Da che parte sta la Russia nel conflitto tra Azerbaigian e Armenia? (Sputniknews 15.07.20)

Sul confine tra Armenia e Azerbaigian ricominciano le sparatorie. Dopo gli ultimi 30 anni notizie di questo tipo non sorprendono più il lettore. Infatti, gli spari dell’artiglieria sul confine tra le due repubbliche si sentivano già quando quel confine non era ancora nemmeno di Stato.

A quell’epoca vivevano insieme all’interno di un’unica entità statale, ma già si percepivano i primi focolai di un conflitto che poi effettivamente scoppiò con foga quando crollò l’URSS. Oggi armeni e azeri si sparano l’uno contro l’altro non nella regione del Nagorno-Karabakh, ma molto più a nord. Ad ogni modo, questo conflitto continua a incidere direttamente sugli interessi nazionali della Russia. È probabile che si scateni un conflitto di grande portata nella regione del Caucaso? In tal caso cosa dovrà fare la Russia?

Per comprendere questi eventi, è necessario perlomeno ricordare che proprio la questione del Nagorno-Karabakh inferse il primo grande colpo all’integrità dell’Unione sovietica: infatti, proprio a partire dal febbraio del 1988 prese inizio il processo di estinzione dell’URSS. Per alcuni mesi in quel periodo nel Karabakh vi furono disordini e cominciarono dei conflitti nazionalistici. Il parlamento della regione autonoma del Nagorno-Karabakh si rivolse ai dirigenti dell’URSS e, in particolare, a Gorbachev chiedendo la trasmissione dell’autonomia dalla Repubblica socialista sovietica di Azerbaigian a quella di Armenia. All’epoca ormai da tempo non si erano verificati altri casi di spostamento dell’autonomia da una repubblica ad un’altra, tantomeno a seguito di una pressione proveniente dal basso. Dunque, i dirigenti dell’amministrazione centrale cercarono di appianare il dissidio, ma lo fecero goffamente e il popolo della regione autonoma non percepì l’impegno di Mosca. Gli armeni contavano di sfruttare la perestroyka per ripristinare ciò che credevano spettasse loro di diritto in termini storici, ossia riunificare le terre armene e gli armeni di Karabakh e Armenia in un’unica repubblica.

I disordini aumentarono e ben presto vi furono le prime vittime. Gli azeri cominciarono a fuggire dall’Armenia e dal Karabakh e gli armeni dall’Azerbaigian. Alla fine, se prima in Azerbaigian vivevano degli armeni, ora non ve n’erano praticamente più. Allo stesso modo, se in Karabakh vi erano molti azeri, non ve ne rimasero più. L’Armenia vinse il conflitto all’inizio degli anni ’90 conseguendo la separazione dall’Azerbaigian non solo della maggior parte del Karabakh, ma anche di alcune regioni dislocate tra quest’ultimo e l’Armenia stessa (infatti, non sarebbe stato possibile garantire la sicurezza del Karabakh senza queste regioni). Tuttavia, dal punto di vista formale il Karabakh non solo non costituisce parte dell’Armenia, ma quest’ultima non lo riconosce nemmeno come nazione indipendente (Repubblica dell’Artsakh o del Nagorno-Karabakh).

Naturalmente l’Azerbaigian non ha superato la perdita delle proprie terre a maggior ragione dal momento che il Karabakh e gli altri territori rimangono di competenza azera dal punto di vista del diritto internazionale.

Gli azeri credono che prima o poi si riprenderanno le terre perdute, mentre gli armeni sono convinti del fatto che riusciranno a mantenerle proprie. A cadenza periodica sul confine tra i due Paesi si verificano sparatorie che talvolta assumono la forma di operazioni armate di maggiore portata: l’ultima operazione di questo genere si è verificata nel 2016 e oggi assistiamo di nuovo ad una escalation del conflitto. Come dovrebbe comportarsi la Russia a fronte di tutto ciò?

Negli ultimi anni la Russia ha tentato diverse volte di riappacificare le sue due ex repubbliche dell’Unione, ma senza alcun risultato. Infatti, le parti coinvolte devono volere trovare un compromesso o almeno fare i primi passi per conseguirlo. Tuttavia, la parte armena non è affatto incline a farlo. Infatti, teme di dover restituire all’Azerbaigian anche parte di quelle regioni dislocate tra il Karabakh e l’Armenia, il che significherebbe fornire al nemico la piazza d’armi per attaccare in futuro il Karabakh. Dal canto suo, invece, l’Azerbaigian è convinto che il tempo giocherà a suo favore. Una popolazione quattro volte più numerosa, un PIL molto superiore, ingenti spese militari e il sostegno, seppur ufficioso, della comunità internazionale sono i motivi per cui l’Azerbaigian ritiene che l’Armenia non potrà mantenere in eterno i territori conquistati. L’Armenia stessa sa bene che il rapporto di forze non gioca a suo favore, ma gli armeni hanno un asso nella manica.

Senza questo jolly già da tempo avremmo assistito a una guerra. Quest’asso nella manica è la Russia. In Armenia, infatti, è dislocata una base militare russa e la repubblica fa parte dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, ossia è un alleato militare della Russia.

Tuttavia, questo è il punto di vista della parte armena: infatti, il fatto che la Russia abbia interessi in Transcaucasia non determina necessariamente che, ove necessario, si ponga come garante della sicurezza dell’Armenia. La Russia ha bisogno di intrattenere buoni rapporti con entrambe le parti coinvolte: né l’Azerbaigian né l’Armenia devono nemmeno pensare all’eventualità di un conflitto armato. Dopotutto, oltre ad essere distruttivo per entrambe le parti, un simile conflitto danneggerebbe anche la Russia. Infatti, nessun conflitto in Transcaucasia soddisfa gli interessi nazionali della Russia e questo lo capiscono bene sia Baku sia Erevan. Per i due Paesi la Russia è non solo il principale partner e alleato, ma anche il garante della loro esistenza in quanto tali. Se togliessimo la Russia, domani entrambe le repubbliche comincerebbero una battaglia folle che le porterebbe a distruggersi vicendevolmente. Il Karabakh è già stato l’elemento che ha innescato il crollo dell’URSS. Vale davvero la pena che nuove tensioni in questa regione distruggano due repubbliche eredi dell’URSS?

Come è possibile uscire da questo vicolo cieco? L’unica via ragionevole è la graduale re-integrazione di Armenia e Azerbaigian non solo con la Russia, ma anche tra loro stesse. In altre parole, si auspica un loro riavvicinamento nel contesto dell’Unione eurasiatica. L’Armenia fa parte dell’Unione eurasiatica, mentre l’Azerbaigian per ora se ne sta in disparte non chiaramente per motivazioni economiche, ma di visione dello spazio post-sovietico in quanto tale. All’interno dell’unica nazione in cui prima o poi si tramuterà l’Unione eurasiatica è possibile trovare un compromesso sul Karabakh: mediante lo scambio di territori, il rimpatrio parziale di migranti e una politica di sicurezza comune. Armeni e azeri non sono destinati a lottare per sempre gli uni contro gli altri: infatti, nonostante le numerose vittime e i milioni di migranti, vi è un luogo in cui i due popoli possono rispettarsi a vicenda in maniera pacifica. Questo luogo non è il Karabakh, ma la Russia. Oggi, infatti, la Russia ospita milioni di armeni e azeri che sono sia cittadini russi sia cittadini di queste repubbliche.

Baku ed Erevan possono chiaramente aspettare quanto vogliono il momento opportuno per avviare una guerra, ma si tratterebbe di un vicolo cieco. Finché esisterà la Russia, non vi sarà alcuna guerra fra di loro. Se non vi fosse la Russia o se la Russia improvvisamente per qualche ragione lasciasse il Caucaso, entrambi i popoli ne rimpiangerebbero amaramente la presenza. Nessun attore esterno sarebbe in grado di assicurare non solo la tregua, ma nemmeno una tregua duratura tra le due repubbliche: infatti, per i player esterni la Transcaucasia sarà sempre e solo un campo di gioco contro le grandi nazioni confinanti, ossia Russia, Turchia e Iran. Ma di queste tre nazioni soltanto la Russia è in grado di fare da garante della pace nella regione: infatti, la stessa Turchia è troppo indifferente nei confronti dell’Azerbaigian.

A tal proposito, come interpretare le dichiarazioni di ieri dei dirigenti turchi? Mentre non sorprende che Erdogan abbia accusato l’Armenia delle recenti tensioni (in realtà sono entrambe le parti ad essere colpevoli), sono però le parole del ministro turco della Difesa Hulusi Akar a rivelarsi alquanto fuori luogo. “Ci porremo a fianco delle forze armate azere, sosterremo i nostri fratelli rispettando il principio una nazione, due Stati”, ha dichiarato il ministro. È davvero difficile interpretare questa come una dichiarazione di pace. Nonostante la vicinanza tra turchi e azeri, Baku non ha bisogno di simili dimostrazioni di solidarietà e aiuto: infatti, per evitare una guerra in Transcaucasia, è sufficiente l’influenza della Russia che consciamente non prende le parti di nessuna dei soggetti coinvolti nel conflitto, evitando così di contribuire alla escalation di quest’ultimo.

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Ancora scontri: cosa e chi sta dietro il conflitto tra Armenia e Azerbaijan (Euronews 15.07.20)

L’ultimo bollettino riporta 11 morti tra le fila dell’esercito azero nell’ultima fiammata del conflitto trentennale tra Azerbaijan e Armenia. Da domenica sono in corso nuovi scontri lungo il confine tra le due ex Repubbliche sovietiche, nella regione del Tavush, ricca di risorse energetiche.
La scintilla è divampata ed entrambi i Paesi si incolpano a vicenda per lo scoppio delle nuove ostilità.

Il Ministero della Difesa armeno ha riferito che la parte azera ha ripreso i bombardamenti sulle posizioni armene lunedì mattina, dopo gli scontri iniziali durante il giorno e la notte precedente. Non ha denunciato alcuna vittima dalla sua parte.
Da parte sua, il ministro della Difesa dell’Azerbaijan parla di una risposta al fuoco armeno. E rivendica di aver distrutto un avamposto militare armeno durante l’operazione di rappresaglia – video di supporto (vedi sotto)

È piuttosto raro che i combattimenti si svolgano al confine tra le due ex Repubbliche sovietiche. Generalmente gli scontri avvengono nel Nagorno-Karabakh in Azebaijan, territorio prevalentemente armeno e secessionista. Un fazzoletto di terra che cristallizza le tensioni tra i due vicini (vedi sotto).

Il conflitto fa temere un’escalation che potrebbe chiamare in causa le rispettive potenze alleate.
La Russia è tradizionale sostenitrice dell’Armenia a cui assicura il supporto militare. Mosca ha anche una grande base militare a Gyumri (Armenia nord-occidentale). Entrambi i Paesi sono membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’organizzazione politico-militare che riunisce diversi Paesi del Caucaso. L’Azerbaigian non vi partecipa. C’è anche la vicinanza religiosa tra l’ortodossia russa e quella armena.

Sul fronte opposto, la Turchia è alleata dell’Azerbaijan: un amico storico (entrambi i Paesi hanno lingue e culture simili) politicamente, commercialmente e militarmente. Il legame di Ankara con Baku deriva anche dall’ostilità del regime turco nei confronti dell’Armenia: Ankara non ha mai riconosciuto il genocidio armeno.

Lunedì è prevista una riunione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, un blocco a guida russa di cui l’Armenia fa parte, per discutere la situazione. La presidenza azerbaijgiana domenica ha accusato Erevan di voler “trascinare (questa) alleanza politico-militare nel conflitto”.

Le reazioni delle parti alle ”provocazioni” al confine

La rinnovata violenza ha portato a un rapido botta e risposta da parte dei leader politici di entrambi i Paesi.

La rinnovata violenza ha portato a una rapida risposta da parte dei leader politici di entrambi i Paesi

Ilham Aliev presidente Azerbaigian

Le provocazioni (da parte del nemico) non rimarranno senza risposta

Nikol Pachinian premier armeno

Un conflitto che destabilizza la regione caucasica

La contesa territoriale tra Armenia e Azerbaijan è il nodo gordiano del già complesso scacchiere caucasico, che mostra tutta la sua fragilità. Le tensioni tra i due Paesi hanno radici profonde e non sono certo scemate con la caduta dell’URSS all’inizio degli anni ’90 e la conseguente indipendenza delle repubbliche sovietiche. Le frizioni, precedentemente contenute nel quadro di una “pax sovietica”, stanno riemergendo, a volte violentemente. E la frammentazione della regione apre la strada alle lotte per l’influenza dei poteri regionali. Questo era vero 30 anni fa; è ancora più vero oggi, con due Paesi, Russia e Turchia, con interessi geo-strategici concorrenti.

In particolare, la regione del Nagorno-Karabakh è il nucleo in cui si alimenta l’ostilità tra i due Paesi. Un odio che ha innescato nuovi scontri nel 2016 nel 2019; in quell’occasione non ci furono solo casi isolati, ma veri e propri scontri tra due eserciti, che si conclusero anche con morti di civili. Solo l’intervento del cosiddetto Gruppo di Minsk, fondato dall’Osce nel 1992, risolse provvisoriamente la questione.

Nagorno-Karabakh, il territorio conteso

Armenia e Azerbaijan sono in conflitto dall’inizio degli anni ’90 per il controllo del Nagorno-Karabakh, nel Caucaso meridionale.
Questa enclave prevalentemente armena si trova all’interno dei confini ufficiali dell’Azerbaijan. Nel 1991, a seguito di un referendum, le autorità hanno proclamato unilateralmente l’indipendenza di questo territorio, con il sostegno dell’Armenia.
Una presa di posizione che ha scatenato la rabbia azera e l’inizio di un conflitto che avrebbe portato alla morte di quasi 30.000 persone. Un cessate il fuoco è stato concluso nel 1994.
Da allora, tutti gli sforzi per raggiungere un accordo di pace duraturo sono falliti: gli scontri alla periferia della regione sono frequenti.
Nell’aprile del 2016 altri combattimenti sono divampati, i più letali dal 1994. Più di 350 persone (civili e soldati) sono rimaste uccise.

Tavush, la regione degli scontri

Il Tavush, provincia dell’Armenia di circa 134.200 abitanti, è territorio cruciale e ricco di giacimenti petroliferi, è sede dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, fondamentale per l’Europa, e del gasdotto South Caucasus Pipeline.

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Neo-ottomani: ambizioni massimalistiche e genocidio culturale nei confronti degli “altri” (L’opinione 15.07.20)

Sotto il dominio dei regimi autocratici di Erdogan (Turchia) e di Aliev (Azerbaijan), dove le voci fuori dal coro sono normalmente destinate a sparire, le testimonianze artistiche e architettoniche presenti e passate, in particolare i monumenti storici, creati da “altre” culture – con particolare riferimento alle etnie cristiane – non solo rimangono in ostaggio, ma vengono presi di mira per un nuovo genocidio culturale. Forse adesso ci rendiamo conto del fatto che niente può salvaguardarli se non una posizione politica forte, determinata da parte della comunità internazionale.

La decisione cinica e deplorevole del presidente turco di trasformare in moschea la Basilica di Santa Sofia, storico monumento ormai aconfessionale di Costantinopoli, investe una questione culturale, ma allo stesso tempo niente meno che politica – una questione sintetizzata recentemente anche dal leader della Lega, Matteo Salvini: “La stessa Turchia che qualcuno vorrebbe far entrare in Europa, trasforma Santa Sofia in una moschea. La prepotenza di un certo islam si conferma incompatibile con i valori di democrazia, libertà e tolleranza dell’Occidente”.

Appare evidente che la responsabilità di intervenire oggi diventa più che vitale, non solo nelle questioni riguardanti l’urgenza di salvaguardare la vita umana, ma anche in quelle relative alla conservazione dei beni culturali di rilevanza mondiale. Certo è che una reazione da parte della comunità internazionale al cinismo, vandalismo e militarismo nel tempi della pandemia, sarebbe più che mai auspicabile non solo per contrastare la politica della Turchia che oggi procede fermamente nella sue strategie di deturpamento e annientamento, riflesse nel suo recente motto “Hagia Sophia fatta, Atene è la prossima“, e in quello più antico datato 1480 da Maometto II “Abbiamo preso la madre (Costantinopoli) ora prenderemo la figlia (Roma)”, ribadito pochi anni fa dallo stesso despota turco. Accanto a questo occorre limitare il rischio di un’ulteriore destabilizzazione della regione, iniziato con le azioni intraprese dall’Azerbaijan, da considerare sorella minore della satrapia turca ma con ambizioni non meno massimalistiche, foraggiate e incoraggiate dalla stessa Turchia.

Per contrario la Repubblica d’Armenia, a diversi livelli, fa appello ai leader degli stati democratici del mondo, affinché si impegnino teoricamente, e si adoperino concretamente, per la protezione di tutti i popoli. L’Armenia, nazione con forti valori umanitari e cristiani, che desidererebbe vedere le forze di tutti unite contro il nemico comune, la pandemia, oggi sfortunatamente vede i suoi due vicini – Turchia e Azerbaijan –  intensificare le politiche massimalistiche, nel silenzio complice di molti Stati impegnati a salvarsi la pelle e sempre di più concentrati su politiche egoistiche, che implicano, tra l’altro, razzismo culturale e violazione esplicita del diritto internazionale umanitario.

Il regime di Ilham Aliev (rappresentante della seconda generazione di una dinastia di oligarchi al potere in Azerbaijan dagli anni 70 del secolo scorso), sempre fedele al suo modus operandi “I. attacca – II. blocca meccanismi di investigazione – III. incolpa l’avversario, ha ordinato e scatenato lo scorso 12 luglio una nuova serie di azioni militari provocatorie contro l’Armenia.

Una delle rappresentazioni più palesi di quel modus la scorgiamo anche oggi – l’escalation degli attacchi militari in direzione nord-est del confine armeno-azero, nella regione di Tavush – territorio della Repubblica d’Armenia che non ha niente a che fare con il territorio della Repubblica de facto di Artsakh (Nagorno Karabakh).

Il tentativo di un gruppo di soldati azeri di attraversare il confine con l’Armenia in direzione Tavush in un veicolo Uaz (una sorta di campagnola militare di ultima generazione per dirla all’Italiana) ha già provocato violenze, sul confine. Sono state ignorate unilateralmente dall’Azerbaijan tutte le richieste di cessate-il-fuoco globale e immediato formulate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ribadite anche con profonda speranza da Papa Francesco come il “primo passo coraggioso per un futuro di pace”. L’Armenia, dal canto suo, ha dato ordine ai propri soldati di non rispondere alle provocazioni se non in caso di estrema necessità e pericolo incombente e immediato per la popolazione civile.

Difendendo il proprio territorio e la popolazione inerme, l’Armenia è in piedi, ferma sulle sue posizioni, contro le aggressioni dell’Azerbaijan che sembrano la seconda puntata della Guerra dei quattro giorni dell’Aprile 2016, durante la quale gli azeri venivano appoggiati anche dai jihadisti del Daesh (Isis).

Si attende ora la seduta straordinaria dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) per la questione sollevata da una nazione che conta sulle proprie capacità, però desidererebbe, almeno una volta, vedere un miracolo ovvero una reazione umana adeguata della comunità internazionale e dei paesi che si sono espressi numerose volte a favore della democrazia, della giustizia e della pace. Molti di questi purtroppo continuano a vendere armi convenzionali e non convenzionali proprio a chi le usa con spirito genocidiario e senza alcuna parvenza di umanità, utilizzando, peraltro, la propria popolazione come scudo umano.

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Armenia, Di Biagio:“Azerbaigian, la violazione del cessate il fuoco  non è la strada per la pace. Fiducia nell’Osce”. (Politicamentecorretto.it 15.07.20)

“La violazione del cessate il fuoco a Tavush da parte delle forze armate dell’Azerbaigian non è la strada per la pace. Fiducia nell’Osce”.

Lo dichiara il senatore Aldo Di Biagio a proposito della decisione azera di penetrare nella regione di Tavush della Repubblica d’Armenia, che potrebbe avere conseguenze internazionali significative.

“Come sottolineato dai co presidenti del Gruppo di Minsk dell’Osce – osserva il sen. Di Biagio – in questa fase è imprescindibile astenersi da azioni provocatorie al fine di lavorare per il costante rispetto del cessate il fuoco. L’escalation militare è nemica di una qualsiasi forma di convivenza e convergenza di intenti, a maggior ragione in un momento caratterizzato da un lato da soluzioni politiche lungimiranti, come il recente riconoscimento del nome di Macedonia del nord, e dall’altro dall’emergenza pandemica che dovrebbe riportare tutti ad una sana saggezza. E’di tutta evidenza come la zona di conflitto del Nagorno-Karabakh necessiti di soluzioni diplomatiche e non di fughe in avanti. Per questa ragione tutte le istituzioni, comunitarie e non, hanno l’obbligo morale di evitare conflitti e contrapposizioni senza dimenticare la strategicità di quel fazzoletto di terre, dove transitano oleodotti, equilibri e strategie dei vari players coinvolti”.

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Escalation al confine Armenia-Azerbaigian: esercito armeno annuncia di aver abbattuto drone azero (Sputniknews 14.07.20)

Oggi il ministero della Difesa armeno ha dichiarato che le forze di contraerea hanno abbattuto un drone azero nell’area di confine sullo sfondo della recente escalation.

“Le unità di difesa aerea armena hanno colpito un drone delle forze armate azere, che viene utilizzato come sistema di controllo del fuoco”, ha scritto la portavoce del ministero Shushan Stepanyan su Facebook.

Domenica scorsa è avvenuto uno scontro armato sul confine azero-armeno, in un punto relativamente lontano da dove i due paesi di solito si scambiano ostilità nel territorio conteso del Nagorno-Karabakh. Lo scontro è avvenuto vicino al villaggio di Movses lungo la linea di contatto tra la provincia di Tavush in Armenia e la provincia di Tovuz in Azerbaigian. Yerevan e Baku si sono incolpate a vicenda di aver aperto il fuoco per prima. Il ministero della Difesa azero ha riportato la morte di quattro soldati, mentre il ministero della Difesa armeno ha segnalato il ferimento di 2 militari.Lunedì l’Armenia ha riferito che l’Azerbaigian ha continuato ad attaccare, bombardando il territorio armeno ad intervalli di 15-20 minuti.

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Scontro armato tra Armenia e Azerbaijan (Osservatorio Balcani e Caucaso 14.07.20)

A partire da domenica scontro armato con morti e feriti al confine tra Armenia e Azerbaijan. Entrambi i paesi si accusano di aver avviato le ostilità

14/07/2020 –  Oc Media

(Pubblicato originariamente da OC Media, il 13 luglio 2020)

Da domenica si sono verificati scontri armati tra Armenia e Azerbaijan lungo il confine. Almeno tre soldati dell’Azerbaijan sono stati uccisi e altri cinque feriti. L’Armenia ha riferito che due propri agenti di polizia e tre soldati sono rimasti feriti.

Combattimenti sono in corso da domenica pomeriggio tra la provincia di Tavush in Armenia e il distretto di Tovuz dell’Azerbaijan. Le parti in conflitto si sono accusate reciprocamente di aver iniziato le ostilità.

Il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha affermato domenica che “dal pomeriggio” del 12 luglio le forze armate armene “hanno violato il regime del cessate il fuoco” e hanno bombardato le posizioni dell’Azerbaijan al confine tra l’Azerbaijan e l’Armenia nella regione di Tovuz. “Ci sono perdite da entrambe le parti”, si legge nella loro dichiarazione. Lunedì pomeriggio, hanno anche affermato che le forze armene hanno sparato contro le posizioni azerbaijane a Nakhichevan.

Shushan Stepanyan, il portavoce del ministero della Difesa dell’Armenia, in un post su Facebook ha affermato che domenica alle 12:30, diversi membri delle forze armate del’Azerbaijan con un veicolo hanno tentato di violare i confini statali della Repubblica di Armenia. Stepanyan ha affermato che i soldati hanno abbandonato il loro veicolo e sono tornati alle loro posizioni dopo un “avvertimento” da parte armena. “Alle 13:45 le forze armate azerbaijane, usando l’artiglieria, hanno cercato di catturare una nostra posizione strategica ma sono state respinte e hanno subito vittime”, ha dichiarato Stepanyan. Non ha ammesso alcuna perdita subita dalle forze armate armene.

Sabina Aliyeva, Difensore civico dell’Azerbaijan, ha affermato che le forze armene hanno colpito il villaggio di Agdam e che “queste azioni contro i civili durante la pandemia di COVID-19 dovrebbero essere valutate come una grave violazione dei diritti umani”. Non si hanno sino ad ora notizie di vittime civili.

L’escalation è arrivata meno di una settimana dopo che il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ha espresso malcontento per i negoziati con l’Armenia. In un’intervista a canali televisivi azerbaijani il 6 luglio scorso Aliyev ha affermato che “i negoziati in video tra i ministri degli Affari esteri dell’Armenia e dell’Azerbaijan non hanno alcun senso”. Aliyev ha anche minacciato l’uscita dell’Azerbaijan dai negoziati: “Se i negoziati non affrontano questioni sostanziali, non vi prenderemo parte”.

Alleanze militari

Hikmet Hajiyev, assistente del Presidente dell’Azerbaijan, ha accusato l’Armenia di utilizzare queste “avventure militari” per cercare di coinvolgere le “organizzazioni politico-militari” di cui è membro, al fine di evitare le proprie responsabilità nell’occupazione e aggressione contro Azerbaijan.

Sebbene non abbia nominato alcuna specifica organizzazione “militare-politica”, l’unico gruppo di cui l’Armenia fa parte è l’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO) guidata dalla Russia. Nell’ambito della CSTO, l’Armenia e altri stati membri sono vincolati da obblighi di difesa reciproca.

Anche l’Azerbaijan è firmatario di un trattato con la Turchia che comporta obblighi di difesa reciproca. In una dichiarazione rilasciata il 12 luglio la Turchia ha condannato l’escalation e dichiarato il proprio sostegno all’Azerbaijan “nella sua lotta per proteggere la sua integrità territoriale”.

In una dichiarazione di lunedì scorso, il ministero degli Affari esteri russo ha definito la situazione “inaccettabile” e ha condannato ogni “ulteriore escalation” in quanto potrebbe “minacciare la sicurezza della regione”. Aggiungendo che la Russia era pronta a “fornire l’assistenza necessaria per stabilizzare la situazione”.

“In molti sarebbero sorpresi se questo tipo di scontri si trasformassero in una vera e propria guerra”, ha dichiarato ad OC Media Olesya Vartanyan, analista esperta di Caucaso meridionale per il think tank International Crisis Group. “Ciò non significa che qualcosa non possa accadere, diciamo, nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh”.

Vartanyan ha aggiunto che è improbabile che il conflitto si intensifichi in quel luogo specifico dato che quella regione di confine comprende infrastrutture preziose, tra cui strade e oleodotti, fondamentali per entrambi i paesi. Ed inoltre, ha proseguito, in quella zona la popolazione civile è molto vicina alle postazioni militari e vi è infine la possibilità di un intervento turco e russo.

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San Davino Armeno: archeologia e paleopatologia di un santo pellegrino medievale (Gonews 14.07.20)

Mercoledì 15 luglio, alle ore 18:00, in occasione delle Notti dell’Archeologia 2020, il Museo di Anatomia patologica, appartenente al Sistema Museale dell’Università di Pisa, propone un appuntamento in streaming su “San Davino Armeno: archeologia e paleopatologia di un santo pellegrino medievale”. Intervengono il direttore del museo, la professoressa Valentina Giuffra, e il professor Antonio Fornaciari, della divisione di Paleopatologia. L’incontro tenterà di dare risposta alla domanda: cosa ci racconta lo studio di una mummia medievale? Molte cose se a interrogarla sono i paleopatologi. La Paleopatologia è infatti la scienza specializzata nello studio delle malattie antiche direttamente nei resti umani del passato, scheletri e mummie. PUBBLICITÀ Nel 2018 la divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa ha affrontato lo studio del corpo mummificato di San Davino Armeno, conservato a Lucca nella Basilica di San Michele in Foro. La figura di San Davino, santo pellegrino che la tradizione fa morire a Lucca nel 1050, è in gran parte avvolta nella leggenda. Lo studio ci rivela per la prima volta le caratteristiche fisiche, lo stile di vita e le malattie sofferte dal santo, tra cui le tracce di un intervento chirurgico alla testa effettuato con l’uso di un cauterio. Nel corso della presentazione saranno mostrati i risultati delle ricerche che sembrano avvalorare le notizie agiografiche sulla provenienza dall’Armenia del personaggio e saranno mostrati i rarissimi elementi di corredo (sete e gioielli) che accompagnano il corpo. Per seguire il seminario collegarsi al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=BybeyGPF6Ec Fonte: Università di Pisa – Ufficio Stampa

Leggi questo articolo su: https://www.gonews.it/2020/07/14/san-davino-armeno-archeologia-e-paleopatologia-di-un-santo-pellegrino-medievale/
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La Turchia ribadisce sostegno all’Azerbaigian nel conflitto con l’Armenia (Sputniknews 13.07.20)

Oggi il ministero della Difesa armeno ha dichiarato che le forze di contraerea hanno abbattuto un drone azero nell’area di confine sullo sfondo della recente escalation.

“Le unità di difesa aerea armena hanno colpito un drone delle forze armate azere, che viene utilizzato come sistema di controllo del fuoco”, ha scritto la portavoce del ministero Shushan Stepanyan su Facebook.

Domenica scorsa è avvenuto uno scontro armato sul confine azero-armeno, in un punto relativamente lontano da dove i due paesi di solito si scambiano ostilità nel territorio conteso del Nagorno-Karabakh. Lo scontro è avvenuto vicino al villaggio di Movses lungo la linea di contatto tra la provincia di Tavush in Armenia e la provincia di Tovuz in Azerbaigian. Yerevan e Baku si sono incolpate a vicenda di aver aperto il fuoco per prima. Il ministero della Difesa azero ha riportato la morte di quattro soldati, mentre il ministero della Difesa armeno ha segnalato il ferimento di 2 militari.Lunedì l’Armenia ha riferito che l’Azerbaigian ha continuato ad attaccare, bombardando il territorio armeno ad intervalli di 15-20 minuti.

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Tensioni tra Armenia e Azerbaigian, scontro armato fra i militari al confine (Sputniknews 12.07.20)

Nel pomeriggio di domenica si è verificato uno scontro armato al confine tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Le versioni delle due parti in causa.

Il ministero della Difesa azero afferma che le loro posizioni sono state state attaccate a colpi di artiglieria dai militari armeni. Secondo quanto riferito dal dicastero militare azero, ci sono vittime da entrambe le parti. Il ministero della Difesa armeno ha riferito di un tentativo di presa di uno dei punti di guardia al confine da parte dei militari azeri.

Versione azera

Secondo quanto riferito dalla parte azera, nello scontro sono caduti due militari e cinque sono stati feriti.

“A partire dal mezzogiorno del 12 luglio le unità delle forze armate armene, violando in maniera grave il cessate il fuoco nella sezione del confine di stato azero-armeno del distretto di Tovuz, hanno attaccato le nostre posizioni”, ha affermato l’ufficio stampa del ministero della Difesa azero a Sputnik.

Versione armena

La parte armena, a sua volta, denuncia il tentativo di presa di un proprio caposaldo da parte azera, avvenuto con l’impiego di mezzi di artiglieria, dichiarando inoltre che non ci sono vittime tra i militari armeni.

Il portavoce del ministero della Difesa armeno Shushan Stepanyan ha scritto in un post su Facebook che “i militari delle forze armate azere, usando il fuoco di artiglieria, hanno cercato di conquistare un nostro caposaldo, ma sono stati respinti subendo vittime” ․

“Da parte armena non ci sono vittime”, ha sottolineato Stepanyan.

Il portavoce ha aggiunto che poco prima dello scontro i militari azeri hanno tentato di attraversare il confine di stato a bordo di un veicolo.

L’annosa disputa territoriale tra i due paesi

Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian è scoppiato nel 1988, quando il territorio autonomo del Nagorno-Karabakh ha dichiarato l’uscita dalla Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian. Le parti in guerra hanno posto ufficialmente fine alle ostilità nel 1994, ma le violenze non sono cessate e anzi una recrudescenza del conflitto si è registrata a partire da aprile 2016.

Dal 1992 si svolgono i negoziati per una soluzione pacifica del conflitto all’interno del gruppo di Minsk dell’OSCE. L’Azerbaigian insiste nel salvaguardare la sua integrità territoriale, mentre l’Armenia difende gli interessi dell’autoproclamata Repubblica, dal momento che i rappresentanti indipendentisti del Nagorno-Karabakh non sono coinvolti nei negoziati.

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Santa Sofia, le mire del sultano e una Chiesa tiepida troppo occupata con la salvaguardia del creato (Loccidentale 11.07.20)

Comunque andrà con l’Aja Sofia(Santa Sapienza), la Dichiarazione di fratellanza universale firmata ad Abu Dhabi dall’imam di Al Azar e dal papa, rivela tutta la sua utopia dinanzi alle ragioni politiche di colui che si ritiene il nuovo sultano. Che contrasto con la lezione di Benedetto XVI all’università di Regensburg il 12 settembre del 2006, in cui affermava che la violenza è contraria alla ragione! La mancanza di ragione costituisce una delle peggiori patologie della religione; invece di proporre e diffondere la fede con la ragione, si ritiene ancora oggi di imporla con la forza.

Purtroppo, il dialogo ideologizzato ha indotto i cattolici al relativismo, nonostante Paolo VI abbia scritto: “La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in un’attenuazione della verità…il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno della nostra fede…non si può transigere con i principi teorici e pratici della nostra professione cristiana”(Enciclica Eclesiam suam).
I patriarchi di Costantinopoli e di Mosca, nei loro comunicati, fanno riferimento ai fasti di Santa Sofia, per paventare la fine della concordia e della pace interreligiosa. Flebili proteste! E così, mentre in Europa i politici favoriscono la diffusione di moschee, in Turchia Erdogan ‘schiaffeggia’ i cristiani del mondo, spingendo alla trasformazione di Santa Sofia in moschea.

Tra i territori dell’ex impero ottomano la Turchia aveva fino alla fine del secolo XIX la più forte percentuale di cristiani: armeni (2.000.000), greci (1.500.000), siro-giacobiti e assiro-caldei (alcune centinaia di migliaia); il 20% dell’intera popolazione; si aggiunga un mezzo milione di ebrei; da Istanbul fino all’est convivevano con i musulmani. Il massacro degli armeni e il ‘rimpatrio’ dei greci d’Anatolia, avvenuti nel secolo XX rendono oggi la Turchia, tra i paesi del Medioriente, quello che ha ufficialmente il minor numero di cristiani: intorno ai 100.000, su oltre 60 milioni d’abitanti musulmani. Ma la cifra può essere ben più alta in ragione di un certo numero di ‘cripto-cristiani’ e di immigrati. Fino a qualche anno fa, si stimavano tra 40 e 50.000 armeni, tra 5 e 10.000 greci, concentrati in gran parte ad Istanbul, tra 15 e 20.000 siriani, in gran parte ad est, intorno a Tour Abdin e Mardin, tutti ortodossi, e ben distinti culturalmente e linguisticamente dall’ambiente turco. Si aggiungano da 15 a 20.000 cattolici di diverse denominazioni e qualche migliaio di protestanti. Ufficialmente i ¾ dei cristiani di Turchia vivono a Istanbul, 25mila in Anatolia.

Erdogan vuole emulare Mehmet II, il sultano che realizzò il sogno dei musulmani, antico di otto secoli, che il 29 maggio 1453 assalì Costantinopoli. La dominazione ottomana su Costantinopoli divenuta Istanbul si inaugurò con tre giorni di saccheggi e massacri che non risparmiarono nemmeno gli abitanti rifugiati nella basilica di S.Sofia. I principali santuari cristiani furono trasformati in moschee. Mehmet II, dopo aver giustiziato il patriarca Isidoro II, autorizzò i prigionieri greci a raggrupparsi nel quartiere del Phanar e a organizzarsi in ‘nazione’(millet) sotto l’autorità d’un nuovo patriarca (altrettanto avverrà per gli Armeni).Per il gran numero di Turchi fatti insediare nella città, la popolazione cristiana divenne subito minoritaria e il sultano divise le ‘genti del Libro’ in millet (Greci, Armeni e Italiani). Anche in Anatolia, tranne alcune roccaforti tradizionali(Sebaste, Trebisonda,TourAbdin…) il censimento del XV secolo fa apparire i cristiani minoritari. Molti si convertono all’islam pur di non sottostare ad una situazione discriminatoria e umiliante. Ma coloro che erano rimasti fedeli potettero conservare la loto organizzazione e il loro diritto particolare e i loro capi ottenere una sorta di sovranità delegata concessa benevolmente dalla Sublime Porta.

L’avvento di Moustapha Kemal, detto Ataturk, segnò l’insurrezione nazionale e i cristiani fecero le spese di questo sussulto patriottico inaspettato che rifiutava il trattato di Sèvres: 300.000 armeni e 350.000 greci vennero massacrati e i rimasti furono deportati. Il 24 luglio del 1923 viene siglato il trattato di Losanna che sancisce il riconoscimento internazionale della nuova Turchia. Dei circa due milioni di armeni che vi si trovavano fino al 1914, restano appena 70.000. I cristiani Assiri si rifugiano in Iraq e i Giacobiti ad est nella zona di Mardin. Quanto ai Greci, si era organizzato un grande ‘scambio’: mezzo milione di turchi d’Europa ritornavano in patria, e 1 milione e mezzo di greci abbandonavano la loro patria millenaria sulle rive asiatiche dell’Egeo (rimasero solo le comunità greche di Istanbul e di alcune isole turche). Il patriarca Germano V si era dimesso nel 1918 e per tre anni il seggio rimase vuoto.

Il nuovo stato turco, lungi dal riconoscere eguaglianza ai cittadini ha finito per vessare ulteriormente i cristiani, al punto che nel 1955 una larga parte della comunità greca di Istanbul ha lasciato il paese. Il governo ha esercitato una enorme ingerenza nel patriarcato che ha portato negli anni venti alla costituzione di una chiesa ortodossa turca scismatica, esperienza conclusasi nel 1947. L’elezione nel 1948 del patriarca Atenagora e anziano arcivescovo negli Stati Uniti, porterà ad un allentamento della tensione.

Dopo la morte di Ataturk nel 1938, la democratizzazione progressiva del paese ha permesso un certo miglioramento della condizione dei cristiani, ma è chiaro che in uno stato rimasto fondamentalmente turco e musulmano, essa rimane sempre precaria.

Erdogan vuole accreditarsi come il nuovo sultano della umma’, la comunità islamica mondiale. Il patriarca ‘verde’, Bartolomeo, con papa Francesco, è troppo occupato nella ‘salvaguardia del creato’, per promuovere azioni a sostegno dei non pochi turchi che si convertono clandestinamente alla fede cristiana. L’Europa assisterà indifferente, salvo qualche comunicato di protesta, perché da anni ha perduto le sue radici cristiane.

Se invece le Chiese cattolica e ortodossa seguissero l’insegnamento e l’esempio di Gesù Cristo, che ha rivelato il mistero della Sapienza divina nella follia della croce, feconderebbero del sangue di Lui mescolato al proprio, tanta umanità in cerca di salvezza.


Tornano difficili i rapporti tra Vaticano e Turchia (11.07.20)

AGI – Difficile immaginare che la decisione turca di restituire al culto islamico Santa Sofia a Istanbul restasse priva di conseguenze, nei rapporti con la Chiesa cattolica. Oggi Papa Francesco esprime il suo “profondo dolore” personale, a indicare la profondità della ferita inferta ad un dialogo ripreso da poco, dopo alti e bassi. Parole, quelle del Pontefice, che lasciano bene immaginare come la ricucitura sarà lenta e difficile, e probabilmente richiederà lunghi anni di paziente lavoro sotterraneo. A Santa Sofia Bergoglio si era fermato per una visita alla fine di novembre del 2014. Quel giorno – il particolare è significativo – aveva scelto piuttosto la Moschea Blu per soffermarsi in adorazione a piedi scalzi davanti al mihrab, accanto al Gran Mufti’ di Istanbul Rahmi Yaran. Un gesto già compiuto anni prima da Ratzinger e con il quale si sottolineava, tra le altre cose, che il luogo di culto era quello, e non l’antica basilica bizantina. Museo, quest’ultima, era come tale era stata ammirata. Oggi le cose cambiano, come è cambiata la destinazione di Aghia Sophia. Un papa che dà voce alla sua più profonda amarezza per la decisione di un governo straniero indica una cosa sola: quelle giornate sono ormai lontane, ed il futuro non sarà più come il passato. Eppure di alti e bassi le relazioni tra Santa Sede e governo di Erdogan ne hanno registrati molti. Se il viaggio del 2014 aveva registrato con una vera e propria apertura di credito da parte di Bergoglio, gli sviluppi successivi non erano stati altrettanto promettenti. Sull’aereo che lo portava ad Ankara, prima tappa di quella trasferta, il Pontefice aveva avuto modo di sottolineare l’accoglienza “generosa” di “una grande quantità di profughi” da parte della Turchia, precisando che “la comunità internazionale ha l’obbligo morale di aiutarla nel prendersi cura” di loro. Ruolo stabilizzatore nell’ambito di una catastrofe umanitaria di dimensioni bibliche, quello di Erdogan: la Siria ed i suoi profughi (in tanta parte cristiani) costituivano una vera e propria credenziale nelle mani di Ankara nei confronti dell’Europa e non solo. La battuta d’arresto venne registrata pochi mesi dopo, quando Francesco divenne il primo papa a parlare apertamente, condannandolo, del genocidio degli armeni del 1915. Tema delicatissimo: la Turchia nega ancora che quei fatti siano definibili come tale, quanto semmai una politica di ricollocamento della popolazione armena all’interno dell’allora impero ottomano, e non accetta altre versioni. Invece, cent’anni dopo i fatti, Bergoglio disse esplicitamente: “La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, che generalmente viene considerata come il primo genocidio del XX secolo, ha colpito il popolo armeno, prima nazione cristiana”. Mettendo cosi’ gli armeni a fianco degli ebrei della Shoah. Reazione immediata di Erdogan: attacco personale al Papa (“ho cambiato la mia opinione su di lui come politico e come religioso”) e ritiro dell’ambasciatore presso la Santa Sede. Il diplomatico tornerà un anno dopo, in tempo per preparare una visita a Roma dello stesso Erdogan che regolarmente si svolge nel febbraio 2018. L’accoglienza è amichevole, il clima definito caloroso come da prammatica, ma da parte vaticana si chiede rispetto e protezione per le minoranze cristiane in Turchia e nella regione” come anche rispetto per i curdi e cessazione immediata delle uccisioni in atto, soprattutto delle vittime civili e innocenti. Insomma, amici ma l’amicizia si basa sulla franchezza. Come anche su una serie di protocolli in cui le posizioni sono meno divergenti: profughi, Siria, Gerusalemme. Trump ha appena spostato l’ambasciata americana in Israele nella Città Santa, e la cosa non viene gradita nè da una parte, nè dall’altra. Come sempre, anche in questa visita i regali ebbero la loro simbologica importanza. Cosi’ Erdogan si presentò da Bergoglio con una raccolta di scritti di un poeta turco dal nome evocativo, Rumi (che rimanda ai Romani, come i bizantini chiamavano se stessi) e il Papa contraccambiò con un medaglione raffigurante l’Angelo della Pace, forse ad indicare alla controparte il ruolo che sperava essa assumesse nella regione, e non solo. Quindi il Pontefice aggiunse una litografia seicentesca della allora erigenda Basilica di San Pietro, e se il pensiero di qualcuno magari corse a Santa Sofia, la risposta dell’ospite turco fu una stampa coeva di Istanbul, dove spiccava una Santa Sofia già trasformata in moschea.   AGI