlamento europeo sulla necessità di garantire la sicurezza della popolazione armena nel Nagorno Karabakh, di preservare il patrimonio culturale armeno, di garantire il ritorno sicuro degli sfollati interni e dei rifugiati ex luoghi di residenza, e scambiare senza indugio i prigionieri di guerra e le salme dei defunti.
Riconosciamo l’importanza di indagare debitamente su tutti i presunti crimini di guerra e di assicurare i responsabili alla giustizia. È interessante notare che il Parlamento europeo ha anche chiesto specificamente un’indagine internazionale sulla presunta presenza di combattenti stranieri, terroristi e sull’uso di munizioni a grappolo e bombe al fosforo.
Accogliamo con favore il sostegno del Parlamento europeo agli sforzi dei copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE per una soluzione globale del conflitto fondata sui Principi fondamentali proposti dai mediatori internazionali.
Ci uniamo alla condanna del Parlamento europeo del ruolo destabilizzante della Turchia, che cerca di minare gli sforzi del Gruppo OSCE di Minsk per il bene delle sue ambizioni di svolgere un ruolo più decisivo nel processo di risoluzione del conflitto.
Condividiamo il punto di vista del Parlamento europeo secondo cui non è stato ancora trovato un accordo duraturo Siamo convinti che una soluzione completa e giusta del conflitto Azerbaigian-Karabakh possa essere raggiunta sulla base del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione realizzato dal popolo dell’Artsakh e la deoccupazione dei territori della Repubblica di Artsakh”.

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La chiesa degli armeni cattolici messa in vendita su internet (Avvenire 26.01.21)

Le autorità turche hanno messo in vendita al prezzo di 6,3 milioni di lire (poco più di 800mila dollari) una antica chiesa armena a Bursa, metropoli a sud del mar di Marmara e poggiata sulle pendici dell’antico monte della Misia, in Turchia.

Nell’annuncio si legge: “Una chiesa storica, situata nella regione di Bursa e divenuta proprietà privata, è oggi in vendita. Costruita dalla popolazione armena che vive in questa regione, la chiesa è stata venduta ed è diventata proprietà privata in seguito al cambiamento demografico ed è stata poi usata dopo il 1923 come magazzino per il tabacco, poi come fabbrica per la tessitura.

La chiesa, situata a Bursa, città inserita nella lista Unesco dei patrimoni mondiali dell’umanità, può essere utilizzata per scopi turistici a causa della sua particolare ubicazione”.

L’indicazione del “cambiamento demografico” allude in modo vago al genocidio degli armeni e alla fuga di molti cristiani greci negli ultimi anni dell’impero ottomano e i primi annidella nuova Repubblica laica.

Nell’atto di vendita si precisa infatti che il luogo di culto può diventare tanto un centro culturale, quanto un luogo per l’arte, un museo o un più prosaico hotel con finalità commerciali. Immediate e critiche le reazioni della comunità cristiana armena e dei movimenti di opposizione: Garo Pylan, parlamentare di etnia armena del partito di opposizione Hdp attacca: “Una chiesa armena in vendita a Bursa. Ma è mai possibile mettere in vendita un luogo di culto? Come possono lo Stato e la società permettere tutto questo? Vergognatevi!”.

Il capo della Chiesa armena cattolica di Turchia, l’arcivescovo Levon Zekiyan ha confermato, in seguito, che la chiesa, la Surp Krikor Lusavoriç, situata nella regione di Setbaşı/Bursa, era appartenuta alla comunità degli armeni cattolici, ma ha dovuto confessare che “la comunità armena non ha i mezzi finanziari per acquistare questa chiesa”. Al tempo stesso ha precisato: “Non ci disturba la trasformazione della chiesa in un luogo culturale al servizio del pubblico. Noi speriamo di avere l’autorizzazione a celebrare la Messa almeno una volta all’anno. Prevedo di discutere di questo nei prossimi giorni con le autorità locali”.

Il Patriarcato armeno apostolico di Turchia ha pubblicato, invece, una dichiarazione nella quale si dice che “è una cosa molto triste che certe persone percepiscano una chiesa come una mercanzia commerciale, o una fonte di guadagno”.

Secondo Asia News che ha riportato la notizia, per la comunità cristiana turca la decisione di vendere un luogo di culto è solo l’ultimo di una serie di episodi controversi che mostrano il mancato rispetto, se non il disprezzo e il mercimonio del patrimonio religioso e culturale: nei mesi scorsi avevano tenuto banco le conversioni in moschee delle antiche basiliche cristiane – poi musei a inizio ‘900 sotto Ataturk – di Santa Sofia e Chora.
Decisioni – stando ad Asia News – controverse nel contesto della politica “nazionalismo e islam” impressa dal presidente Recep Tayyip Erdogan per nascondere la crisi economica e mantenere il potere.

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Era degli armeni cattolici la chiesa messa in vendita su internet (Asianews 25.01.21)

di Marian Demir

Dopo il genocidio degli armeni, la chiesa è passata in mani private e ora è in vendita per farne un centro culturale o un hotel a Bursa. Levon Zekiyan, capo della Chiesa armena cattolica di Turchia: “La comunità armena non ha i mezzi finanziari per acquistare questa chiesa”.

Istanbul (AsiaNews) – Apparteneva agli armeni cattolici la chiesa messa in vendita su internet quasi una settimana fa. Lo ha rivelato il capo della Chiesa armena cattolica di Turchia, l’arcivescovo Levon Zekiyan. Egli ha confessato con dispiacere che “la comunità armena non ha i mezzi finanziari per acquistare questa chiesa”.

Più di una settimana fa è apparso su internet un annuncio che metteva in vendita al prezzo di 6,3 milioni di lire (poco più di 800mila dollari) una antica chiesa armena a Bursa, metropoli a sud del Mar di Marmara e poggiata sulle pendici dell’antico monte della Misia, celebre località turistica.

Nell’annuncio si spiegava che la chiesa era divenuta “proprietà privata in seguito al cambiamento demografico ed è stata poi usata dopo il 1923 come magazzino per il tabacco, poi come fabbrica per la tessitura”. L’indicazione del “cambiamento demografico” alludeva in modo vago al genocidio degli armeni, che ha prodotto lo svuotamento delle comunità agli inizi del secolo XX.

Nella proposta di vendita si precisava che il luogo di culto può diventare un centro culturale, un luogo per l’arte, un museo o hotel con finalità commerciali.

La chiesa in questione è la Surp Krikor Lusavoriç, situata nella regione di Setbaşı/Bursa. Sottolineando ancora che la comunità armena non ha i soldi per acquistare la chiesa, mons. Levon Zekiyan ha detto che “non ci disturba la trasformazione della chiesa in un luogo culturale al servizio del pubblico. Noi speriamo di avere l’autorizzazione a celebrare la messa almeno una volta all’anno. Prevedo di discutere di questo nei prossimi giorni con le autorità locali”.

Il Patriarcato armeno apostolico di Turchia ha pubblicato una dichiarazione in cui si dice che “è una cosa molto triste che certe persone percepiscano una chiesa come una mercanzia commerciale, o una fonte di guadagno”.

Garo Pylan, parlamentare di etnia armena del partito di opposizione Hdp denuncia: “Una chiesa armena in vendita a Bursa. Ma è mai possibile mettere in vendita un luogo di culto? Come possono lo Stato e la società permettere tutto questo? Vergognatevi!”.

Blocus. Con Melkonyan uno sguardo sulle ferite, passate e presenti, dell’Armenia (Lanouvellevague 26.01.21)

Il Trieste Film Festival continua a guidarmi lungo un sottile filo rosso in queste prime proiezioni: dopo il docufilm sull’ artista franco-armeno Aznavour, proietta ancora una testimonianza legata a quei luoghi.
A raccontarla al pubblico è Hakob Melkonyan con il suo Blocus/Blockade, al Festival in anteprima internazionale.

Blockade, in gara nel concorso dedicato ai documentari, racconta la vita quotidiana di Alik e della sua famiglia; nonchè le ferite di Chinari, nell’enclave armena del Nagorno Karabagh.

OGGI UNA CITTÀ FERITA, SILENZIOSA, CON CASE CHE BRUCIANO ANCORA

Dopo il cessate il fuoco gli abitanti hanno infatti dato fuoco alle case e si sono trasferiti altrove e “il fumo si vede ancora da lontano” e ricorda tristemente i “Papier d’Armenie”, come afferma nell’introduzione il regista Melkonyan.

Melkonyan è un autore armeno e il passato, come il presente del suo paese, l’Armenia restano al centro delle mie preoccupazioni.
Così, dal suo esilio, in Germania e poi in Francia, cerca di lasciare il segno di film in film,per testimoniare il dramma di questa regione del mondo.

L’Armenia esce da una guerra terribile con l’Azerbaijan per l’enclave del Karabagh cominciata più di 30 anni fa, quando era bambino.
Questa è la tragedia che ha voluto mostrare nel suo film Blockade.
“Ti sei fatto un bel fucile, eh, per giocare alla guerra”
Chinari è un territorio di confine e in quanto tale a scuola tra le lezioni figurano anche le lezioni con argomento il “conoscere il funzionamento di armi e munizioni”

Poichè nella visuale di perenni bombardamenti armeni i bambini sono i soldati di domani, anzi, in effetti, sono già soldati!

Tutti, indipendentemente dall’età e dallo status, devono essere sempre pronti e in grado, se necessario, di usare queste armi.

Chinari è quel luogo dove qualsiasi attività, dal lavoro dei campi a una mattinata di scuola o asilo può essere interrotta bruscamente dai bombardamenti azeri e costringere chiunque a una rapida evacuazione nei rifugi.
Bambini e bambine che non solo la vivono la guerra, ma a cui anche giocano quando si ritrovano. Sognando però, alla vista di un aereo, di andare a vedere cosa fanno i loro coetanei azeri, se giocano come loro o meno.

IO VORREI ANDARE A PARLARE CON UNO DI LORO. FORSE ANCHE LORO VOGLIONO LA PACE.

E’ anche un luogo dalle forti radici e nazionalismo, in cui ad esempio ai bambini e alle bambini vengono insegnate filastrocche che serviranno loro per ricordare il forte legame con la propria terra e le loro pietre.

Perché non lasciamo il villaggio? Perché restiamo sotto i colpi di cannone? chiede Alik a sua madre durante il documentario

“Abbiamo costruito questa casa superando tante difficoltà e continuiamo a ricostruirla ogni volta. Come potremmo dimenticare i nostri sacrifici e abbandonare tutto?”

Ecco in questo scambio di battute e in queste poche frasi si può riassumere il legame di qualche riga sopra tra Armeni e il proprio territorio.

La vita scorre, ignorando come si può le cannonate, e dimostrando di non aver paura.
Anche se non si sa se e quando la guerrà finirà. Si può solo sperare che un giorno succeda.

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